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Meno parlamentari, meno efficienza #ReferendumCostituzionale @rivistailmulino
Coloro che voteranno “sì” alla riduzione di un terzo del numero dei parlamentari, poiché vogliono un Parlamento più efficiente con meno parlamentari per fare più leggi e più rapidamente, sbagliano alla grande almeno su due punti assolutamente discriminanti. Dal punto di vista della teoria, che non hanno imparato neppure dopo la grande occasione del referendum 2016, poiché il compito più importante del Parlamento non è fare le leggi. Semmai, è esaminarle, emendarle e approvarle. Dal punto di vista della pratica poiché in tutte le democrazie parlamentari le leggi le fa il governo: tra l’80 e il 90% per cento delle leggi approvate sono di origine governativa. Ed è giusto che sia così perché qualsiasi governo, anche di coalizione, ha avuto il consenso degli elettori sulle sue promesse programmatiche e ha, quindi, il dovere politico di tentare di tradurle in politiche pubbliche. Naturalmente, nei governi di coalizione il governo concilierà le diverse promesse programmatiche dei partiti coalizzati. I parlamentari potranno poi valutare, per eventuali voti di coscienza e scienza, quanto le proposte si discostano dalle promesse e, se non c’entrano per niente, astenersi dal votarle. A un Parlamento che s’attarda, a una opposizione che ostruisce, a una maggioranza riluttante (quasi nulla di tutto questo è un “semplice” affare di numeri), il governo imporrà la decretazione di urgenza.
La domanda giusta è: meno parlamentari saranno in grado nelle Commissioni di merito e in aula di controllare quello che il governo (con i suoi apparati politici e burocratici) fa, non fa, fa male?
Detto che il controllo sul governo è il compito più importante del Parlamento, quasi sullo stesso livello si situa il compito della rappresentanza politica, dei cittadini, della “nazione”. Non ne farò un (solo) problema di numeri come argomentano molti volonterosi sostenitori del taglio, ma di qualità. È plausibile credere che, automaticamente, meno parlamentari saranno parlamentari migliori, più capaci, più efficaci, più apprezzabili? Per sfuggire a una risposta (negativa) frettolosa, mi rifugio nell’affermazione che molto dipenderà dalla legge elettorale. Ovviamente, una legge elettorale è buona o cattiva o anche pessima (che è l’aggettivo da utilizzare per le due più recenti leggi elettorali italiane) a prescindere dal numero dei parlamentari, ma con riferimento prioritario a quanto potere conferisce agli elettori. Gli accorati inviti di Zingaretti ad approvare una legge elettorale proporzionale addirittura prima dello svolgimento del referendum mi paiono avere come obiettivo quello di contenere la riduzione inevitabile del numero di seggi del Partito democratico, piuttosto che quello di migliorare la qualità della sua rappresentanza proprio quando dal suo partito vediamo venire strabilianti esempi di opportunismo.
Questi esempi rispondono in maniera quasi definitiva alla domanda posta da Giovanni Sartori nel 1963. Di quali soggetti i parlamentari temono maggiormente la sanzione per i loro comportamenti: gli elettori, i gruppi di interesse, i dirigenti di partito? Con le due più recenti leggi elettorali la risposta è elementare: i dirigenti di partito (e di corrente). A loro volta sono questi dirigenti a cercare di raggiungere i gruppi di interesse rilevanti spesso candidando uno dei loro esponenti. Quanto agli elettori, costretti a barcamenarsi fra candidature plurime, un vero schiaffo alla rappresentanza politica, e candidature bloccate, la loro eventuale sanzione non riuscirà mai ad applicarsi alla singola candidatura.
E, allora, quale rappresentanza? Quale accountability? Quale responsabilizzazione? Il fenomeno più significativo è rappresentato dal Pd. Tre volte i suoi deputati e i suoi senatori, che non risulta avessero consultato i loro elettori, hanno votato no alla riduzione. L’ultima volta votarono compattamente sì. La spiegazione, forse era preferibile dirlo alto e forte, era che l’approvazione del taglio era indispensabile per dare vita alla coalizione di governo con il Movimento 5 Stelle. Capisco, ma ritengo assai deprecabile chi ha votato tre volte “no” senza trasparentemente esprimere alcun dissenso e ha votato “sì” alla quarta volta, nuovamente senza esprimere dissenso né spiegare la giravolta. Il fatto è che quei parlamentari democratici hanno applicato la linea del loro partito/gruppo parlamentare che aveva deciso che la formazione del governo giallorosso era di gran lunga preferibile all’alternativa rappresentata da Salvini e Meloni, i quali avrebbero aggredito la Costituzione, antagonizzato l’Unione europea, inciso negativamente sulla già non proprio elevata qualità della democrazia italiana.
Adesso, la risposta da dare nelle urne è proprio se la riduzione del numero dei parlamentari contribuirà o no a un salto di qualità della rappresentanza politica, al miglior funzionamento del bicameralismo (che qualcuno scioccamente continua a definire “perfetto”, dunque, da non toccare minimamente) e alla qualità della democrazia italiana. A mio parere, nulla di tutto questo conseguirà dalla semplice riduzione. I risparmi sui costi di un terzo dei parlamentari eliminati saranno “mangiati” dall’aumento dei costi delle campagne elettorali più competitive e in circoscrizioni più ampie. Il reclutamento di candidati e candidate ad opera dei dirigenti di partito e di corrente premierà coloro che hanno dimostrato di essere più disciplinati (è un eufemismo). Alcuni si sono già posizionati, altri stanno sgomitando. Farà la sua comparsa in grande stile, ma sotto mendaci spoglie, il vincolo di mandato. Vota non come vorrebbero i tuoi elettori, che, a meno di una buona legge elettorale, gli eletti non saranno in grado di conoscere, ma come dicono i dirigenti del partito e della corrente anche perché in questo modo si sfuggirà dal fastidioso esercizio dell’accountability. La prossima volta a qualcuno/a sarà assegnato un seggio sicuro magari in Alto Adige, se vi rimarrà almeno un collegio.
No, chi non vuole nulla di tutto questo ha l’opportunità di respingerlo: con un sano e argomentato voto che si oppone alla riforma sottoposta a referendum. Il resto chiamatelo pure “scontento” democratico. Non è immobilismo perché la Costituzione italiana e la democrazia parlamentare che esistono dal 1948 hanno ampiamente dimostrato di essere flessibili e adattabili, in grado di superare le sfide e di continuare a offrire un quadro democratico per la competizione politica, per un tuttora decente rapporto fra le istituzioni, per il conferimento dell’autorità, per l’esercizio del potere “nelle forme e nei limiti della Costituzione”.
Pubblicato il 28 agosto 2020 su rivistailmulino.it
Polveroni proporzional-maggioritari #LeggeElettorale
Scrivere una legge elettorale in attesa di un referendum quindi senza sapere quanti saranno i parlamentari da eleggere non è un’operazione saggia. Che la saggezza sia assente dal dibattito politico sul tipo di legge da scrivere è provato dalle affermazioni dei protagonisti politici. C’è chi vuole il “ritorno” alla proporzionale e chi lo ritiene un errore gravissimo. Però, la legge vigente, di cui fu relatore l’on. Rosato, oggi in Italia Viva, è già oggi due terzi proporzionale e un terzo maggioritaria. Quanto al testo in discussione non è, comunque, “la” temutissima “proporzionale pura” poiché prevede una soglia del 5 per cento di voti per avere accesso al Parlamento. Comprensibilmente, tanto Italia Viva quanto Leu (liberi e Uguali), ai quali i sondaggi impietosi attribuiscono rispettivamente all’incirca tre e meno di due per cento delle intenzioni di voto vorrebbero una soglia più bassa. Dal canto suo, Salvini si dichiara sbrigativamente a favore del maggioritario (sul quale Meloni non si esprime), ma non chiarisce quale. Non sarebbe un chiarimento da poco poiché il maggioritario inglese e quello francese, entrambi applicati in collegi uninominali, dove i candidati vincono o perdono, funzionano in maniera molto diversa. Infatti, il doppio turno francese offre agli elettori la grande opportunità di usare due voti: al primo turno per la candidatura preferita, al secondo per la candidatura da fare vincere, la meno sgradita.
Dopo avere detto che per gli italiani la legge elettorale è l’ultima delle preoccupazioni, affermazione alquanto discutibile, Salvini annuncia che è favorevole a due riforme: presidenzialismo e federalismo, cioè, concretamente, che vorrebbe abbandonare la democrazia parlamentare. Il capo di Italia Viva, Matteo Renzi, che non può permettersi di apparire un conservatore istituzionale, si dichiara “maggioritario” e propone la formula nota come “sindaco d’Italia”. Ma il sindaco d’Italia non è una legge elettorale. È una forma di governo di stampo sostanzialmente presidenziale poiché contiene l’elezione popolare diretta del capo dell’esecutivo, vale a dire il sindaco e il Primo Ministro. Non solo questo presidenzialismo mascherato richiederebbe la riscrittura di una manciata di articoli della costituzione italiana, ma, se disegnato seguendo il modello comunale, si basa su una legge proporzionale per l’elezione dei parlamentari, con un premio di maggioranza attribuito al capo, il sindaco o il Primo ministro, della coalizione vittoriosa. Curiosamente, nessuno si esprime in maniera limpida su due aspetti scandalosi della legge elettorale vigente: le candidature plurime e paracadutate, ovvero svincolate dalla residenza dei candidati. Sono gli strumenti con i quali i dirigenti dei partiti garantiscono l’elezione propria e dei loro più fedeli collaboratori/trici a scapito della rappresentanza politica che con il numero dei parlamentari ridotto di un terzo diventerà, a prescindere dalla formula elettorale, ancora meno soddisfacente.
Pubblicato AGL il 6 luglio 2020
Che bello il ritorno alle leggi elettorali…
Non sta scritto da nessuna parte che, riducendo il numero dei parlamentari, diventi indispensabile elaborare una legge elettorale proporzionale. Il verbo giusto non è “tornare” come troppi affermano. Infatti, la vigente Legge Rosato è due terzi proporzionale e un terzo maggioritaria, ma la sua logica è sostanzialmente proporzionale. La distribuzione dei seggi varia di poco rispetto ai voti ottenuti dai partiti, tranne che per la Lega, avvantaggiata (ma ingrata) dall’essere stata in coalizione con Forza Italia e Fratelli d’Italia. Chi dice che passando a 400 deputati e 200 senatori (gli esponenti del M5S vantano un risparmio di 500 mila Euro che, però, comincerà nel 2023) l’adozione di un sistema maggioritario renderebbe difficile la rappresentanza dei partiti piccoli sbaglia. Nei collegi uninominali, che avrebbero dimensioni ancora accettabili, non enormi: 125 mila elettori circa per ciascun deputato e 250 mila circa per ciascun senatore, i partiti piccoli avrebbero sempre la possibilità di vincere presentando candidature eccellenti oppure alleandosi in maniera appropriata. Tuttavia, quello che conta per chi desidera finalmente una buona legge elettorale è il potere degli elettori. Con l’attuale Legge Rosato e con la precedente legge Calderoli (nota come Porcellum) gli elettori italiani hanno solo potuto dare un voto al partito prescelto e nulla più. Né nel maggioritario inglese né, ad eccezione di pochi paracadutati, nel maggioritario francese sono possibili candidature bloccate, plurime (con dirigenti di partito presenti anche in cinque collegi), paracadutate in luoghi nei quali non hanno radicamento e non hanno nessuna intenzione di tornare, alla faccia della rappresentanza politica e del territorio. Ecco perché è assolutamente improbabile che questi due sistemi elettorali vengano scelti prossimamente.
Maggioritario, è opportuno sottolinearlo ad usum di Prodi e Veltroni, ma anche di Renzi, non è un sistema elettorale proporzionale corretto da un premio, più o meno grande, in seggi che, comunque, dovrebbe rispettare alcune indicazioni già espresse dalla Corte Costituzionali e consentire agli elettori di esprimere almeno una preferenza. La verità è che ancora una volta i dirigenti di partito impostano il discorso sulla riforma elettorale mantenendo come priorità i loro interessi specifici di corto periodo. Così è facile prevedere che non ne uscirà nulla di buono e neppure di duraturo. Nel futuro prossimo altri dirigenti valuteranno altre loro preferenze e vorranno nuovamente riformare la legge. Nel frattempo, Salvini, improvvisamente diventato maggioritario, ha lanciato una proposta, non originale, a lungo cavallo di battaglia dei neo-fascisti e dei loro successori: l’elezione popolare diretta del Presidente della Repubblica nel 2029. Lui si accontenterebbe di questo, sicuro di eleggere finalmente un Presidente di destra. Chi si intende di Costituzione e di istituzioni, tematiche ostiche per il leader della Lega, vede in questa proposta unicamente avventurismo.
Pubblicato AGL il 24 settembre 2019
Taglia e cuci a misura di candidato #CollegiUninominali
Corre voce che il governo, che ha chiesto e ottenuto la delega a disegnare i nuovi collegi uninominali previsti dalla legge Rosato, stia incontrando non poche difficoltà a procedere. Non è affatto sorprendente. Gli apprendisti stregoni elettorali hanno fatto le pentole, vale a dire scritto che 232 deputati e 116 senatori dovranno essere eletti in collegi uninominali, ma non sanno come fare i coperchi, cioè come disegnare sul territorio quei collegi elettorali. È un’operazione tecnicamente complessa e politicamente delicatissima. Quando nel 1993 fu approvata la legge Matttarella, il disegno dei collegi uninominali fu affidato a una Commissione di esperti che ebbe parecchi mesi a disposizione e che, in definitiva, fece un lavoro apprezzabile ricevendo soltanto pochissime e marginali critiche. Oggi, quei collegi uninominali, che erano molti di più di quelli indicati nella legge Rosato, possono servire al massimo come punto di partenza generale anche perché in una certa misura nei più di vent’anni trascorsi da allora è cambiata la distribuzione geografica dell’elettorato italiano.
È possibile segnalare almeno due problemi. Il primo è che sia i collegi per la Camera sia quelli per il Senato saranno molto più grandi, in termini di elettori, di quelli della legge Mattarella, all’incirca quasi il doppio. Naturalmente, non si potrà semplicemente combinare insieme coppie di collegi per giungere a un esito apprezzabile. Infatti, bisognerà fare sì che il disegno di quei collegi abbia un senso dal punto di vista della geografia, per esempio, tenendo conto di confini naturali, come i fiumi e le montagne e non “spaccando” arbitrariamente i quartieri di alcune grandi città. Inoltre, conoscendo l’insediamento dei partiti, è necessario che non siano dati vantaggi in partenza a nessun partito (e quindi ai loro candidati/e). Il secondo problema consiste proprio nel garantire che, nella misura del possibile, i collegi siano competitivi, vale a dire non si possa già in partenza dare per scontata, fatte salve alcune eccezioni, la vittoria di qualsiasi specifico candidato.
Quelli che amano i paragoni, sempre utili se fatti con cognizione di causa (e di storia), aggiungono che bisogna evitare il fenomeno noto come gerrymandering, vale a dire il furbesco e fraudolento ritaglio dei collegi a favore di specifici candidati. Lanciato all’inizio del XVIII secolo dal governatore dello stato del Massachusetts Elbridge Gerry, il disegno partigiano dei collegi (a forma di salamandra, in inglese salamander) continua a costituire uno strumento nelle mani delle maggioranze partitiche, quasi esclusivamente repubblicane, di molti stati USA. Pende proprio quest’anno un ricorso alla Corte Suprema affinché lo dichiari incostituzionale e suggerisca a quali criteri di massima gli Stati dovranno attenersi. In Italia, il gerrymandering non è dietro l’angolo anche perché non sono le maggioranze politiche nelle regioni a legiferare in questa materia elettorale. Tuttavia, è molto importante che le prossime elezioni, che si annunciano dense di incognite e fortemente competitive, non siano in nessun modo macchiate da ritagli truffaldini dei collegi uninominali.
In maniera molto cinica potrei concludere che per molti, quasi tutti i candidati “importanti” potrebbero non esserci conseguenze sgradevoli. Infatti, se sono uomini e donne politicamente potenti chiederanno e otterranno di sfruttare l’opportunità delle candidature plurime fino a cinque circoscrizioni proporzionali (uno dei diversi meccanismi molto criticabili della legge Rosato). Però, è una questione di pulizia e giustizia elettorale. Se vogliamo elezioni competitive ed eque dobbiamo esigere collegi uninominali disegnati in maniera assolutamente equilibrata che diano effettivo potere agli elettori. Qui sta il secondo grave inconveniente della legge Rosato. L’impossibilità del voto disgiunto, per un candidato/a e per un partito diverso da quello del candidato/a, o viceversa, svalorizza il collegio uninominale. Non è comunque una buona ragione per non preoccuparsi di renderlo quel collegio, e tutti gli altri, il più competitivo possibile.
Pubblicato AGL 24 novembre 2017