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Con Verdini un balzo all’indietro

Non credo che si possa dire che i voti non puzzano. Come e dove sono stati conquistati fanno una differenza tanto che qualche volta implicano sanzioni. D’altronde, non tiene più neanche il famosissimo detto pecunia non olet, il denaro non puzza. Infatti, se davvero il denaro non puzzasse non si capirebbe perché le attività di riciclo, di lavaggio che, infatti, in inglese si chiamano money laundering, siano tanto diffuse, fiorenti e lucrative? Questa introduzione soltanto per andare al bersaglio. No, i voti di Verdini non sono come tutti gli altri. Non sono, certamente, gli unici che puzzano e, come altri, sono voti che vengono dal trasformismo: abbandonare lo schieramento nel quale si è stati eletti per andare a lucrare qualcosa nello schieramento di governo. Poi, sarebbe bello se gli elettori fossero in grado almeno ex post facto di dare il loro giudizio sui trasformisti. La legge elettorale Italicum non glielo consentirà in nessun modo. Il fatto che Verdini e i suoi parlamentari dell’Ala abbiano già votato molti provvedimenti del governo Renzi-Boschi non riduce il tasso di trasformismo già ratificato dall’ingresso nella maggioranza di Ala, dimostrato dalla concessione di alcune cariche nelle commissioni ai parlamentari di Ala. Se, poi, davvero Ala e Verdini parteciperanno alla formazione dei Comitati per il SÌ al referendum su riforme costituzionali che il capo del governo considera l’elemento più qualificante della sua azione di governo tanto da “metterci la faccia”e giocarsi la carriera, allora l’ingresso dei verdiniani nella maggioranza governativa non attenderebbe che un piccolo passo: la nomina di un vicesegretario.

Ferme restando le critiche ai cambi di casacca in Parlamento, il problema più grosso causato dalla straordinaria capacità di manovra di Verdini e dall’altrettanto straordinaria disponibilità di Renzi riguarda il future prossimo, più precisamente l’eventuale nascita del Partito della Nazione. Con Alfano e Verdini, forse anche con Casini e altri, il Partito della Nazione si troverebbe inevitabilmente spostato verso il centro dello schieramento politico. Grazie al premio di maggioranza garantito dall’Italicum, che consente di ricompensare tangibilmente con la altrimenti difficile rielezione i verdiniani e gli alfaniani, il Partito della Nazione godrebbe di una ampia maggioranza alla Camera dei deputati. Relegati all’opposizione sarebbero, da un lato, la destra e Salvini, dall’altro, il Movimento Cinque Stelle. Dunque, spostatosi un po’ al centro anche per vincere, il Partito della Nazione si troverebbe inevitabilmente ad occupare quel centro, con due opposizioni non in grado di coalizzarsi, se non in maniera negativa: contro il governo, non per sostituire il governo.

Non voglio in nessun modo equiparare il Partito della Nazione alla Democrazia Cristiana, costretta ad occupare il centro per tenere a bada eventuali rigurgiti di fascismo, ma anche la sfida reale del comunismo. Quello che, invece, merita di essere evidenziato è che il Partito della Nazione metterebbe la parola fine al bipolarismo, peraltro mai gradito da molti settori del ceto politico e dai cerchiobottisti della società civile, tutti intenti a trovare aggettivi derogatori: muscolare, feroce et al. Invece, il bipolarismo (non bipartitismo) è la modalità migliore di funzionamento delle democrazie, non solo contemporanee, quella che, fra l’altro, offre la prospettiva dell’alternanza. Il Partito della Nazione riporterebbe l’Italia indietro di quasi un quarto di secolo, a una politica che i sedicenti riformatori della Nazione e della Costituzione non conoscono, ma rischiano colpevolmente di fare resuscitare. È proprio vero che chi non ricorda la storia è costretto a riviverla.

Pubblicato AGL 4 maggio 2016

La stanza senza bottoni

formiche

Pubblicato in formiche ottobre 2015 pp. 12-13

di Gianfranco Pasquino*

logo formiche

In Italia non c’è mai stato nessun primato della politica. Simpaticamente, il socialista Pietro Nenni affermava “la politique d’abord”. Gli sarebbe piaciuto praticarla, anche con nobili obiettivi. Poi, entrato nella stanza dei bottoni, anzi, appena affacciatosi, dalla soglia, si accorse che di bottoni proprio non se ne vedeva nessuno. Li avevano portati via alcuni partiti. Infatti, in Italia al posto di comando sembravano esserci i partiti che non sono la stessa cosa della politica (qualche volta sono il contrario). Proprio così. Come potremmo altrimenti spiegare l’espressione, davvero calzante, usata per definire essenza e funzionamento del sistema politico italiano: partitocrazia? E l’altra espressione classica che riguardava i parlamentari: trasformismo?

Ecco, il primato, tutto da definire, l’hanno avuto e mantenuto a lungo i partiti. Il fatto è che hanno potuto farlo (come ho scritto nel mio libro Partiti, istituzioni, democrazie (Il Mulino 2014), non perché erano particolarmente forti, radicati, coesi e progettuali. Tutt’altro, e il crollo dell’intero sistema partitico nel 1992-1994 dimostra che erano deboli, epidermici, divisi al loro interno e incapaci di prevedere e progettare alcunché. Apparivano, i partiti, e furono effettivamente dominanti perché, da un lato, avevano creato le istituzioni e vi si erano insediati, appunto nei posti di comando, ma, quelle istituzioni parlamentari accompagnate a un sistema elettorale proporzionale, non obbligarono mai i partiti a diventare organizzazioni davvero strutturate. Certo, non lo fu la Democrazia Cristiana, partito di oligarchie in competizione; non il Partito Socialista, tutto sfilacciato in correnti ideologiche fino all’avvento tardivo di Craxi, accentratore pragmatico e spregiudicato del poco che era rimasto; non il PCI, geograficamente squilibrato, quasi assente in alcune regioni (Veneto e Sicilia). Dall’altro lato, i partiti italiani sembrarono forti perché la società italiana uscita dal fascismo era, con l’eccezione delle associazioni cattoliche, atomizzata. Poi, divenne lottizzata e clientelare e si rivelò corporativa ed egoista, mantenendo ostinatamente e tenacemente, la sua caratteristica più profonda, quella del “familismo amorale“.

Le istituzioni non sono cambiate e non basteranno gli scoordinati e scomposti sforzi di Renzi a dare all’Italia istituzioni moderne, capaci di operare con qualche autonomia e di costringere i partiti a riformarsi e a solidificarsi. Invece, la società è cambiata, vale a dire, fermi restando sia il clientelismo sia il familismo, è diventata popolata da molti individualisti. Sono coloro che credono che la politica è il problema, non la soluzione. Anzi, è l’ostacolo alla realizzazione delle loro potenzialità. Per farsi belli e dimostrarsi generosi affermano di stare lottando per liberare tutta la società. Qualche volta per qualcuno può anche essere vero, ma tutti gli altri dovrebbero sapere (avrebbe dovuto essere loro insegnato) che è la politica a scrivere le regole della convivenza, della competizione, del mutuo soccorso e che la società, quando è vivace e sregolata, è il luogo del bellum omnium contra omnes.

Per troppi, in Italia molto più che altrove, la politica sono i partiti e i parlamentari senza mestiere alcuno. Per troppi, in Italia, i partiti non hanno nulla da offrire se non privilegi, espropri e sprechi di risorse e una non modica dose di corruzione. Hanno in parte ragione. Per molti la politica è associata alla parola disgusto. Di nuovo, hanno spesso ragione. Dove, invece, hanno sicuramente torto è nel credere che, poiché loro non la frequentano, la politica non conti più nulla. Stefano Feltri scrive come se la tecnologia abbia spazzato via tutto e fossero rimasti soltanto gli innovatori di vallate più o meno “siliconate”. Non in Italia. Sicuramente, però, la tecnologia non domina e non governa in nessuna democrazia. Al contrario, dove la politica esiste, vale a dire dove ci sono decisori eletti in competizioni democratiche, le regole le scrivono quei decisori e gli innovatori, a prescindere dalla loro qualità, a quelle regole debbono uniformarsi.

La politica serve a scrivere le regole, a garantire la competizione e a punire chi non osserva le regole. La buona politica non soltanto scrive buone regole, rispettose delle preferenze della maggioranza dei cittadini, i quali, dal canto loro, sono interessati, informati e partecipanti, ma scrive regole applicabili e sanzionabili, con punizioni rapide e chiare per chi non le rispetta. Le democrazie, persino quella in fieri nell’ambito dell’Unione Europea, operano esattamente in questo modo. Nessuno avrebbe voluto essere governato da Steve Jobs e nessuno chiede a Bill Gates di prendere in mano le redini del mondo. Il pur ottimo tecnocrate Mario Monti ha dimostrato che ci vuol altro anche soltanto per tenere in mano le redini del governo di una media potenza quale l’Italia. La verità è che ogni paese e ogni popolo si meritano grosso modo, con qualche limitata eccezione, la politica che ha. Cittadini che ostentano il loro disinteresse, che hanno poche informazioni, spesso, anche a causa del cattivo giornalismo, fuorvianti e manipolate, che credono che la loro non-partecipazione delegittimi i rappresentanti e i governanti non possono che avere una politica che, prima ancora di essere debole, è brutta. Eppure, conta. Contribuisce a peggiorare la vita di tutti: dei populisti, degli indifferenti, degli antipolitici. Politica, sostantivo greco plurale, significa “le cose che succedono nella polis”. Se vi fate solo gli affari vostri, direbbe Pericle in visita in Italia, avrete una politica di serie B. Sempre politica è, ma molto inadeguata, comunque mai assente. Politica per pochi che la volgeranno nel loro interesse, alla quale, però, nessuno, neppure gli innovatori tecnologi più geniali, è riuscito né riuscirà a sfuggire

*Professore Emerito di Scienza Politica, Università di Bologna

Sylos Labini al tempo del centro-sinistra

 

MeC

Da Moneta e Credito vol. 68 n. 270 anno 2015 (pp 173-186) 

Abstract
L’articolo discute la testimonianza del 1962 di Paolo Sylos Labini alla “Commissione sui limiti della competizione” del Parlamento italiano. Sylos Labini richiamava in quell’occasione la sua teoria dell’oligopolio, ma estende anche i suoi rilievi ad un ampio spettro di riforme strutturali necessarie all’Italia del tempo. Il presente articolo spiega il background storico della testimonianza di Sylos Labini, ponendo un’enfasi speciale sulla situazione politica del tempo.

L'”interrogatorio” di Sylos Labini, come viene definito negli atti della Camera dei deputati, ebbe luogo l’8 febbraio 1962 (Camera dei deputati, 1965; ripubblicato in questo numero: Sylos Labini, 2015). Appena una settimana dopo che il congresso della Democrazia Cristiana, tenutosi a Napoli dal 27 al 31 gennaio, aveva dato un sofferto via al centro-sinistra. Quel congresso è passato alla storia anche per le sei ore del discorso con il quale il segretario del partito Aldo Moro riuscì a convincere i delegati, stremandoli, che era venuto il tempo dell’allargamento della maggioranza ai socialisti. Con pazienza e con gradualità, Moro iniziava la strategia che lo avrebbe portato quindici anni dopo a dare vita anche ai governi di solidarietà nazionale con il PCI: altro che ‘democrazia dell’alternanza’!

A preparare la svolta del centro-sinistra aveva provveduto un governo guidato da Amintore Fanfani, un monocolore democristiano (luglio 1960-febbraio 1962), che rimarginava le ferite al sistema politico inferte dallo sciagurato governo Tambroni. La prima importante conseguenza del congresso DC fu un altro governo guidato da Fanfani, un tripartito DC-PSDI-PRI (febbraio 1962-giugno 1963) che godette della disponibilità socialista (allora definita “appoggio esterno”) a votare molti dei disegni di legge presentati. Quanto all’attivissimo Fanfani, come segretario della DC poteva con molte buone ragioni vantarsi di avere portato il partito nel 1958 al suo successo elettorale più consistente, secondo soltanto a quello ottenuto in circostanze eccezionali, oggi diremmo ‘bipolari’, da De Gasperi nel 1948 contro il Fronte Popolare. Fu un successo meritatissimo, conseguito proprio grazie all’attivismo consapevole e mirato di Fanfani, segretario della DC dal 1954 al 1958, che da un lato aveva cercato di rendere il partito più autonomo rispetto ai gruppi e alle associazioni fiancheggiatrici e, d’altro lato, aveva saputo radicare la DC sul territorio, facendone un partito di popolo. Nel 1958 la DC di Fanfani, che nessuno si sognò mai di chiamare ‘partito della nazione’, ma che era un partito concretamente interclassista, incassò un successo elettorale di notevoli dimensioni. Ottenne 12.522.279 voti (il 42,36%), il PCI 6.704.706 (22,68%), il PSI 4.208.111 (14.23%). Andò a votare addirittura il 93,8% degli aventi diritto.

Gli italiani credevano ancora nella politica e i partiti cercavano ancora non soltanto di convincerli a votare per loro, ma anche di ‘educarli’. Il miracolo economico, già in corso, era anche il prodotto di una politica che aveva saputo porsi al posto di comando. Per convinzione, per temperamento, per stile, in quel tempo Fanfani fu il leader democristiano meglio capace di rappresentare una politica che voleva prendere decisioni importanti, come fu l’avvio del centro-sinistra, e sapeva farlo anche sfidando la contrarietà di settori non piccoli né marginali del suo blocco sociale.

La collaborazione fra democristiani e socialisti (unitamente ai socialdemocratici di Saragat e ai repubblicani di La Malfa) fu sancita con la presenza di ministri socialisti nel primo centro-sinistra organico guidato da Moro (dicembre 1963-luglio 1964). Tre governi successivi di centro-sinistra fino al giugno 1968 furono ugualmente affidati alla guida di Moro, che antepose costantemente l’unitarietà della DC a qualsiasi riforma di più o meno ampio respiro. Di quei governi fece regolarmente parte anche il PSI, fortemente indebolito dalla scissione del PSIUP avvenuta nel gennaio 1964, alla quale non pose rimedio numerico né politico la frettolosa unificazione con il PSDI nel 1966-1969. I sistemi elettorali proporzionali non premiano necessariamente le fusioni fra partiti, ma soprattutto non pongono nessun ostacolo alle scissioni come quelle che, dal 1947 (PSDI) al 1964 (PSIUP) e al 1991 (Rifondazione Comunista), hanno sistematicamente colpito i partiti in senso lato riformisti.

Il cambio di leadership da Fanfani a Moro segnalò quanto grandi erano le differenze fra i due ‘cavalli di razza’ della DC. Per visione del mondo e per concezione politica, Moro era paziente, riflessivo, talvolta lentissimo, in maniera tanto esasperante quanto deliberata. Nella sua opera di governo, Moro sostituì il decisionismo fanfaniano con la mediazione. I governi di Moro non si assunsero mai la responsabilità di scelte definitive prima che tutte le parti si fossero espresse, che tutte avessero fatto pervenire le loro preferenze, che si fossero raggiunti accordi della più ampia convergenza possibile. Soltanto allora il governo ratificava quanto era emerso dal lungo procedimento dipanatosi nella società. Più o meno efficace e raccomandabile, questa modalità di governo avrebbe potuto condurre a forme di concertazione quasi al limite del neo-corporativismo, praticato soprattutto nei paesi scandinavi (e poi anche in Austria e Germania), ma che nell’Italia degli anni Sessanta era sostanzialmente sconosciuto.

Certamente, la complessità e la varietà di interessi collegati con la Democrazia Cristiana esigevano consultazioni e accordi. Nessun dirigente democristiano, meno che mai se si trovava in cariche di governo, avrebbe mai pensato a procedure decisionali basate sulla disintermediazione, vale a dire procedure che non si confrontassero con i corpi intermedi, con le loro preferenze e con i loro interessi. Anche per queste ragioni, il decisionismo era molto al di là da venire, né le ricette indicate da Sylos Labini sembravano suggerirne la necessità.

A cinquant’anni di distanza – che probabilmente è la prospettiva giusta – visto, rivisitato e valutato dopo l’espletamento di altre formule di governo, tutte incapaci persino di immaginarlo, il riformismo del centrosinistra continua ad apparire come un reale periodo di esperimenti, di interventi e anche di successi in termini di effettive riforme. È innegabile che, pur vedendone e cogliendone tutte le manchevolezze, senza quel riformismo l’Italia starebbe molto peggio. Per capire le ragioni di tali manchevolezze, ma anche i contributi positivi alla storia dell’Italia, il riformismo del centro-sinistra va collocato in un quadro più ampio dal quale trasse alimento e nel quale risulta fecondo paragonarlo con il riformismo di altri paesi. Nella consapevolezza di quanto sia difficile tenere insieme tutti i fili, ma anche di quanto sia importante cercare di farlo, suggerendo le connessioni e gli spunti per ulteriori riflessioni, affronterò il tema partendo da lontano.

Ai tempi di Moro e Fanfani, di Nenni, Lombardi, Giolitti e La Malfa, di globalizzazione come fenomeno che incide sulla discrezionalità delle decisioni nazionali, anzi, che le detta, non si poteva proprio parlare. Neppure il processo di integrazione europea, sul quale esprimersi allora a favore dell’unificazione politica significava avere accettato l’utopia tenacemente perseguita da Altiero Spinelli, sembrava porre costrizioni particolari all’attività di governo. Per storia e per collegamento con gli altri partiti democristiani europei – in particolare con quello tedesco, molto solido e di governo, e con quello francese, che però sarebbe praticamente scomparso poco dopo l’inaugurazione della Quinta Repubblica (1958) -, i democristiani italiani, espressione di una classe politica assolutamente provinciale tranne rarissime eccezioni (fra le quali, per fortuna di tutti gli italiani, va annoverato Alcide De Gasperi), furono fin dall’inizio europeisti, ma molto poco inclini a profondere le loro energie politiche a livello europeo. Dal canto loro, per tradizione storica e per convinzione, europeisti convinti furono i repubblicani di Ugo La Malfa, mentre i socialisti, originariamente tiepidi e non consapevoli della rilevanza e dell’influenza del processo di integrazione europea, non riuscirono, se così si può dire, a sfuggire al richiamo dell’Europa e dei molti partiti socialisti confratelli, a cominciare dai belgi e dagli olandesi, seguiti dai tedeschi e dagli austriaci, che quell’Europa unita la volevano costruire davvero e presto.

In quella fase, l’Europa fu uno soltanto, e neanche forse il più importante, dei fattori del più ampio quadro internazionale la cui evoluzione influenzò e, oserei dire, almeno in parte favorì (o meglio, non ostacolò) l’avvento del centro-sinistra. Scherzando, ma non troppo, credo che l’analisi di quei fattori debba cominciare con il ‘fattore K’. Non ‘K’ come Kommunismus (anche se del comunismo si deve parlare), ma con riferimento, nell’ordine con il quale giunsero alla guida dei rispettivi paesi, a Kruscev e a Kennedy. Non so se, tecnicamente, l’azione intrapresa da Kruscev sul piano dei rapporti con gli Stati Uniti possa già essere definita détente. Certamente, fu l’inizio del disgelo della Guerra Fredda, anche se nessuno può e deve dimenticare che nell’agosto del 1961 venne costruito il Muro di Berlino e nell’ottobre del 1962 ci furono i tredici drammatici giorni della crisi dei missili a Cuba, che portò il mondo sull’orlo della catastrofe nucleare. La destalinizzazione iniziata da Kruscev e qualche sua apertura domestica al dissenso, ad esempio degli scrittori sovietici (nel 1962 Solženicyn pubblicò un testo fondamentale di denuncia sui lager, Una giornata di Ivan Denisovic), sembrarono promettenti.

La defenestrazione di Kruscev nell’ottobre 1964 non soltanto pose la pietra tombale su qualsiasi trasformazione politica liberalizzante dell’URSS, aprendo la strada all’esiziale era di Leonid Brežnev, ma per quel che conta per il discorso sul centro-sinistra, incise negativamente anche sul Partito Comunista Italiano. Toccò al (comunque) filo-sovietico Giorgio Amendola cercare di attutire il colpo. In risposta a una lettera di Bobbio (lo scambio si trova sulle pagine del settimanale Rinascita del 28 novembre 1964) che chiedeva ai comunisti di trarre le conseguenze da quello che era un avvenimento pesantissimo, che segnalava l’irriformabilità del comunismo sovietico, senza porsi il vero problema, cioè sganciare il PCI dall’URSS, Amendola faceva una sua personale fuga in avanti controproponendo l’impossibile: la costruzione con il PSI di un Partito Unico dei Lavoratori. Dati i rapporti di forza fra i due partiti, l’esito – era sufficiente ricordare l’esperienza del Fronte Popolare del 1948 – non sarebbe stato propriamente favorevole né al PSI né alla trasformazione del PCI. Ricca di ambiguità, la proposta di Amendola sembrò la presa d’atto da parte del PCI che il suo ruolo d’opposizione al centro-sinistra rischiava di rimanere sostanzialmente sterile. Subito reputata insufficiente da Bobbio, quella proposta non ebbe nessun seguito e scomparve persino dal successivo durissimo confronto interno fra Amendola e Ingrao, candidati alla successione a Togliatti. Entrambi, poi, fecero un passo indietro (o di fianco) per favorire una soluzione che non lacerasse il partito, soluzione rappresentata dall’elezione di Luigi Longo. Nulla di tutto questo favorì politicamente il centro-sinistra né, tantomeno, ne trassero profitto politico ed elettorale i socialisti.

Trovandosi l’Italia in quella che veniva definita “la sfera d’influenza” degli Stati Uniti, per capire il quadro nel quale si introduceva l’esperienza del centro-sinistra, è importante tenere conto anche dell’altra ‘K’, quella del giovane presidente democratico John F. Kennedy. Non so quali fossero i canali di contatto socialisti con gli USA e la loro ambasciata a Roma; sappiamo, però, che il Segretario di Stato uscente John Foster Dulles, e il capo della CIA, suo fratello Allen Dulles, non erano precisamente dei progressisti. Sappiamo anche che la maggioranza dei policy-makers americani a livello burocratico, in particolare nel Dipartimento di Stato, riteneva che i rapporti del PSI con il PCI non erano ancora del tutto rassicuranti, ad esempio dal punto di vista dell’eventuale accesso dei socialisti a dati riservati, disponibili agli stati membri della NATO. Anche senza giungere a fare dei socialisti il cavallo di Troia del PCI, le preoccupazioni e le remore degli americani erano molte e serie. Ci volle una missione a Roma nel febbraio 1962 di uno dei più autorevoli consiglieri di Kennedy, il già famoso storico Arthur M. Schlesinger Jr., per fugare i dubbi (“Washington was pleased at the prospect of a forward movement in Italian social policy but wondered about the implications of the apertura for foreign affairs”1 ), per piegare le fortissime resistenze del Dipartimento di Stato e per dare disco verde al centro-sinistra, come lui stesso racconta nel suo splendido resoconto della troppo breve stagione di Kennedy alla Casa Bianca (Schlesinger, 1965, pp. 879-881).

Schlesinger merita una riflessione leggermente più approfondita, proprio per capire meglio il quadro internazionale, politico e intellettuale in cui si situò il centro-sinistra. Nel suo resoconto, lo storico americano inserisce una notazione concernente il cattolicesimo “progressista” di John Kennedy e la coincidenza della sua presidenza con il pontificato di Giovanni XXIII. Nel contesto di sostegno al centro-sinistra, alcuni hanno voluto inserire anche la presenza a San Pietro di Giovanni XXIII, qualche sua dichiarazione, in particolare la sua distinzione fra il comunismo come errore condannabile e i comunisti, e l’annuncio e l’apertura del Concilio Vaticano II. Tutti questi elementi contribuirono a rafforzare le associazioni e i movimenti cattolici che desideravano una svolta in senso progressista dei governi imperniati sulla Democrazia Cristiana. Senza andare troppo in là nei tempi e con le ipotesi, alcuni di questi gruppi e di queste associazioni, delusi dalla parabola del centro-sinistra, probabilmente insoddisfatti dal suo rendimento ma vogliosi di svolgere un ruolo più rilevante e di spingere per altri, più incisivi, cambiamenti, sarebbero poi diventati, dieci anni dopo, oggetto dell’offerta berlingueriana del compromesso storico.

Concludendo con lo Schlesinger storico, la sua fama in quanto studioso, oltre che da una intensa produttività, derivava da una trilogia dedicata al grande presidente progressista Franklin Delano Roosevelt e dalla sua visione coerentemente liberal, che proprio durante la presidenza di Kennedy tradusse in un agile libretto The Politics of Hope (Schlesinger, 1962). In quegli anni, in alcuni ambienti della sinistra democratica europea si fece strada l’idea che le politiche progressiste di effettivo cambiamento sarebbero state favorite dalla presenza alla Casa Bianca di un presidente che, a sua volta, fosse capace di lanciare un’ondata di politiche progressiste che avrebbe attraversato l’Atlantico. Kennedy poteva essere quel presidente, ma la sua presidenza fu tragicamente spezzata dopo troppo poco tempo, cosicché chi voleva trovare l’alimento riformatore adeguato in Europa doveva guardare ad altre esperienze.

È probabile che alcuni, probabilmente pochi, intellettuali socialisti fossero al corrente della leggendaria epopea riformatrice dei socialdemocratici svedesi, ma certamente nessuno credette di poterne trarre insegnamenti applicabili nel troppo diverso contesto italiano. In qualche misura invece, anche se comunque molto differenti erano le condizioni di fondo, qualche lezione poteva venire ai socialisti italiani dai laburisti inglesi. Almeno questa possibilità è discussa e, con qualche forzatura, argomentata da Ilaria Favretto (2003). (Non riesco a resistere alla tentazione di sottolineare, alzando le sopracciglia, che oggi vi è qualcuno che intende su basi fragilissime, al limite dell’evanescenza, ricorrere al paragone, se non fra il Partito Democratico e il New Labour, quantomeno fra Matteo Renzi e Tony Blair. Ritengo questo paragone del tutto improprio e privo di sostanza storica e politica.)

Tuttavia, è innegabile che i mutamenti generazionali contino. Al proposito, merita di essere ricordata la famosa frase del discorso inaugurale del presidente Kennedy, che annunciava ai suoi fellow Americans che una nuova generazione, nata nel secolo XX, era giunta ai posti di comando. Una ragione di più per avere speranza e attendersi cambiamenti. Tuttavia, la non ancora vecchia Europa non era stata e non stava a guardare. In Gran Bretagna, subito dopo la vittoria nella Seconda Guerra Mondiale, gli inglesi affidarono la ricostruzione a un governo laburista guidato dall’ultrasessantenne Clement Attlee (di estrazione operaia) e al suo partito. A dimostrazione che altre qualità possono contare anche più della giovinezza, il quinquennio riformatore di Attlee e dei suoi consiglieri innovatori segnò positivamente il corso della politica, dell’economia, della società nel Regno Unito fino all’avvento di Margaret Thatcher. ‘Welfare più keynesismo’ fu una formula di gran lunga più vincente della leniniana ‘Soviet più elettrificazione’.

Nel cuore dell’Europa, a cavallo fra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta, si produsse un avvenimento di decisiva importanza, che cambiò la storia politica della Germania: Bad Godesberg. In un congresso straordinario, tenuto in quella cittadina termale dal 13 al 15 novembre 1959, la SPD ripudiò l’ideologia marxista e dichiarò la sua piena adesione ai principi liberal-democratici e all’economia di mercato. Bloccati per dieci lunghi anni in una condizione di opposizione intransigente, ma senza speranze di andare al governo, i socialdemocratici tedeschi, più per maturata convinzione che per subdolo opportunismo, produssero quella che certamente merita di essere definita una “svolta epocale” che, per l’appunto, trasformò quell’epoca. A livello locale i socialdemocratici tedeschi già governavano. Nel 1957 Willy Brandt, anche lui un rappresentante della generazione nata nel secolo XX (il cancelliere democristiano Konrad Adenauer (1949-1964) era nato addirittura nel 1876), era stato eletto borgomastro di Berlino Ovest. Brandt fu uno dei fautori della svolta di Bad Godesberg. In seguito, fu lui a offrire a Kennedy l’occasione di dichiarare il 26 giugno 1963 di fronte al Muro di Berlino: “Ich bin ein Berliner”. Fu lui a diventare Ministro degli esteri (come Nenni in Italia) nella prima Grande Coalizione tedesca (1966-1969), un centro-sinistra a due sostenuto da una comoda maggioranza di seggi. Infine, fu Brandt a diventare il primo cancelliere socialdemocratico tedesco (1969-1974) del dopoguerra.

Questo breve approfondimento è importante per due ragioni. La prima è che riguarda un partito, la SPD, che dimostrò notevoli capacità riformatrici. La seconda è che l’atteggiamento dei socialisti italiani verso la SPD spesso fu e rimase ambiguo, tanto che per criticare Craxi, in corsa a metà anni Settanta per diventare segretario del PSI, lo si definiva “il tedesco”.
Parecchi anni dopo, da più parti, e non soltanto nella sinistra italiana, a partire dai socialisti, emerse l’invito, anche con qualche tono provocatorio, ai comunisti di “andare a Bad Godesberg”, vale a dire di procedere a una revisione profonda, meglio all’abbandono, di un’ideologia e di una visione del mondo che erano provatamente fallite. Purtroppo, da un lato le riforme del centro-sinistra non furono considerate sufficientemente incisive (anche se sicuramente cambiarono l’Italia più di qualsiasi altra stagione); dall’altro, i socialisti e i mass media non riuscirono a esercitare sufficiente pressione sul mondo comunista, sui quadri intermedi del PCI e sugli intellettuali di riferimento, più che sulla leadership del partito.
Pur crescendo elettoralmente, i comunisti italiani restarono politicamente poco rilevanti. Alla fine, non sarebbero mai arrivati a Bad Godesberg ma, con più di trent’anni di ritardo, nel gennaio-febbraio 1991, a Rimini. Nella gaudente cittadina balneare romagnola, molti scoprirono che non esisteva nessuna terza via fra il comunismo realizzato e crollato e le socialdemocrazie da loro osteggiate. “La dritta via”, che non avevano saputo neppure cercare, era definitivamente “smarrita”. Quello che un grande partito e i suoi molti intellettuali avrebbero potuto fare consisteva in una riflessione ad ampio raggio sulle modalità con le quali procedere a un adattamento delle esperienze socialdemocratiche alla situazione italiana. Tutti mancarono al compito e all’appello.

La distanza che i comunisti italiani mantenevano allora dalle socialdemocrazie, e continuarono a preservare e a sottolineare per fin troppo tempo, era giustificata essenzialmente con una svalutazione di quel riformismo che, secondo loro, non cambiava i rapporti di potere (su questo punto i comunisti sbagliavano alla grande, così come sottovalutarono l’incidenza sociale e culturale della scuola media unica), non mutava la struttura di classe, non aveva e non avrebbe dato vita a una società nuova. In sostanza, ma non solo per i comunisti, il riformismo socialdemocratico finiva per essere più o meno consapevolmente il migliore degli strumenti per puntellare il capitalismo, addirittura rafforzandolo. L’alternativa fra riforme e rivoluzione, un topos classico dello scontro politico e culturale nella sinistra, in particolare nella storica socialdemocrazia tedesca, poi utilizzata da Lenin per spaccare i partiti socialisti europei, non era affatto scomparsa dallo scenario italiano. Antonio Giolitti vi dedicò un piccolo importante libro, tempestivamente pubblicato da Einaudi nel 1957: Riforme e rivoluzione. Ma i ‘rivoluzionari’ pullulavano e diedero vita a “Quaderni” più o meno provinciali, di colore preferibilmente rosso, che sbeffeggiavano i riformisti. Non è dato sapere se quei quaderni figurassero fra le letture della casalinga di Voghera. Sembra più probabile che a Voghera, oltre alle casalinghe, vi fossero altri, uomini e donne, intenti a lavorare per un sano riformismo di stampo socialista, anche se molte pulsioni massimaliste rimasero anche nei quadri del PSI.

Peraltro, la tensione fra riforme che migliorano il funzionamento del sistema politico, economico e sociale e “riforme di struttura”, l’espressione preferita da Riccardo Lombardi, aveva un suo fondamento. Riformare la struttura significava incidere anche sulla distribuzione del potere in politica, in economia, nella società. Era anche possibile, forse auspicabile, che le riforme di struttura fossero irreversibili. Dieci anni dopo il segretario socialista Francesco De Martino avrebbe indicato gli “equilibri più avanzati” come l’obiettivo da perseguire, non più in coalizione con la DC. Dal canto loro, i ‘rivoluzionari’, che non furono gli unici cattivi maestri del Sessantotto, aderivano allo slogan che “lo Stato si abbatte e non si cambia”. Al contrario, l’impegno dei socialisti nel centrosinistra consistette esattamente nel tentativo di cambiare lo Stato.

Tuttavia, l’espressione utilizzata da Pietro Nenni per valorizzare l’ingresso dei socialisti al governo: “entrare nella stanza dei bottoni”, segnalava che il vecchio leader, ma anche non pochi compagni, avevano una concezione inadeguata dello Stato capitalista e delle modalità con le quali lo si sarebbe dovuto governare e potuto trasformare. Nenni si era ingenuamente posto il problema del luogo del riformismo, della plancia di comando, forse pensando a uno Stato semplificato, come quello giolittiano e quello fascista. Non si era posto il problema della strumentazione indispensabile al riformismo in una situazione diventata molto più complicata. Chi ebbe l’acuta consapevolezza della indispensabilità di strumenti diversi e nuovi, sia per formulare sia per attuare la programmazione, che era il cuore pulsante dell’opera riformista, fu Ugo La Malfa, per il quale bisognava produrre cambiamenti enormi nei rapporti fra lo Stato centrale e le autonomie locali (alla fine del decennio, proprio perché accettò il regionalismo, La Malfa volle un impegno ad abolire le province, che è quanto, a regionalismo appassito, è stato tardivamente e parzialmente fatto a cavallo fra il 2014 e il 2015) e soprattutto, nella struttura, nella preparazione professionale, nell’adattabilità della burocrazia nazionale. Quanto alla Democrazia Cristiana, come ha acutamente fatto notare Piero Craveri (1995), persino la vocazione di riformatore di Fanfani “prescindeva da una qualsivoglia visione meditata di quale dovesse essere la forma e il ruolo dello Stato” (p. 109). Per i socialisti, la programmazione era tutto: strumento che, nelle parole di Riccardo Lombardi, doveva servire a rafforzare “la funzione dirigistica dello Stato”, e obiettivo da perseguire per cambiare i rapporti di forza fra lo Stato e le concentrazioni monopolistiche e corporative” (p. 104).

Anche se ancora poco noto, il riformismo scandinavo si era fondato su un sapiente uso dello Stato e dei suoi strumenti. In questo modo, come parecchi anni dopo ebbe a dire il sociologo politico Esping-Andersen con il titolo di un importante libro (1985), la politica si contrapponeva al mercato e in Svezia, Norvegia, Danimarca, vi era effettivamente riuscita, non distruggendolo, ma regolamentandolo. Nel contesto degli altri paesi europei, con varia intensità e penetrazione, il keynesismo costituiva la prospettiva economica più diffusa. Il pensiero di von Mises, Hayek e, più tardi, Milton Friedman non era ancora stato recepito, mentre il liberismo di Einaudi era molto temperato rispetto alle posizioni di quegli studiosi, e comunque, in Italia, nobile ma minoritario.

Dal canto suo, Sylos Labini non si considerava un keynesiano. I suoi autori di riferimento erano i classici, a cominciare da Adam Smith. Come risulta in maniera chiarissima dalla sua deposizione, non aveva allora, e non ebbe in seguito, nessuna inclinazione ad accettare una sola visione dell’economia. La citazione di Samuelson riportata più avanti è tanto efficace poiché coglie la molteplicità di componenti del pensiero di Sylos Labini. In maniera non acritica, ma pragmatica, Sylos Labini crede in uno Stato regolatore e nella sua capacità, attraverso le imprese pubbliche, di orientare l’economia a fini di crescita collettiva, di innovazione anche tecnologica, di produzione di profitti, di redistribuzione di risorse. In quella fase, la sinistra comunista non cessava di sostenere che lo Stato è di classe, ma al tempo stesso affermava, alquanto paradossalmente, che “pubblico è bello”. Riteneva, quindi, che le nazionalizzazioni, nella misura in cui toglievano potere ai capitalisti e ai grandi gruppi privati, fossero un fenomeno positivo sulla strada che conduceva al socialismo. Non imprigionato da camicie di forza ideologiche, nella sua testimonianza Sylos Labini mette più volte in evidenza le condizioni specifiche alle quali il controllo pubblico di certe attività può essere positivo per l’erogazione di servizi, per l’innovazione, per i suoi effetti collaterali su altri settori dell’economia.

Oggi, pur se i tempi del liberismo senza regole e senza freni sembrano quasi tramontati (ma non del tutto fra i discendenti italiani dei sedicenti “quattro gatti”, che del liberalismo affermano una strana concezione che non si cura dei conflitti di interesse e delle regole della competizione, non soltanto economica), è interessante leggere le considerazioni di Sylos Labini ispirate (uso le parole di Paul Samuelson pronunciate in memoriam) da “Schumpeterian innovation, Keynesian brilliance, Ricardian rigor, and Smithian realism”.2 Con qualche esitazione, è possibile sostenere che i quattro cardini del pensiero di Sylos Labini fossero più il prodotto della sua formazione e della sua cultura che un achievement della cultura economica e degli economisti della sua generazione. Quello che più conta per inquadrare la testimonianza di Sylos Labini in quei tempi è che, da un lato, il keynesismo era vivo e vitale, e dall’altro non era interpretato rigidamente e non si presentava come il pensiero unico (sorte o, piuttosto, successo che sarebbe arriso al liberismo e al monetarismo una ventina d’anni dopo).

Politique d’abord rappresentò la versione italiana, formulata da Pietro Nenni prima di Mao Tse-tung, della ‘politica al posto di comando’. La “stanza dei bottoni” doveva essere il luogo nel quale quella politica avrebbe dato il meglio di sé. I partiti, come aveva teorizzato Lelio Basso, sarebbero stati lo strumento principe della politica e della democrazia italiana. Sullo sfondo, dimenticati persino nella testimonianza di Sylos Labini, tutt’altro che disattento al ‘sociale’ (infatti, nel 1974 pubblicherà poi un libro importante e di successo sulla struttura e sulla dinamica delle classi sociali), stanno i sindacati e gli industriali. Il riformismo scandinavo si era alimentato anche della capacità del partito socialdemocratico di costruire rapporti intensi con i sindacati e con le associazioni industriali. In quella fase del centro-sinistra, da un lato, la Confindustria si schierò risolutamente contro il governo, appoggiando i liberali che, infatti, raddoppiarono i loro voti nelle elezioni del 1963; dall’altro, la CGIL a maggioranza comunista non era disponibile ad accordi di ampio respiro con un governo nel quale i democristiani erano la componente più importante e che era, naturalmente, interessato prioritariamente a mantenere uno stretto collegamento con la CISL. Allora, erano quasi del tutto assenti le condizioni essenziali del modello neo-corporativista (come brillantemente rilevato nel libro comparato curato dal grande sociologo inglese Goldthorpe, 1984).

Certamente, però, “l’alternativa di classe” che i socialisti volevano creare “non si poteva fare senza gli strumenti propri dell’azione di classe, la mobilitazione di massa e la direzione dell’azione rivendicativa dei sindacati, e queste due chiavi di volta erano sempre più nelle mani dei comunisti” (Craveri, 1995, p. 104). Quei comunisti, da un lato, erano già troppo forti numericamente per potere essere condizionati dai socialisti; dall’altro, non avevano sviluppato una reale cultura riformista. In assenza di quella cultura, nessun patto sociale era accettabile. Nessuna politica dei redditi, vanamente suggerita da Ugo La Malfa, era praticabile. Nessuna programmazione poteva, di conseguenza, avere successo producendo quanto l’alta congiuntura economica consentiva: piena occupazione e redistribuzione del reddito.

In seguito si sarebbe faticosamente pervenuti alla concertazione, oggi fastidiosamente ripudiata in nome della disintermediazione, ma le tensioni a sinistra, non soltanto fra PSI e PCI ma anche all’interno dei sindacati, le battaglie correntizie nella DC, la frammentazione della società italiana e il suo corporativismo avrebbero impedito qualsiasi tentativo di riforme organiche e sostenute. È un’altra storia che, però, vista nel quadro di fondo disegnato dal centro-sinistra – contesto, cultura, ostacoli e opportunità, alcune delle quali tradotte in riforme durature, in particolare nell’istruzione e nei diritti – suggerisce che dal centro-sinistra, non soltanto dai suoi errori e dalle sue inadeguatezze, è ancora possibile imparare molto.

Non è vero che la maggior parte del tempo la maggior parte dei governi si limita alla manutenzione e cerca di fare fronte all’emergenza. È vero, però, che il riformismo è una pianta rara, che appare quando il clima è favorevole, ma che deve anche essere coltivata da giardinieri preparati, capaci, ostinati, pazienti e lungimiranti. Non c’è dubbio che Sylos Labini fu uno di loro. Non furono invece sufficienti gli uomini politici di quel tempo che seppero dimostrarsi all’altezza della sfida culturale, economica, sociale.

1″Washington era lieta della prospettiva di uno sviluppo progressivo delle politiche sociali in Italia, ma si interrogava sulle implicazioni dell’apertura per la politica estera”.
2 “Innovazione Schumpeteriana, genialità Keynesiana, rigore Ricardiano e realismo Smithiano”.

BIBLIOGRAFIA

CAMERA DEI DEPUTATI (1965), “Resoconti stenografici degli interrogatori conoscitivi (7 febbraio 1962-16 gennaio 1963)”, Atti della Commissione parlamentare di inchiesta sui limiti posti alla concorrenza nel campo economico, doc. XVIII, n. 1, vol. II, Servizio studi legislazione e inchieste parlamentari, Camera dei deputati, Roma.
CRAVERI P. (1995), La Repubblica dal 1958 al 1992, UTET, Torino.
ESPING-ANDERSEN G. (1985), Politics against markets. The socialdemocratic road to power, Princeton University Press, Princeton.
FAVRETTO I. (2003), Alle radici della svolta autonomista. PSI e Labour Party, due vicende parallele (1956-1970), Carocci, Roma.
GIOLITTI A. (1957), Riforme e rivoluzione, Einaudi, Torino.
GOLDTHORPE J.H. (a cura di) (1984), Order and conflict in contemporary capitalism, Clarendon Press, Oxford; trad. it. (1989), Ordine e conflitto nel capitalismo moderno, Il Mulino, Bologna.
SCHLESINGER A.M. (1962), The politics of hope, The Riverside Press, Boston. — (1965), A Thousand Days. John F. Kennedy in the White House, Houghton Mifflin Co., Boston.
SYLOS LABINI P. (1974), Saggio sulle classi sociali, Laterza, Roma-Bari. — (2015), “Interrogatorio del prof. Sylos Labini”, Moneta e Credito, vol. 68 n. 270, pp. 219-269.

Perché Renzi dopo le Regionali è (forse) più debole.

formiche

Intervista raccolta da Edoardo Petti per Formiche.net

Parla Gianfranco Pasquino.
Il politologo ravvisa nell’esito del voto regionale la sconfitta della “campagna faziosa” del premier. Parla di Cinque Stelle con il “vento in poppa” e ridimensiona le ambizioni di Salvini.

Riconferme, sorprese, vittorie sul filo di lana. I risultati delle elezioni regionali tratteggiano un panorama politico in fermento.

Per capirne le linee di sviluppo Formiche.net ha interpellato Gianfranco Pasquino, professore di Scienza politica all’Università di Bologna.

Dopo il voto, il governo è più forte o più debole?

Il governo tira avanti. Non è particolarmente forte, ma non è fragile poiché può contare su una maggioranza parlamentare. Chi si è indebolito – e giustamente – è Matteo Renzi. Protagonista di una brutta campagna elettorale, è stato molto aggressivo verso le minoranze interne rivelandosi incapace di allargare le adesioni al Partito democratico.

La “rottamazione” promossa dal premier si è fermata a livello nazionale senza sfondare in periferia?

Sì. La candidata governatrice più vicina al leader del Pd – Alessandra Moretti – ha perso nettamente in Veneto. Le figure che hanno vinto alla grande – Michele Emiliano in Puglia ed Enrico Rossi in Toscana – sono tutto fuorché renziani. L’aspirante presidente della Liguria Raffaella Paita è una renziana della terza e quarta ora. La neo-governatrice dell’Umbria Catiuscia Marini non è legata al Presidente del Consiglio, e ha prevalso pur rischiando moltissimo. Vi è stato pertanto un effetto Renzi. Ma al contrario, nel senso di togliere consensi al Nazareno.

Il “partito pigliatutto” o della Nazione non si è materializzato. Il Pd è tornato ai voti della segreteria di Pier Luigi Bersani?

Il “Partito della Nazione” è un’invenzione di cui l’entourage del premier si è appropriata. Tuttavia, per renderla convincente non si deve rottamare tutto il vecchio che esiste nel Partito democratico. Perché molte volte “vecchio” è eguale a “capace e esperto”. E poi è necessario lanciare un messaggio con respiro nazionale, non fazioso e respingente come ha fatto Renzi.

La “sentenza” della Commissione Antimafia presieduta da Rosy Bindi può aver giovato a Vincenzo De Luca in Campania?

No. Il primo cittadino di Salerno ha vinto perché è molto radicato nel territorio, anche grazie a reti di consenso clientelare. Verso di lui si è registrata la convergenza di Ciriaco De Mita. Lo scarto di voti rispetto al candidato del centro-destra Stefano Caldoro è prodotto esattamente dalle migliaia di consensi che l’ex leader della Democrazia cristiana riesce a muovere, grazie a una storia politica lunga, profonda e di successo.

Il Movimento Cinque Stelle si conferma seconda forza politica italiana. Può gongolare in vista di un ballottaggio per il governo con le nuove regole elettorali?

La formazione penta-stellata ha scelto candidati radicati nelle diverse regioni. Ha condotto una campagna efficace raccogliendo il malessere e l’insoddisfazione popolare verso il sistema politico. E lo ha fatto senza la visibilità mediatica di Beppe Grillo. È chiamata però a risolvere un problema.

Quale?

Trovare un buon candidato premier nell’eventualità di una sfida per Palazzo Chigi. Ruolo che non potrà essere ricoperto da Grillo né da Gianroberto Casaleggio. Non so se i giovani parlamentari che guidano il M5S nelle Camere potranno esprimere tale leadership.

Altro risultato lusinghiero è quello della Lega. Ma il governatore del Veneto Luca Zaia non ha il profilo protestatario di Matteo Salvini.

Zaia presenta il vantaggio di essere una persona nota e capace senza coltivare posizioni estremiste. Per questa ragione ha saputo costruire una robusta base di consenso nel centro-destra, compreso l’elettorato di Forza Italia. Ma l’immagine di Salvini conta, come rivela la sua efficacia nelle molteplici apparizioni televisive. Certo, la capacità di governo è altra cosa. Se fosse lui il candidato premier dell’area conservatrice i cittadini penserebbero quattro-cinque volte prima di votarlo.

Sommando le adesioni di M5S e Carroccio emerge una massiccia tendenza ostile all’Ue e all’euro?

È vero. Ma non sono così convinto che tutti gli elettori di Cinque Stelle e Lega vogliano uscire dall’Unione Europea o dall’area della valuta comune. I piccoli e medi imprenditori del Nord – parte rilevante del bacino di consensi delle due formazioni – sanno bene che la loro ricchezza e capacità espansiva sono legati all’appartenenza all’Ue e all’Euro-zona. Fuori delle quali incontrerebbero serie difficoltà. Pensiamo al costo che dovrebbero affrontare per cambiare un’eventuale lira italiana nel trasferimento di attività produttive in Romania o negli scambi commerciali con le aziende tedesche.

La vittoria di Giovanni Toti in Liguria segna la rinascita di Forza Italia, o è merito dell’affermazione del Carroccio?

L’elemento Lega si è rivelato decisivo nel caso Liguria. Regione dalla composizione demografica e sociale eterogenea, simile per molti versi a quella della Florida. Non a caso Stato chiave e storicamente incerto nelle campagne elettorali Usa. Ricordiamo che il Pd ligure ha vissuto una spaccatura, e con il 10 per cento conquistato dalla sinistra di Luca Pastorino avrebbe vinto. Evidentemente una componente dell’elettorato progressista tradizionale era stufo del sistema di potere creato dal precedente governatore Claudio Burlando, mentore politico di Paita.

 Pubblicato il 1 giugno 2015

Così distanti da Ruffilli

Corriere di Bologna

Ventisette anni fa, un sabato pomeriggio, mentre era nel suo studio di Forlì, fu assassinato il (cito l’apertura, che ho ancora nelle orecchie, del Giornale Radio Uno delle 19) “il senatore democristiano Roberto Ruffilli”. La motivazione delle Brigate Rosse, che rivendicarono immediatamente la loro azione, fu che le riforme istituzionali alle quali lavorava il sen. Ruffilli avrebbero razionalizzato e reso più oppressivo lo Stato. Forte nelle sue convinzioni, Ruffilli era tutto meno che incline a opprimere chiunque. Anzi, oserei dire che la sua inclinazione era, proprio come quella del segretario democristiano Ciriaco De Mita, che stava per dare vita al suo primo e unico governo, al ragionamento e alla persuasione come modalità di elaborare qualsiasi riforma. Più che democristiano, fra l’altro, nient’affatto gradito dai democristiani del collegio romano “Salario-Nomentano”, dove De Mita lo aveva “paracadutato”, Ruffilli era un moroteo, paziente e disposto a pagare il prezzo di tempi lunghi per approvare riforme buone, largamente, non unanimemente, condivise. Non “prestato alla politica” dall’Università, alla quale sarebbe sicuramente tornato alla fine del suo secondo mandato, ma disposto a rendere quel servizio che soltanto persone come lui, colte in materia storica e istituzionale, potevano svolgere, Ruffilli era stato il capogruppo della DC nella Commissione Bicamerale per le Riforme Istituzionali nota, dal nome del suo Presidente come Commissione Bozzi. E che gruppo era quello democristiano, nel quale si trovavano anche, per fare qualche nome, Nino Andreatta, Pietro Scoppola, Mario Segni!

Pur consapevole che può essere un esercizio sterile, mi sono spesso chiesto in questi lunghi anni nei quali, di tanto in tanto, appariva una fiammata riformatrice, che cosa ne avrebbe pensato Roberto. In generale avevamo idee diverse, ma concordavano sul punto centrale, qualificante e, al tempo stesso, discriminante rispetto ai molti che, in Commissione e fuori, si sarebbero accontentati di qualche ritocco cosmetico o, i più “audaci”, del rafforzamento, a prescindere di qualsiasi riequilibrio, dei poteri del Presidente del Consiglio. Con Roberto (e, fortunatamente con altri, ma pochi) condividevamo il progetto di fondo: costruire le condizioni elettorali e istituzionali di una democrazia dell’alternanza. Roberto innestava la sua visione su quella che più volte definì “la cultura della coalizione”, vale a dire la necessità democratica che i partiti coalizzatisi distribuissero poteri e cariche, proprio come fanno i governi di coalizione in tutte le democrazie parlamentari europee, in base ai voti ottenuti da ciascun partito.

Se ricordiamo che, alla fine, il 1 febbraio 1985, la Commissione approvò un ordine del giorno a favore del sistema elettorale tedesco, rappresentanza proporzionale personalizzata, firmato da lui, da Augusto Barbera in rappresentanza del PCI, da Andreatta, Segni, Scoppola e anche da me (con l’esplicita motivazione, second best), possiamo misurare le distanze del suo pensiero istituzionale rispetto a quanto avviene oggi. Con scienza, con pazienza e con un filo di ironia, Roberto Ruffilli sarebbe molto critico degli sviluppi in corso.

Pubblicato il 16 aprile 2015

Mattarella, un cattolico sgradito all’ex Cav

Dalla sua tradizione politica e personale, quella della Democrazia Cristiana, dei Popolari, forse anche dell’Ulivo e poi della Margherita, Matteo Renzi ha estratto una buona candidatura per il Quirinale. L’attuale giudice costituzionale Sergio Mattarella, più volte ministro, autore, ironia della sorte, di una buona legge elettorale che Renzi seppellisce definitivamente con il suo meno buono Italicum, è in effetti, un ex-democristiano, che non ha nessun motivo di pentirsi, di basso profilo. Non è, però, un ex-democristiano di bassa qualità.

Anzi, nell’ambito dei molti nomi di dc di vario genere che Renzi e il suo entourage hanno fatto circolare, per lo più strumentalmente, nei gossip pre-presidenziali, è sicuramente il migliore. Sobrio, riservato, sempre equilibrato nelle sue, rarissime, dichiarazioni, la carriera politico-parlamentare di Mattarella evidenzia anche la sua capacità di non rinunziare alle proprie convinzioni. Nel 1990 le sue dimissioni da ministro, unitamente ad altri quattro ministri della sinistra democristiana, furono motivate dal dissenso profondo sulla legge del repubblicano Mammì che aprì una prateria alle scorribande delle televisioni di Silvio Berlusconi. Probabilmente, sono proprio quelle dimissioni a renderlo non votabile da Berlusconi, che ha la memoria lunga, ma che deve anche avere capito che Mattarella non sarà un Presidente della Repubblica malleabile.
Se, dunque, Berlusconi voleva qualcosa in cambio dei suoi voti, si è reso immediatamente conto che quel qualcosa Mattarella non glielo avrebbe dato. Non glielo darà. Naturalmente, neppure Renzi avrà un trattamento di favore poiché la cultura costituzionale di Mattarella a nessun favore si piega. Semmai, in quanto Presidente della Repubblica, Mattarella cercherà nei limiti del possibile di ricostruire quell’equilibrio fra le istituzioni che il fortissimo ridimensionamento del Senato e il grande potere conferito dal premio elettorale alla lista vittoriosa e al suo capo mettono in seria discussione.
Dalla difficile prova dell’elezione presidenziale Renzi esce finora giustamente soddisfatto. Ha evitato che il Pd andasse in ordine sparso perseguendo candidature che, in generale, erano in parte divisive in parte inadeguate, a lui, comunque, non pienamente gradite. Ha dimostrato che il Patto del Nazareno non implicava nessun accordo segreto e inconfessabile riguardo all’inquilino da collocare al Colle per i prossimi sette anni. Ha messo in serie difficoltà l’area Nuovo Centro Destra e Udc, molti dei quali ex-democristiani dovranno dare delle spiegazioni a se stessi e alla loro coscienza se finiranno per non votare uno dei migliori di loro. Alfano non potrà cavarsela portando l’Ncd, come ha dichiarato, su posizioni più critiche dell’azione del governo di cui lui fa parte e dal quale non può staccarsi se non a rischio, quasi letale, di provocare nuove difficoltosissime elezioni. Dal canto suo, Berlusconi non può abbandonare gli accordi sulle riforme elettorali e costituzionali da concludere. Forse riuscirà a capire in tempo che votare Mattarella spiazzerebbe l’Ncd e lo rimetterebbe in sintonia con Renzi, una sintonia di cui Forza Italia al 16 per cento ha molto più bisogno che non il segretario del Partito Democratico.
I falchi di Forza Italia volano incattiviti, ma non sanno dove andare a posarsi. Infine, la mossa di Renzi ha reso visibilissime l’incapacità e l’irrilevanza dei grillini che sono in imbarazzo, anche perché poco sanno della storia della Repubblica, a giustificare il non–voto per Mattarella.
Una vittoria presidenziale è molto importante. Cancellerà per qualche tempo le molte preoccupazioni che il capo del governo deve avere soprattutto in termini di rilancio dell’economia. Sopirà anche le tensioni fra i renziani e le maltrattate minoranze interne, meno quella di Civati che s’inventerà qualcosa per rilasciare interviste. Metterà anche in soffitta la prospettiva, del tutto illusoria, di un progetto Tsipras Italian-style. Renzi si troverà al tempo stesso più libero nelle scelte, ma privo del sostegno che Napolitano gli ha garantito.
Pubblicato AGL 30 gennaio 2015

Il Pd partito della Nazione è solo una bischerata

formiche
Intervista raccolta da Francesco De palo per Formiche.net pubblicata il 22 ottobre 2014

Né partito-nazione né una nuova Democrazia Cristiana, l’unico obiettivo raggiunto da Renzi secondo il politologo Gianfranco Pasquino è di essere l’uomo più popolare del Paese, “andando un po’ dappertutto a raccontare un qualcosa di cui, fino ad oggi, nessuno lo ha chiamato a rendicontare”.

Forma partito ed evoluzione del Pd: può essere davvero il partito della Nazione come dice Reichlin?
Ho soltanto obiezioni. In primo luogo eviterei l’espressione “forma partito”, la trovo hegeliana quindi lontana dal contesto dell’Europa del 2014. Parlerei più di organizzazione, natura, struttura. In secondo luogo eviterei anche la dicitura “partito della Nazione”, perché l’espressione corretta in Paesi come la Germania è partito di popolo. Voglio dire che nessun partito può ambire a rappresentare una Nazione: quella sarebbe una visione totalitaria, come il Partito Comunista dell’Unione Sovietica. Capisco che in questo momento essa possa essere un’ambizione ma la peso come dotata di scarsi connotati democratici.

Sta di fatto che il Pd è il principale partito italiano al momento…
Se partito della Nazione significa il partito che oggi è più grande va bene, prendiamolo per buono, ma nel merito non nella terminologia, perché le parole hanno delle conseguenze. Se il riferimento, poi, vuol essere alla Democrazia Cristiana, beh quello era un grande partito interclassista che coinvolgeva più ceti sociali. Questa è un’ambizione legittima, ma la si può perseguire evitando l’espressione “partito-Nazione” semplicemente perché in una Nazione è meglio che ci sia più di un partito.

E’ un partito all’americana quello che sta delineando Renzi con l’invito a ex vendoliani ed ex montiani a farne parte?
Quelli americani sono partiti che si trovano in 50 Stati: non c’è un partito Democratico, ma uno in ogni Stato con un debolissimo organismo di coordinamento a livello federale a Washington. Lì i partiti sono il prodotto della legge elettorale, un sistema maggioritario in collegi uninominali, che non è per nulla il sistema a cui pensano Renzi e i suoi non particolarmente brillanti suggeritori.

Il premier sta realizzando le ambizioni piddì di Veltroni?
Di Veltroni ricordo due ambizioni: la prima quella di diventare il partito più forte della sinistra, quindi l’ambizione maggioritaria. E’ chiaro e legittimo che un partito al di sopra del 30% ambisca a diventare di governo e a volte anche l’unico partito di governo. Ma credo sia fuori luogo credere di potere fare a meno di qualsiasi alleato. Solo con un premio di maggioranza cospicuo Renzi potrà vincere e fare a meno degli altri: questa però non mi pare un’ambizione condivisibile perché un solo partito non può rappresentare tutta la nazione. La dinamica europea in questa fase è sostanzialmente quella dei governi di coalizione, con pochissime eccezioni come la Spagna.

Pensa davvero che Renzi abbia in mente di andare al voto anticipato?
Lo escludo, tra l’altro anche se volesse non ci riuscirebbe. La vecchia legge è stata distrutta dalla Corte Costituzionale, la nuova non c’è ancora e per di più c’è stato un monito che voi giornalisti avete sottovalutato: il Presidente della Repubblica ha detto che la nuova legge deve essere sottoposta alle opportune verifiche di costituzionalità. Quindi non è vero che sarebbe pronto un testo frutto della sentenza della Corte: il Consultellum richiederebbe comunque dei passaggi parlamentari.

Alla fine della fiera quali sono i veri obiettivi di partito di Renzi?
La fiera non è ancora finita, anzi, vedo ancora moltissimi compratori, venditori e soprattutto banditori nella fiera. Credo che Renzi abbia colto un obiettivo: essere l’uomo più popolare del Paese, andando un po’ dappertutto a raccontare un qualcosa di cui, fino ad oggi, nessuno lo ha chiamato a rendicontare. Per cui la fiera continua, ma speriamo che i compratori siano più esigenti e chiedano, almeno, di vedere i cammelli.

Il decisionismo craxiano

Recensione del libro Decisione e processo politico. La lezione del governo Craxi (1983-1987) – Marsilio Editori.
Il volume raccoglie gli atti del convegno che la Fondazione Socialismo, l’anno scorso, aveva dedicato al 30° anniversario della nomina del leader socialista alla guida del governo, con gli interventi di Massimo Cacciari, Luciano Pellicani, Giuliano Amato, Giuseppe De Rita, Gianni De Michelis, Antonio Badini, Giuseppe Mammarella, oltre che di Acquaviva e Covatta.
Il volume contiene inoltre un’appendice documentaria, curata da Luigi Scoppola Iacopini ed Alessandro Marucci, che ricostruisce il dibattito sulla leadership e sulla democrazia competitiva che ha accompagnato la storia dell’Italia repubblicana dal fallimento della “legge truffa” ai primi anni ’90.

copertina mondoperaio maggio

Da Mondoperaio 9/2014 (pp 91/93)

Il decisionismo craxiano
Gianfranco Pasquino

L’ultima cosa che farò consiste nell’andare alla ricerca affannata e affannosa del decisionismo dei contemporanei. Mi limiterò soltanto, ma mi pare moltissimo, a cogliere la struttura e gli aspetti qualificanti (successi e fallimenti) del decisionismo di Bettino Craxi, mettendoli nel contesto dei quindici ruggenti anni in cui il segretario socialista ebbe il potere di esplicarlo. Da subito, però prendo atto della ripartizione temporale in tre fasi opportunamente proposta e utilizzata da Luigi Scoppola Iacopini. Prima fase: dal 1976 alla conquista di Palazzo Chigi nel 1983, “di gran lunga la più felice e incisiva”; seconda fase: gli anni della guida del governo (1983-1987): “terminato lo slancio iniziale, cominciano ad affiorare alcuni preoccupanti segnali di involuzione”; terza fase che “abbraccia l’ultima stagione culminata poi nel crollo” (pp. 97-98).

La panoramica di opinioni e di interpretazioni del decisionismo craxiano offerta in questo prezioso libro, arricchito da una importante documentazione con utilissimi testi di approfondimento, convergerebbe nell’individuarne la manifestazione più significativa e incisiva nel periodo di governo. A questo decisionismo si attaglia la definizione che Gennaro Acquaviva offre nella sua nota introduttiva, affermando che questa fu una dote particolarmente di Craxi: “Saper prendere decisioni politiche, anche serie e rischiose, con freddezza e al momento giusto, costruendosi contemporaneamente condizioni e forza sufficienti a fargli convogliare sulla decisione un consenso ampio e ben solido, in grado di portarlo alla realizzazione della decisione”(pp.9-10).

Nella sua prefazione Piero Craveri amplia il discorso – come anch’io credo bisognerebbe fare – affermando reciso che “il decisionismo di un leader e di una classe dirigente politica si misura su quello che questa può decidere” (p. 18). Craveri lascia intendere che allora si potesse decidere molto e oggi poco, trovandomi in disaccordo. Mantengo alto il mio disaccordo anche con i molti che continuano a ritenere e sostenere che il famigerato complesso del tiranno abbia reso costituzionalmente debole il capo del governo italiano. La mia posizione è che il capo del governo può essere forte anche in Italia se ha autorevolezza personale, competenza, un progetto, e se fonda il suo potere sul sostegno convinto, ma non servile, di un partito maggioritario. Se qualcuno pensa che io intenda riferirmi a qualche situazione contemporanea, sono sue congetture: ma rilegga il mio sapiente uso delle parole di cui sopra.
Per completare le opinioni sul decisionismo, è opportuno citare Giuseppe De Rita. Il vecchio sociologo specifica che “lo statista è decisionista giorno per giorno e nelle istituzioni. Craxi, invece, era un decisionista politico una tantum, e questo, alla fine, lo ha lasciato nudo: il Parlamento non lo ascoltava, il Csm neanche lo considerava, la Magistratura lo inseguiva. Era un uomo senza istituzioni, perché non era stato capace di trasformarsi da politico a statista, da politico a uomo delle istituzioni” (p. 37). De Rita offre anche la sua teoria sul decisionismo: “Per decidere, bisogna concentrare il potere, bisogna verticalizzare il potere. Per farlo, bisogna personalizzarlo. Per personalizzarlo, bisogna mediatizzarlo, cioè renderlo pubblico, e per fare tutto questo ci vogliono un sacco di soldi” (p. 36, tutti corsivi miei). Postilla: per mediatizzare è, con tutta probabilità, sufficiente “fare notizia” con proposte, comportamenti, soluzioni. Quanto alla concentrazione, alla verticalizzazione e alla personalizzazione, bisogna avere o volere costruire un partito e istituzioni apposite, come, ad esempio, il semipresidenzialismo della Quinta Repubblica: Vive la France!

Naturalmente esiste anche una concezione del modo di governare che è del tutto opposta al decisionismo: è la mediazione. Portata ai suoi livelli più raffinati da Aldo Moro, ma condivisa da tutti i democristiani ad eccezione di Amintore Fanfani, la mediazione respinge la concentrazione del potere, non lo verticalizza, si oppone alla personalizzazione preferendo le trattative con le associazioni. Alla fine del processo di mediazione (spesso definita “incessante”, spesso così voluta dai “mediatori”) non ci sarà una vera e propria decisione, ma la semplice accettazione di quanto è emerso nel corso della discussione, dei negoziati, degli scambi di ogni tipo. Persino Ciriaco De Mita – non a caso osteggiato, ricambiatissimo, da Craxi – nella sua esperienza di governo fu sostanzialmente moroteo, cioè interessato al “ragionamento”, una formula appena più intellettuale della mediazione.
Ovviamente ai morotei (in politica, nelle redazioni dei quotidiani e nelle cattedre universitarie) il decisionismo craxiano apparve da subito e per sempre scandaloso. Per quel che ne so, Craxi fu sempre pienamente consapevole delle costrizioni che il sistema politico italiano poneva a quella che per lui era una assoluta necessità: prendere decisioni molto incisive proprio per cambiare il sistema, per rompere il bipolarismo Dc/Pci, per dare un ruolo più importante all’Italia in Europa. La sua riluttanza per tre mesi a nominare il capo di gabinetto alla Presidenza del Consiglio fu assolutamente indicativa del tentativo di sfuggire alle reti di rapporti che gli alti burocrati romani hanno da tempo intessuto e alimentato e grazie ai quali, muovendosi da gabinetto a gabinetto e da ministro a ministro, ingabbiano l’azione e contengono la (eventuale) vivacità dei governi. Neanche le numerose crisi dei governi democristiani incidevano sul potere dei burocrati, sempre disponibili, sempre pronti a costruire chiavi in mano le segreterie di qualsiasi ministro arrivasse (meglio se non già “romano”). Naturalmente, chiunque avesse potuto contare su Giuliano Amato come sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, avrebbe potuto fare a meno di un apparato costitutivamente frenante. Nel riflettere sulla sua esperienza (forse non soltanto di sottosegretario, ma di ministro e di Presidente del Consiglio), Amato sottolinea che in Italia il potere non è né del Parlamento né del governo: “E’ un potere di quei pochi grands commis d’apparato che dominano le tecniche attraverso le quali queste regole vengono messe insieme”. Rilevo che il politologo che è in me da diversi decenni pensa che l’alternanza fra partiti e coalizioni e la facoltà di creare gabinetti politici dovrebbero servire a fare “circolare” e, quando necessario, emarginare i grands commis.
Peraltro, in pratica, la traiettoria decisionista craxiana non fu eccessivamente intralciata dalla burocrazia. Da un lato, si esplicò con vigore; dall’altro, cadde prigioniera delle contraddizioni e degli errori dello stesso Craxi. Nei saggi di questo ben costruito e utile volume, colgo tre esempi importanti di decisionismo che ebbe successo: il decreto di San Valentino, Sigonella, l’Atto Unico. In tutt’e tre i casi il decisionismo di Craxi rompe lentezze, titubanze, incrostazioni di potere, interessi costituiti. Credo che dei tre il più importante sia stato il decreto di San Valentino, per diverse ragioni che spiego. La prima ragione è che questa fu la vera sfida a un doppio tabù: concertare sempre con i sindacati, accordarsi previamente con il Pci. Purtroppo, i successivi governanti non hanno imparato la lezione cosicché l’Italia ha continuato a soffocare fra accordi e concertazioni. La seconda ragione è che Craxi, insieme in modo speciale a Pierre Carniti, costruì davvero quella decisione.
Dunque non si trattò di un decisionismo brutale e senza fondamento, ma di una decisione meditata. Infine, seppure dopo qualche tentennamento, Craxi accettò anche la sfida referendaria del 1985. Non ho dubbi (e i sondaggi di quei tempi mi confortano) sul fatto che la vittoria nel referendum arrise a Craxi quando divenne chiara a tutti la sua sfida con piena assunzione di responsabilità: “Un minuto dopo l’eventuale sconfitta, il Presidente del Consiglio darà le dimissioni”. Un milione e più di elettori valutò che la stabilità del governo e del capo di quel governo fosse molto più importante di due punti di scala mobile. Craxi non giocò d’azzardo, ma si espresse come uno statista che mette in gioco la sua carica per tutelare gli interessi del paese. Qui, però, sta il punto critico.

In un’occasione non dissimile, il referendum sulla preferenza unica del giugno 1991 (sì, lo so che può apparire di importanza nettamente inferiore alla scala mobile, ma Craxi aveva scommesso molto anche sulla Grande Riforma, alzando quindi la posta), il suo comportamento contraddisse appieno la mission di uno statista. Craxi valutò esclusivamente l’eventuale impatto dell’esito del referendum sul Psi. Sbagliando, anzitutto, poiché la più danneggiata sarebbe stata, e fu, la Democrazia cristiana, per la quale le preferenze multiple erano simili a reti a strascico che raccoglievano e trascinavano elettori del più vario tipo. Sbagliando in secondo luogo perché quel referendum apriva la strada proprio ad altre più incisive riforme istituzionali. Sbagliando, infine, perché con il suo invito ad andare al mare appariva come il perno della conservazione di un sistema che da più di un decennio lui stesso sosteneva (sempre più vagamente) di volere cambiare.

Questa torsione straordinariamente conservatrice non fu contrastata da nessuno nel suo partito, un’organizzazione che era oramai una palla al piede del segretario, che l’aveva lasciata in mano a ras locali che facevano il bello e il cattivo tempo nei comuni, nelle provincie, nelle regioni, dimostrando una disinvoltura coalizionale senza precedenti (ma con gravi conseguenze sull’immagine del partito). Nessuna sorpresa che la popolarità e il grado di apprezzamento di Craxi siano fino all’inizio degli anni Novanta rimasti di gran lunga più elevati di quelli del Psi. Sia Covatta sia Spini (citato da Scoppola Iacopini) hanno parole dure nei confronti dell’organizzazione. Covatta ritiene che il progetto di tagliare le unghie ai “signori delle tessere” e di ridimensionare il ruolo del partito degli assessori non fu neppure iniziato perché, se ho capito bene, Craxi ritenne “americanate” le proposte di riforma pubblicate, fra l’altro, anche sulle pagine di Mondoperaio (dev’esserci anche qualche mio articolo in materia). Spini sottolinea che la concezione del partito adottata o intrattenuta da Craxi non fu “né fisiologica né feconda perché divideva il partito in tanti potentati, fino appunto, a perderne il controllo” (p. 109). Insomma, il decisionista aveva deciso di librarsi alto lasciando le mani troppo libere a un ceto di opportunisti.

La spiegazione mi pare semplicistica. Si vorrebbe saperne di più. La conseguenza, invece, è chiarissima. Quel partito non era in grado di capire che cosa succedeva nell’elettorato. Quei dirigenti erano troppo preoccupati dalle loro carriere e prospettive di carriera. Non avevano nessuna voglia di interloquire con Craxi (certo, poco disposto a tollerare il dissenso aperto). Con il referendum del 1991 venne la rivelazione che il leader non era più in grado di cogliere e interpretare l’umore dell’elettorato. L’inatteso – ma in buona misura prevedibile – consenso referendario travolse Craxi e con lui il Psi senza che quell’organizzazione feudalizzata riuscisse a opporre resistenza alcuna. Il resto, nel migliore dei casi (ma quale?), è tardiva recriminazione. Per qualcuno dei decisionisti contemporanei potrebbe anche essere una lezione. Un’organizzazione di donne e uomini disposti a fare politica sul territorio serve anche a raccogliere informazioni e a diffondere comunicazioni più e meglio di qualsiasi scarica di tweet.

Decisione e processo politico. La lezione del governo Craxi (1983 – 1987)  A cura di Gennaro Acquaviva e Luigi Covatta - Marsilio (2014)

Decisione e processo politico. La lezione del governo Craxi (1983 – 1987)
A cura di Gennaro Acquaviva e Luigi Covatta – Marsilio (2014)

Vi spiego perché il Pd di Renzi non può essere il Partito della nazione. Parla Gianfranco Pasquino

formiche

Intervista raccolta da Edoardo Petto per Formiche.net 30 luglio 2014

Spiazzante e dirompente. Matteo Renzi non conosce ostacoli nell’attingere per le proprie iniziative dal patrimonio culturale progressista o liberal-conservatore. Grazie al suo modo di agire spregiudicato e post-ideologico, il premier è riuscito a neutralizzare la propaganda e le argomentazioni degli avversari di destra e di sinistra.

La centralità di un “Renzi pigliatutto” potrebbe trasformare il PD in un “partito della nazione” capace di prosciugare il bacino di consensi di un centro-destra lacerato? E quali sono i rischi di tale scenario? Formiche.net lo ha chiesto al politologo Gianfranco Pasquino.

Matteo Renzi vuole creare un grande “partito della nazione” perno dell’assetto politico-istituzionale?

Faccio fatica a utilizzare il termine “partito della nazione”, un’invenzione giornalistica italiana. Altrove o in altri contesti temporali si parla di “partito del popolo” per indicare grandi forze politiche interclassiste come la Democrazia cristiana in Italia e la CDU in Germania.

Il premier vuole ricostituire una DC in forme rinnovate?

Se la sua aspirazione è questa, ritengo sia fuori tempo massimo di oltre vent’anni. Altro ragionamento vale se per “partito della nazione” si intende una formazione vasta capace di conquistare spazio in buona parte nella sinistra e in una parte del centro. La sua prospettiva originaria forse era differente. Ma all’indomani del voto europeo lo scenario politico è mutato. E il leader del PD si è adeguato. Vi è tuttavia una divergenza rispetto all’epoca della Democrazia cristiana.

Quale?

La DC utilizzava con saggezza ed elasticità il consenso e l’appoggio dei piccoli partiti laici. Allo stesso modo Renzi dovrebbe capire che forse in Sinistra e Libertà vi sono buone idee, che il Movimento Cinque Stelle è anche portatore di proposte significative, e che Scelta Civica può offrire più di quanto ha dato finora.

Con il PD di Renzi l’Italia rischia di riprodurre la “democrazia bloccata” della prima Repubblica?

Non posso dirlo ora. Lo scenario è legato a una lunga stagione di vittorie elettorali e di governo da parte dello stesso partito. Ma il premier finora ha prevalso soltanto in un voto europeo. Vedremo se e con quale percentuale – peraltro falsata dal premio di maggioranza – riuscirà a farlo nelle prossime tornate politiche.

Giocando di sponda tra destra e sinistra, Renzi potrebbe annacquare le riforme strutturali come sta accadendo nel terreno istituzionale?

Per il percorso di revisione costituzionale e della legge elettorale suggerisco di attendere il termine della “ballata estiva”. Rilevo come il nuovo Senato e il meccanismo di voto giunto all’esame di Palazzo Madama rappresentino una soluzione pasticciata, lontana dalla versione originaria concordata nel Patto del Nazareno. Accordo che sembra essere stato siglato su un pezzo di carta neanche firmato.

E per gli interventi di tipo economico-sociale?

Sinceramente non li ho visti. E faccio fatica a pensare a iniziative in tempi brevi, visto che il Presidente del Consiglio dedica il suo tempo ad altri temi. Vi è un problema di tempo e di intelligenza politica. Tengo a precisare però che la riforma del lavoro dovrebbe essere realizzata tenendo a mente le indicazioni argomentate e persuasive di Pietro Ichino. Una miscela sapiente di proposte liberali e di visione di sinistra orientata alla ricerca del lavoro dignitoso nell’equità.

Cosa devono fare le forze di centro-destra per rilanciare il loro protagonismo e rendere aperta la competizione politico-elettorale?

Nelle democrazie occidentali il governo è tanto migliore quanto più credibilmente viene sfidato da un’opposizione ricca di proposte. Nel nostro paese l’opposizione di centro-destra è profondamente divisa. Una parte sta al governo, mentre la componente maggioritaria è “posseduta” da un imprenditore vecchio nell’età e nelle idee. L’unico marchingegno per risorgere è che Silvio Berlusconi dica “Basta, adesso arrangiatevi voi”.

Elezioni primarie di coalizione potrebbero essere il punto di partenza?

Forse. La legittimazione popolare del capo del centro-destra tramite una competizione aperta rappresenterebbe lo strumento migliore per ricomporre le sue “sparse membra”

Per fare bene niente fretta

l'Unità

Potrei cominciare dicendo che, se la riforma elettorale e la trasformazione del Senato erano impostate correttamente, l’esito elettorale, vale a dire il grande successo del Partito Democratico di Renzi, non cambia nulla. Al contrario, da un lato, potrebbe essere considerato un sostegno dato dai cittadini a quelle riforme, dall’altro, addirittura una loro forte spinta affinché vengano approvate rapidamente. Invece, penso che i cittadini italiani non abbiano votato avendo come motivazione prevalente quelle riforme e che il successo elettorale del PD di Renzi discenda dalla sua campagna elettorale e dalla, giusta, convinzione degli elettori che il Partito Democratico, da poco condotto da Renzi nel Partito del Socialismo Europeo, fosse, per l’appunto, il più europeista dei partiti italiani. Dunque, il partito da premiare contro gli euroscettici, gli anti-Euro e gli eurostupidi.

Coloro che oggi sostengono che le riforme di Renzi, in particolare quella della legge elettorale, debbono essere riscritte perché il quadro politico è cambiato danno ragione a quanti (fra i quali chi scrive) avevano sostenuto che quelle riforme servivano fondamentalmente gli interessi di Berlusconi e dello stesso Renzi. Invece, riforme delle regole (e delle istituzioni) del gioco che servono interessi particolaristici e di corto respiro non vanno mai fatti. Peraltro, non credo neppure che le riforme debbano essere fatte da tutti. Nessun potere di veto va concesso a chi prospera in un sistema politico arrugginito. La via di mezzo (in medio stat virtus) è quella delineata dal grande filosofo politico John Rawls: le riforme vanno formulate dietro un “velo di ignoranza”. Mi affretto ad aggiungere, primo, che in questa espressione non è implicito nessun complimento per gli ignoranti patentati i quali, in materia di regole, sono tanto numerosi quanto inconsapevoli e, secondo, che le simulazioni non strappano il velo d’ignoranza, ma sollevano il polverone della confusione.

Nel Parlamento italiano non sono cambiati i rapporti numerici fra partiti e gruppi. Continuerà, dunque, a essere necessaria una convergenza (non una grande indistinta ammucchiata) fra più gruppi su riforme che promettano la semplificazione dei procedimenti legislativi (riforma del Senato), maggiore incisività del voto degli elettori (anche in questo caso con l’individuazione di una legge semplice, non bizantina), migliore definizione dei livelli di governo. Nei tecnicismi non desidero entrare. Quindi, mi limito ad affermare che nessuna legge elettorale prossima ventura deve basarsi né sulla aspettativa di un grande balzo in avanti del PD alle prossime politiche (pure possibile e, a scanso, di equivoci, anche auspicabile) né sulle necessità del centro-destra né sulle prospettive di coalizioni prossime venture.

Il consenso “europeo” del Partito Democratico lascia intravedere un futuro da partito dominante che, incidentalmente, è, secondo me, l’unico elemento che consenta una limitata comparazione con la Democrazia Cristiana. La riforma elettorale non deve né riflettere questa situazione né prefiggersi di consolidarla. Deve, invece, garantire quella competitività indispensabile affinché l’elettorato senta il desiderio di andare alle urne. Deve, inoltre, contenere disposizioni che incoraggino il centro-destra, se non è ostaggio degli interessi di un leader, a ristrutturarsi. Deve, infine, dare ragionevoli garanzie che si formi un governo operativo che trovi qualche contrappeso alla sua azione.

Ricominciare tutto daccapo? Neanche se il governo procedesse a una revisione approfondita della sua brutta e bizantina proposta elettorale si tornerebbe davvero daccapo. Infatti, nel corso del tempo molti sono riusciti a vederne i difetti e alcuni ne hanno prospettato non disprezzabili rimedi. Riflettere in maniera sistemica sul rapporto fra legge elettorale per la Camera e ruolo del Senato non è necessariamente perdere tempo. D’altronde, l’esito delle elezioni europee significa anche che sia il PD sia il governo hanno guadagnato anche il tempo per consentire al Parlamento un’analisi approfondita delle riforme. Per fare bene non c’è nessun bisogno di fare in fretta e furia.

Pubblicato mercoledì 4 maggio 2014