Home » Posts tagged 'Democrazia cristiana' (Pagina 2)
Tag Archives: Democrazia cristiana
Con Verdini un balzo all’indietro
Non credo che si possa dire che i voti non puzzano. Come e dove sono stati conquistati fanno una differenza tanto che qualche volta implicano sanzioni. D’altronde, non tiene più neanche il famosissimo detto pecunia non olet, il denaro non puzza. Infatti, se davvero il denaro non puzzasse non si capirebbe perché le attività di riciclo, di lavaggio che, infatti, in inglese si chiamano money laundering, siano tanto diffuse, fiorenti e lucrative? Questa introduzione soltanto per andare al bersaglio. No, i voti di Verdini non sono come tutti gli altri. Non sono, certamente, gli unici che puzzano e, come altri, sono voti che vengono dal trasformismo: abbandonare lo schieramento nel quale si è stati eletti per andare a lucrare qualcosa nello schieramento di governo. Poi, sarebbe bello se gli elettori fossero in grado almeno ex post facto di dare il loro giudizio sui trasformisti. La legge elettorale Italicum non glielo consentirà in nessun modo. Il fatto che Verdini e i suoi parlamentari dell’Ala abbiano già votato molti provvedimenti del governo Renzi-Boschi non riduce il tasso di trasformismo già ratificato dall’ingresso nella maggioranza di Ala, dimostrato dalla concessione di alcune cariche nelle commissioni ai parlamentari di Ala. Se, poi, davvero Ala e Verdini parteciperanno alla formazione dei Comitati per il SÌ al referendum su riforme costituzionali che il capo del governo considera l’elemento più qualificante della sua azione di governo tanto da “metterci la faccia”e giocarsi la carriera, allora l’ingresso dei verdiniani nella maggioranza governativa non attenderebbe che un piccolo passo: la nomina di un vicesegretario.
Ferme restando le critiche ai cambi di casacca in Parlamento, il problema più grosso causato dalla straordinaria capacità di manovra di Verdini e dall’altrettanto straordinaria disponibilità di Renzi riguarda il future prossimo, più precisamente l’eventuale nascita del Partito della Nazione. Con Alfano e Verdini, forse anche con Casini e altri, il Partito della Nazione si troverebbe inevitabilmente spostato verso il centro dello schieramento politico. Grazie al premio di maggioranza garantito dall’Italicum, che consente di ricompensare tangibilmente con la altrimenti difficile rielezione i verdiniani e gli alfaniani, il Partito della Nazione godrebbe di una ampia maggioranza alla Camera dei deputati. Relegati all’opposizione sarebbero, da un lato, la destra e Salvini, dall’altro, il Movimento Cinque Stelle. Dunque, spostatosi un po’ al centro anche per vincere, il Partito della Nazione si troverebbe inevitabilmente ad occupare quel centro, con due opposizioni non in grado di coalizzarsi, se non in maniera negativa: contro il governo, non per sostituire il governo.
Non voglio in nessun modo equiparare il Partito della Nazione alla Democrazia Cristiana, costretta ad occupare il centro per tenere a bada eventuali rigurgiti di fascismo, ma anche la sfida reale del comunismo. Quello che, invece, merita di essere evidenziato è che il Partito della Nazione metterebbe la parola fine al bipolarismo, peraltro mai gradito da molti settori del ceto politico e dai cerchiobottisti della società civile, tutti intenti a trovare aggettivi derogatori: muscolare, feroce et al. Invece, il bipolarismo (non bipartitismo) è la modalità migliore di funzionamento delle democrazie, non solo contemporanee, quella che, fra l’altro, offre la prospettiva dell’alternanza. Il Partito della Nazione riporterebbe l’Italia indietro di quasi un quarto di secolo, a una politica che i sedicenti riformatori della Nazione e della Costituzione non conoscono, ma rischiano colpevolmente di fare resuscitare. È proprio vero che chi non ricorda la storia è costretto a riviverla.
Pubblicato AGL 4 maggio 2016
La stanza senza bottoni
Pubblicato in formiche ottobre 2015 pp. 12-13
di Gianfranco Pasquino*
In Italia non c’è mai stato nessun primato della politica. Simpaticamente, il socialista Pietro Nenni affermava “la politique d’abord”. Gli sarebbe piaciuto praticarla, anche con nobili obiettivi. Poi, entrato nella stanza dei bottoni, anzi, appena affacciatosi, dalla soglia, si accorse che di bottoni proprio non se ne vedeva nessuno. Li avevano portati via alcuni partiti. Infatti, in Italia al posto di comando sembravano esserci i partiti che non sono la stessa cosa della politica (qualche volta sono il contrario). Proprio così. Come potremmo altrimenti spiegare l’espressione, davvero calzante, usata per definire essenza e funzionamento del sistema politico italiano: partitocrazia? E l’altra espressione classica che riguardava i parlamentari: trasformismo?
Ecco, il primato, tutto da definire, l’hanno avuto e mantenuto a lungo i partiti. Il fatto è che hanno potuto farlo (come ho scritto nel mio libro Partiti, istituzioni, democrazie (Il Mulino 2014), non perché erano particolarmente forti, radicati, coesi e progettuali. Tutt’altro, e il crollo dell’intero sistema partitico nel 1992-1994 dimostra che erano deboli, epidermici, divisi al loro interno e incapaci di prevedere e progettare alcunché. Apparivano, i partiti, e furono effettivamente dominanti perché, da un lato, avevano creato le istituzioni e vi si erano insediati, appunto nei posti di comando, ma, quelle istituzioni parlamentari accompagnate a un sistema elettorale proporzionale, non obbligarono mai i partiti a diventare organizzazioni davvero strutturate. Certo, non lo fu la Democrazia Cristiana, partito di oligarchie in competizione; non il Partito Socialista, tutto sfilacciato in correnti ideologiche fino all’avvento tardivo di Craxi, accentratore pragmatico e spregiudicato del poco che era rimasto; non il PCI, geograficamente squilibrato, quasi assente in alcune regioni (Veneto e Sicilia). Dall’altro lato, i partiti italiani sembrarono forti perché la società italiana uscita dal fascismo era, con l’eccezione delle associazioni cattoliche, atomizzata. Poi, divenne lottizzata e clientelare e si rivelò corporativa ed egoista, mantenendo ostinatamente e tenacemente, la sua caratteristica più profonda, quella del “familismo amorale“.
Le istituzioni non sono cambiate e non basteranno gli scoordinati e scomposti sforzi di Renzi a dare all’Italia istituzioni moderne, capaci di operare con qualche autonomia e di costringere i partiti a riformarsi e a solidificarsi. Invece, la società è cambiata, vale a dire, fermi restando sia il clientelismo sia il familismo, è diventata popolata da molti individualisti. Sono coloro che credono che la politica è il problema, non la soluzione. Anzi, è l’ostacolo alla realizzazione delle loro potenzialità. Per farsi belli e dimostrarsi generosi affermano di stare lottando per liberare tutta la società. Qualche volta per qualcuno può anche essere vero, ma tutti gli altri dovrebbero sapere (avrebbe dovuto essere loro insegnato) che è la politica a scrivere le regole della convivenza, della competizione, del mutuo soccorso e che la società, quando è vivace e sregolata, è il luogo del bellum omnium contra omnes.
Per troppi, in Italia molto più che altrove, la politica sono i partiti e i parlamentari senza mestiere alcuno. Per troppi, in Italia, i partiti non hanno nulla da offrire se non privilegi, espropri e sprechi di risorse e una non modica dose di corruzione. Hanno in parte ragione. Per molti la politica è associata alla parola disgusto. Di nuovo, hanno spesso ragione. Dove, invece, hanno sicuramente torto è nel credere che, poiché loro non la frequentano, la politica non conti più nulla. Stefano Feltri scrive come se la tecnologia abbia spazzato via tutto e fossero rimasti soltanto gli innovatori di vallate più o meno “siliconate”. Non in Italia. Sicuramente, però, la tecnologia non domina e non governa in nessuna democrazia. Al contrario, dove la politica esiste, vale a dire dove ci sono decisori eletti in competizioni democratiche, le regole le scrivono quei decisori e gli innovatori, a prescindere dalla loro qualità, a quelle regole debbono uniformarsi.
La politica serve a scrivere le regole, a garantire la competizione e a punire chi non osserva le regole. La buona politica non soltanto scrive buone regole, rispettose delle preferenze della maggioranza dei cittadini, i quali, dal canto loro, sono interessati, informati e partecipanti, ma scrive regole applicabili e sanzionabili, con punizioni rapide e chiare per chi non le rispetta. Le democrazie, persino quella in fieri nell’ambito dell’Unione Europea, operano esattamente in questo modo. Nessuno avrebbe voluto essere governato da Steve Jobs e nessuno chiede a Bill Gates di prendere in mano le redini del mondo. Il pur ottimo tecnocrate Mario Monti ha dimostrato che ci vuol altro anche soltanto per tenere in mano le redini del governo di una media potenza quale l’Italia. La verità è che ogni paese e ogni popolo si meritano grosso modo, con qualche limitata eccezione, la politica che ha. Cittadini che ostentano il loro disinteresse, che hanno poche informazioni, spesso, anche a causa del cattivo giornalismo, fuorvianti e manipolate, che credono che la loro non-partecipazione delegittimi i rappresentanti e i governanti non possono che avere una politica che, prima ancora di essere debole, è brutta. Eppure, conta. Contribuisce a peggiorare la vita di tutti: dei populisti, degli indifferenti, degli antipolitici. Politica, sostantivo greco plurale, significa “le cose che succedono nella polis”. Se vi fate solo gli affari vostri, direbbe Pericle in visita in Italia, avrete una politica di serie B. Sempre politica è, ma molto inadeguata, comunque mai assente. Politica per pochi che la volgeranno nel loro interesse, alla quale, però, nessuno, neppure gli innovatori tecnologi più geniali, è riuscito né riuscirà a sfuggire
*Professore Emerito di Scienza Politica, Università di Bologna
Perché Renzi dopo le Regionali è (forse) più debole.
Intervista raccolta da Edoardo Petti per Formiche.net
Parla Gianfranco Pasquino.
Il politologo ravvisa nell’esito del voto regionale la sconfitta della “campagna faziosa” del premier. Parla di Cinque Stelle con il “vento in poppa” e ridimensiona le ambizioni di Salvini.
Riconferme, sorprese, vittorie sul filo di lana. I risultati delle elezioni regionali tratteggiano un panorama politico in fermento.
Per capirne le linee di sviluppo Formiche.net ha interpellato Gianfranco Pasquino, professore di Scienza politica all’Università di Bologna.
Dopo il voto, il governo è più forte o più debole?
Il governo tira avanti. Non è particolarmente forte, ma non è fragile poiché può contare su una maggioranza parlamentare. Chi si è indebolito – e giustamente – è Matteo Renzi. Protagonista di una brutta campagna elettorale, è stato molto aggressivo verso le minoranze interne rivelandosi incapace di allargare le adesioni al Partito democratico.
La “rottamazione” promossa dal premier si è fermata a livello nazionale senza sfondare in periferia?
Sì. La candidata governatrice più vicina al leader del Pd – Alessandra Moretti – ha perso nettamente in Veneto. Le figure che hanno vinto alla grande – Michele Emiliano in Puglia ed Enrico Rossi in Toscana – sono tutto fuorché renziani. L’aspirante presidente della Liguria Raffaella Paita è una renziana della terza e quarta ora. La neo-governatrice dell’Umbria Catiuscia Marini non è legata al Presidente del Consiglio, e ha prevalso pur rischiando moltissimo. Vi è stato pertanto un effetto Renzi. Ma al contrario, nel senso di togliere consensi al Nazareno.
Il “partito pigliatutto” o della Nazione non si è materializzato. Il Pd è tornato ai voti della segreteria di Pier Luigi Bersani?
Il “Partito della Nazione” è un’invenzione di cui l’entourage del premier si è appropriata. Tuttavia, per renderla convincente non si deve rottamare tutto il vecchio che esiste nel Partito democratico. Perché molte volte “vecchio” è eguale a “capace e esperto”. E poi è necessario lanciare un messaggio con respiro nazionale, non fazioso e respingente come ha fatto Renzi.
La “sentenza” della Commissione Antimafia presieduta da Rosy Bindi può aver giovato a Vincenzo De Luca in Campania?
No. Il primo cittadino di Salerno ha vinto perché è molto radicato nel territorio, anche grazie a reti di consenso clientelare. Verso di lui si è registrata la convergenza di Ciriaco De Mita. Lo scarto di voti rispetto al candidato del centro-destra Stefano Caldoro è prodotto esattamente dalle migliaia di consensi che l’ex leader della Democrazia cristiana riesce a muovere, grazie a una storia politica lunga, profonda e di successo.
Il Movimento Cinque Stelle si conferma seconda forza politica italiana. Può gongolare in vista di un ballottaggio per il governo con le nuove regole elettorali?
La formazione penta-stellata ha scelto candidati radicati nelle diverse regioni. Ha condotto una campagna efficace raccogliendo il malessere e l’insoddisfazione popolare verso il sistema politico. E lo ha fatto senza la visibilità mediatica di Beppe Grillo. È chiamata però a risolvere un problema.
Quale?
Trovare un buon candidato premier nell’eventualità di una sfida per Palazzo Chigi. Ruolo che non potrà essere ricoperto da Grillo né da Gianroberto Casaleggio. Non so se i giovani parlamentari che guidano il M5S nelle Camere potranno esprimere tale leadership.
Altro risultato lusinghiero è quello della Lega. Ma il governatore del Veneto Luca Zaia non ha il profilo protestatario di Matteo Salvini.
Zaia presenta il vantaggio di essere una persona nota e capace senza coltivare posizioni estremiste. Per questa ragione ha saputo costruire una robusta base di consenso nel centro-destra, compreso l’elettorato di Forza Italia. Ma l’immagine di Salvini conta, come rivela la sua efficacia nelle molteplici apparizioni televisive. Certo, la capacità di governo è altra cosa. Se fosse lui il candidato premier dell’area conservatrice i cittadini penserebbero quattro-cinque volte prima di votarlo.
Sommando le adesioni di M5S e Carroccio emerge una massiccia tendenza ostile all’Ue e all’euro?
È vero. Ma non sono così convinto che tutti gli elettori di Cinque Stelle e Lega vogliano uscire dall’Unione Europea o dall’area della valuta comune. I piccoli e medi imprenditori del Nord – parte rilevante del bacino di consensi delle due formazioni – sanno bene che la loro ricchezza e capacità espansiva sono legati all’appartenenza all’Ue e all’Euro-zona. Fuori delle quali incontrerebbero serie difficoltà. Pensiamo al costo che dovrebbero affrontare per cambiare un’eventuale lira italiana nel trasferimento di attività produttive in Romania o negli scambi commerciali con le aziende tedesche.
La vittoria di Giovanni Toti in Liguria segna la rinascita di Forza Italia, o è merito dell’affermazione del Carroccio?
L’elemento Lega si è rivelato decisivo nel caso Liguria. Regione dalla composizione demografica e sociale eterogenea, simile per molti versi a quella della Florida. Non a caso Stato chiave e storicamente incerto nelle campagne elettorali Usa. Ricordiamo che il Pd ligure ha vissuto una spaccatura, e con il 10 per cento conquistato dalla sinistra di Luca Pastorino avrebbe vinto. Evidentemente una componente dell’elettorato progressista tradizionale era stufo del sistema di potere creato dal precedente governatore Claudio Burlando, mentore politico di Paita.
Pubblicato il 1 giugno 2015
Mattarella, un cattolico sgradito all’ex Cav
Dalla sua tradizione politica e personale, quella della Democrazia Cristiana, dei Popolari, forse anche dell’Ulivo e poi della Margherita, Matteo Renzi ha estratto una buona candidatura per il Quirinale. L’attuale giudice costituzionale Sergio Mattarella, più volte ministro, autore, ironia della sorte, di una buona legge elettorale che Renzi seppellisce definitivamente con il suo meno buono Italicum, è in effetti, un ex-democristiano, che non ha nessun motivo di pentirsi, di basso profilo. Non è, però, un ex-democristiano di bassa qualità.
Anzi, nell’ambito dei molti nomi di dc di vario genere che Renzi e il suo entourage hanno fatto circolare, per lo più strumentalmente, nei gossip pre-presidenziali, è sicuramente il migliore. Sobrio, riservato, sempre equilibrato nelle sue, rarissime, dichiarazioni, la carriera politico-parlamentare di Mattarella evidenzia anche la sua capacità di non rinunziare alle proprie convinzioni. Nel 1990 le sue dimissioni da ministro, unitamente ad altri quattro ministri della sinistra democristiana, furono motivate dal dissenso profondo sulla legge del repubblicano Mammì che aprì una prateria alle scorribande delle televisioni di Silvio Berlusconi. Probabilmente, sono proprio quelle dimissioni a renderlo non votabile da Berlusconi, che ha la memoria lunga, ma che deve anche avere capito che Mattarella non sarà un Presidente della Repubblica malleabile.
Se, dunque, Berlusconi voleva qualcosa in cambio dei suoi voti, si è reso immediatamente conto che quel qualcosa Mattarella non glielo avrebbe dato. Non glielo darà. Naturalmente, neppure Renzi avrà un trattamento di favore poiché la cultura costituzionale di Mattarella a nessun favore si piega. Semmai, in quanto Presidente della Repubblica, Mattarella cercherà nei limiti del possibile di ricostruire quell’equilibrio fra le istituzioni che il fortissimo ridimensionamento del Senato e il grande potere conferito dal premio elettorale alla lista vittoriosa e al suo capo mettono in seria discussione.
Dalla difficile prova dell’elezione presidenziale Renzi esce finora giustamente soddisfatto. Ha evitato che il Pd andasse in ordine sparso perseguendo candidature che, in generale, erano in parte divisive in parte inadeguate, a lui, comunque, non pienamente gradite. Ha dimostrato che il Patto del Nazareno non implicava nessun accordo segreto e inconfessabile riguardo all’inquilino da collocare al Colle per i prossimi sette anni. Ha messo in serie difficoltà l’area Nuovo Centro Destra e Udc, molti dei quali ex-democristiani dovranno dare delle spiegazioni a se stessi e alla loro coscienza se finiranno per non votare uno dei migliori di loro. Alfano non potrà cavarsela portando l’Ncd, come ha dichiarato, su posizioni più critiche dell’azione del governo di cui lui fa parte e dal quale non può staccarsi se non a rischio, quasi letale, di provocare nuove difficoltosissime elezioni. Dal canto suo, Berlusconi non può abbandonare gli accordi sulle riforme elettorali e costituzionali da concludere. Forse riuscirà a capire in tempo che votare Mattarella spiazzerebbe l’Ncd e lo rimetterebbe in sintonia con Renzi, una sintonia di cui Forza Italia al 16 per cento ha molto più bisogno che non il segretario del Partito Democratico.
I falchi di Forza Italia volano incattiviti, ma non sanno dove andare a posarsi. Infine, la mossa di Renzi ha reso visibilissime l’incapacità e l’irrilevanza dei grillini che sono in imbarazzo, anche perché poco sanno della storia della Repubblica, a giustificare il non–voto per Mattarella.
Una vittoria presidenziale è molto importante. Cancellerà per qualche tempo le molte preoccupazioni che il capo del governo deve avere soprattutto in termini di rilancio dell’economia. Sopirà anche le tensioni fra i renziani e le maltrattate minoranze interne, meno quella di Civati che s’inventerà qualcosa per rilasciare interviste. Metterà anche in soffitta la prospettiva, del tutto illusoria, di un progetto Tsipras Italian-style. Renzi si troverà al tempo stesso più libero nelle scelte, ma privo del sostegno che Napolitano gli ha garantito.
Pubblicato AGL 30 gennaio 2015
Il Pd partito della Nazione è solo una bischerata
Intervista raccolta da Francesco De palo per Formiche.net pubblicata il 22 ottobre 2014
Né partito-nazione né una nuova Democrazia Cristiana, l’unico obiettivo raggiunto da Renzi secondo il politologo Gianfranco Pasquino è di essere l’uomo più popolare del Paese, “andando un po’ dappertutto a raccontare un qualcosa di cui, fino ad oggi, nessuno lo ha chiamato a rendicontare”.
Forma partito ed evoluzione del Pd: può essere davvero il partito della Nazione come dice Reichlin?
Ho soltanto obiezioni. In primo luogo eviterei l’espressione “forma partito”, la trovo hegeliana quindi lontana dal contesto dell’Europa del 2014. Parlerei più di organizzazione, natura, struttura. In secondo luogo eviterei anche la dicitura “partito della Nazione”, perché l’espressione corretta in Paesi come la Germania è partito di popolo. Voglio dire che nessun partito può ambire a rappresentare una Nazione: quella sarebbe una visione totalitaria, come il Partito Comunista dell’Unione Sovietica. Capisco che in questo momento essa possa essere un’ambizione ma la peso come dotata di scarsi connotati democratici.
Sta di fatto che il Pd è il principale partito italiano al momento…
Se partito della Nazione significa il partito che oggi è più grande va bene, prendiamolo per buono, ma nel merito non nella terminologia, perché le parole hanno delle conseguenze. Se il riferimento, poi, vuol essere alla Democrazia Cristiana, beh quello era un grande partito interclassista che coinvolgeva più ceti sociali. Questa è un’ambizione legittima, ma la si può perseguire evitando l’espressione “partito-Nazione” semplicemente perché in una Nazione è meglio che ci sia più di un partito.
E’ un partito all’americana quello che sta delineando Renzi con l’invito a ex vendoliani ed ex montiani a farne parte?
Quelli americani sono partiti che si trovano in 50 Stati: non c’è un partito Democratico, ma uno in ogni Stato con un debolissimo organismo di coordinamento a livello federale a Washington. Lì i partiti sono il prodotto della legge elettorale, un sistema maggioritario in collegi uninominali, che non è per nulla il sistema a cui pensano Renzi e i suoi non particolarmente brillanti suggeritori.
Il premier sta realizzando le ambizioni piddì di Veltroni?
Di Veltroni ricordo due ambizioni: la prima quella di diventare il partito più forte della sinistra, quindi l’ambizione maggioritaria. E’ chiaro e legittimo che un partito al di sopra del 30% ambisca a diventare di governo e a volte anche l’unico partito di governo. Ma credo sia fuori luogo credere di potere fare a meno di qualsiasi alleato. Solo con un premio di maggioranza cospicuo Renzi potrà vincere e fare a meno degli altri: questa però non mi pare un’ambizione condivisibile perché un solo partito non può rappresentare tutta la nazione. La dinamica europea in questa fase è sostanzialmente quella dei governi di coalizione, con pochissime eccezioni come la Spagna.
Pensa davvero che Renzi abbia in mente di andare al voto anticipato?
Lo escludo, tra l’altro anche se volesse non ci riuscirebbe. La vecchia legge è stata distrutta dalla Corte Costituzionale, la nuova non c’è ancora e per di più c’è stato un monito che voi giornalisti avete sottovalutato: il Presidente della Repubblica ha detto che la nuova legge deve essere sottoposta alle opportune verifiche di costituzionalità. Quindi non è vero che sarebbe pronto un testo frutto della sentenza della Corte: il Consultellum richiederebbe comunque dei passaggi parlamentari.
Alla fine della fiera quali sono i veri obiettivi di partito di Renzi?
La fiera non è ancora finita, anzi, vedo ancora moltissimi compratori, venditori e soprattutto banditori nella fiera. Credo che Renzi abbia colto un obiettivo: essere l’uomo più popolare del Paese, andando un po’ dappertutto a raccontare un qualcosa di cui, fino ad oggi, nessuno lo ha chiamato a rendicontare. Per cui la fiera continua, ma speriamo che i compratori siano più esigenti e chiedano, almeno, di vedere i cammelli.
Il decisionismo craxiano
Recensione del libro Decisione e processo politico. La lezione del governo Craxi (1983-1987) – Marsilio Editori.
Il volume raccoglie gli atti del convegno che la Fondazione Socialismo, l’anno scorso, aveva dedicato al 30° anniversario della nomina del leader socialista alla guida del governo, con gli interventi di Massimo Cacciari, Luciano Pellicani, Giuliano Amato, Giuseppe De Rita, Gianni De Michelis, Antonio Badini, Giuseppe Mammarella, oltre che di Acquaviva e Covatta.
Il volume contiene inoltre un’appendice documentaria, curata da Luigi Scoppola Iacopini ed Alessandro Marucci, che ricostruisce il dibattito sulla leadership e sulla democrazia competitiva che ha accompagnato la storia dell’Italia repubblicana dal fallimento della “legge truffa” ai primi anni ’90.
Da Mondoperaio 9/2014 (pp 91/93)
Il decisionismo craxiano
Gianfranco Pasquino
L’ultima cosa che farò consiste nell’andare alla ricerca affannata e affannosa del decisionismo dei contemporanei. Mi limiterò soltanto, ma mi pare moltissimo, a cogliere la struttura e gli aspetti qualificanti (successi e fallimenti) del decisionismo di Bettino Craxi, mettendoli nel contesto dei quindici ruggenti anni in cui il segretario socialista ebbe il potere di esplicarlo. Da subito, però prendo atto della ripartizione temporale in tre fasi opportunamente proposta e utilizzata da Luigi Scoppola Iacopini. Prima fase: dal 1976 alla conquista di Palazzo Chigi nel 1983, “di gran lunga la più felice e incisiva”; seconda fase: gli anni della guida del governo (1983-1987): “terminato lo slancio iniziale, cominciano ad affiorare alcuni preoccupanti segnali di involuzione”; terza fase che “abbraccia l’ultima stagione culminata poi nel crollo” (pp. 97-98).
La panoramica di opinioni e di interpretazioni del decisionismo craxiano offerta in questo prezioso libro, arricchito da una importante documentazione con utilissimi testi di approfondimento, convergerebbe nell’individuarne la manifestazione più significativa e incisiva nel periodo di governo. A questo decisionismo si attaglia la definizione che Gennaro Acquaviva offre nella sua nota introduttiva, affermando che questa fu una dote particolarmente di Craxi: “Saper prendere decisioni politiche, anche serie e rischiose, con freddezza e al momento giusto, costruendosi contemporaneamente condizioni e forza sufficienti a fargli convogliare sulla decisione un consenso ampio e ben solido, in grado di portarlo alla realizzazione della decisione”(pp.9-10).
Nella sua prefazione Piero Craveri amplia il discorso – come anch’io credo bisognerebbe fare – affermando reciso che “il decisionismo di un leader e di una classe dirigente politica si misura su quello che questa può decidere” (p. 18). Craveri lascia intendere che allora si potesse decidere molto e oggi poco, trovandomi in disaccordo. Mantengo alto il mio disaccordo anche con i molti che continuano a ritenere e sostenere che il famigerato complesso del tiranno abbia reso costituzionalmente debole il capo del governo italiano. La mia posizione è che il capo del governo può essere forte anche in Italia se ha autorevolezza personale, competenza, un progetto, e se fonda il suo potere sul sostegno convinto, ma non servile, di un partito maggioritario. Se qualcuno pensa che io intenda riferirmi a qualche situazione contemporanea, sono sue congetture: ma rilegga il mio sapiente uso delle parole di cui sopra.
Per completare le opinioni sul decisionismo, è opportuno citare Giuseppe De Rita. Il vecchio sociologo specifica che “lo statista è decisionista giorno per giorno e nelle istituzioni. Craxi, invece, era un decisionista politico una tantum, e questo, alla fine, lo ha lasciato nudo: il Parlamento non lo ascoltava, il Csm neanche lo considerava, la Magistratura lo inseguiva. Era un uomo senza istituzioni, perché non era stato capace di trasformarsi da politico a statista, da politico a uomo delle istituzioni” (p. 37). De Rita offre anche la sua teoria sul decisionismo: “Per decidere, bisogna concentrare il potere, bisogna verticalizzare il potere. Per farlo, bisogna personalizzarlo. Per personalizzarlo, bisogna mediatizzarlo, cioè renderlo pubblico, e per fare tutto questo ci vogliono un sacco di soldi” (p. 36, tutti corsivi miei). Postilla: per mediatizzare è, con tutta probabilità, sufficiente “fare notizia” con proposte, comportamenti, soluzioni. Quanto alla concentrazione, alla verticalizzazione e alla personalizzazione, bisogna avere o volere costruire un partito e istituzioni apposite, come, ad esempio, il semipresidenzialismo della Quinta Repubblica: Vive la France!
Naturalmente esiste anche una concezione del modo di governare che è del tutto opposta al decisionismo: è la mediazione. Portata ai suoi livelli più raffinati da Aldo Moro, ma condivisa da tutti i democristiani ad eccezione di Amintore Fanfani, la mediazione respinge la concentrazione del potere, non lo verticalizza, si oppone alla personalizzazione preferendo le trattative con le associazioni. Alla fine del processo di mediazione (spesso definita “incessante”, spesso così voluta dai “mediatori”) non ci sarà una vera e propria decisione, ma la semplice accettazione di quanto è emerso nel corso della discussione, dei negoziati, degli scambi di ogni tipo. Persino Ciriaco De Mita – non a caso osteggiato, ricambiatissimo, da Craxi – nella sua esperienza di governo fu sostanzialmente moroteo, cioè interessato al “ragionamento”, una formula appena più intellettuale della mediazione.
Ovviamente ai morotei (in politica, nelle redazioni dei quotidiani e nelle cattedre universitarie) il decisionismo craxiano apparve da subito e per sempre scandaloso. Per quel che ne so, Craxi fu sempre pienamente consapevole delle costrizioni che il sistema politico italiano poneva a quella che per lui era una assoluta necessità: prendere decisioni molto incisive proprio per cambiare il sistema, per rompere il bipolarismo Dc/Pci, per dare un ruolo più importante all’Italia in Europa. La sua riluttanza per tre mesi a nominare il capo di gabinetto alla Presidenza del Consiglio fu assolutamente indicativa del tentativo di sfuggire alle reti di rapporti che gli alti burocrati romani hanno da tempo intessuto e alimentato e grazie ai quali, muovendosi da gabinetto a gabinetto e da ministro a ministro, ingabbiano l’azione e contengono la (eventuale) vivacità dei governi. Neanche le numerose crisi dei governi democristiani incidevano sul potere dei burocrati, sempre disponibili, sempre pronti a costruire chiavi in mano le segreterie di qualsiasi ministro arrivasse (meglio se non già “romano”). Naturalmente, chiunque avesse potuto contare su Giuliano Amato come sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, avrebbe potuto fare a meno di un apparato costitutivamente frenante. Nel riflettere sulla sua esperienza (forse non soltanto di sottosegretario, ma di ministro e di Presidente del Consiglio), Amato sottolinea che in Italia il potere non è né del Parlamento né del governo: “E’ un potere di quei pochi grands commis d’apparato che dominano le tecniche attraverso le quali queste regole vengono messe insieme”. Rilevo che il politologo che è in me da diversi decenni pensa che l’alternanza fra partiti e coalizioni e la facoltà di creare gabinetti politici dovrebbero servire a fare “circolare” e, quando necessario, emarginare i grands commis.
Peraltro, in pratica, la traiettoria decisionista craxiana non fu eccessivamente intralciata dalla burocrazia. Da un lato, si esplicò con vigore; dall’altro, cadde prigioniera delle contraddizioni e degli errori dello stesso Craxi. Nei saggi di questo ben costruito e utile volume, colgo tre esempi importanti di decisionismo che ebbe successo: il decreto di San Valentino, Sigonella, l’Atto Unico. In tutt’e tre i casi il decisionismo di Craxi rompe lentezze, titubanze, incrostazioni di potere, interessi costituiti. Credo che dei tre il più importante sia stato il decreto di San Valentino, per diverse ragioni che spiego. La prima ragione è che questa fu la vera sfida a un doppio tabù: concertare sempre con i sindacati, accordarsi previamente con il Pci. Purtroppo, i successivi governanti non hanno imparato la lezione cosicché l’Italia ha continuato a soffocare fra accordi e concertazioni. La seconda ragione è che Craxi, insieme in modo speciale a Pierre Carniti, costruì davvero quella decisione.
Dunque non si trattò di un decisionismo brutale e senza fondamento, ma di una decisione meditata. Infine, seppure dopo qualche tentennamento, Craxi accettò anche la sfida referendaria del 1985. Non ho dubbi (e i sondaggi di quei tempi mi confortano) sul fatto che la vittoria nel referendum arrise a Craxi quando divenne chiara a tutti la sua sfida con piena assunzione di responsabilità: “Un minuto dopo l’eventuale sconfitta, il Presidente del Consiglio darà le dimissioni”. Un milione e più di elettori valutò che la stabilità del governo e del capo di quel governo fosse molto più importante di due punti di scala mobile. Craxi non giocò d’azzardo, ma si espresse come uno statista che mette in gioco la sua carica per tutelare gli interessi del paese. Qui, però, sta il punto critico.
In un’occasione non dissimile, il referendum sulla preferenza unica del giugno 1991 (sì, lo so che può apparire di importanza nettamente inferiore alla scala mobile, ma Craxi aveva scommesso molto anche sulla Grande Riforma, alzando quindi la posta), il suo comportamento contraddisse appieno la mission di uno statista. Craxi valutò esclusivamente l’eventuale impatto dell’esito del referendum sul Psi. Sbagliando, anzitutto, poiché la più danneggiata sarebbe stata, e fu, la Democrazia cristiana, per la quale le preferenze multiple erano simili a reti a strascico che raccoglievano e trascinavano elettori del più vario tipo. Sbagliando in secondo luogo perché quel referendum apriva la strada proprio ad altre più incisive riforme istituzionali. Sbagliando, infine, perché con il suo invito ad andare al mare appariva come il perno della conservazione di un sistema che da più di un decennio lui stesso sosteneva (sempre più vagamente) di volere cambiare.
Questa torsione straordinariamente conservatrice non fu contrastata da nessuno nel suo partito, un’organizzazione che era oramai una palla al piede del segretario, che l’aveva lasciata in mano a ras locali che facevano il bello e il cattivo tempo nei comuni, nelle provincie, nelle regioni, dimostrando una disinvoltura coalizionale senza precedenti (ma con gravi conseguenze sull’immagine del partito). Nessuna sorpresa che la popolarità e il grado di apprezzamento di Craxi siano fino all’inizio degli anni Novanta rimasti di gran lunga più elevati di quelli del Psi. Sia Covatta sia Spini (citato da Scoppola Iacopini) hanno parole dure nei confronti dell’organizzazione. Covatta ritiene che il progetto di tagliare le unghie ai “signori delle tessere” e di ridimensionare il ruolo del partito degli assessori non fu neppure iniziato perché, se ho capito bene, Craxi ritenne “americanate” le proposte di riforma pubblicate, fra l’altro, anche sulle pagine di Mondoperaio (dev’esserci anche qualche mio articolo in materia). Spini sottolinea che la concezione del partito adottata o intrattenuta da Craxi non fu “né fisiologica né feconda perché divideva il partito in tanti potentati, fino appunto, a perderne il controllo” (p. 109). Insomma, il decisionista aveva deciso di librarsi alto lasciando le mani troppo libere a un ceto di opportunisti.
La spiegazione mi pare semplicistica. Si vorrebbe saperne di più. La conseguenza, invece, è chiarissima. Quel partito non era in grado di capire che cosa succedeva nell’elettorato. Quei dirigenti erano troppo preoccupati dalle loro carriere e prospettive di carriera. Non avevano nessuna voglia di interloquire con Craxi (certo, poco disposto a tollerare il dissenso aperto). Con il referendum del 1991 venne la rivelazione che il leader non era più in grado di cogliere e interpretare l’umore dell’elettorato. L’inatteso – ma in buona misura prevedibile – consenso referendario travolse Craxi e con lui il Psi senza che quell’organizzazione feudalizzata riuscisse a opporre resistenza alcuna. Il resto, nel migliore dei casi (ma quale?), è tardiva recriminazione. Per qualcuno dei decisionisti contemporanei potrebbe anche essere una lezione. Un’organizzazione di donne e uomini disposti a fare politica sul territorio serve anche a raccogliere informazioni e a diffondere comunicazioni più e meglio di qualsiasi scarica di tweet.
Vi spiego perché il Pd di Renzi non può essere il Partito della nazione. Parla Gianfranco Pasquino
Intervista raccolta da Edoardo Petto per Formiche.net 30 luglio 2014
Spiazzante e dirompente. Matteo Renzi non conosce ostacoli nell’attingere per le proprie iniziative dal patrimonio culturale progressista o liberal-conservatore. Grazie al suo modo di agire spregiudicato e post-ideologico, il premier è riuscito a neutralizzare la propaganda e le argomentazioni degli avversari di destra e di sinistra.
La centralità di un “Renzi pigliatutto” potrebbe trasformare il PD in un “partito della nazione” capace di prosciugare il bacino di consensi di un centro-destra lacerato? E quali sono i rischi di tale scenario? Formiche.net lo ha chiesto al politologo Gianfranco Pasquino.
Matteo Renzi vuole creare un grande “partito della nazione” perno dell’assetto politico-istituzionale?
Faccio fatica a utilizzare il termine “partito della nazione”, un’invenzione giornalistica italiana. Altrove o in altri contesti temporali si parla di “partito del popolo” per indicare grandi forze politiche interclassiste come la Democrazia cristiana in Italia e la CDU in Germania.
Il premier vuole ricostituire una DC in forme rinnovate?
Se la sua aspirazione è questa, ritengo sia fuori tempo massimo di oltre vent’anni. Altro ragionamento vale se per “partito della nazione” si intende una formazione vasta capace di conquistare spazio in buona parte nella sinistra e in una parte del centro. La sua prospettiva originaria forse era differente. Ma all’indomani del voto europeo lo scenario politico è mutato. E il leader del PD si è adeguato. Vi è tuttavia una divergenza rispetto all’epoca della Democrazia cristiana.
Quale?
La DC utilizzava con saggezza ed elasticità il consenso e l’appoggio dei piccoli partiti laici. Allo stesso modo Renzi dovrebbe capire che forse in Sinistra e Libertà vi sono buone idee, che il Movimento Cinque Stelle è anche portatore di proposte significative, e che Scelta Civica può offrire più di quanto ha dato finora.
Con il PD di Renzi l’Italia rischia di riprodurre la “democrazia bloccata” della prima Repubblica?
Non posso dirlo ora. Lo scenario è legato a una lunga stagione di vittorie elettorali e di governo da parte dello stesso partito. Ma il premier finora ha prevalso soltanto in un voto europeo. Vedremo se e con quale percentuale – peraltro falsata dal premio di maggioranza – riuscirà a farlo nelle prossime tornate politiche.
Giocando di sponda tra destra e sinistra, Renzi potrebbe annacquare le riforme strutturali come sta accadendo nel terreno istituzionale?
Per il percorso di revisione costituzionale e della legge elettorale suggerisco di attendere il termine della “ballata estiva”. Rilevo come il nuovo Senato e il meccanismo di voto giunto all’esame di Palazzo Madama rappresentino una soluzione pasticciata, lontana dalla versione originaria concordata nel Patto del Nazareno. Accordo che sembra essere stato siglato su un pezzo di carta neanche firmato.
E per gli interventi di tipo economico-sociale?
Sinceramente non li ho visti. E faccio fatica a pensare a iniziative in tempi brevi, visto che il Presidente del Consiglio dedica il suo tempo ad altri temi. Vi è un problema di tempo e di intelligenza politica. Tengo a precisare però che la riforma del lavoro dovrebbe essere realizzata tenendo a mente le indicazioni argomentate e persuasive di Pietro Ichino. Una miscela sapiente di proposte liberali e di visione di sinistra orientata alla ricerca del lavoro dignitoso nell’equità.
Cosa devono fare le forze di centro-destra per rilanciare il loro protagonismo e rendere aperta la competizione politico-elettorale?
Nelle democrazie occidentali il governo è tanto migliore quanto più credibilmente viene sfidato da un’opposizione ricca di proposte. Nel nostro paese l’opposizione di centro-destra è profondamente divisa. Una parte sta al governo, mentre la componente maggioritaria è “posseduta” da un imprenditore vecchio nell’età e nelle idee. L’unico marchingegno per risorgere è che Silvio Berlusconi dica “Basta, adesso arrangiatevi voi”.
Elezioni primarie di coalizione potrebbero essere il punto di partenza?
Forse. La legittimazione popolare del capo del centro-destra tramite una competizione aperta rappresenterebbe lo strumento migliore per ricomporre le sue “sparse membra”
Per fare bene niente fretta
Potrei cominciare dicendo che, se la riforma elettorale e la trasformazione del Senato erano impostate correttamente, l’esito elettorale, vale a dire il grande successo del Partito Democratico di Renzi, non cambia nulla. Al contrario, da un lato, potrebbe essere considerato un sostegno dato dai cittadini a quelle riforme, dall’altro, addirittura una loro forte spinta affinché vengano approvate rapidamente. Invece, penso che i cittadini italiani non abbiano votato avendo come motivazione prevalente quelle riforme e che il successo elettorale del PD di Renzi discenda dalla sua campagna elettorale e dalla, giusta, convinzione degli elettori che il Partito Democratico, da poco condotto da Renzi nel Partito del Socialismo Europeo, fosse, per l’appunto, il più europeista dei partiti italiani. Dunque, il partito da premiare contro gli euroscettici, gli anti-Euro e gli eurostupidi.
Coloro che oggi sostengono che le riforme di Renzi, in particolare quella della legge elettorale, debbono essere riscritte perché il quadro politico è cambiato danno ragione a quanti (fra i quali chi scrive) avevano sostenuto che quelle riforme servivano fondamentalmente gli interessi di Berlusconi e dello stesso Renzi. Invece, riforme delle regole (e delle istituzioni) del gioco che servono interessi particolaristici e di corto respiro non vanno mai fatti. Peraltro, non credo neppure che le riforme debbano essere fatte da tutti. Nessun potere di veto va concesso a chi prospera in un sistema politico arrugginito. La via di mezzo (in medio stat virtus) è quella delineata dal grande filosofo politico John Rawls: le riforme vanno formulate dietro un “velo di ignoranza”. Mi affretto ad aggiungere, primo, che in questa espressione non è implicito nessun complimento per gli ignoranti patentati i quali, in materia di regole, sono tanto numerosi quanto inconsapevoli e, secondo, che le simulazioni non strappano il velo d’ignoranza, ma sollevano il polverone della confusione.
Nel Parlamento italiano non sono cambiati i rapporti numerici fra partiti e gruppi. Continuerà, dunque, a essere necessaria una convergenza (non una grande indistinta ammucchiata) fra più gruppi su riforme che promettano la semplificazione dei procedimenti legislativi (riforma del Senato), maggiore incisività del voto degli elettori (anche in questo caso con l’individuazione di una legge semplice, non bizantina), migliore definizione dei livelli di governo. Nei tecnicismi non desidero entrare. Quindi, mi limito ad affermare che nessuna legge elettorale prossima ventura deve basarsi né sulla aspettativa di un grande balzo in avanti del PD alle prossime politiche (pure possibile e, a scanso, di equivoci, anche auspicabile) né sulle necessità del centro-destra né sulle prospettive di coalizioni prossime venture.
Il consenso “europeo” del Partito Democratico lascia intravedere un futuro da partito dominante che, incidentalmente, è, secondo me, l’unico elemento che consenta una limitata comparazione con la Democrazia Cristiana. La riforma elettorale non deve né riflettere questa situazione né prefiggersi di consolidarla. Deve, invece, garantire quella competitività indispensabile affinché l’elettorato senta il desiderio di andare alle urne. Deve, inoltre, contenere disposizioni che incoraggino il centro-destra, se non è ostaggio degli interessi di un leader, a ristrutturarsi. Deve, infine, dare ragionevoli garanzie che si formi un governo operativo che trovi qualche contrappeso alla sua azione.
Ricominciare tutto daccapo? Neanche se il governo procedesse a una revisione approfondita della sua brutta e bizantina proposta elettorale si tornerebbe davvero daccapo. Infatti, nel corso del tempo molti sono riusciti a vederne i difetti e alcuni ne hanno prospettato non disprezzabili rimedi. Riflettere in maniera sistemica sul rapporto fra legge elettorale per la Camera e ruolo del Senato non è necessariamente perdere tempo. D’altronde, l’esito delle elezioni europee significa anche che sia il PD sia il governo hanno guadagnato anche il tempo per consentire al Parlamento un’analisi approfondita delle riforme. Per fare bene non c’è nessun bisogno di fare in fretta e furia.
Pubblicato mercoledì 4 maggio 2014