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Tra Palazzo Chigi e Quirinale: la flessibilità della democrazia parlamentare @rivistailmulino

Per molte ragioni, buone e cattive, il sistema politico italiano si trova proprio alla soglia di cambiamenti degni della massima attenzione (e preoccupazione). Per questo l’imminente elezione del Capo dello Stato va seguita da vicino

Questo articolo fa parte dello speciale Quirinale 2022

Un sistema istituzionale è tale poiché le sue parti interagiscono e si condizionano in una varietà di modi. Anche quando le istituzioni sono «separate», come negli Stati Uniti, condividono i poteri e sono in competizione per acquisirne e per esercitarli. Nelle democrazie parlamentari, come quella italiana, le relazioni fra le istituzioni sono strette e complesse, flessibili ed elastiche, di grande interesse analitico e di notevole rilievo politico, passibili di cambiamenti significativi, portatori di opportunità e rischi. Per molte ragioni, buone e cattive, il sistema politico italiano si trova proprio alla soglia di cambiamenti degni della massima attenzione (e preoccupazione). A proposito della eventualità dell’elezione di Mario Draghi alla presidenza della Repubblica, alcune settimane fa, il ministro leghista Giancarlo Giorgetti evocava, non so se con timore o con favore, la comparsa di un semipresidenzialismo di fatto. Sappiamo che nel semipresidenzialismo de iure è il presidente che, quando dispone di una maggioranza parlamentare del suo colore politico, può nominare il primo ministro, producendo una grande concentrazione di potere nell’esecutivo. Altrimenti, quando la maggioranza nell’Assemblea nazionale è opposta al presidente, diventerà primo ministro il capo di quella maggioranza che, nella situazione nota come coabitazione, avrà tutto l’interesse a rimanere coesa per sventare qualsiasi tentazione del presidente di sciogliere il Parlamento. Da molti punti di vista, il semipresidenzialismo si rivela una forma di governo affascinante per gli analisti.

In Italia, non esiste nessun precedente di un capo di governo in carica che sia diventato presidente della Repubblica. Anzi, una condizione non scritta, ma finora sempre rispettata, è che presidente diventi qualcuno che è giunto al termine della sua vita politica attiva, inevitabilmente caratterizzata da divergenze, conflitti, scontri. Nel suo discorso di fine anno Mattarella ha fatto cenno a questo elemento, sostenendo la necessità per i presidenziabili di spogliarsi di ogni precedente appartenenza (politica e, aggiungo per i buoni intenditori, stando molto nel vago, «professionale»). Nella oramai più che sessantennale traiettoria del semipresidenzialismo della Quinta Repubblica francese, praticamente tutti i primi ministri si sono considerati presidenziabili e diversi fra loro si sono candidati alla presidenza. Molto curiosamente nessuno dei primi ministri in carica è mai stato eletto. Il gollista Chirac perse contro Mitterrand nel 1988 quando era primo ministro. Vinse nel 1995 quando, di proposito, non lo era più. Nel caso italiano quattro presidenti – (Segni 1962-64), Leone (1971-78), Cossiga (1985-1992), Ciampi (1999-2006) – avevano in precedenza ricoperto la carica di presidente del Consiglio, ma al momento dell’elezione al Quirinale ne erano oramai lontani temporalmente e, per così dire, politicamente. Purtroppo, per lui, invece, nel 1971 Aldo Moro venne osteggiato, in particolare da Ugo La Malfa, proprio per la sua vicinanza alla politica (e che politica!) attiva.

L’eventuale passaggio di Mario Draghi direttamente senza nessuna soluzione di continuità da Palazzo Chigi al Quirinale sarebbe, come detto, assolutamente senza precedenti e porrebbe non pochi interrogativi costituzionali (come opportunamente rilevato da Federico Furlan). Non so se avremo l’effettiva necessità di rispondervi e diffido di risposte arzigogolate. Ritengo preferibile, seguendo la strada aperta da Giorgetti, esplorare se, rebus sic stantibus (5 gennaio 2022), l’elezione di Draghi al Quirinale comporti più o meno inevitabilmente dei rischi per la democrazia italiana che, non bisogna dimenticarlo, si regge su un sistema di partiti frammentato e non consolidato.

Preliminarmente, mi pare che sussistano alcune variabili impossibili attualmente da mettere e tenere sotto controllo, in particolare da chi, partiti e persone, sarà proposta la candidatura di Draghi e da chi e quanti parlamentari verrà votata. Dopodiché il discorso è inevitabilmente destinato a partire dal momento in cui il Draghi diventato presidente della Repubblica dovrà necessariamente affidare l’incarico per la formazione del nuovo governo (art. 92: «Il presidente della Repubblica nomina il presidente del Consiglio e, su proposta di questo, i ministri»). Fermo restando che è possibile, forse addirittura probabile, che qualcuno, Giorgia Meloni lo ha già fatto alcuni mesi fa, chiederà al neo-presidente Draghi lo scioglimento del Parlamento. Noto che sarebbe davvero uno scambio improprio e pericoloso quello fra i voti per l’elezione e lo scioglimento del Parlamento, ma ne esiste un precedente non glorioso: l’elezione di Giovanni Leone nel dicembre 1971 con i voti decisivi del Movimento sociale di Giorgio Almirante e lo scioglimento nel febbraio 1972 per elezioni anticipate come desiderato e richiesto dai neo-fascisti (che quasi raddoppiarono i loro seggi in Parlamento).

Facile immaginare le pressioni su Draghi; ma a questo punto qualsiasi ricognizione sugli eventuali rischi per la democrazia italiana deve spostare il tiro dove li vedono coloro che sono preoccupati da Draghi presidente della Repubblica. Certo, fare filtrare che Draghi avrebbe già un proprio candidato da nominare per la sua sostituzione a Palazzo Chigi nella persona dell’attuale ministro dell’Economia Daniele Franco conferma le perplessità e le contrarietà di coloro che vedono una pericolosa estensione dei poteri reali di Draghi, presidente della Repubblica e presidente del Consiglio per interposta persona. D’altronde, non si può dubitare che il ministro Franco condivida le linee di politica economica di Draghi e che le applicherebbe. È altresì lecito pensare che Franco, meno esperto e consapevolmente meno prestigioso di Draghi, sarà disponibile a seguire su tutte le altre, molte, materie dell’agenda di governo, le indicazioni che gli verranno da quella che pudicamente chiamerò la moral suasion del presidente della Repubblica. Tuttavia, nulla di quello che ho ipotizzato e scritto è insito in procedimenti rigidi, inevitabili, incontrovertibili. Al contrario.

Qui entra in gioco la democrazia parlamentare, troppo spesso ritenuta debole laddove la sua forza consiste nella flessibilità e nell’adattabilità. Per sostituire il presidente del Consiglio andato al Quirinale, debbono/possono essere i partiti, che intendono sostenere la stessa coalizione di governo o formarne un’altra, a suggerire il nome del loro candidato alla carica di presidente del Consiglio. In via riservata possono anche fare sapere al presidente Draghi che non intendono accettare una nomina, per così dire, dinastica, preannunciando voto contrario al candidato eventualmente loro imposto. Saranno i partiti in entrambi i rami del Parlamento a votare o no la fiducia, sanzionando la loro subordinazione a Draghi oppure rivendicando il loro potere di scelta e infliggendogli una sconfitta tanto più grave poiché avviene all’inizio del mandato e, inevitabilmente, lo condizionerebbe ridimensionandone il prestigio anche agli occhi degli europei. Uno showdown Draghi/Parlamento sulla formazione del governo che vedesse vittoriosi i partiti non significherebbe in nessun modo l’assoggettamento totale e definitivo del presidente ai loro voleri e alle loro scelte. Il presidente della Repubblica continuerebbe ad avere il potere di autorizzare la presentazione dei disegni di legge di origine governativa e di promulgazione dei testi legislativi approvati dal Parlamento. Per rimanere nell’ambito della legislazione, toccherebbe ancora a lui dare il via libera o bloccare i decreti e la loro, spesso ingiustificata, proliferazione su materie per lo più eterogenee.

Sulla scia di Giuliano Amato, ho più volte parlato di poteri presidenziali a fisarmonica. Con partiti forti e coesi, in una solida alleanza di governo, il presidente ha poca discrezionalità nel suonare la fisarmonica ovvero fare valere le sue preferenze di politiche e di persone. Partiti deboli e divisi, in un’alleanza conflittuale, aprono grandi spazi nei quali il presidente suonerà, con la sua personale competenza ed esperienza, la musica che preferisce. La flessibilità della democrazia parlamentare consente entrambi gli esiti con le molte modulazioni intermedie, evidenziando eventuali rischi per il funzionamento della democrazia. Per concludere, sento tuttavia di dover aggiungere che non è quasi mai una buona idea spingere le istituzioni e le relazioni inter-istituzionali ai loro limiti estremi.

Pubblicato il 5 gennaio 2022 su Rivistailmulino.it

VIDEO Siamo in una Democrazia parlamentare! Il Parlamento non ha esaurito i suoi compiti, può tornare a essere centrale, purché …

No, non c’è nessuna eclisse del Parlamento, nessun suo tramonto, neppure preoccupante compressione ad opera del governo. C’è, invece, una cattiva organizzazione interna del suo lavoro. Ci sono parlamentari che intralciano, governanti frettolosi e commentatori inadeguati. Cominciamo da capo. Che cosa deve fare un Parlamento in una democrazia parlamentare?

“Una democrazia parlamentare, se saprete conservarla” Dagli Atti dell’Accademia Nazionale dei Lincei Anno CDXVIII 2021

Si racconta che un giorno del settembre 1787 quando i Padri Fondatori uscivano dalla Convenzione di Filadelfia che aveva appena approvato la Costituzione USA, una signora si rivolse in maniera aggressiva a Benjamin Franklin, il più anziano componente della Convenzione, chiedendogli: “Che cosa ci avete dato?” La risposta immediata e pacata di Franklin fu: “una Repubblica, signora, se saprete conservarla”. Allora, Repubblica, che ovviamente stava in netto contrasto con la monarchia inglese, era sinonimo di democrazia. Molti Padri Fondatori nutrivano preoccupazioni, espresse nella laconica risposta di Franklin, sul futuro di quella inusitata Repubblica presidenziale. Potremmo cercare molti test di sopravvivenza superati dalla Repubblica, ma, forse, il più complesso e pericoloso è dato dalla Presidenza Trump e da come finirà.

Nella Commissione dei 75 che si occupava della forma di governo italiano, nell’ampio dibattito che si tenne, fece la sua comparsa, ancorché minoritaria, la Repubblica presidenziale sostenuta dal molto autorevole giurista del Partito d’Azione, Piero Calamandrei. Fu respinta e una ampia e composita maggioranza della Commissione si espresse a favore del governo parlamentare, già operante in Gran Bretagna, madre di tutte le democrazie parlamentari e in tutte le altre, poche, democrazie dell’Europa Occidentale, tutte monarchie ad eccezione della Francia della Quarta Repubblica (1946-1958). Al momento del voto Tomaso Perassi, professore di Diritto Internazionale nell’Università di Roma, costituente eletto per il Partito Repubblicano, propose un ordine del giorno discusso nelle sedute del 4 e 5 settembre del 1946 e approvato.

«La Seconda Sottocommissione, udite le relazioni degli onorevoli Mortati e Conti, ritenuto che né il tipo del governo presidenziale, né quello del governo direttoriale risponderebbero alle condizioni della società italiana, si pronuncia per l’adozione del sistema parlamentare da disciplinarsi, tuttavia, con dispositivi costituzionali idonei a tutelare le esigenze di stabilità dell’azione di Governo e ad evitare le degenerazioni del parlamentarismo».

Immagino che se una signora italiana, che aveva esercitato per la prima volta il suo diritto di voto nel referendum Monarchia/Repubblica e per l’elezione dell’Assemblea costituente, avesse chiesto all’on. Perassi “Che cosa ci avete dato?”, Perassi avrebbe sicuramente risposto “una democrazia parlamentare, se saprete conservarla”. Siamo riusciti a conservarla, fra forzature, strattonamenti, parole d’ordine pericolose, riforme elettorali balorde, proposte di modelli istituzionali controproducenti ma, purtroppo, senza avere davvero cercato e meno che mai trovato, come saggiamente suggerito da Perassi, dei “dispositivi costituzionali idonei a tutelare le esigenze di stabilità dell’azione di Governo e ad evitare le degenerazioni del parlamentarismo”. Da tempo, però, avremmo dovuto imparare che un dispositivo costituzionale rispondente alle preoccupazioni di Perassi esiste e potrebbe essere molto facilmente “importato” nella Costituzione italiana con un minimo di adattamenti. Quel dispositivo, non magico, ma molto intelligente, è il voto di sfiducia costruttivo inserito nella Grundgesetz del 1949 della Repubblica Federale Tedesca e rimasto intatto nella Costituzione della Germania riunificata.

Con il voto di sfiducia costruttivo, nessuna crisi al buio, cioè senza esito precostituito, fa la sua comparsa e non si è avuta nessuna instabilità governativa. Eletto/a da una maggioranza assoluta del Bundestag (quindi, davvero primus/a super pares a soddisfare le accorate richieste di molti commentatori italiani) il cancelliere può essere sconfitto/ da un voto a maggioranza assoluta e sostituito/a purché una maggioranza assoluta si esprima a favore di un altro/a candidato/a entro 48 ore (tempo tecnico affinché tutti i parlamentari riescano a farsi trovare al Bundestag e, al tempo stesso, tempo troppo breve per trame e complotti improvvisati). Quando gli spagnoli scrissero la Costituzione della loro democrazia, 1977-78, memori della loro passata propensione all’instabilità governativa, consapevoli che il problema non era stato risolto né dai francesi della Quarta Repubblica né dalla democrazia parlamentare italiana, congegnarono una variante del voto di sfiducia costruttivo tedesco. Il loro Presidente del governo, titolo ufficiale, può essere sconfitto e sostituito da un voto a maggioranza assoluta della Camera dei deputati espresso su una mozione di sfiducia il cui primo firmatario diventa automaticamente capo del governo. È la procedura che ha consentito al socialista Pedro Sanchez di andare al Palazzo della Moncloa il 2 giugno 2018 al posto del popolare Mariano Rajoy.

Non ho dubbi che Tomaso Perassi considererebbe entrambi i “dispositivi”, tedesco e spagnolo, rispondenti alle sue preoccupazioni e provatamente in grado di “tutelare le esigenze di stabilità dell’azione di Governo e ad evitare le degenerazioni del parlamentarismo”. I numeri lo conforterebbero ulteriormente. Nel periodo 1949-2020 ci sono stati molti meno capi di governo in Germania che in Gran Bretagna, tradizionalmente considerata il regno della stabilità dei Primi ministri. Nel periodo 1978-2020 ci sono stati meno capi di governo in Spagna che in Gran Bretagna nonostante la longue durée di Margaret Thatcher (1979-1990) e Tony Blair (1997-2007. I due capi di governo delle democrazie parlamentari europee che sono durati più a lungo in carica sono rispettivamente, l’attualmente detentore del record Helmut Kohl (1982-1998), che, però, sente il fiato sul collo di colei che fu un tempo la sua pupilla, Angela Merkel (2005- potenzialmente settembre 2021), e Felipe Gonzales (1982-1996).

Curiosamente, tanto in Germania quanto in Spagna, il dispositivo “sfiducia/nomina” è stato innescato soltanto due volte. La prima, Germania 1972, Spagna 1987, non ebbe successo. La seconda, Germania 1982, aprì l’era Kohl, Spagna 2018, ha riportato i socialisti al governo. Proprio il fatto che il dispositivo per la stabilità sia stato usato con enorme parsimonia è un elemento di pregio. Significa che ha operato da deterrente scoraggiando crisi di governo la cui conclusione non appariva né rapida né sicura.

La strada italiana per stabilizzare gli esecutivi e evitare le degenerazioni del parlamentarismo è stata pervicacemente un’altra, molto diversa e neppure adombrata nell’odg Perassi. È consistita nella manipolazione della legge elettorale al fine di confezionare artificialmente, di fabbricare una maggioranza parlamentare a sostegno di un potenziale capo del governo ma, inevitabilmente a scapito della rappresentanza in un presunto, mai provato trade-off con la presunta e indefinita governabilità. Questo fu il tentativo sconfitto della legge truffa nel 1953, legge che merita l’appellativo per le sue molte e gravi implicazioni anche sulla eventuale riforma della Costituzione. Nell’ambito di un’ampia riforma che toccava 56 articoli della Costituzione su 138, Berlusconi e i suoi alleati introdussero un premio in seggi, di entità variabile, potenzialmente cospicuo, nella legge elettorale di cui fu primo firmatario il sen. Roberto Calderoli. Con una formula diversa, ma non per questo migliore, un notevole premio in seggi fu previsto per il disegno di legge noto come Italicum, sponsorizzato dal governo Renzi e smantellato dalla Corte Costituzionale. Degno di nota è che nella ampia riscrittura della Costituzione, poi bocciata in un referendum costituzionale svoltosi il 4 dicembre 2016, il rafforzamento della figura e dei poteri del capo di governo non era limpidamente affidato a specifici dispositivi costituzionali (di voto di sfiducia costruttivo proprio non si discusse mai), ma esclusivamente agli effetti indiretti della legge elettorale e del depotenziamento del ruolo del Senato e della trasformazione dei suoi compiti. Ho trattato tutto questo in maniera molto più articolata e esauriente nel mio libro Cittadini senza scettro. Le riforme sbagliate (Milano, UniBocconi Editore, 2015).

Da nessuna parte nel mondo delle democrazie parlamentari esiste l’elezione popolare diretta del capo del governo (per una approfondita panoramica mi permetto di rimandare al volume da me curato Capi di governo (Bologna, il Mulino, 2005). È stata effettuata tre volte di seguito in Israele, 1996, 1999 e 2001, ma poi, proprio nel 2001 abbandonata poiché non portava nessun beneficio in termini di stabilità delle coalizioni al governo e di efficacia del capo del governo. Qualche cattivo maestro di diritto costituzionale ha sostenuto che in Gran Bretagna esiste l’elezione “quasi diretta” del Primo ministro. Non è vero. Nessun elettore/trice inglese ha la possibilità di votare per colui/colei che diventerà Primo Ministro tranne coloro che lo eleggono parlamentare nel suo collegio uninominale. Poiché il principio cardine di una democrazia parlamentare è che il Primo ministro deve godere della fiducia esplicita o implicita del Parlamento, ciascuno e tutti i Primi ministri possono essere sconfitti in e dal Parlamento e in e dal Parlamento, come è avvenuto frequentemente, quattro volte dal 1990 al 2019, a Westminster, un nuovo Primo ministro può essere individuato e “incoronato”.

Inserire il nome del candidato alla carica di capo del governo nel simbolo del partito utilizzato per la compagna elettorale è un deplorevole escamotage che può ingannare gli elettori, ma che, come argomentò severamente fin da subito Giovanni Sartori, non dovrebbe essere permesso, e del quale, ovviamente, mai nessun Presidente della Repubblica ha tenuto conto. Incidentalmente, non costituisce una prassi in nessun’altra democrazia parlamentare.

Periodicamente, da una ventina d’anni si affaccia la proposta, non argomentata con sufficiente precisione, di procedere ad una riforma delle modalità di formazione del governo italiano applicando la legge utilizzata per l’elezione del sindaco: il “sindaco d’Italia”. Lasciando da parte che un conto è il governo delle città un conto molto diverso è il governo di uno Stato sovrano, l’elezione popolare diretta del capo del governo, che è quanto succede nelle città, significa un vero e proprio cambiamento della forma di governo: da una democrazia parlamentare a una democrazia presidenziale sui generis. Obbligherebbe alla revisione di un notevole numero di articoli della Costituzione e alla predisposizione di accurati freni e contrappesi della cui assenza a livello locale molti consigli/eri comunali si lamentano da tempo. Soprattutto, significherebbe privare la democrazia parlamentare del suo pregio maggiore: la flessibilità che consente di cambiare il capo del governo, divenuto, per qualsiasi ragione, imbarazzante, e le coalizioni di governo in Parlamento senza ricorrere a nuove, frequenti elezioni (soluzione indispensabile nelle crisi comunali che coinvolgano il sindaco) che logorerebbero elettori e istituzioni.

L’eventuale introduzione del modello del “sindaco d’Italia” non corrisponderebbe affatto alle esigenze poste da Perassi di “disciplinare” il sistema parlamentare. Al contrario, ne comporterebbe una trasformazione/deformazione radicale, addirittura il suo abbandono, per andare in una direzione non sufficientemente nota. Sono convinto che, ammonendoci che ci aveva messi in guardia, l’on. Perassi, si sentirebbe pienamente giustificato nell’affermare che, con furbizie, errori, inganni, molti italiani continuano a dimostrare di non essere in grado di fare funzionare la democrazia parlamentare che i Costituenti diedero loro e rischiano di non riuscire a conservarla.

Nota presentata il 25 giugno 2020

Lo SPID referendum fa bene alla democrazia @fattoquotidiano

La apparente facilità con la quale, grazie all’uso dello SPID, sembra essere diventato possibile raccogliere le firme per i referendum abrogativi finirà per svuotare la democrazia parlamentare? Il quesito, seppure posto in maniera molto semplicistica, è legittimo. Per rispondervi adeguatamente è necessaria una riflessione a tutto campo sulle caratteristiche fondamentali della democrazia parlamentare. Il punto di partenza è che in tutte le democrazie parlamentari, a partire dalla loro “madre”, la democrazia di Westminster, all’incirca almeno l’80 per cento delle leggi sono di iniziativa governativa. In un senso molto preciso, non è il Parlamento che “fa le leggi”. È giusto così. Infatti, i partiti e i parlamentari della coalizione che dà vita al governo hanno ricevuto voti e consenso anche con riferimento al programma che hanno sottoposto agli elettori. Quindi, hanno il dovere politico e istituzionale di cercare di attuare quel programma. In Parlamento la maggioranza sosterrà la bontà dei disegni di legge del “suo” governo, peraltro, mantenendo il potere di emendarli e migliorarli, mentre l’opposizione dovrà svolgere il suo compito di controllo, ma anche di emendamento, fino al possibile rigetto di quei disegni di legge.

   Dunque, è il controllo sull’operato del governo, non il “fare le leggi”, il compito più importante del Parlamento ed è anche la modalità con la quale l’opposizione può fare stagliare il suo profilo, dimostrare di essere influente, proporsi credibilmente come alternativa. Nessuna raffica di referendum sarà, da un lato, in grado di eliminare le leggi del governo, dall’altro, sostituire in toto la funzione di controllo del Parlamento. In effetti, quando i Costituenti italiani scrissero l’art. 75, oltre a mettere al riparo dal referendum alcune materie, “leggi tributari e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali”, stabilirono che il referendum ha come obiettivo “l’abrogazione, totale o parziale, di una legge”. Pertanto, nessun referendum riuscirà mai a sostituire la scrittura, l’esame e l’approvazione parlamentare dei disegni di legge. Il referendum abrogativo italiano interviene esattamente come strumento di controllo sulle leggi approvate dal parlamento.

   Nel corso del tempo abbiamo imparato che il taglio di alcun frasi e persino della punteggiatura di una legge finisce per produrre un testo nuovo, addirittura opposto alla legge “taglieggiata”. Sappiamo anche che il quesito referendario è sottoposto all’esame di ammissione/ammissibilità, prima della Corte di Cassazione, poi anche della Corte costituzionale. Infine, lo stesso Parlamento ha la facoltà di impedire che si tenga un referendum legiferando in materia e non soltanto, come spesso si sostiene, seguendo gli intenti perseguiti dai promotori del referendum. Anzi, potrebbe persino risultare che fra i loro intenti i referendari perseguano proprio quello di sollecitare il Parlamento a legiferare. In questo caso, i parlamentari godono della possibilità/opportunità di agire in tutta autonomia dal governo, che sia loro oppure no. Ne consegue che non è affatto vero che i referendum che, per brevità e scherzosamente chiamerò SPID, svuotano la democrazia parlamentare. Anzi, semmai la arricchiscono spingendo i cittadini ad attivarsi, diffondendo informazioni, creando una interlocuzione con il Parlamento (e con il governo).

   “Colpevolizzare” referendum e referendari con prospettive allarmistiche è sbagliato e finisce anche per allontanare l’attenzione dai problemi veri della democrazia parlamentare italiana. L’intasamento causabile dai referendum è poca, pochissima cosa rispetto al restringimento della funzione di controllo parlamentare sull‘operato del governo causato dai troppi decreti, derivanti spesso da inadempimenti del governo stesso, e dalle richieste di voti di fiducia, che fanno cadere tutti gli emendamenti, anche quelli sicuramente migliorativi. Le soluzioni sono state proposte da tempo: riforma dei regolamenti parlamentari, ma non a scapito dei tempi e dei poteri dell’opposizione, e delegificazione (al cui proposito mi sento di aggiungere che, più o meno direttamente, “ce lo chiede l’Europa”!).

   Una democrazia parlamentare non teme mai che i suoi cittadini si attivino, si organizzino, diventino influenti anche grazie a pratiche referendarie. Una democrazia parlamentare sa che il suo buon funzionamento e la sua efficacia dipendono dalle relazioni Governo/Parlamento. Con tutti i meriti che, personalmente di persona, sono disposto a riconoscere al governo Draghi, ritengo che il suo ricorso ai voti di fiducia, nel silenzio neppure imbarazzato dei commentatori che, con alto tasso di partigianeria lamentavano l’autoritarismo dei DPCM di Conte, sia eccessivo e per nulla consono al miglioramento della democrazia parlamentare e della politica in Italia.

Pubblicato il 29 settembre 2021 si Il Fatto Quotidiano

Il semestre bianco non sarà la rivincita degli scontenti @DomaniGiornale

Stabilendo che negli ultimi sei mesi del suo mandato il Presidente della Repubblica non può sciogliere il Parlamento, i Costituenti avevano molto chiaro un obiettivo: impedire al Presidente di cercare di ottenere attraverso elezioni anticipate un Parlamento favorevole alla sua rielezione o all’elezione di un suo candidato. Quell’obiettivo non è affatto venuto meno e non basta affermare che nessun presidente è stato rieletto, se non, in circostanze eccezionali e controvoglia, Giorgio Napolitano. Infatti, alcuni Presidenti avrebbero eccome desiderato la rielezione e qualcuno avrebbe gradito potere indicare il suo delfino. Comunque, i Costituenti non pensarono affatto che nel semestre bianco i partiti si sentissero agevolati a scatenare la bagarre contro il (anche loro) governo proprio perché non ne sarebbe seguito lo scioglimento del Parlamento.

 Coloro che oggi ipotizzano che dentro i partiti attualmente al governo, vale a dire tutti meno i Fratelli d’Italia, ci sia chi non aspetta altro che l’inizio del semestre bianco per impallinare e “fare cadere” il governo Draghi non solo esagera, ma, a mio parere, sbaglia. Altri scenari sono ipotizzabili, bruttini, ma meno foschi ed evitabili, contrastatabili con buone conoscenze istituzionali e saggezza politica (fattoi talvolta presenti anche nella politica italiana). Comincerò con lo scenario del Matteo tiratore, l’uno tira la corda; l’altro fa sempre il furbo. Né l’uno né l’altro possono permettersi di uscire dalla maggioranza, ma sia l’uno sia l’altro possono commettere errori. I numeri dicono che, probabilmente non seguiti da tutti i loro parlamentari, le loro scorribande non risulterebbero decisive. Dato per scontato e accertato che tanto il Partito Democratico quanto Forza Italia sosteng(o/a)no convintamente il governo, molto si gioca su quanto riusciranno o non riusciranno a fare i pentastellati, più meno mal guidati. Tuttavia, se mai cadesse il governo Draghi per un voto dello scontento pentastellato, il re-incarico da parte di Matterella sarebbe immediato e il Draghi-Due nascerebbe in un batter d’occhio con una maggioranza numericamente appena più ristretta, ma, potenzialmente, più operativa.

  Due dati durissimi meritano di essere evidenziati e valorizzati. Il primo è quello del grado di approvazione dell’operato del Presidente Draghi. Fra i più elevati di sempre, si situa da qualche tempo intorno al 70 per cento: 7 italiani su 10 sono soddisfatti di Draghi, capo del governo, e poco meno dichiarano di approvare quanto fa il governo nel suo insieme. Il secondo dato è che questo semestre bianco cade proprio nella fase di primo utilizzo dei fondi europei. Tutti capiscono che qualsiasi interruzione avrebbe costi elevatissimi.

  Draghi non deve comunque dormire sonni del tutto tranquilli. Anzi, dovrebbe cercare un confronto aperto con il Parlamento valorizzandone le competenze e apprezzandone le prerogative. Il semestre bianco, lungi dall’essere, voglio giocare con le parole, un grande buco nero che ingoia un governo con una maggioranza extralarge, ma anche extradiversa, ha la possibilità di mostrare al meglio le qualità di una democrazia parlamentare. Dietro l’angolo sta un non meglio precisato, arruffato presidenzialismo. Meglio andare avanti diritto cauti, dialoganti, collaborativi, con juicio. Le pazienti non-forzature sono la sfida più significativa che Draghi deve affrontare e che, superata, rafforzerà l’azione del suo governo per qualche tempo a venire. Almeno fino all’elezione del prossimo Presidente della Repubblica.   

Pubblicato il 28 luglio 2021 su Domani

Caro Presidente del Consiglio, nelle migliori democrazie parlamentari succede che … #riformagiustizia

Caro Presidente del Consiglio,

vedo che oramai padroneggi la situazione politica, istruisci il Consiglio dei Ministri e orchestri a piacimento le conferenze stampa. Me ne rallegro. Ho un solo suggerimento per l’oggi e il domani: valorizzare ruolo e compiti del Parlamento, a cominciare dagli emendamenti al disegno di legge sulla giustizia. Tocca ai Presidenti delle Camere tagliare, sfrondare, dichiarare inammissibili. Poi saranno i parlamentari competenti a fare il lavoro giusto. A te di chiedere la fiducia su un testo migliorato dal Parlamento. Vedremo anche chi sono i parlamentari capaci, futuri governanti possibili proprio come succede nelle migliori democrazie parlamentari.

Eleggere o rieleggere, questo è il problema? #Mattarella @Quirinale

“Sono vecchio. Tra otto mesi potrò riposarmi”. Questa impegnativa dichiarazione è stata fatta dal Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in un discorso ai bambini di una scuola romana affinché intendano non soltanto i loro genitori, ma anche il variegato mondo politico a cominciare dai parlamentari. Dirò subito che Mattarella si è giustamente messo sulla scia di Napolitano che qualche tempo prima della fine del suo mandato aveva detto che, sia per ragioni d’età sia per non creare un precedente, non era disponibile alla rielezione. Poi, Napolitano fu costretto dagli eventi, vale a dire dalla palese incapacità dei parlamentari di convergere su un nome alternativo, ad accettare un secondo mandato da lui subito definito a termine, un termine che lui stesso avrebbe stabilito. Ė possibile che Mattarella abbia il timore che i parlamentari si stiano già “incartando” nelle loro ambizioni e operazioni di potere. Quindi, il suo è un avvertimento, ma è altrettanto possibile che accetterebbe un secondo mandato ugualmente limitato, qualora, per esempio, qualcuno lo convincesse che lui rimanendo al Quirinale per un anno e mezzo circa, Draghi porterebbe a termine la legislatura.

   Infatti, da un lato, ci sono coloro che desiderano eleggere Draghi al Quirinale, per il suo prestigio, per la sua statura europea e anche per meriti, quello che ha fatto come Presidente del Consiglio. Dall’altro, ci sono, però anche quelli che vorrebbero eleggere Draghi per avere elezioni subito poiché non sarà facile trovare un altro capo di governo in questo Parlamento. Per non interrompere l’azione di Draghi e trovarsi con una crisi al buio in una fase complicata, Mattarella potrebbe accettare una rielezione a termine. Tuttavia, preferisco interpretare la sua dichiarazione un avvertimento: “Cominciate subito a pensare al mio successore (anche donna) e preparatevi”. Mattarella ha anche sottolineato, punto che sembra trascurato nei primi commenti, che la Costituzione italiana delinea e sancisce il pluralismo degli organi decisionali. Non bisogna esagerare nell’attribuire alla Presidenza poteri che, invece, i Costituenti seppero assegnare a Parlamento e governo, alla Corte Costituzionale e alle autonomie locali.

   Il messaggio è indirizzato tanto ai difensori della democrazia parlamentare: “fatela funzionare come si deve con chiara ripartizione di compiti e poteri”, quanto ai presidenzialisti: “oggi non potete chiedere al Presidente della Repubblica italiana un ruolo dominante”. Al momento della sua elezione, Mattarella disse che il Presidente è un arbitro. Poi, forse inevitabilmente, si è trovato a giocare in prima persona entro un perimetro flessibile. Chi renderà eccessivamente travagliata e conflittuale l’elezione del prossimo Presidente in maniera più o meno consapevole opera a favore di coloro che sosterranno che, a fronte di oscure manovre in Parlamento, è giunta l’ora che il Presidente, già dotato di molti poteri consistenti, sia eletto dal popolo. Non è questa la preferenza di Mattarella.

Pubblicato AGL il 20 maggio 2021

Il Copasir deve andare all’opposizione, anche se si tratta di Giorgia Meloni @DomaniGiornale

Stabilire a chi spetta la Presidenza del Comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti è una decisione importante. La questione non può e non deve essere interpretata soltanto come un conflitto interno al centro-destra fra la Lega di Salvini, alla quale appartiene il Presidente in carica, e i Fratelli d’Italia di Meloni, che sono i pretendenti. Infatti, in gioco sono alcune regole fondamentali della democrazia parlamentare, in special modo, quelle che attengono alle modalità di funzionamento del Parlamento e al rispetto dei diritti dell’opposizione politico-parlamentare. Appena studiosi e commentatori, in particolare quelli del “Corriere della Sera”, avranno finalmente capito che il compito principale del Parlamento nelle democrazie parlamentari non consiste affatto nel fare le leggi, cammineremo sulla dritta via che porta alla individuazione dei due compiti davvero fondamentali. Primo, è il Parlamento che sceglie il governo, gli dà la fiducia e gliela può togliere quando vuole. Ė finalmente caduta la critica sbagliata ai governi “non scelti dal popolo”, “non usciti dalle urne”, troppo spesso rivolta al governo Conte 2. Temo, però, che la caduta sia soltanto il prodotto del prestigio di Draghi, non di un reale apprendimento. Il secondo importantissimo compito del Parlamento è quello di controllare quello che fa, quello che non fa e quello che il governo fa male.

   Molto felpatamente, Walter Veltroni, editorialista del Corriere della Sera, sottolinea che il governo Draghi dovrebbe accompagnare ai suoi molti buoni propositi, alcuni già in ritardo di attuazione, anche le date entro le quali saranno soddisfatti. Le incertezze potrebbero essere almeno in parte ridimensionate ricorrendo a generalizzazioni ipotetiche del tipo: “ se …, allora…”. Esempio, “se i vaccinati saranno il 60 per cento allora le riaperture potranno avvenire il 20 giugno”. Queste generalizzazioni ipotetiche consentono all’opinione pubblica accuratamente (sic) informata dagli operatori dei mass media di farsi un’idea e all’opposizione, parlamentare e no, di controllare le promesse e le prestazioni del governo. Si configura in questo modo la migliore virtù democratica: l’accountability, governo e opposizione rispondono all’elettorato. Un governo intelligente impara dalle critiche espresse dall’opinione pubblica e da un’opposizione intelligente. Naturalmente, l’opposizione deve essere messa in grado di controllare l’operato del governo. I Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, DPCM, erano e rimangono criticabili se e quando rifuggono e sfuggono alle possibilità di controllo dell’opposizione.

Questa, che non è affatto una lunga digressione, ma la indispensabile premessa ad un caso importante, conduce meglio attrezzati a considerare se e quanto la richiesta di Fratelli d’Italia di ottenere la Presidenza del Copasir è fondata e merita di essere accolta. Per legge, la Presidenza di quella Commissione deve essere assegnata all’opposizione. Al governo Draghi con la sua maggioranza fin troppo larga esiste tecnicamente e politicamente una sola opposizione appunto quella rappresentata da Fratelli d’Italia. Dunque, chi ha a cuore, non solo il funzionamento del Parlamento, ma i rapporti governo/opposizione deve esprimersi senza nessuna riserva a favore della candidatura espressa da Giorgia Meloni. Se l’alternativa di cui si discute è cambiare le regole, non soltanto merita il nome di pateracchio, ma certamente non sarebbe di giovamento al prestigio del Parlamento e dei suoi rappresentanti. Al contrario. Per di più, le riformette opportunistiche hanno spesso il rischio, o il pregio, di ritorcersi contro gli sciagurati propositori.

Pubblicato il 10 aprile 2021 su Domani

La missione quasi impossibile di Conte per salvare i Cinque Stelle @DomaniGiornale

Non conosco il pensiero politico del Professor Giuseppe Conte. Non sono neppure riuscito a vederne il pensiero istituzionale nei suoi quasi tre anni di governo. Anzi, ricordo di avere immediatamente criticato la sua concezione di Presidente del Consiglio quando definì il suo ruolo come quello di “avvocato del popolo”. Sbagliato. Semmai, l’avvocato/a del popolo è chi rappresenta l’opposizione alla quale spetta difendere quel popolo dalle malefatte del governo.

   Non so quanti libri di scienza politica Conte abbia mai letto (o sfogliato). A Firenze ne troverebbe molti, da Machiavelli a Sartori, utilissimi per rappresentanti e governanti. Ho visto, però, che nella sua pratica istituzionale si è mostrato abilissimo, equilibrato e equilibrista, entrambi elementi che ritengo positivi anche se, talvolta, il decisionismo diventa più che opportuno, indispensabile. Nessuno di questi termini compare nel linguaggio di Conte come da lui stesso manifestato sia nel suo sobrio, serio e sofferto discorso d’addio a Palazzo sia nella sua cosiddetta lectio magistralis per il ritorno, che probabilmente non ci sarà, all’insegnamento fiorentino.

   Il fatto più duro dell’esperienza di governo di Giuseppe Conte è che il Movimento che lo ha designato sembra avere già perso quasi la metà dei voti ottenuti nel marzo 2018 e sta assistendo inebetito ad una considerevole emorragia di deputati e senatori. Le elezioni regionali hanno altresì mandato messaggi preoccupanti. Il potere, anche a Roma e a Torino, sembra avere logorato chi ce l’ha (non sapendolo usare). Ė la democrazia, bellezza! Adesso, sembra che a Conte verrà affidato il compito di ricostruire il Movimento 5 Stelle con l’obiettivo principale di riportarlo ai fasti d’antan. Quei fasti erano stati costruiti su una grande pervasiva insoddisfazione nei confronti della politica politicata, ma anche contro lo stesso sistema istituzionale repubblicano: la democrazia parlamentare.

   Tutti i dati confermano che l’insoddisfazione permane molto diffusa né mi pare probabile che il governo Draghi calato dall’alto del Quirinale e alquanto carente in materia di comunicazione riuscirà a contenerla prima che, tempi non brevi, venga ridimensionata e messa ai margini la pandemia e facciano effetto i fondi europei. Quanto alla sfida alla struttura della democrazia parlamentare in quanto tale, di successi, nel nome usurpato di Rousseau, non ne ha avuti nessuno. Anzi, va a grande merito del parlamentarismo e della Costituzione italiana l’avere sconfitto tutte le versioni anti-sistema, peraltro, mai brillantemente elaborate, del Movimento, versioni riguardo le quali non conosciamo le eventuali condivisioni e valutazioni di Giuseppe Conte.

   Tuttavia, non possiamo dimenticare che la critica anti-parlamentare ha prodotto qualche esito sostanzialmente irreversibile: abolizione o quasi dei vitalizi, drastica riduzione del numero dei parlamentari. Resta da vedere se il limite dei mandati sarà più o meno tacitamente abbandonato. Anche su questo il silenzio di Conte è stato assoluto. Probabilmente, però, la leadership che il Movimento ovvero, quanto meno, il garante maximo Beppe Grillo, gli ha offerto non dovrà misurarsi sulle proposte del passato né sulle innovazioni, alcune delle quali possibili e auspicabili, da introdurre nelle modalità di funzionamento della democrazia parlamentare italiana, ad esempio con pratiche e esperimenti di democrazia deliberativa (il lettore apprezzerà il mio riserbo sulle leggi elettorali ancora oggetto di oscuri desideri dei partiti e dei loro leader).

   Il Movimento non ha mai avuto una ideologia se non quella di essere contro le poche rimanenti pallidissime e evanescenti elaborazioni occasionali dei simulacri di partiti esistenti, che soltanto alcuni dirigenti politici e i loro non fantasiosi intellettuali di riferimento sembravano puntellare. Certamente, il Movimento non avrebbe fatto molta strada dichiarandosi “liberale e moderato” alla Di Maio. L’europeismo al quale Conte è approdato senza fare rumore è, al tempo stesso, molto più che un’ideologia (è, invece, il più ambizioso progetto politico del secondo dopoguerra) e molto diverso da un insieme di idee rigide e costrittive. Richiede, però, una declinazione e un arricchimento che sono sicuramenti estranei al Movimento e, al momento, fuori della loro portata. Quanto Conte sia in grado di trovare una via originale per l’europeismo dei Cinque Stelle è una delle sfide alla sua leadership.

La transizione da un ruolo istituzionale adempiuto con successo (non è opinione soltanto mia, ma condivisa in una lunga serie di sondaggi da circa il 50/60 per cento degli italiani) ad un ruolo più propriamente politico, è complicatissima, irta di imprevedibili difficoltà. Non farò nessun paragone con la frettolosa “salita in politica” del Sen. Prof Mario Monti che, pure, si era avvalso di qualche consulente politico, oggi diventato sottosegretario. La ricostruzione di un movimento declinante, roso da tensioni e conflitti, anche di tipo personale, si presenta come un’avventura che fa tremare i polsi. Compulsando la ricca storia politica delle democrazie europee non sono riuscito a trovare esempi e precedenti utilizzabili per una sana e feconda comparazione. Non sta a me suggerirli, ma credo che Conte dovrebbe indicare e operare attorno ad alcuni punti incomprimibili, irrinunciabili. Il primo consiste nel mantenere, rivista, potenziata e meglio regolamentata, una piattaforma telematica che consenta agli iscritti di esprimersi frequentemente non solo in votazioni, ma anche in discussioni. Il secondo punto irrinunciabile consiste nel garantire, anche a rischio di qualche confusione, la pluralità di prospettive: allargare i confini senza espulsioni che mi paiono una deplorevole pratica da partiti totalitari. Sarà lo stesso Conte, e dovrà rivendicarlo, a fare la sintesi. Pur tenendo sempre alto il tiro delle mie critiche al Movimento, lo ritengo un attore utile al sistema politico italiano per incanalare il dissenso e per obbligare a decisioni meglio profilate. Non so quanto “politico” riuscirà a diventare Conte, ma questo è il compito che sta per assumersi. Quello, molto eventuale e arditissimo, di “federatore delle sinistre” verrà semmai dopo.

Pubblicato il 2 marzo 2021 su Domani

Con i partiti destrutturati il Presidente guardi all’Unione @DomaniGiornale

La formazione del governo Draghi è la più chiara smentita della tesi alquanto confusa relativa ad una crisi di sistema. Se il sistema è, come dovrebbe, la democrazia parlamentare, non solo ha tenuto, ma ha offerto per l’ennesima volta la prova che è in grado di risolvere le crisi di governo, anche quelle irresponsabilmente procurate dai leader dei partitini. Certo, se per sistema s’intende il sistema dei partiti, questo è da tempo in crisi. Sostanzialmente destrutturato, il sistema dei partiti barcolla e non è il luogo della soluzione dei problemi politici. Tuttavia, anche in un sistema vacillante possono prodursi fenomeni importanti che meritano di essere valutati con precisione. Il più importante dei fenomeni prodottisi ha influito in maniera molto significativa, quasi decisiva sulla formazione del governo Draghi.

   In seguito alla svolta europeista, il centro-destra si è profondamente diviso. Per quanto improvvisa, la svolta non è stata affatto improvvisata, ma preparata con calma e tenacia da Giancarlo Giorgetti, giustamente premiato con un ministero. Salvini ha dovuto convertirsi, a mio modo di vedere in maniera opportunistica più che per convinzione, forse anche avendo ricevuto il messaggio da parte dei ceti produttivi del Nord che in Europa bisogna stare, in Europa bisogna agire. Dunque, anche il sistema europeo ha dimostrato, se ce ne fosse ancora bisogno, di essere vivo e molto vitale. La lezione europea, spesso rifiutata da Berlusconi, era già penetrata nei ranghi di Forza Italia anche grazie alla sua appartenenza e frequentazione della famiglia dei popolari europei. Adamantina in larga misura per convinzione, ma anche per ruolo, da poco diventata Presidente del Gruppo che può a giusto titolo essere definito dei sovranisti, Giorgia Meloni si è deliberatamente collocata all’opposizione. Potrebbe anche riuscire a sfruttare quelle che ritengono siano definibili come “rendite di opposizione”, a scapito della Lega, ma, forse, anche di una parte dell’elettorato che è in allontanamento dal Movimento 5 Stelle. Quello che è sicuro è che le differenze di opinione nel centro-destra sono destinate a continuare.

Comprensibilmente, la situazione si presenta delicata sia per i Cinque Stelle nei loro rapporti con Berlusconi e il suo partito sia per il Partito Democratico che si trova al governo con la Lega. Affari loro, naturalmente, che, però, debbono essere tenuti in grande considerazione per evitare che si riflettano negativamente sull’azione del governo Draghi. Immagino che a Draghi sia stato comunicato che le coabitazioni promiscue contengono potenziali negativi per i procedimenti decisionali nel Consiglio dei Ministri e in Parlamento. Non sono soltanto le differenti idee intrattenute dai quattro inopinati alleati su quale Italia e quale Europa a dovere preoccupare. Sono soprattutto le ricette che hanno elaborato nel corso del tempo, a riprova non casuale che esistono ancora distanze fra la destra e la sinistra ovvero, se si preferisce, fra i conservatori e i progressisti.

Intravvedo due modalità possibili, peraltro non in grado di evitare che, di tanto in tanto, gli scontri si manifestino, ma per superarli in maniera efficace. Su quasi tutte le tematiche significative, a cominciare, comprensibilmente, da come assegnare e utilizzare gli ingenti fondi del Piano di Ripresa e di Rilancio, il Presidente del Consiglio Draghi dovrebbe “giocare” la carta europea. Sempre formulare soluzioni compatibili con una visione europeistica che lui è in grado di articolare meglio di altri, sempre richiamare tutti agli esempi europei, sempre argomentare con riferimento alle modalità sperimentate nei paesi europei. Il livello del confronto, in materia di giustizia come di scuola, di digitalizzazione come di infrastrutture, deve sempre essere ricondotto a quello che serve all’Italia per cambiare e crescere secondo le direttive europee. Sarà difficile. Richiederà un apprendimento accelerato per il capo del governo, ma, yes, Draghi can (o quantomeno dovrebbe tentare).

Pubblicato il 14 febbraio 2021 su Domani