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Il significato del “bagno di democrazia” di Conte @DomaniGiornale


Troppo facile usare il sarcasmo contro un Movimento che si è presentato come portatore di una speranza di democrazia integrale e gioire perché un tribunale di Napoli decapita la sua leadership in quanto è stata eletta violando lo Statuto e, forse, un principio democratico. Il tribunale dà ragione ai ricorrenti che hanno sostenuto che dovevano essere ammessi a votare tutti gli iscritti, anche quelli da meno di sei mesi. Troppo facile anche ricordare che in molti congressi di molti partiti democratici (sic, qualche partito italiano i congressi neanche li fa), il voto è consentito soltanto a chi è iscritto talvolta da più di sei mesi, anche da almeno un anno, proprio per evitare afflussi indebiti e manipolazioni.
Sulla democrazia nei partiti, cominciando dal classico libro La sociologia del partito politico (1911) dell’allora socialdemocratico Robert Michels, che giunse alla conclusione che è impossibile, c’è sempre molto da raccontare, da scrivere, da criticare. La democrazia interna, più o meno auspicabile, non è mai soltanto un problema giuridico, ma è sempre, anche, soprattutto, un problema di rispetto delle regole, di equità e non solo di funzionalità. Il problema di adesso, ma anche a seguire, per il Movimento 5 Stelle non può, però, essere definito nei termini prospettati da Conte che ha dichiarato che il piano politico-sostanziale, dove si colloca la sua leadership, deve essere contrapposto e considerato superiore al piano giuridico-formale che la sospende. Rimane che la violazione dello Statuto concernente la votazione per il leader è, comunque, grave.
Sollevata, certo non necessariamente in nome della democrazia, ma come strumento di battaglia politica, quella violazione fa sospendere, se non decadere, la leadership che ne è scaturita. Almeno temporaneamente, alla testa del Movimento dovrà andare una leadership di emergenza e di garanzia. Conte deve prendere atto della nuova situazione. Ottima è la sua intenzione di procedere con le opportune modifiche allo Statuto. Meno chiaro è che cosa significhi la promessa di un “bagno di democrazia”. Infatti, la democrazia non esiste mai nel vuoto di regole e di procedure. Chi vuole instaurare e mantenere una democrazia deve sempre iniziare da lì e fare affidamento sugli irrinunciabili elementi formali che sono, per estendere la metafora, l’acqua nella quale sta immersa la democrazia.
A nessuna situazione che pretenda di essere democratica può bastare la sostanza, vale a dire un leader riconosciuto e acclamato. È essenziale che quel leader abbia ottenuto la sua carica, il suo ruolo in ottemperanza alle norme pattuite con il rispetto dovuto alle minoranze. Naturalmente, questo discorso vale per tutti i partiti. Conte sta forse imparando che la lotta politica si svolge dolorosamente su più piani e che il piano puramente politico non deve mai prevalere su quello anche giuridico, del rispetto delle regole. La lezione è salutare ed è auspicabile che valga per tutti, erga omnes.
Pubblicato il 9 febbraio 2022 su Domani
Ora i partiti si ribellano al consenso per Draghi @DomaniGiornale


Caro Mario Draghi,
un po’ lo sapevamo che eri bravo, anzi, super, un po’ lo speravamo. Finora ci è andata bene e siamo soddisfatti. Tuttavia, ci sembra che nelle ultime tre/quattro settimane tu stia un po’ esagerando. Non soltanto ci hai messi molto in ombra con il tuo consenso sempre intorno al 60 per cento degli italiani, mentre noi siamo sostanzialmente bloccati, quasi congelati. Addirittura, nella conferenza stampa di fine anno ci hai molto e più volte ringraziato, facendo calorosi apprezzamenti anche al Parlamento, e ti sei sottilmente candidato alla Presidenza della Repubblica, rassicurandoci. Un “nonno al servizio delle istituzioni” non farà del male a nessuno. Coccolerà i cittadini e terrà in grande considerazione il Parlamento e i partiti. Cominciamo a temerti e pensiamo che non sarà così. Frettolosamente criticato, il Ministro Giorgetti aveva previsto, non è chiaro se con timore o con speranza, l’avvento di un semipresidenzialismo di fatto. Insomma che tu andassi al Quirinale subito pronto a nominare il tuo successore a Palazzo Chigi quasi fosse un semplice, affidabile esecutore delle politiche da te impostate da portare a compimento. Cinquantuno obiettivi già raggiunti sono un bilancio, per quanto provvisorio, davvero lusinghiero. Sì, è vero che hai detto di condividerlo “con le forze politiche e con il Parlamento”, ma non sembra che né i giornalisti né i cittadini la pensino come te. Il merito, anche sull’onda del profluvio di elogi che vengono dall’Europa (ma chi ha detto che “The Economist” ne sa più di noi e ha sempre ragione?), sembra andare quasi esclusivamente a te, alla tua enorme competenza, al tuo gradissimo prestigio, alla tua visione. In larga misura, la maggioranza di noi condivide questi apprezzamenti, che, purtroppo, non si riverberano sul nostro rispettivo consenso misurato dai sondaggi e dalle opinioni espresse dai commentatori dei giornaloni e giornalini italiani. Qualcuno sembra essersi finalmente accorto che il tuo modo di governare non è così nuovo: un governo che introduce molti decreti e chiede tanti voti di fiducia si pone in continuità con i suoi meno apprezzati predecessori. Altri, poi, magari in maniera non del tutto convincente, vedono e denunciano una forte compressione del ruolo del Parlamento, quel Parlamento che, certo già di suo potrebbe organizzarsi meglio, ma che tu lodi perché non ti intralcia. In quel Parlamento, nelle commissioni parlamentari stanno i nostri rappresentanti, debitamente, anche se malamente (per colpa di una pessima legge elettorale) eletti, i quali dovranno poi in qualche modo rispondere ai loro/nostri elettori. Dunque, per noi è venuto il momento di prendere qualche distanza da te e di mostrare agli elettori (e ai commentatori) che contiamo. Vogliamo chiamarlo il ritorno della democrazia che segna i confini dell’attività della tecnocrazia? L’etichetta c’interessa poco. Vorremmo più visibilità e più potere non necessariamente contro di te, ma dimostrando che anche noi sappiamo scegliere e decidere. Auguri. Firmato I partiti.
Pubblicato il 29 dicembre 2021 su Domani
Il “metodo Conclave” che qualcuno auspica per l’elezione del Presidente della Repubblica ha qualcosa a che vedere anche lontanamente con la democrazia?
La linea distintiva fra provocazioni e stupidaggini è spessissimo molto sottile, tenuissima. No, l’elezione del Presidente della Repubblica italiana non sarebbe affatto “migliore” se affidata al metodo Conclave. Opacità, intrighi, scambi impropri, ricatti: succede di tutto nei conclavi. Nulla che serva a migliorare i rapporti fra il popolo di Dio e i suoi pastori. Certo, dai parlamentari vorrei più trasparenza e una chiara assunzione di responsabilità. Dai presidenziabili vorrei più candore. So che, contro le mie credenze, sono pii desideri.
Sartori: Democrazie senza partiti? #Torino #1dicembre La Tradizione Italiana. Lezioni di Storia del pensiero politico
Torino Mercoledì 1 dicembre 2021 Ore 16-18
Dipartimento di studi storici – Palazzo Nuovo Via Sant’Ottavio 20, III piano – Sala seminari
Con prenotazione all’indirizzo segreteria@fondazionefirpo.it.
Per seguire la lezione da remoto sarà sufficiente cliccare qui e successivamente – se
non si dispone dell’applicazione e non si intende scaricarla – scegliere “accedi da browser”.
Info 011.8129020 – http://www.fondazionefirpo.it
LA TRADIZIONE ITALIANA
LEZIONI DI STORIA DEL PENSIERO POLITICO
Gianfranco Pasquino
Sartori: Democrazie senza partiti?
Introduce Stefano De Luca

LA TRADIZIONE ITALIANA
LEZIONI DI STORIA DEL PENSIERO POLITICO
coordinate da Stefano De Luca e Francesco Tuccari.
Il ciclo “La tradizione italiana. Lezioni di storia del pensiero politico” si propone di rileggere i grandi classici del pensiero politico italiano dalle origini ai nostri giorni attraverso una serie di lezioni magistrali affidate a studiosi di comprovata competenza.
L’obiettivo dell’iniziativa è quello di offrire a un pubblico il più possibile ampio gli strumenti essenziali per riscoprire e rivalutare complessivamente una tradizione di idee e riflessioni che, tolte alcune significative eccezioni (valga per tutti l’esempio di Machiavelli), risulta ormai essere in ampia misura negletta e poco appealing. Sia sul piano del dibattito pubblico, sia su quello degli studi universitari.
Il ciclo intende rileggere i grandi classici del pensiero politico italiano – s’intende: del pensiero politico, sociale ed economico – in una triplice prospettiva. Intende innanzitutto collocare gli autori che saranno di volta in volta presi in esame nello specifico contesto storico in cui essi pensarono e, molto spesso, operarono sul piano pubblico.
Li presenterà, cioè, come interpreti e attori del proprio tempo, cercando di fare emergere il nesso vitale e imprescindibile che ha legato la storia del pensiero politico italiano alla storia italiana nelle diverse fasi del suo sviluppo.
Intende poi mettere in evidenza le relazioni altrettanto vitali che il pensiero politico italiano ha intrattenuto con altre tradizioni coeve di pensiero politico, soprattutto a livello europeo e, da un certo punto in avanti, transatlantico. È su questo sfondo che le lezioni del ciclo cercheranno di mostrare la dimensione tutt’altro che provinciale della nostra tradizione, facendone però emergere le specificità.
Intende infine far risaltare là dove possibile – e per molti «classici» è sicuramente possibile – il contributo che essi hanno dato alla storia del pensiero politico tout court, trascendendo le dimensioni del proprio tempo e fissando categorie e problemi che generazioni successive di autori, italiani e non, hanno continuato a riprendere e rielaborare.
Per rendere possibile un ragionevole equilibrio tra «alta divulgazione» e approfondimento scientifico le lezioni saranno incentrate sull’analisi di un’opera particolarmente significativa dei singoli autori presi in esame.
Le lezioni si rivolgono a un pubblico di insegnanti e studenti universitari, di dottorandi,
di studiosi e più in generale a un pubblico colto.
Ogni lezione viene ripresa a video e resa pubblica sul sito della Fondazione.
Quale futuro per la democrazia? #26novembre #Ferrara #inpresenza e #livestream
venerdì 26 novembre ore 17
Sala Agnelli della Biblioteca Ariosto di Ferrara
Diretta streaming sul canale YouTube Archibiblioweb tv
Gianfranco Pasquino
Quale futuro per la democrazia?
introduce Davide Nanni

Il ribellismo dei No-vax ha troppo spazio nei media @DomaniGiornale


Il risultato ufficiale del referendum fra gli italiani sulla scienza, comunicato personalmente dal Presidente Mattarella, è stato 9 a 1 a favore della scienza. Richiamare l’attenzione su queste cifre che rappresentano la percentuale di vaccinati contrapposta a quelli che non l’hanno fatto è più che opportuno. Non sono sicuro che basterà a convincere i non vaccinati, ma è importante provare. In Germania, il ministro della Sanità, molto preoccupato tanto dall’andamento della pandemia quanto dalla percentuale di non vaccinati, inferiore del 10 per cento a quella italiana, è stato molto più brutale: all’inizio della primavera 2022 i tedeschi saranno vaccinati, guariti o morti. Mi sono fatto l’idea che non bisogna in nessun modo blandire coloro che si oppongono al vaccino e popolano le manifestazioni facendo anche ampio uso e sfoggio della violenza a spese dell’incolumità e dell’attività lavorativa dei loro concittadini.
Manifestare le proprie opinioni è un diritto, ma decidere di non vaccinarsi è molto più banalmente una facoltà. Chi non si vaccina deve sapere che a norma di Costituzione la sua libertà può essere limitata. Dunque, può scegliere di accettare le limitazioni oppure di vaccinarsi per tenere il più esteso possibile il suo spazio di libertà. Noto, invece, che queste elementari considerazioni non trovano adeguata risonanza nel dibattito pubblico e sui mass media dei più vari tipi. Ritengo che, da un lato, nel 90 per cento degli italiani che si sono vaccinati, ci siano altre motivazioni, per altro tutte rispettabili, oltre alla fiducia nella scienza: rispetto delle leggi, volontà di non contagiare familiari e amici, paura per la propria salute. Dall’altro lato, non sono del tutto convinto che la motivazione predominante fra i No Vax sia costituita dalla non fiducia nei confronti della scienza. Neppure la sicuramente legittima paura per reazioni negative in conseguenza del vaccino è qualcosa che coinvolge la maggioranza di loro.
La motivazione probabilmente più diffusa, la chiamerò con un termine quasi nobile, è il ribellismo, la scelta ideologica (non il diritto) di opporsi all’autorità, accompagnata e rafforzata dalla presunzione di essere superiori a quei pecoroni (immunità di gregge) di concittadini che si “piegano” a quanto deciso dal governo italiano. I governanti sono accusati di essere più o meno colpevolmente succubi di qualche tanto oscura quanto potente cospirazione internazionale e, naturalmente, di Big Pharma, delle grandi furbesche e maligne compagnie farmaceutiche. Contro queste tesi ideologiche, Mattarella ha scelto di mettere in campo il suo prestigio, ma anche di fare un richiamo al principio di maggioranza. Nessuna minoranza, per quanto “intensa” sia, può accampare il diritto di imporre la sua volontà ad una maggioranza che, per di più, non viola affatto i diritti fondamentali di quella minoranza.
Ne traggo due conclusioni. La prima è che non dobbiamo continuare a mettere sullo stesso piano coloro che rispettano le regole e che riconoscono la validità delle competenze scientifiche con la variegata galassia degli oppositori e dei negatori. Non solo questo atteggiamento è sbagliato, ma produce/rrebbe conseguenze negative di grande impatto proprio sulla credibilità collettiva della scienza, delle sue acquisizioni, delle sue raccomandazioni. Secondo, alle posizioni No Vax non deve essere attribuito lo stesso spazio nel dibattito pubblico e sui mass media di cui godono coloro che agiscono in base all’accettazione di quello che la scienza ritiene sia ragionevole e positivo. 10 per cento non vale 90 per cento.
Pubblicato il 24 novembre su Domani
L’ossessione per la scelta diretta dei presidenti @DomaniGiornale


Ancora una volta dalle pagine del “Corriere” giunge una lezione di politica e di democrazia che non ha nessun fondamento nella teoria e nella pratica proprio delle democrazie. Paolo Mieli ci aveva già raccontato, senza nessun riscontro empirico, che l’alternanza è la norma nelle democrazie occidentali e che, in assenza di alternanza, l’Italia è destinata a restare nel caos.
Per lo più, invece, nelle democrazie europee assistiamo, con l’eccezione della Gran Bretagna, non alla sostituzione in toto di un governo ad opera di una opposizione, ma alla ridefinizione, uno o due partiti escono, uno entra, della coalizione di governo. Così sta avvenendo in Germania.
Adesso Mieli sostiene, forse addirittura invoca, ispirato, ma non so quanto sostenuto, dal vescovo Ambrogio, l’elezione popolare diretta dei capi di governo e dei capi di Stato.
Nelle democrazie parlamentari, tali sono tutti i sistemi politici dell’Europa occidentale, nessun Primo ministro/Cancelliere è mai stato eletto dal “popolo”, per molte buone ragioni a cominciare dal consentire cambi di persone e cariche in caso di necessità senza tornare alle urne. Quanto ai capi di Stato, mi limito a ricordare che in Europa occidentale esistono otto monarchie (Belgio, Danimarca, Gran Bretagna, Lussemburgo, Olanda , Norvegia, Spagna e Svezia) nelle quali, naturalmente, non c’è nessun bisogno di nessuna elezione.
Nulla osta a proporre il cambiamento della forma di governo italiana da parlamentare a presidenziale o semipresidenziale, sapendo che esistono differenze profonde fra questi due modelli. Sapendo anche che l’elezione popolare diretta apre la strada a outsider che, da Trump a, ipoteticamente, Zemmour, non sembrano costruttori di buona politica.
Secondo Mieli, dare la parola al popolo nel silenzio dei “presidenziabili” italiani ri-avvicinerebbe gli italiani alla politica. Dalle pagine del Corriere qualsiasi lettore può notare che da qualche mese i “presidenziabili” parlano, eccome. Alcuni di loro sono frequenti ospiti di programmi televisivi nei quali presentano libri e raccontano storie. Insomma, le informazioni circolano e, comunque, nessuno di coloro che ha raggiunto la più alta carica della Repubblica italiana era uno sconosciuto, privo di carriera politica e biografia professionali.
Il “direttismo”, come lo definì Giovanni Sartori, a lungo editorialista del Corriere, non migliora necessariamente la politica. A riportare gli italiani alle urne e a riavvicinarli alla politica, dalla quale espressioni come “casta” e “razza poltrona” contribuiscono a demotivarli e a confermarli nei loro pregiudizi, debbono essere i partiti, magari con una legge elettorale, ne esistono diverse, che garantisca competizione e elimini la cooptazione. Nel frattempo, sono molto fiducioso che per riavvicinare i cattolici alla politica e per fuoruscire dalle “vie tortuose e imperscrutabili” dei Conclavi, ma anche dalla tutt’altro che democratica acclamazione, Papa Francesco stia formulando le regole affinché il suo successore sia eletto direttamente dal popolo cattolico.
Pubblicato il 21 novembre 2021 su Domani
Democrazie illiberali

In linea di massima a Giovanni Sartori gli aggettivi appiccicati al sostantivo democrazia piacevano poco. Per nulla, poi, se quegli aggettivi servivano a definire (Democrazia e definizioni 1957) regimi, come le “democrazie popolari”, che erano (quasi) tutto tranne che democrazie. Nel recente passato ho già variamente trattato l’argomento (“Paradoxa” 3/2019, Democrazie fake), ma data la sua importanza continua a meritare approfondimenti specifici e mirati. Hic et nunc. Concentrerò l’attenzione sulle democrazie illiberali. Con la sua abituale franchezza, quel terribile semplificatore di Putin qualche tempo fa affermò che la democrazia liberale è finita. Punto. Più manovriero per necessità, il Primo ministro ungherese Orbán, a fronte delle critiche europee alla sua manipolazione dei mass media e della magistratura, delle scuole e delle Università (chiusura e espulsione di quella, importante e ottima, sede a Budapest, fondata e finanziata dall’ebreo di origine ungherese George Soros) ha dichiarato che l’Ungheria è una democrazia illiberale. Semplicemente, non può essere così. Le democrazie contemporanee, che Sartori preferiva definire liberal-costituzionali, si basano su due pilastri: i diritti dei cittadini e la Costituzione che stabilisce la forma di governo (parlamentare, presidenziale, semipresidenziale, direttoriale) e il tipo di Stato (accentrato/federale/semifederale etc.).
Per quel che riguarda lo Stato, democratico non è se non mantiene la separazione dei poteri e delle istituzioni, se non esistono freni e contrappesi, se non la accountability, la responsabilizzazione dei governanti e dei rappresentanti a tutti livelli, non è all’opera. I democratici illiberali sostengono che nei loro regimi governanti e rappresentanti sono effettivamente eletti e, sottoposti al vaglio degli elettori, anche rieletti. Alcuni studiosi occidentali ritengono in questi casi che esistono democrazie elettorali. Certo, in assenza di elezioni, non è mai possibile parlare di democrazia. Ma, da sempre, la democrazia è molto di più che una serie di competizioni elettorali ripetute nel tempo. Comunque, è decisivo valutare il grado di libertà e equità delle elezioni non soltanto nel momento del voto, ma tanto a monte quanto a valle del voto. A monte, se i diritti dei cittadini a candidarsi, a organizzare gruppi e partiti, a fare campagna elettorale, a esprimere le loro opinioni soprattutto politiche con l’accesso ai mass media non sono né protetti né promossi, non c’è modo di considerare libere quelle elezioni. Sono elezioni foglie di fico. A valle, se la legge elettorale è tale da conferire enormi vantaggi ai detentori delle cariche di governo e di rappresentanza, distorcendo la traduzione dei voti in seggi, non è accettabile che si parli di democrazia elettorale. Per quanto blando, siamo di fronte ad un caso di autoritarismo elastico che si attiva ogni qualvolta i detentori del potere politico vengono sfidati e sentono di doversi difendere.
Vero è che le elezioni possono produrre sorprese, che i detentori del potere politico si logorano, che nuove generazioni hanno l’opportunità di esprimersi in maniera difforme. Finché, però, il cambiamento non si produce quei regimi non sono democrazie elettorali. Rimangono sistemi politici non competitivi e non liberali, effettivamente illiberali. La difficoltà di trovare un termine che ne colga la sostanza non significa che dobbiamo accettare le manipolazioni non soltanto lessicali dei potenti. Nella confusione è difficile combattere battaglie politiche trascinanti. Nella confusione si rischia di perdere di vista le promesse della democrazia: libertà e diritti, inscritti nella Costituzione e garantiti dalle istituzioni apposite. Anche nell’ambito dell’Unione Europea dove molti sovranisti sembrano avere incomprimibili pulsioni illiberali.
Pubblicato il 4 novembre 2021 su PARADOXAforum
L’ideologia democratica dell’UE alla prova più dura @DomaniGiornale


“Senza ideologie che strutturano le opinioni i populisti trovano spazio”. Questa affermazione di François Hollande, socialista, Presidente della Quinta Repubblica francese (2012-2017), coglie in pieno la situazione nella quale si trovano molti Stati-membri dell’Unione Europea e, in una certa misura, la stessa Unione. Nel caso italiano, se fosse rimasto qualcosa delle vecchie ideologie non vi sarebbero tanti elettori che si astengono dall’andare alle urne, che cambiano voto da un’elezione all’altra (più del 30 per cento), che decidono uno o due giorni prima del voto, se non la mattina stessa. I populisti si sono fatti largo quasi dappertutto in Europa, ma di più proprio dove non è più possibile parlare di “ideologie” che organizzano le opinioni. Per ovvie motivazioni legate all’Unione Europea, in Ungheria prima e di più, ma oggi molto anche in Polonia, si sono affermati leader, partiti e comportamenti populisti. In parte per opportunismo (Orbán contribuiva con i suoi voti e seggi alla vittoria dei Popolari Europei), in parte per malposta accondiscendenza nei confronti dei polacchi, troppo a lungo i capi degli altri Stati-membri e la stessa Commissione hanno tollerato violazioni più o meno palesi degli impegni che tutti gli Stati hanno assunto proprio per fare parte dell’Europa e per godere dei vantaggi, non solo economici, della loro appartenenza.
A fondamento del Manifesto di Ventotene, Altiero Spinelli pose la sua convinzione, che era anche un ambizioso progetto politico, condivisa da Ernesto Rossi e Eugenio Colorni, che i partiti europei non si sarebbero più distinti in destra e sinistra, ma fra quelli favorevoli all’unificazione politica dell’Europa e quelli che vi si sarebbero opposti. In una certa misura, l’europeismo è un insieme di idee, politiche e sociali, che potremmo assimilare ad una ideologia. Al sovranismo al momento è difficile, forse anche prematuro, attribuire la stessa qualifica. Però, esiste un punto che ha acquisito crescente rilievo. Quel complesso di idee europeiste posto a fondamento dell’Unione e dei suoi Trattati è sicuramente caratterizzato dalla piena accettazione dei principi democratici. L’Unione Europea è il più grande spazio di libertà e di diritti mai esistito al mondo. Le sue istituzioni, compresa la Corte Europea di Giustizia, proteggono e promuovono i diritti dei cittadini anche contro i rispettivi Stati nazionali. La violazione dei diritti dei cittadini in qualsiasi Stato nazionale ferisce l’Unione.
Porre il diritto nazionale al di sopra del diritto dell’Unione fa cadere uno dei cardini dell’europeismo. L’Unione Europea ha una ideologia democratica, che, applicando le parole di Hollande, struttura (o dovrebbe strutturare) le opinioni e i comportamenti dei governanti, dei rappresentanti, dei cittadini. Quanto i governanti ungheresi e polacchi hanno fatto nei confronti dei mass media, delle università, del sistema giudiziario, delle opposizioni colpisce i principi democratici fondamentali sui quali l’Unione è stata costruita e che l’Unione ha promosso e ampliato. Più volte, il Parlamento europeo ha ribadito la centralità di quei principi e dell’ideologia democratica a loro sottostante. In gioco nello scontro fra Commissione e Polonia non c’è un pugno di Euro, anche se i populisti sono spesso molto sensibili al valore del denaro e dei benefici economici. Quello che l’Unione deve difendere e imporre richiedendo il rispetto delle leggi e degli accordi è “semplicemente” l’ideologica democratica. Quanto più la Commissione metterà in evidenza che la posta in gioco sono i valori democratici tanto più riuscirà a restringere lo spazio dei populisti.
Pubblicato il 2 novembre 2021 su Domani