Home » Posts tagged 'democrazie parlamentari' (Pagina 4)
Tag Archives: democrazie parlamentari
Perseverando negli sbagli non s’impara. Breve promemoria in quattro punti a pochi giorni dalle #elezioniPolitiche2018
La campagna elettorale ha fatto ricomparire vecchi e gravi errori che non bisogna stancarsi di correggere.
1. Nessun governo nelle democrazie parlamentari è mai eletto dal popolo. Non esiste neppure nessun Primo ministro eletto dal popolo. I governi nascono in Parlamento, lì possono fisiologicamente morire e essere sostituiti secondo la Costituzione, i precedenti, le tradizioni. Scrivere, come ha fatto Antonio Polito “Il Corriere della Sera” (17 febbraio 2018, p.1): “dobbiamo infatti prepararci al quinto governo di fila non scelto dagli elettori nelle urne, ma costruito in Parlamento”, non solo induce a fare erroneamente credere che i governi siano per l’appunto scelti dagli elettori, ma delegittima previamente il prossimo governo che sarà proprio “costruito in Parlamento”.
2. Non siamo affatto “tornati” alla proporzionale (quale proporzionale visto che ne esistono molte varianti?). La legge Rosato non ha quasi nulla in comune con la legge elettorale proporzionale usata in Italia dal 1948 al 1992. Sia la legge Calderoli (Porcellum) sia la legge Renzi-Boschi (Italicum) erano leggi proporzionali con premio di maggioranza, nient’affatto leggi maggioritarie come quella inglese e come il doppio turno francese in collegi uninominali. Con il suo 33 percento di seggi assegnati in collegi uninominali sia alla Camera sia al Senato ai candidati che ottengono almeno un voto in più dei concorrenti, la legge Rosato è di gran lunga meno proporzionale delle leggi che l’hanno preceduta. Per molte ragioni rimane pessima, ma non configura nessun ritorno a nessuna imprecisata “proporzionale”.
3. Non esiste nessun trade-off, nessuno scambio fra rappresentanza e governabilità. Meno che mai si può credere che la mai chiaramente definita governabilità si acquisisca comprimendo e riducendo la rappresentanza. Al contrario, da una migliore rappresentanza scaturisce la governabilità. Naturalmente, governabilità non significa, non è, non discende dal governo di un solo partito dotato di una maggioranza parlamentare gonfiata da un premio elettorale. Quanto alla rappresentanza politica, essa non è mai “lo specchio del paese”. Non è rappresentanza sociologica, comunque impossibile da conseguire e neppure da perseguire, ma è rappresentanza elettiva con gli eletti che hanno piena consapevolezza di doversi fare portatori delle preferenze politiche e sociali degli elettori. Non sono uomini e donne scelti/ e nominati/e per essere obbedienti esecutori/trici delle decisioni dei capi partito e capi corrente (uno dei punti cardine della legge Rosato, non adeguatamente criticato) con la conseguenza probabile che quei parlamentari si sposteranno in corso d’opera verso quei capi partito in grado di garantire la loro rielezione. Déjà vu, déjà fait: trasformismo, il preminente e persistente contributo italiano alla storia dei vizi del parlamentarismo.
4. No, nelle riforme costituzionali bocciate da quasi il 60 per cento degli elettori il 4 dicembre 2016 non c’era nessun meccanismo di potenziamento del governo (che, incidentalmente, avrebbe comunque anche richiesto una ridefinizione dei checks and balances, dei freni e contrappesi che sono l’essenza delle democrazie liberali) , nulla che assomigliasse al voto di sfiducia costruttivo che, per l’appunto, dà potere al capo del governo al tempo stesso che ne dà al Parlamento. Piangere sul referendum perduto asserendo che avrebbe dato slancio ad una nuova fase della politica italiana non solo non serve a niente, ma non consente di capire quanto sbagliate fossero quelle riforme e quanto necessario sia riflettere sulla possibilità/praticabilità di riforme migliori.
Pubblicato il 26 febbraio 2018 su la rivista ilMulino
Due o tre cose da sapere sulle democrazie parlamentari
Nelle democrazie parlamentari, il governo, bisogna continuare a dirlo e a ripeterlo, è espressione del Parlamento. Non è eletto dal popolo. Del Parlamento deve godere la fiducia e mantenerla. Se la perde, può essere sostituito da un altro governo che abbia una maggioranza in Parlamento. Tranne pochissimi casi, quelli anglosassoni caratterizzati da bipartitismo, i governi delle democrazie parlamentari sono formati da coalizioni di partiti. Una volta inaugurati, tutti i governi delle democrazie parlamentari sono a capo di una maggioranza parlamentare e la guidano. Quei governi hanno il dovere politico di attuare un programma. Lo faranno attraverso appositi disegni di legge. Nelle democrazie parlamentari, non sono i parlamentari, per quanto bravi e competenti, a fare le leggi. È il governo, che ha ricevuto un mandato, a elaborare le leggi. Il parlamento le discute, le emenda, le può, nei limiti definiti dal governo, cambiare, infine le approva (o respinge).
Il programma del governo non può mai essere il programma di un solo partito, ma un compromesso, parola nobile, fra i programmi che i partiti facenti parte della coalizione hanno presentato agli elettori durante la campagna elettorale. Ciascuno dei parlamentari di ciascuno e di tutti quei partiti deve sapere che è stato eletto, soprattutto laddove la legge elettorale è proporzionale, com’è il caso praticamente di tutte le democrazie parlamentari ad esclusione di quelle anglosassoni, grazie al fatto che gli elettori hanno scelto il partito che li ha candidati e, più o meno indirettamente, hanno preferito il programma di quel partito. Dopodiché, il problema è che il programma di un governo multipartitico differisce, in verità, mai in maniera esagerata, comunque, non diverge, dai programmi di ciascuno dei partiti contraenti. A quel punto, senza troppi tentennamenti e furbizie, prese di distanza e opportunismi, ciascuno dei parlamentari deve decidere, “senza vincolo di mandato”, se accettare il programma del governo al quale partecipa il partito che lo ha sostanzialmente fatto eleggere oppure se non può e/o non vuole. Quello che non dovrebbe essergli consentito è di impegnarsi in una quotidiana guerriglia parlamentare contro il governo rimanendo dentro il suo gruppo e diventando un franco tiratore.
A loro volta, i dirigenti dei partiti e dei gruppi parlamentari debbono richiedere, esigere il sostegno e il voto dei loro parlamentari su tutte le materie concordate con i dirigenti degli altri partiti e confluite nel programma di governo. Fin qui il rapporto cruciale fra governo e sua maggioranza parlamentare per l’attuazione del programma concordato che discende in maniera abitualmente considerevole dai programmi dei singoli partiti. La richiesta di disciplina di voto e, qualche volta, di un voto di fiducia, per chiudere la discussione, per fare cessare l’ostruzionismo dell’opposizione, per imporre la decadenza degli emendamenti (spesso stilati da agguerriti gruppi di pressione), è, per lo più, sostanzialmente giustificata e l’indisciplina dei parlamentari risulta indisponente, pelosa e stigmatizzabile. Tutt’altro discorso va fatto quando all’attenzione dei parlamentari il governo pone, per una molteplicità di ragioni, tutte da verificare e da discutere, materie che non si trovano né nel programma di un partito né nel programma dello stesso governo. Allora, sia i dirigenti dei partiti e i capi dei gruppi parlamentari sia il governo e i suoi Ministri il voto di ciascun parlamentare (anche se molti sono già in partenza sufficientemente ossequienti, pronti a qualsiasi prostrazione) debbono conquistarselo. Al proposito, la rappresentanza politica fa, mi spingo più in là, deve fare aggio sulla disciplina di partito e, in un certo senso, di governo.
Il parlamentare può anche decidere di non votare un provvedimento che ritiene contrario al programma del suo partito, che ritiene inaccettabile dai suoi elettori le cui preferenze è giunto a conoscere durante la campagna elettorale, che va contro i suoi personali principi, contro la sua coscienza (e che spiegherà facendo ricorso anche alla sua scienza ovvero ai suoi studi e alle sue conoscenze). Il dissenso argomentato è il sale delle democrazie, ovviamente anche parlamentari. Sovvertire il rapporto fra governo e parlamento asserendo la preminenza del secondo sul primo, sempre e comunque, negando al governo la prerogativa di fare appello alla fiducia e togliendoli gli strumenti, fra i quali il ricorso alla decretazione d’urgenza (ovviamente soltanto in casi “straordinari di necessità”), può significare la trasformazione di una democrazia parlamentare in una pericolosa sbandante democrazia assembleare. Questo è, temo, il pericolosissimo approdo della analisi di Umberto Curi. Potrebbe anche finire per essere, a memoria di un futuro prossimo, l’esito di un governicchio di neanche abbastanza grande coalizione — i numeri parlamentari al momento sono chiaramente insufficienti– fra Partito Democratico e suoi cespugli e Forza Italia. Anche questa è una cosa che so, che riguarda i comportamenti, non la struttura del Parlamento, e che, di conseguenza, non sarebbe evitata, ma, peggio, accentuata in un Parlamento (a funzionamento) monocamerale, come quello che sarebbe conseguito dal “sì” al referendum costituzionale.
Pubblicato 8 febbraio su PARADOXAforum
I rischi degli affari correnti
Se la sua forza è davvero “tranquilla” è plausibile pensare che Gentiloni eviterà qualsiasi fuoruscita dagli affari correnti
Il Presidente Mattarella ha sciolto il Parlamento. Il Presidente del Consiglio Gentiloni ha controfirmato, come costituzionalmente deve fare, ma nel suo via vai al Quirinale non ha formalmente presentato le sue dimissioni. Rimane in carica per gli affari correnti. Non entro in raffinate disquisizioni giuridiche su che cosa si debba precisamente intendere per affari correnti: quelli che corrono, ovvero, sono in corso, ad esempio, l’inizio della missione in Niger dei militari italiani e la regolamentazione delle intercettazioni? oppure le cose, le attività, le decisioni che oc-corrono? Sono tentatissimo dal rispondere entrambe, ma, allora, mi sarebbe piaciuto che fra le cose che, al tempo stesso, corrono e occorrono, Gentiloni avesse messo, con tranquillità e con forza, anche lo jus soli. Votassero i senatori assumendosi, in scienza e in coscienza, la responsabilità del loro voto. Un loro eventuale, deplorevole No non avrebbe in nessun modo vincolato i successori nel Parlamento da eleggersi in marzo.
Sono oramai quattro mesi che Angela Merkel disbriga i corposi affari correnti della Germania. È un fenomeno inevitabile nell’interregno fra lo scioglimento di un Parlamento, la campagna elettorale e la formazione del governo, spesso non particolarmente nuovo, un po’ in tutte le democrazie parlamentari nelle quali, non posso resistere, nessuno chiede e si chiede mai di sapere chi ha vinto la sera stessa delle elezioni. Nelle quali, comunque, la formazione del governo è affidata a maggioranze che si formano in Parlamento, qualche volta avendo fatto dichiarazioni più o meno impegnative prima del voto. Tutto questo è un pregio delle democrazie parlamentari: la flessibilità, l’adattabilità alle circostanze e alle sfide anche inaspettate. Naturalmente, i capi dei governi parlamentari conoscono i limiti indefiniti, ma effettivi, all’esercizio del potere per affrontare “affari” non proprio di routine. Quei limiti sono sufficientemente noti anche ai diversi protagonisti partitici e al capo dello Stato. Non posso scrivere Presidente della Repubblica poiché in almeno sette democrazie parlamentari europee il capo dello Stato è re o regina.
Se la sua forza è davvero “tranquilla” è plausibile pensare che Gentiloni eviterà qualsiasi fuoruscita dagli affari correnti, meno che mai quella che implichi vizi di costituzionalità. Nella sua conferenza stampa Gentiloni ha reso noto a tutti che in campagna elettorale rivendicherà, come fanno la maggioranza dei governi e dei capi di governo nelle democrazie parlamentari, i risultati ottenuti dal suo governo e ribadirà che c’è una sinistra di governo (sommessamente noterò non tutta nel PD, non tutta del PD). Se la sinistra di governo di Gentiloni si candida a ri-governare (sì, lo so che c’è un doppio senso) questo paese, il capo del governo eviterà qualsiasi eccesso-sconfinamento. Dopo il voto di marzo, la situazione sarà più chiara: wishful thinking, pio desiderio? Anche, ma almeno su un punto, che né Gentiloni né Mattarella trascurano, chiarezza c’è. Il governo Gentiloni rimarrà in carica fino a quando il nuovo Parlamento non riuscirà a dare vita a un altro governo. Non sarà affatto un Gentiloni-bis. Sarebbe, invece, un Gentiloni 2 poiché cambierà la maggioranza a suo sostegno e cambieranno alcuni ministri e, sperabilmente, numerosi/e sottosegretari/e. Se, com’ è possibile e comprensibile, le legittime ambizioni personali di Gentiloni vanno nel senso di rimanere al governo a maggior ragione si comporterà in maniera tranquilla e tranquillizzante nella gestione degli “affari”, correnti, occorrenti, accorrenti.
Pubblicato il 29 dicembre 2017 su huffingtonpost
Troppi nomi nei simboli dei partiti
L’inserimento del nome di Grasso nel logo della lista “Liberi e Uguali” è una brutta idea. Non è convincente giustificarla con la necessità di “pubblicizzare” rapidamente con pochi mesi a disposizione l’appena nata piccola coalizione di sinistra. È stata subito criticata soprattutto dagli esponenti del Partito Democratico, che ne temono la sfida, ma per ragioni sbagliate: la politicizzazione della seconda carica dello Stato. Nella sua carica, nella conduzione dei lavori del Senato, il Presidente Piero Grasso è stato fin troppo imparziale e neutrale, ad esempio, nell’accettazione di qualche alquanto impropria richiesta di voti di fiducia da parte del governo Gentiloni (-Renzi). Nessuno, però, può negare al Presidente del Senato (e alla Presidente della Camera dei deputati) di fare politica fuori dalle aule parlamentari.
L’obiezione al nome di un leader politico nel logo di un partito, lista, schieramento ha motivazioni politiche e istituzionali che risalgono al politologo Giovanni Sartori, recentemente scomparso, e che mantengono tutta la loro validità. Da un lato, nomi di persone/leader che acquisiscono maggiore visibilità di quella dei loro rispettivi partiti contribuiscono a un fenomeno non proprio positivo: la personalizzazione della politica. Di partiti “personali/personalisti” in Italia ne abbiamo già fin troppi. Di leader che fanno campagna sulle loro qualità personali più che sulle idee loro e sui programmi dei loro partiti dovremmo giustamente diffidare. Non che le idee non camminino sulle gambe degli uomini e delle donne, ma, per l’appunto, bisognerebbe dare preminenza alle idee. Tuttavia, quello che più (mi) preoccupa del nome del leader nel logo di un partito è il messaggio che invia più o meno surrettiziamente all’elettorato, vale a dire che, se quel partito avrà molti voti il suo leader diventerà Presidente del Consiglio. Insomma, saremmo di fronte ad una situazione di elezione quasi diretta del capo del governo. Sbagliato: l’elezione c’è o non c’è. Nelle democrazie parlamentari non c’è.
Nelle democrazie parlamentari diventa capo del governo l’esponente di un partito che riesce a dimostrare di avere a suo sostegno una maggioranza. Né in Gran Bretagna, dove il nome del capo del partito si trova scritto esclusivamente sulla scheda elettorale del suo collegio uninominale (senza candidature multiple), né in Germania dove la signora Merkel è stata candidata al Bundestag, sia nella parte uninominale sia nella scheda proporzionale, ma potrebbe non tornare Cancelliera se non riesce a dare vita a una maggioranza assoluta richiesta per la sua investitura parlamentare, gli elettori votano direttamente il capo del governo. Sanno anche che quel capo di governo potrà essere sostituito/a per la sua inadeguatezza dai parlamentari che l’hanno eletto/a. È avvenuto dal 1945 a oggi diverse volte in Gran Bretagna, con la più recente sostituzione che ha posto la May a capo del governo. Una volta sola, attraverso il voto di sfiducia costruttivo (che i riformatori costituzionali italiani non hanno neppure voluto prendere in considerazione), ma molto importante, si è avuta la sostituzione in Germania: dal socialdemocratico Schmidt al democristiano Kohl. Invece, in Italia, troppi parlano in maniera molto sbagliata di governi non eletti dal popolo.
Quando in Italia avviene la sostituzione di un Presidente del Consiglio, soprattutto se da un non-politico, come fu Monti, non mancano coloro che affermano addirittura che la democrazia è sospesa. Per tornare a una sana democrazia parlamentare, il cui pregio maggiore è proprio quello di consentire in parlamento/dal parlamento la sostituzione di governanti, a cominciare dal Presidente del Consiglio, rivelatisi inadeguati, bisognerebbe evitare di ingannare gli elettori. Il governo sarà fatto in Parlamento. Se sarà fatto male, altri, non Grasso, saranno da biasimare, fermo restando che la maggiore responsabilità è della legge elettorale Rosato. Il resto sono furbizie da stigmatizzare.
Pubblicato AGL il 15 dicembre 2017
Le sinistre che odiano la leadership
Pisapia se n’è andato, forse, e, come ironizzano i social, ha lasciato sole (e viceversa) le altre piccole sparse membra della sinistra: il Movimento Democratico e Progressista, Possibile, Sinistra Italiana. Non posso scrivere “chi più ne ha più ne metta” poiché di organizzato, a sinistra, c’è ben poco d’altro. D’altronde, Pisapia aveva proposto un Campo (ancorché Progressista) non una modalità organizzativa quello che, invece, a mio parere giustamente, desiderano i politici di MDP. Prima il Campo oppure prima il Programma e, prima o poi, vista la dichiarata indisponibilità dello stesso Pisapia, il/un leader? Purtroppo per loro, le sinistre hanno sempre avuto delle idiosincrasie negative nei confronti della leadership. Infatti, l’avvento di Renzi, quanto sia leader si vedrà, ma certamente e fermamente ha voluto esserlo, ha scompaginato la sinistra. È proprio sulla leadership di Renzi che si è arenata l’operazione, peraltro già con molti elementi di ambiguità suoi propri, condotta da Pisapia.
È chiaro, ovvero dovrebbe esserlo, che non può esistere nessuna riaggregazione a sinistra che consideri nemico il più grande partito che si trova da quelle parti, il Partito Democratico, situato a cavallo fra sinistra e centro. Se Tomaso Montanari e Anna Falcone di Alleanza popolare per la democrazia e l’eguaglianza sostengono che il PD è una variante della destra italiana, non soltanto sbagliano, ma sicuramente faranno pochissima strada. Per Pisapia e per quasi tutti gli altri esponenti nella sinistra il PD è, giustamente, un interlocutore. Nessuna sinistra italiana sarà in grado di vincere (questo verbo quasi non ha senso) le elezioni contro il PD, senza il PD. Assodato che il PD debba essere un interlocutore delle sinistre, è, però, strutturalmente, anche un competitore. Tuttavia, il gioco elettorale non è necessariamente “a somma zero”, vale a dire che le sinistre guadagnano quello che il PD perde e viceversa se le sinistre vanno male questo farebbe automaticamente bene al PD. Il gioco è molto più complicato, a cominciare dal coinvolgimento o no degli astensionisti, non di tutto il grosso modo 25 per cento di quelli che non hanno votato nel 2013, ma almeno del 10-12 per cento che, con un’offerta programmatica, di leadership e di governo, sceglierebbero di tornare a votare. Vi si potrebbe aggiungere una parte di elettori che scelsero il Movimento Cinque Stelle nel 2013 e che non sono propriamente entusiasti delle prove nazionali e locali date dai suoi esponenti.
Anche se la politica non si dovrebbe fare con i risentimenti e con i rancori, è evidente che lo scoglio più grosso nei rapporti dentro e fra le sinistre è costituito dalla figura di Matteo Renzi, dalle sue esternazioni, amplificate dai suoi seguaci e dal suo prossimo eventuale ruolo. Dopo avere detto ripetutamente no alle coalizioni, Renzi le ha riscoperte di recente (bastava che guardasse oltre le Alpi e avrebbe visto che tutti i governi delle democrazie parlamentari sono coalizioni) e adesso dichiara la sua disponibilità. Le varie sinistre sanno che dovranno comunque fare una coalizione in parlamento (se ci entreranno) e che quella coalizione ha un unico alleato plausibile: il PD, a meno che qualcuno già pensi ad offrirsi come alleato del Movimento Cinque Stelle. Vantandosi di avere avuto due milioni di voti per la sua rielezione (in realtà, meno di due milioni furono i votanti e 1.257 mila i voti per Renzi), il segretario del PD non intende farsi da parte. Però, proprio questo è l’obiettivo delle sinistre, forse anche di Pisapia: non averlo come capo. Per non perdere altro tempo, c’è una soluzione: presentare le liste, fare campagna elettorale, contare i voti ai quali, grazie alla proporzionale, corrisponderanno i seggi e si vedrà se e chi andrà a guidare il governo. In sostanza, invece di scambiarsi insulti e indulgere in rancori, è giunta l’ora che le sinistre parlino con i cittadini e si organizzino sul territorio. Le sinistre liquide faranno certamente una brutta fine.
Pubblicato AGL il 10 ottobre 2017
Sinistra: mettere paletti a un campo o aggiungere carri a una carovana?
Quando la sinistra è un “campo” ci sarà sempre qualcuno che vuole marcare i confini e mettere paletti. Qualcuno chiederà che ci sia un capo del campo. Si troverà anche qualcuno che spinge fuori i “sinistri” che dissentono perché hanno idee diverse. La sinistra deve essere, sempre, una carovana che accoglie nel suo cammino, lascia scendere, ma incoraggia chi vuole a “salire” sui suoi carri.
Strada obbligata per la legge elettorale
Fallita la brillante operazione, ispirata da Renzi che diceva: il sistema tedesco non è il mio preferito; il governo Gentiloni durerà fino alla scadenza naturale della legislatura, che cosa resta agli elettori italiani esterrefatti e insoddisfatti? Resta, anzitutto, la sensazione che ancora una volta il segretario del Partito Democratico si sia fatto mal consigliare e sconfiggere dalla sua fretta. In questo modo, ha perso, da un lato, il sostegno di Napolitano, che riteneva le elezioni anticipate una scelta da irresponsabili, dall’altro, una parte non piccola di credibilità nella sua leadership e nelle sue competenze elettoral-istituzionali. Bisognerà ripartire affinché l’Italia abbia una legge elettorale decente, che non favorisca e non svantaggi nessuno dei partiti esistenti e che dia rappresentanza politica ai cittadini e potere agli elettori prima di andare alle urne a scadenza naturale, fine febbraio 2018. Meglio se nessuno procedesse a calcoli più o meno astrusi e non si facesse inventare dai suoi costituzionalisti e politologi di riferimento l’algoritmo vincente sulla base dei risultati delle elezioni amministrative. Temo che questa considerazione rimarrà lettera morta, ma sono sicuro che chi si baserà su quei risultati andrà incontro a delusioni elettorali e politiche.
Come nessun altro paese al mondo, l’Italia rischia di avere una legge elettorale formulata dalla Corte Costituzionale che, per di più, è stata largamente costretta a procedervi ritagliando l’Italicum nelle sue componenti incostituzionali. Tutte le democrazie parlamentari dell’Europa occidentale hanno leggi elettorali (essenzialmente proporzionali) scritte dai loro Parlamenti più di cent’anni fa e appena ritoccate nel tempo. Quella tedesca risale al 1949-56. Negli ultimi venticinque anni l’Italia ha avuto quattro leggi elettorali, la migliore, quella firmata da Mattarella, fu il felice esito di un referendum popolare (di cui sarebbe ancora utile tenere conto). I parlamentari italiani e i dirigenti dei loro partiti stanno dimostrando di non avere la cultura politico-istituzionale in grado di produrre una legge che consenta, lo scrivo nei minimi termini, di “tradurre i voti in seggi”. Troppi si fanno ancora influenzare da commentatori che ritengono il premio di maggioranza, che non esiste in nessuna democrazia parlamentare, una sorta di requisito essenziale per la prossima legge elettorale. Sbagliano. Allora, tutti si meritano il sistema che consegue alla sentenza della Corte Costituzionale. Evitando il deplorevole “latinorum”, non lo chiamerò né Consultellum né, come fanno i pentastellati, Legalicum. Porterà il nome del relatore e sarà una legge elettorale proporzionale con soglia di accesso del 3 per cento alla Camera (non guasta che al Senato la soglia sia diversa, l’importante è che la traduzione dei voti in seggi sia proporzionale) e con la possibilità di esprimere preferenze. A favore di una preferenza da esprimere scrivendo il nome della candidatura preferita, è opportuno ricordarlo, gli italiani si espressero nel referendum del 1991. C’è anche da chiedersi dove vivono quelli che sostengono che le preferenze portano corruzione. In tutti questi tristi anni vissuti senza preferenze è forse diminuita la corruzione politica?
Alte si levano le critiche dei sedicenti maggioritari (che se fossero davvero tali dovrebbero chiedere il sistema inglese o quello francese) perché l’esito complessivo saranno governi di coalizione. Tutte le democrazie parlamentari europee sono governate da coalizioni. Sta per tornarci, dopo l’esperienza del 2010-2015, anche la Gran Bretagna. L’ultimo esito, da chi sarà formato il (primo) governo dopo le elezioni del 2018, non possiamo prevederlo. Lo decideranno i dirigenti di partito, ma quanto potere avranno dipenderà grazie alla legge proporzionale, non da un artificiale e distorcente premio di maggioranza (Matteo Renzi è segretario di un partito che ottenne 25 per dei voti nel 2013 e che alla Camera ha il 54 per cento dei seggi), ma dalla scelta degli elettori, proprio come dovrebbe essere in democrazia.
Pubblicato 11 giugno 2017
“Rassegnatevi, i governi li fa il Parlamento”
Intervista raccolta da Luca De Carolis
Il risultato in Gran Bretagna conferma che le maggioranze di governo le formano i parlamenti, non il voto. Avviene così in tutte le democrazie parlamentari occidentali. Dovrebbero saperlo, quelli che volevano l’Italicum …”. Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza politica a Bologna, risponde da un aeroporto estero. E infila la battuta:”Certo che da voi in Italia non succede nulla…”.
Partiamo da Oltremanica: neanche con il loro sistema maggioritario si hanno garanzie certe.
Ma non è certo una sorpresa, lì funziona così da oltre cento anni. Quello britannico è un sistema maggioritario a turno unico con collegi uninominali, il cosiddetto first past the post: ossia, quello che rende un voto in più ottiene il seggio. Poi però per la maggioranza servono accordi. D’altronde Theresa May ha sostituito Cameron come premier in base a intese in Parlamento.
La traduzione è che la legge elettorale perfetta non esiste?
Non può esistere. Ma il bello della politica è questo, la capacità di fare coalizioni.
Il maggioritario è comunque meglio del proporzionale?
Le più antiche democrazie del mondo usano il maggioritario, dalla Gran Bretagna agli Stati Uniti. E 900 milioni di indiani votano così.
Tutti Paesi dove sono passati gli inglesi, che ora dovranno tenersi una May fragile.
Prima delle elezioni il suo bicchiere era piuttosto pieno: ora invece è vuoto per lo più a metà.
Anche per colpa del sistema elettorale, lo ammetta: con un premio di maggioranza sarebbe più forte.
Per vincere bisogna prendere i voti. E poi bisogna costruire maggioranze.
In Italia le Camere non riescono a varare neanche una legge elettorale. Perché?
Semplice, non ne sono capaci. Ma dovrebbero ricordarsi che i collegi uninominali sono previsti in tutti I maggiori Paesi, comprese Germania e Francia. E servirebbero anche a noi: per tornare a partecipare, i cittadini chiedono un volto e un corpo da votare, una persona che spieghi cosa fa e perché.
Nel Tedeschellum erano previsti, seppure in maniera minoritaria rispetto alla quota proporzionale.
Se volessero davvero riprovare ad adottare il sistema tedesco, dovrebbero prenderlo così com’è: ovvero con il voto disgiunto.
Difficile, non crede?
Anche secondo me.
E allora che si fa?
La soluzione può essere quella di leggere bene le sentenze della Consulta e di capirle, per ricavarne una legge elettorale.
Attualmente di leggi ce ne sono due, il Legalicum, frutto della sentenza che ha demolito l’Italicum, e il Consultellum, che riscrisse il Porcellum.
Vanno armonizzate, innanzitutto uniformando le soglie di sbarramento. Non vedo altre alternative, ad oggi.
E il voto anticipato?
Sono assolutamente contrario. Del resto il grande errore di Matteo Renzi è stato proprio quello di legarlo all’approvazione della legge elettorale.
Perché ha stimolato il franchi tiratori nel PD?
È evidente. Anche se il grande franco tiratore è stato Giorgio Napolitano.
Quattro giorni fa li aveva avvisati con quell’attacco alle urne anticipate e alla legge (“patto abnorme”)?
Diciamo che la sua cultura politica è molto superiore a quella di Renzi e di Rosato.
Pubblicata il 10 giugno 2017
Tre sistemi elettorali a confronto: Mattarellum, Porcellum e Italicum
Restaurare non è mai una scelta apprezzabile soprattutto perché, quando sono coinvolti uomini e donne, e non statue e quadri, è impossibile riavvolgere il tempo. Cambiano gli uomini, cambiano le donne, entrambi imparano, il tempo passa e crea nuove situazioni. Dunque, non si “restaurerà” il Mattarellum che abbiamo conosciuto e che, utilizzato in tre elezioni, produsse esiti di volta in volta migliori. Riflettendo su vent’anni di elezioni e tre sistemi elettorali, è possibile fare meglio.
Qui cercherò in maniera sintetica di esaminare gli effetti del Mattarellum e del Porcellum paragonandoli a quelli proposti e promessi dall’Italicum che mai fu. Un sistema elettorale, tutti i sistemi elettorali debbono essere valutati, anzitutto, con riferimento al potere che danno agli elettori, in secondo luogo, con riferimento al Parlamento che eleggono, in terzo luogo, con riferimento alla formazione del governo. Il potere degli elettori varia a seconda che possano votare solo per un partito oppure anche per il candidato che li rappresenterà oppure anche per la coalizione preferita. Nelle democrazie parlamentari, gli elettori non votano mai per il governo. Il loro voto dà vita ad un parlamento nel quale si formerà il governo che da quel parlamento potrà essere “rimpastato” oppure sostituito nella sua interezza.
Tenendo a mente questi cinque elementi (scelta dei candidati, voto ai singoli partiti, elezione dei parlamentari, indicazione delle coalizioni, formazione del governo), è possibile costruire un indice che misuri il potere elettorale complessivo dei cittadini. A ciascun elemento sarà assegnato un punteggio che va da 0 (nullo) a 3 (massimo), con punteggi intermedi che indicano un potere ridotto (1) o medio (2). L’indice di “potere degli elettori” andrà, dunque, da 0 (nessun potere agli elettori) a 15 (massimo potere elettorale).
Partiamo dal Mattarellum. Questo sistema consentiva di votare per i candidati nei collegi uninominali e, alla Camera, anche per liste di partito. Dal momento che gli imperativi elettorali spingevano alla formazione di coalizioni pre-elettorali a sostegno dei candidati nei collegi uninominali, gli elettori avevano anche la possibilità di scegliere fra coalizioni che si candidavano al governo. La tabella che segue sintetizza questi elementi.
Nel caso dei candidati il punteggio non può essere il più elevato poiché grande fu il numero dei candidati paracadutati, quindi, 2. Per quel che riguarda le coalizioni sempre si trasformarono in governi. Quindi, 3. Le coalizioni “mascheravano”, almeno in parte, i partiti, quindi, punteggio 2 per il voto di partito. Nel caso del Parlamento, tenendo conto dell’alto numero dei trasformisti, il punteggio deve essere non più di 1. Soltanto inizialmente i governi furono espressione delle coalizioni. In nessuna delle tre elezioni 1994, 1996, 2001, il governo che aveva iniziato la legislatura riuscì a concluderla. La composizione dei governi cambiò, rispettivamente: molto nel 1996, abbastanza nel 2001, poco nel 2006 (punteggio 2).
Molto diversi sono stati gli effetti del Porcellum, un sistema elettorale proporzionale con premio di maggioranza alla coalizione che ottiene il più alto numero di voti e liste bloccate.
Con il Porcellum, gli elettori erano confinati a tracciare una crocetta sul simbolo della coalizione e nulla più in questo modo acconsentendo all’elezione dei candidati nell’ordine deciso dai capipartito (punteggio 0). I simboli dei partiti coalizzati erano visibili (punteggio 1), ma nell’opzione di voto la coalizione ha sicuramente avuto il sopravvento (punteggio 2). Anche i parlamenti eletti con il Porcellum (2006, 2008, 2013) sono stati caratterizzati dalla comparsa di un alto numero di trasformisti (punteggio 1). I governi ai tempi del Porcellum sono stati molti. Pochi derivanti dall’esito elettorale: Prodi 2006-2008 e Berlusconi 2008-2011. Altri nacquero in corso d’opera: Monti 2011-2012; Renzi 2014-2016; Gentiloni 2016-2017. Il governo Letta 2013-2014 è un mix, soltanto in parte conseguenza dell’esito elettorale (punteggio 1).
Per quel che riguarda l’Italicum, la legge che, secondo Matteo Renzi (e i suoi corifei), “tutta l’Europa ci avrebbe invidiato e metà Europa avrebbe imitato”, stiamo parlando, tecnicamente, di un aborto: una legge nata morta. Tuttavia, mentre attendiamo la probabilmente inutile e sicuramente tardiva sentenza della Corte Costituzionale, possiamo valutare quelli che sarebbero stati i suoi potenziali effetti.
All’incirca il 60 per cento dei parlamentari diventerebbe tale per designazione dei capipartito/capicorrente (punteggio 1). I rimanenti avrebbero dovuto conquistarsi i voti di preferenza (disprezzatisssimi da molti corifei). Gli elettori sono costretti a votare i partiti (punteggio 2). Il parlamento potrebbe comunque esibire un alto numero di trasformisti (punteggio 2). Nessuna coalizione avrebbe interesse a formarsi (punteggio 0). Al ballottaggio gli elettori attribuirebbero un premio in seggi che consentirebbe/obbligherebbe il partito vittorioso a governare (punteggio 3). In buona misura questo sistema avrebbe, da un lato, fortemente distorto la rappresentanza politica e enormemente ridimensionato il ruolo del Parlamento, dall’altro, avrebbe prodotto la fuoruscita dal modello di governo parlamentare delineato nella Costituzione italiana.
Il punteggio complessivo comparato, per i tre sistemi elettorali, è indicato nella figura 1.
Alla luce di questa graduatoria comparata, c’è molto da lavorare per soprattutto per quei riformatori elettorali che mirino, ancora una volta, presuntuosamente, a inventare qualcosa che tutta l’Europa ci invidierebbe, invece di imitare il meglio che in Europa funziona da almeno cinquanta e più anni.
Pubblicato i 19 gennaio 2017 su ParadoXaforum










