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Paracadutare i candidati, e le idee?

Adesso possiamo dirlo a ragion veduta, pardon, a liste rese pubbliche. Gli uomini e, in misura ovviamente inferiore, le donne già in cariche politiche si sono difese da par loro. Praticamente tutti, nonostante la riduzione di un terzo del numero dei parlamentari, sono riusciti a trovare posto nelle liste dei loro partiti, dei loro “poli”. Naturalmente, i leader non si sono fatti mancare niente. Troppi commentatori parlano di duelli, ma laddove nei collegi uninominali ci sono, visibili, due leader in posizione di preminenza, gli elettori non si lascino ingannare. Ciascuno e tutti si sono premuniti candidandosi anche in collegi che ne consentiranno comunque l’elezione. Ecco spiegato perché, nonostante le molte critiche, raramente da parte loro, la Legge Rosato non è stata neppure minimamente ritoccata. Consente le pluricandidature e ai dirigenti offre anche la possibilità di scegliere con buona approssimazione chi degli esponenti del loro partito/polo vogliono collocare in posizione eleggibile. Poi, grazie all’assenza di qualsiasi requisito di residenza, si manifesta il fenomeno dei paracadutati. Sono persone, spesso con lunga carriera politica, che non trovano posto nel loro territorio e vengono mandati lontano dove non sono, nel bene e nel male, abbastanza noti e dove probabilmente, fatta, forse, la campagna elettorale, non torneranno più. Prossimo giro nuovo “paracadutamento”. Naturalmente, la rappresentanza politica risentirà negativamente di tutti questi trucchetti che gli elettori non possono sventare tranne forse nei collegi definiti “contendibili” ovvero dove lo spostamento di non molti voti può effettivamente fare la differenza. Ma quello spostamento deve essere organizzato e coordinato. Al momento non se ne vedono neppure le prime avvisaglie. Certo l’interrogativo più importante riguarda chi vincerà, con il centro-destra, pur diviso su tematiche europee e sulla leadership, piazzato in testa, ma ancora in grado di commettere errori anche decisivi. Giustamente, però, gli elettori, mi permetto di interpretarli, vorrebbero sapere con quali capacità e competenze i candidati promettono di affrontare e risolvere i problemi la cui gravità è innegabile: energia e inflazione con tutto quel che ne segue in termini di bollette, di salari e di costo della vita. È lecito pensare e temere che i professionisti della politica, i soliti noti più i rientranti, come Marcello Pera e Giulio Tremonti, non abbiano idee e ricette particolarmente originali. C’è chi, consapevole delle sue carenze, si aggrappa alla “agenda Draghi”, ma per attuarla bisognerebbe ricorrere al suo ideatore con la consapevolezza che Draghi saprebbe opportunamente adattarla e aggiornarla. Il compito dei professionisti della politica si presenta arduo, ma se lo sono cercati loro. Non resta che suggerire agli elettori italiani di valutare con attenzione chi dice che cosa e quanto credibile è. Chi non vota non conta. Consente agli altri di scegliere per lui/lei e non avrà nessun diritto di lamentarsi, dopo.

Pubblicato AGL il 24 agosto 2022

Dizionario per capire il confuso dibattito politico di questi giorni @DomaniGiornale

Caro Direttore,

mi accingo, ancora una volta senza esitazione di sorta, ad assolvere al missionario compito – di questi tempi assi arduo e scomodo – di sgomberare il dibattito pubblico dai detriti dell’ignoranza, dalle macerie delle culture politiche degenerate e estinte, e dalle trappole della manipolazione per riportalo sui binari solidi e rigorosi della Scienza Politica.

Mi sento obbligato a cominciare esponendo le mie credenziali, forse un’aggravante. Per 43 anni ho insegnato Scienza politica nell’Università di Bologna. Ho tenuto anche corsi in università straniere da Washington, D.C. a Los Angeles, da Harvard a Madrid, da Oxford a Natollin (Polonia). Ho maturato esperienza e competenza nell’ambito dei Sistemi politici comparati. Ho scritto almeno cinque volumi specificamente in materia più un prezioso (sic) libretto sui Sistemi elettorali. Sono particolarmente orgoglioso di Restituire lo scettro al principe. Proposte di riforma istituzionale (Laterza 1985) dove, a scanso di equivoci che persistono, il principe non è il capo del governo, ma il cittadino sovrano già identificato da Lelio Basso. Nel dicembre 1985 il libro fu presentato a Torino da Norberto Bobbio e Pietro Ingrao (nel pubblico ricordo mia mamma molto emozionata). Ho scritto articoli accademici usciti in diverse lingue: inglese, francese, tedesco, spagnolo, portoghese, da ultimo, cinese. Ho pubblicato più di un centinaio di articoli di divulgazione su quotidiani e settimanali (ricordo con piacere “Rinascita”). Dal novembre 1983 al 1 febbraio 1985 ho fatto parte della Commissione Bozzi per le Riforme Istituzionali. Fra i molti colleghi parlamentari ricordo Roberto Ruffilli, capogruppo della DC, Pietro Scoppola, Beniamino Andreatta, Sergio Mattarella, Mario Segni, Gino Giugni, Stefano Rodotà, Augusto Barbera, Eliseo Milani (con il quale scrivemmo la Relazione di Minoranza della Sinistra Indipendente del Senato), provenienze e competenze diverse, ma nessuno tanto sprovveduto quanto i contemporanei. Nell’estate-autunno 2016 sono stato presente, spesso protagonista, in circa ottanta iniziative per sostenere il NO al plebiscito costituzionale indetto e cavalcato da Matteo Renzi. Da ultimo sono frequentemente presente nel dibattito con tweet, spero puntuti e chiarificatori, nel complesso, temo, inefficaci, ma non ho ancora avuto il coraggio di chiedere chi parla/scrive di tematiche istituzionali-elettorali quali libri/articoli scientifici abbia letto, quali sono gli autori a sostegno delle sue analisi e valutazioni.

Già durante l’esperienza referendaria mi resi tristemente conto di quanto diffusa e grande fosse/sia la confusione sotto il cielo delle regole e delle istituzioni. Da allora si è estesa e fatta persino più spessa. Su un solo punto, posso, credo, cantare vittoria. Sembra che quasi tutti i politici e i giornalisti abbiano imparato che in nessuna democrazia parlamentare, mai il governo è eletto dal popolo. In verità neanche nelle democrazie presidenziali e semipresidenziali il popolo elegge il governo, ma soltanto il Presidente che poi con modalità varie formerà e trasformerà quasi a piacimento libitum il suo governo, cambiando i suoi ministri, mai previamente presentati agli elettori.

Con il taglio, ovvero la riduzione del numero dei parlamentari è tornato in auge il bicameralismo perfetto che tale non è. Perfetto è aggettivo che si riferisce al funzionamento, mentre i bicameralismi esistenti, quello italiano compreso, possono essere paritari o differenziati secondo criteri appositi. Non parlerò delle leggi elettorali, quelle che portano i rappresentanti in parlamento, se non per menzionare due notissime firme del Corriere della Sera, la prima che concluse un suo denso articolo con lo scoop che sarebbe tornato un sistema proporzionale a turno unico, la seconda che, riflettendo sulle elezioni parlamentari francesi del giugno 2022 annunciò la probabilità di non pochi ballottaggi con tre o addirittura quattro candidati/e. Mi limiterò a sottolineare che il ballottaggio non prevede desistenze e non consente alleanze preventive. Invece, praticamente tutte le varianti di doppio turno offrono ampie gamme di opportunità a candidati, partiti, elettori.

L’instabilità governativa essendo notoriamente il più grave problema politico-costituzionale italiano di tanto in tanto qualcuno formula la proposta del presidenzialismo, anatema per la sinistra, ma oggetto largamente non identificato neppure dai suoi proponenti. Sembra che intorno a Giorgia Meloni abbiano deciso, riportato dal Corriere, che si potrebbe avere il semipresidenzialismo alla francese insieme al voto di sfiducia costruttivo previsto nella Costituzione della Repubblica parlamentare tedesca: una combinazione assolutamente e fecondamente europea. Esultano le cancellerie degli Stati-membri dell’Unione Europea che si interrogavano preoccupati sul tasso di europeismo di Fratelli d’Italia. Via tweet è arrivata la benedizione “mi auguro ci sia il presidenzialismo. Il mio modello è la Germania”, di Giovanni Toti (forse un omonimo, Professore di Diritto Costituzionale Comparato nell’Università della Liguria, non certamente il Presidente della Regione, ma non ho visto smentite).

Quod omnes tangit ab omnibus probari debet. Bisogna garantire a molti la possibilità di intervenire nel dibattito sulle regole e sulla loro eventuale riforma offrendo rappresentanza parlamentare. Irrompe così nel deprimente discorso sulle implicazioni e conseguenze della Legge Rosato il cosiddetto diritto di tribuna ovvero la più o meno graziosa e generosa concessione da parte dello schieramento guidato da Enrico Letta di qualche seggio a Sinistra Italiana e ai Verdi in cambio dei loro pochi, ma, chi sa, talvolta decisivi, voti nei collegi uninominali. I francesi ne hanno discusso, inconcludentemente per anni. Nei collegi uninominali a causa del sistema elettorale maggioritario candidati di aggregazioni che, complessivamente, potevano raccogliere 6-8 e più per cento di voti su scala nazionale finivano per non vincere mai. Si pensò di riservare un 10 per cento di seggi per garantire l’ingresso in parlamento di rappresentanti di quelle liste chiamandolo diritto di tribuna. Non se ne fece, giustamente (poiché candidature eccellenti trova-va-no accoglienza da leader intelligenti), niente. La logica italiana, offerta di seggi in cambio di voti, è sostanzialmente diversa da quella francese: ampliare la rappresentanza politico-parlamentare, da suggerire di non ricorrere all’espressione “diritto di tribuna”.

Concludo, almeno temporaneamente, criticando l’uso del termine front runner. Negli USA, front runner è colui/colei che in un affollato campo di partecipanti alle elezioni primarie per designare il candidato/a alla Presidenza della Repubblica si trova in testa dopo tre o quattro primarie negli Stati. Il front runner non è il capo di un partito, non il capo del partito più grande, non il leader o il tessitore di una coalizione. Sostanzialmente, è una terminologia che nel contesto italiano non ha senso e, comunque, se del caso, oggi la front runner è Giorgia Meloni.

So che questo mio ennesimo tentativo di pulizia e precisione terminologica difficilmente risulterà vittorioso. Pazienza: tornerò su questi e altri termini ogniqualvolta l’uso fattone sarà scandaloso. Nel frattempo, dixi et salvavi animam meam.

GIANFRANCO PASQUINO

Accademico dei Lincei

Pubblicato 7 agosto 2022 su Domani

I candidati devono essere il volto della coalizione @DomaniGiornale

Se sia meglio procedere ad alleanze forzate da una pessima legge elettorale o correre liberi e leggeri in un campo largo verso una sicura sconfitta? This is the question alla quale Enrico Letta, segretario del Partito Democratico, invece di sognare ha dato una risposta realistica e costosa. Ai saccenti commentatori che per mesi si sono affannati a comunicare la loro preoccupazione, addirittra indignazione per il “ritorno alla proporzionale” è imperativo fare notare che la fin troppo vigente legge Rosato, un terzo maggioritari, due terzi proporzionale con la possibilità di candidature multiple salvaseggio (poltrona?), fra i suoi molti guasti, impone alleanze preventive inevitabilmente tendenti a ammucchiate. Una legge proporzionale avrebbe consentito a tutti di contarsi e agli elettori di valutare con maggiore chiarezza partiti e candidati, poi a ciascuno il suo.

   Nei collegi uninominali, le candidature sono il volto della coalizione che le esprime e le sostiene. Sono il veicolo dell’accordo programmatico. Agli elettori debbono offrire la garanzia che l’azione della coalizione, se vincente, si tradurrà nell’attuazione di quel programma. Il resto, emergenze e nuove tematiche, dovrà continuare a essere oggetto di discussione fra tutti coloro che compongono la coalizione. Se questa è l’interpretazione plausibile dell’accordo raggiuto fra PD, +Europa e Azione, i contraenti hanno di che rallegrarsi e i loro potenziali elettori sono messi in grado di esprimere una valutazione fondata su elementi chiari, il più evidente essendo quello dell’impegno a proseguire, con opportuni adattamenti, aggiunte e correzioni, l’agenda del governo Draghi. Forse dal punto di vista numerico il Partito Democratico è stato fin troppo generoso nei confronti dei suoi due comunque indispensabili alleati. Tuttavia, se l’alleanza avrà lo sperato effetto moltiplicatore i conti dovranno e potranno essere fatti meglio ad elezioni avvenute.

   Adesso l’attenzione deve necessariamente spostarsi e focalizzarsi sulle candidature, sulla loro qualità, sulla loro capacità di combinare esperienza e competenza, sul tasso di entusiasmo (“occhi di tigre”) che sapranno portare nella campagna elettorale. Dalle notizie estraibili da alcune, importanti, situazioni locali del PD sembra che il criterio dominante sia rappresentato dalla continuità della carriera, non dalle new entries che sembrano praticamente inesistenti. La mannaia del limite a due mandati quasi azzererebbe non solo i dirigenti del PD, ma i tre quarti e più degli attuali parlamentari e dei ricandidabili. A mio avviso sarebbe una scelta sbagliata, ma altrettanto sbagliata è la strada del ritorno di parlamentari, anche donne, di lungo e non proprio brillantissimo corso. Agli uomini e alle donne del PD non sarà sufficiente offrire la rassicurante rappresentanza in quanto usato sicuro. Le elezioni del 25 settembre 2022 non saranno in nessun modo simili a elezioni che abbiamo conosciuto nel passato. Si sprecheranno i paragoni (e non voglio suggerirne nessuno). Un punto deve essere sottolineato con forza: il 25 settembre si decidono collocazione e ruolo dell’Italia nell’Unione Europea e nella politica internazionale. Le candidature, non soltanto quelle del Partito Democratico, meritano di essere proposte e valutate con l’osservanza di questo criterio dominante, cruciale anche in caso di una sconfitta che rischia di segnare tristemente l’autunno del nostro scontento.

Pubblicato il 3 agosto 2022 su Domani

Due o tre cosine che so sulle presidenziali in Francia. Firmato Pasquino @formichenews

Il semipresidenzialismo francese con il sistema elettorale a doppio turno è un grande dispensatore di opportunità politiche. Ma soltanto a chi, conoscendolo, sa come utilizzarlo. L’analisi del professor Gianfranco Pasquino

“Una riconferma non scontata” è il titolo dell’editoriale del “Corriere della Sera”. In effetti, nessuno, meno che mai la maggior parte dei commentatori italiani, ha fatto degli sconti a Emmanuel Macron. Pochissimi, poi, si sono curati di fare due conti, ad esempio, sul numero dei voti. Nelle elezioni questi numeri assoluti danno molte più informazioni delle percentuali. Comincerò dal famigerato problema dell’astensione, secondo troppi, giunta a livelli elevatissimi. Ecco: al primo turno il 10 aprile votarono 35 milioni e 923 mila 707 francesi (73,69%); al ballottaggio 35 milioni 96mila 391 (71.99%): una diminuzione quasi impercettibile e, per di più facilmente spiegabile. Non pervenuto al ballottaggio il candidato da loro votato al primo turno circa 900 mila elettori hanno comprensibilmente pensato “fra Macron e Le Pen ça m’est égal” e se ne sono andati à la mer. I paragoni sono sempre da fare con grande cautela, ma nello scontro Trump/Biden novembre 2020 votò il 66,7% degli americani che festeggiarono l’alta affluenza e l’esito.

   Nelle due settimane trascorse dal primo turno Macron è passato da 9milioni 783 mila 058 voti a 18.779.642 quindi quasi raddoppiando il suo seguito, mentre Marine Le Pen è passata da 8milioni 133mila 828 voti a 13 milioni 297 mila 760, 5 milioni di voti in più. L’aumento dei voti per Macron va spiegato soprattutto con la confluenza degli elettori di Mélenchon (più di 7 milioni al primo turno), variamente e erroneamente catalogati come populisti, più quelli comunisti (800 mila) e socialisti (di Anne Hidalgo, 600 mila). La crescita di Le Pen è dovuta agli elettori di Zemmour (2 milioni 485 mila 226). Entrambi hanno tratto beneficio dallo sfaldamento dei repubblicani già gollisti che avevano votato Valérie Pécresse : 1.679.001 elettori alla ricerca del meno peggio. Insomma, una elezione presidenziale nient’affatto drammatica, con esito largamente prevedibile (parlo per me e per fortuna scrivo quindi posso essere controllato e verificato), decisivamente influenzato dalle preferenze calcolate (che significa basate su valutazioni e aspettative) degli elettori francesi.

   Honni soit colui che contava su una vittoria di Marine Le Pen per fare aumentare le vendite del giornale su cui scrive e per dichiarare il crollo dell’Unione Europea. Tuttavia, un crollo, in verità, doppio, c’è stato e meriterà di essere esplorato anche con riferimento all’esito delle elezioni legislative di giugno: ex-gollisti e socialisti sono ridotti ai minimi termini anche se con Mélenchon stanno non pochi elettori socialisti.

   Uno dei pregi delle democrazie è che la storia (oops, dovrei scrivere “narrazione”?) non finisce -lo sa persino Fukuyama autore di alcuni bei libri proprio sulle democrazie- e che le democrazie e, persino (sic) gli elettorati continuano a imparare. Marine Le Pen ha annunciato che mira a conquistare la maggioranza parlamentare. Non ci riuscirà. Il doppio turno in collegi uninominali, che non è affatto un ballottaggio, come leggo sul “Corriere della Sera” 25 aprile, p. 3, offre a Mélenchon l’opportunità di “trattare” con Macron a sua volta obbligato a trovare accordi più a sinistra che al centro. Presto, avremo la possibilità di contare quei voti tenendo conto delle mosse e delle strategie politiche formulate per conquistarli e combinarli. Il semipresidenzialismo francese con il sistema elettorale a doppio turno è, come scrisse più di 50 anni fa Domenico Fisichella, un grande dispensatore di opportunità politiche, ma soltanto a chi, conoscendolo, sa come utilizzarlo.

Pubblicato il 25 aprile 2022 su Formiche.net

Fatta la legge elettorale, trovato il disaccordo. Scrive Pasquino @formichenews

Tra gli elementi non considerati nella scelta di una legge elettorale c’è la premessa scientificamente e eticamente doverosa: quanto potere conferisce agli elettori. L’analisi di Gianfranco Pasquino, accademico dei Lincei prossimamente in libreria con “Tra scienza e politica. Una autobiografia” (Utet)

La premessa scientificamente e eticamente doverosa è che il criterio dominante per valutare la bontà di una legge elettorale è quanto potere conferisce agli elettori. Naturalmente, abbiamo imparato che nessun dirigente di partito e nessuno dei loro politologi, o presunti tali, di riferimento utilizza quel criterio come essenziale. Sappiamo che due criteri prevalgono su qualsiasi altra considerazione. Primo, non perdere ovvero limitare le dimensioni della eventuale sconfitta. Secondo, riuscire comunque a portare in Parlamento rappresentanti consapevoli di essere debitori della loro elezione e carica al capo partito o al capocorrente e, dunque, orientati alla disciplina interessata (alla ricandidatura). Nessuna variante di legge proporzionale rende impossibile conseguire entrambi gli obiettivi, anche se, garantendo un voto di preferenza (ricordo che gli italiani si espressero in questo senso in un fatidico referendum giugno 1991) si darebbe persino un po’ di potere agli elettori. Mi sono tappato le orecchie per non sentire le strilla di coloro che contro ogni obiezione vedono nelle preferenze solo corruzione.

   Se Letta mi chiedesse che cosa serve meglio a chi vuole costruire un campo largo, gli risponderei che una legge maggioritaria a doppio turno in collegi uninominali è la soluzione migliore. Quel campo sarebbero/saranno gli elettori a costruirlo secondo il gradimento che daranno all’offerta delle candidature, ovviamente con occhi di tigre, e delle indicazioni di alleanze con i pentastellati incentivati a stare nella coalizione in fieri. Dal canto loro, un po’ tutti i centristi vorrebbero contarsi grazie ad una legge proporzionale che non contenga nessuna soglia d’accesso al Parlamento, rischiosissima per la sopravvivenza di non pochi di loro. Meloni continua a propendere per e difendere “il” maggioritario, credo sostanzialmente la legge Rosato, due terzi proporzionale, un terzo maggioritaria. Sa che, a bocce ferme, questa legge le consentirebbe di essere numericamente decisiva se il centro-destra vuole ricompattarsi e governare. Ma non è vero, come sembra temere, che “la” proporzionale la metterebbe fuori gioco. Anzi, contati i voti proporzionali è possibile, persino probabile che quel che resto del centro-destra sarebbe costretto a constatare l’indispensabilità dei seggi di Fratelli d’Italia per giungere alla maggioranza assoluta in Parlamento. Non tanto paradossalmente, anche una legge di tipo francese renderebbe comunque i suoi voti decisivi per tutti candidati uninominali del centro-destra. FdI sarebbe sottorappresentata, ma determinante.    Come si capisce da questo sintetico scenario, risulta chiarissimo perché un accordo sulla legge elettorale sia molto difficile da trovare. Formiche mi ha chiesto di non esprimere le mie preferenze. Allora concludo con due notazioni comparate che è sempre il modo migliore di procedere. Il doppio turno francese dà più potere agli elettori e ai candidati e agevola la formazione di coalizioni per il governo. Le leggi proporzionali sono spesso raccomandate quando esiste frammentazione sociale e politica. Una buona soglia di accesso riduce la frammentazione, la proporzionalità rappresenta adeguatamente la società. Il resto, nel bene e nel male, non può non restare nelle mani dei dirigenti di partito.

Pubblicato il 23 febbraio 2022 su formiche.net

Legge elettorale: tutti ne parlano senza sapere @fattoquotidiano

Si è detto che i partiti avrebbero approfittato dell’interludio garantito dal governo Draghi per procedere ad una loro raccomandabile ristrutturazione politica e programmatica. Ingenuamente ho sperato che anche i parlamentari e i giornalisti utilizzassero questo tempo per leggere e per imparare. Invece, leggo sul “Corriere della Sera” (29 ottobre), un occhiello in bella evidenza: “Berlusconi è il padre del maggioritario, è lui che ha creato il sistema bipolare. La legge elettorale deve restare maggioritaria”. Questa frase, non commentata, in buona parte riflette il pensiero politico-istituzionale di Antonio Tajani, ma anche di chi ha scelto di evidenziarla. Contiene almeno quattro errori gravi e fuorvianti. Il primo è che il padre dell’unico sistema elettorale quasi maggioritario, vale a dire la Legge Mattarella, fu il referendum elettorale del 18 aprile 1993 (osteggiato dagli amici politici di Berlusconi). Mai davvero gradita a Berlusconi poiché attribuiva tre/quarti dei seggi in collegi uninominali nei quali i candidati di Forza Italia, spesso poco conosciuti (ah, già: i “civici”), non ottenevano prestazioni brillanti, la Legge Mattarella venne sostituita dalla Legge Calderoli nel 2005. Una legge elettorale proporzionale con un più o meno ingente premio di maggioranza non è, secondo errore, un “maggioritario”. Nel migliore dei casi, che non è quello della Legge Calderoli, è un sistema misto a chiara prevalenza proporzionale. No, terzo errore, non è Berlusconi che ha “creato” il sistema bipolare. Il bipolarismo, al quale se, seguendo gli accorati appelli dei commentatori del Corriere, Direttore incluso, facesse la sua comparsa un centro di buone dimensioni, non arriveremmo mai, è stato incoraggiato e quasi conseguito dalla Legge Mattarella. Vero è che i premi di maggioranza incentivano una competizione bipolare, ma il rischio in questo caso è che, invece di due poli, si facciano strada due coalizioni eterogenee (qualcuno ha usato il termine “ammucchiata”, ma non mi permetterei mai espressioni così antipolitiche!) nelle quali i piccoli, ma indispensabili contraenti farebbero valere il loro potere di ricatto, che sperimenterebbero non pochi problemi di governo.

   Il quarto errore consiste nel sostenere che la legge elettorale vigente, Legge Rosato, sia maggioritaria e, peggio, che debba restare. Tanto per cominciare, a prescindere da qualsiasi altra considerazione, la Legge Rosato dovrà comunque essere ritoccata e molto poiché il numero dei parlamentari da eleggere è stato ridotto di un terzo. Inoltre, da qualsiasi parte la si rigiri, la Legge Rosato non è maggioritaria. Infatti, poco più di un terzo dei parlamentari sono eletti in collegi uninominali, mentre quasi due terzi sono eletti con riferimento proporzionale alle percentuali di voti ottenute dai loro partiti che abbiano superato una bassa soglia percentuale di accesso alla Camera e al Senato. Dunque, ripeto: la Legge Rosato non è maggioritaria. Per la precisione, in tutti i testi sui sistemi elettorali solo due di loro vengono definiti maggioritari: l’inglese applicato in collegi uninominali dove vince la candidata che ottiene un voto più dei concorrenti, e il francese, dove, nei collegi uninominali vince al primo turno chi ottiene il 50 per cento più uno dei voti espressi, e al secondo turno chi ottiene la maggioranza relativa.

Temo che fare chiarezza sulla definizione dei sistemi elettorali, pur assolutamente indispensabile, non sia sufficiente, non lo è stato finora, per influenzare la necessaria stesura di una nuova, sperabilmente buona a duratura, legge elettorale. L’ossessione, intrattenuta dai politici, alimentata dai commentatori, non contrastata dagli studiosi, alcuni dei quali, anzi, ne sono complici, è che la legge elettorale serva/debba servire a eleggere il governo (meglio se la sera stessa del voto). Invece, come tutte le democrazie parlamentari del continente europeo, alcune da più di cent’anni, e lo stesso Regno Unito confermano con la forza dei dati, il compito delle leggi elettorali consiste nell’eleggere bene un Parlamento, nel dare buona rappresentanza politica all’elettorato, alla società. Poiché l’ho già detto e scritto una pluralità di volte sono certo di essermi salvato l’anima. Vorrei, però, che i legislatori andassero nella direzione giusta che è quella, non di governi di larghe intese al massimo ribasso, ma della rappresentanza politica degli italiani, con i parlamentari che rispondono in maniera responsabile ai loro elettori (non ai dirigenti dei partiti che li hanno nominati in collegi sicuri o collocati ai vertici delle liste elettorali) di quanto fanno, non fanno, fanno male e con gli elettori che hanno la possibilità di premiarli e di punirli con il loro voto. Guardando fuori dei confini dello stivale si può fare. Questo è il momento.

Pubblicato il 2 novembre 2021 su Il Fatto Quotidiano           

Fratelli d’Italia sarebbe vittima delle riforme di Giorgia Meloni @DomaniGiornale

Forse lo sanno forse no forse preferiscono non pensarci, ma i dirigenti dei partiti e i parlamentari hanno molte gatte da pelare di qui alle elezioni politiche del marzo 2023, se arriveranno fino ad allora.

Tralasciando le elezioni amministrative i cui esiti non si preannunciano particolarmente dirompenti se non, in negativo, per il Movimento 5 Stelle, la vera svolta potrebbe/potrà essere l’elezione presidenziale. Anche se Stefano Feltri ha efficacemente argomentato le ragioni che consigliano l’elezione di Mario Draghi alla Presidenza della Repubblica, magari in seguito ad una convincente designazione ad opera del segretario del PD, è possibile che si pervenga ad uno stallo parlamentare. Se, oltre che prolungato, lo stallo sarà caratterizzato da qualche mercanteggiamento improprio, la richiesta dell’elezione popolare diretta del Presidente della Repubblica italiana è destinata a tornare prepotentemente sulla scena politico-costituzionale.

Tradizionalmente, poiché, per lo più si dimentica o semplicemente non si sa che in Assemblea Costituente Piero Calamandrei propose una Repubblica presidenziale accompagnata da una solida rete di poteri locali, il presidenzialismo è associato con la destra. In questi anni, anche Berlusconi ha genericamente parlato di presidenzialismo, rivelando, fra l’altro, di non conoscere i guasti del governo diviso USA-style. Fra i politici e i giornalisti nostrani si è raramente manifestata una chiara distinzione concernente il presidenzialismo USA messo a confronto con il semipresidenzialismo francese. La stessa Meloni, intervenendo al Forum Ambrosetti a Cernobbio, dopo avere affermato che “il parlamentarismo all’italiana è diventato un pantano”, e che per questo “bisogna uscire dalla Repubblica parlamentare. Io sono per un sistema presidenziale”, ha sentito di dover precisare che “c’è una proposta di Fdi sul semipresidenzialismo alla francese”.

Non so a quale stadio si trovi la proposta di Fratelli d’Italia, ma certamente chi volesse uscire dal sistema parlamentare all’italiana, non sempre un pantano e migliorabile anche dall’interno, potrebbe opportunamente guardare alla Quinta Repubblica francese. Lo dovrebbe fare in modo particolare ricordando che la Quarta Repubblica fu il sistema politico-parlamentare più simile alla Repubblica italiana e l’allora unica Costituzione alla quale guardarono i Costituenti italiani. Nel contesto francese, fortemente voluta da de Gaulle, la Quinta Repubblica produsse un salto qualitativo notevolissimo. Fu e rimane accompagnata da un sistema elettorale maggioritario a doppio turno in collegi uninominali che ha ridimensionato il ruolo dei partiti, come desiderava de Gaulle, e messo al centro della rappresentanza politica i candidati, rarissimamente paracadutati, che diventano rappresentanti premurosi dei collegi nei quali vengono eletti.

Non so quanto Meloni vorrà puntare sulla sua proposta e sulla riforma elettorale adottando la legge francese. Se le circostanze le consentiranno o addirittura la incoraggeranno a procedere in tal senso, mi limito a sottolineare due elementi sistemici positivi che comportano un rischio per il partito di Giorgia Meloni. Il primo elemento positivo è che l’elezione popolare diretta del Presidente della Repubblica implica la ristrutturazione bipolare di quel che resta del sistema partitico italiano. Dunque, dovrebbe essere sostenuta da tutti i bipolaristi del nostro stivale. Il secondo elemento, più visibilmente nei collegi uninominali, ma anche per l’elezione presidenziale, è che è necessario, quasi indispensabile costruire coalizioni prima del voto. Il rischio per Fratelli d’Italia è lo stesso che corre Marine Le Pen in Francia e che la ridimensiona costantemente. Al secondo turno i partiti estremi e le loro candidature vengono penalizzate dagli elettori. Lo scombussolamento successivo al mutamento del modello italiano di governo potrebbe, però, essere accompagnato dalla mitigazione di tutti gli estremisti. E sarebbe un bene.

Pubblicato il 8 settembre 2021 su Domani

Va bene il proporzionale, ma con preferenza unica @fattoquotidiano

La legge elettorale prossima (av)ventura. Premessa: se sarà una legge elettorale proporzionale non dovrà avere pluricandidature e dovrà consentire a elettrici e elettori di esprimere un voto di preferenza. Non due voti poiché non è vero che favoriscono le donne. Al contrario, subordinano le elette all’uomo che abbia fatto scambi con loro. Non tre o quattro preferenze poiché sono propedeutiche, come qualsiasi parlamentare democristiano eletto tra il 1948 e il 1987 potrebbe confermare, alla formazione di correnti. Infine, se si desidera evitare la frammentazione del sistema dei partiti, certamente non produttiva di buona rappresentanza politica, ma di potenziali poteri di ricatto per piccoli gruppi, dovrà contenere una clausola di accesso al Parlamento.

Di leggi elettorali proporzionali ne esistono molte varietà. Due elementi importanti le caratterizzano: la ampiezza della circoscrizione, misurata con riferimento al numero dei parlamentari che vi sono eletti e la formula di assegnazione dei seggi (le tre più utilizzate sono d’Hondt, Hare e Sainte-Lagüe, elemento molto tecnico, ma tutt’altro che irrilevante nel favorire i partiti o i partiti grandi). Ipotizzando che vengano ritagliate quaranta circoscrizioni con dieci deputati da eleggere in ciascuna, non ci sarebbe neppure bisogno di una clausola di accesso. Per vincere un seggio sarà indispensabile ottenere almeno l’8-9 per cento dei voti in ciascuna circoscrizione. Per un senato di 200 componenti eletti in 20 circoscrizioni il discorso sarebbe esattamente lo stesso, ma è complicato dalla statuizione costituzionale che ne impone l’elezione su base regionale.

Fuoruscendo dall’ormai stucchevole ricorso al latino che, al contrario del Mattarellum e del Porcellum, non apporta nulla in termini di conoscenza, chi volesse adottare la legge elettorale tedesca (non Germanicum, non Tedeskellum), dovrebbe farlo nella sua interezza. La clausola del 5 per cento è, ovviamente, importante, ma molto più importante è che l’elettore/rice tedesco/a dispone di due voti. Con il primo sceglie fra i candidati in collegi uninominali su base dei Länder; con il secondo vota una lista di partito. Non soltanto il doppio voto conferisce più potere all’elettore/trice, ma ha spesso consentito loro di incoraggiare e approvare la formazione di coalizioni indicate dai dirigenti di partito (Democristiani-Liberali; Socialdemocratici-Liberali; Socialdemocratici-Verdi).

Ė persino banale affermare che non esiste una legge elettorale perfetta. Certamente, no, ma altrettanto certamente esistono leggi elettorali buone e leggi elettorali cattive. Grazie all’Italicum e alla legge Rosato è oramai accertato e acclarato che esistono leggi elettorali pessime. La legge proporzionale usata in Italia dal 1946 al 1987 era accettabile e funzionò in maniera (più che) soddisfacente. L’alternanza mancò soprattutto poiché l’alternando, il PCI, non ebbe mai voti sufficienti a renderla inevitabile. La legge Mattarella, l’unica della seconda fase della Repubblica ad essere in qualche modo il prodotto di un referendum popolare, ebbe più pregi che difetti e alcuni dei difetti (il cosiddetto “scorporo” e la possibilità di liste civetta) sarebbero oggi facilmente eliminabili.

Sento ripetere da qualche politico che lui/lei preferirebbero il maggioritario, magari con l’aggiunta “il sindaco d’Italia”. Al di là dei problemi di scala: eleggere il sindaco, anche di città grandi come Roma, Milano, Napoli, Torino, non è la stessa cosa dell’elezione del capo del governo, la legge per l’elezione dei consigli comunali è proporzionale. L’elezione diretta del sindaco/a è altra cosa e configura una forma di governo presidenziale con l’eletto/a che non può essere sostituito/a proprio come i presidenti “presidenziali”. Maggioritarie sono le leggi elettorali delle democrazie anglosassoni: vince il seggio in collegi uninominali chi ottiene anche un solo voto in più degli altri candidati. Maggioritaria è la legge elettorale a doppio turno (non ballottaggio) in collegi uninominali utilizzata in Francia. Sono purtroppo consapevole che, al momento, non esiste una proposta a sostegno della legge francese e neppure una maggioranza disposta a votarla. So, però, che una proposta articolata in tal senso sarebbe la vera “mossa del cavallo”. Aprirebbe un campo elettorale inusitato impedendo giochi di partito. Conferirebbe all’elettorato grandi responsabilità incentivandolo a informarsi e a ridefinire con maggiore attenzione le sue preferenze. Obbligherebbe i partiti a selezionare meglio le loro candidature, che è proprio uno dei più importanti obiettivi vantati dai sostenitori della riduzione del numero dei parlamentari: “meno, ma meglio”. Vorrei che l’opzione francese rimanesse viva. Comunque, almeno potrò affermare: “ve l’avevo detto” et salvavi animam meam.

Pubblicata il 29 settembre 2020 su Il Fatto Quotidiano

Legge elettorale, Pasquino spiega perché il doppio turno è molto meglio del doppio forse @formichenews

Il criterio migliore con il quale valutare le leggi elettorali è quanto potere conferiscono all’elettorato, non il tornaconto personalistico e particolaristico immediato, che genera invece leggi mediocri se non pessime. Il commento di Gianfranco Pasquino

Da oramai troppo tempo la discussione sulle leggi elettorali è inquinata da inesattezze, più o meno volute, e manipolazioni. Purtroppo, in alcune, non proprio marginali, inesattezze è incorso anche il prof. Alfonso Celotto nel suo intervento “Carlo Magno e l’eterno dilemma della legge elettorale”. Il Mattarellum non era “un sistema per 2/3 maggioritario”, ma per 3/4 tale ed è importante aggiungere “in collegi uninominali”. Fatti salvi due difetti, le modalità dello scorporo alla Camera e la possibilità di liste civetta, facilmente rimediabili, la legge elettorale di cui fu relatore Sergio Mattarella rimane la migliore delle leggi elettorali post-1993. Non è corretto affermare che “nel 2005, sulla spinta [non fu una spinta, ma una meditata decisione] del centro-destra, si è tornati a un proporzionale semplice [C.vo mio], ma con la forte correzione di soglia di sbarramento e premio di maggioranza (oltre alle liste bloccate: cosiddetto Porcellum)”.

Infatti, ovviamente, una legge che ha una soglia di sbarramento e un premio di maggioranza, non può e non deve mai essere definita “semplice” e neppure “proporzionale puro” come leggo su troppi quotidiani e ascolto in troppi talk show.  Semmai, è proporzionale corretta, ma di “correzioni” se ne possono escogitare molte altre a partire dalla dimensione della circoscrizione. Meno parlamentari si eleggono in una circoscrizione tanto più difficile sarà per i partiti piccoli vincere un seggio.

Nella sua storia la Francia ha spesso cambiato leggi elettorali, anche, per la precisione, nel 1985 quando la maggioranza di sinistra, Mitterrand presidente, abolì la legge maggioritaria in collegi uninominali e introdusse una legge proporzionale, non “piccola rettifica”, nel tentativo di impedire la vittoria del centrodestra a guida gollista. Nelle elezioni legislative del 1986 Jacques Chirac vinse lo stesso e con la sua maggioranza assoluta subito reintrodusse il maggioritario a doppio turno in collegi uninominali. Dobbiamo chiederci il perché della lunga durata del doppio turno, ma dobbiamo subito aggiungere che quel doppio turno si accompagna alla forma di governo semipresidenziale con elezione popolare diretta del Presidente della Repubblica.

Potremmo pretendere un salto di qualità dalla discussione in corso (centrata sulla “altezza” della soglia di accesso al Parlamento), ma siamo consapevoli che la nostra pretesa è una grande illusione. Fintantoché i sedicenti riformatori impronteranno le loro proposte al tornaconto personalistico e particolaristico immediato, avremo leggi elettorali mediocri, se non pessime. Il criterio migliore con il quale valutarle è quanto potere conferiscono all’elettorato. Poi, ad libitum, sarei in grado di precisare, facendo riferimento sia al sistema proporzionale personalizzato (si chiama proprio così) tedesco sia al doppio turno francese, che cosa significa “potere dell’elettorato”, come strutturarlo e come valutarlo. Ho promesso a Carlo Magno che lo dirò a lui per primo.

Pubblicato il 28 settembre 2020 su formiche.net

Caro Zingaretti, di legge elettorale parla quando saprai quanti saranno i parlamentari da eleggere @HuffPostItalia @nzingaretti

Scrivere una qualsiasi legge elettorale senza conoscere con precisione il numero dei rappresentanti da eleggere è un’operazione azzardata. Due punti, però, possono essere decisi subito in prospettiva di una buona rappresentanza politica: nessuna candidatura bloccata, nessuna possibilità di candidature multiple. L’elettore deve potere scegliere il/la suo/a rappresentante. Quindi, o collegi uninominali o almeno un voto di preferenza.

Non impossibili, i collegi uninominali se i deputati e i senatori da eleggere saranno rispettivamente 400 e 200 avranno come minimo, rispettivamente, circa 125 e circa 250 mila elettori. Lieviteranno i costi delle campagne elettorali, conteranno anche altre risorse, sarà molto difficile per gli eletti “conoscere” i loro elettori, preferenze e esigenze. Sarebbe auspicabile che una legge elettorale proporzionale avesse circoscrizioni relativamente piccole: 40 per la Camera e 20 per il Senato con dieci eletti per circoscrizione. La soglia implicita è poco meno del 10 per cento dei voti. Premierebbe quei candidati che nelle rispettive circoscrizioni hanno ottenuto molti voti e dunque rappresentano una parte di elettori/trici anche se il loro partito non avesse superato un’eventuale soglia percentuale nazionale.

Questi relativamente semplici calcoli non dicono nulla sulla qualità della rappresentanza. La riduzione di un terzo del numero dei parlamentari non può essere giustificata soltanto con un risparmio modesto di soldi, quando poi si avrebbero spese potenzialmente “folli” nelle campagne elettorali e negli uffici da mantenere fra una campagna e l’altra. Un buon parlamento e buoni parlamentari debbono svolgere due compiti di assoluta importanza in un democrazia parlamentare: dare rappresentanza ai cittadini, controllare le attività del governo, criticarlo, stimolarlo, eventualmente sostituirlo. I parlamentari saranno tanto più liberi e efficaci in entrambi i compiti se sono debitori della elezione alle loro capacità di ottenere il consenso degli elettori e non alla cooptazione ad opera dei dirigenti dei partiti e delle correnti. È anche probabile che per svolgere soddisfacentemente quei compiti, ad esempio, valutando le leggi e i decreti legge del governo e il loro impatto e l’operato dei ministri e della burocrazia, i parlamentari debbano distribuirsi i compiti.

Un numero ridotto di parlamentari avrebbe molto probabilmente conseguenze negative sul funzionamento del Parlamento spostando potere nelle mani dei governanti. Qui, l’azzardo è palese: meno (parlamentari) non significa meglio (migliore rappresentanza politica e miglior funzionamento del Parlamento e dei rapporti Parlamento/Governo). Anzi, è più probabile che meno significhi peggio, un peggio al quale nessuna legge elettorale potrebbe ovviare, anche se alcune potrebbero ridurre rischi e danni.

Post Scriptum Un minimo di prudenza politica suggerirebbe (anche al segretario del PD Nicola Zingaretti e agli strateghi di riferimento) il silenzio, strategico, sulle indicazioni di fondo relative alla prossima (la legge Rosato è, comunque, da cancellare) legge fintantoché non si sa quanti saranno i parlamentari da eleggere.

Pubblicato il 4 agosto 2020 su huffingtonpost.it