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Cosa imparare dal partito dell’astensione @DomaniGiornale

Le Marche sono, oramai lo sappiamo tutti, l’Ohio dell’Italia. Perdere lì, come hanno fatto i “campeggiatori” del centro-sinistra, è brutt’affare assai. Invece, la Calabria è il Tennessee dove raramente vincono i progressisti. E poi lì, troppi dicono che con poco più del 50 per cento dei non voti ha vinto il Partito dell’Astensionismo. Però, sorpresona o classica truffa elettorale, quel Partito non ha ottenuto neanche un seggio. Non sapremo mai dai suoi non-eletti se i loro non-elettori vogliono più sanità o più Palestina, più servizi e meno criminalità organizzata e sommersa. Da quale proposta più “radicale” saranno raggiunti quei novecentomila elettori che alle urne non ci sono andati e probabilmente non erano neanche andati in piazza con le bandiere della Palestina? Tanto per cominciare, sparse abbondanti lacrime coccodrillo, i politici potrebbero pensare al voto postale in tutte le sue varianti, compresa la possibilità di votare in anticipo. Lungi da me, peraltro, credere che un meccanismo tecnico risolva un problema politico gigantesco che riguarda il campo a geometria troppo variabile del centro-sinistra (e la politica italiana).

Il punto di partenza è prendere sempre atto che nelle amministrazioni locali, comuni e regioni, le elezioni si vincono sulle tematiche che riguardano e preoccupano gli elettorati delle diverse zone. Nessun elettore di destra voterà una lista di sinistra perché è Pro-Palestina. Meno che mai quegli elettori andranno alle urne dell’Ohio e del Tennessee, chiedo scusa, delle Marche e della Calabria, per “cacciare” Giorgia Meloni da Palazzo Chigi. Gli elettori prossimi venturi della California, alias Toscana, che voteranno Eugenio Giani Presidente della regione sanno quello che vogliono, ma non si aspettano che il loro voto sia una spallata al governo delle destre. Saranno tanto più soddisfatti se potranno votare una candidatura di persona che conoscono, che abita nel collegio, che fa campagna elettorale sui temi politici, economici e sociali sui quali la coalizione a suo sostegno ha elaborato una posizione condivisa. Quegli elettori non si chiederanno se stanno dalla parte giusta della storia, dove li aspetta graniticamente attestato Nicola Fratoianni. Saranno probabilmente molto più interessati a stare con chi propone credibilmente soluzioni fattibili.

A sua volta, almeno in parte, la platea degli astenuti tornerebbe in “campo” se quelle proposte la raggiungessero, se ne vedessero i portatori, se venissero convinti che, andata al governo, quella coalizione non si dividesse, non si paralizzasse in estenuanti mediazioni, non precipitasse travolta da ambizioni personalistiche e da profonde contraddizioni. Quegli astenuti hanno opinioni che possono essere plasmate e ridefinite, che un partito capace di meritevole pedagogia politica può fare cambiare a cominciare dall’insegnamento costituzionale che l’esercizio del voto è “dovere civico” (art. 48). Quel partito pedagogico sa anche che ha molto da imparare sulla sua inadeguatezza da chi si astiene, dai motivi talvolta fondati (rappresentanza tradita) ai motivi sbagliati: la politica è autoreferenziale, “non si occupa di persone come me”.

Non bisogna rottamare chi si è astenuto, ma offrire buone ragioni di ravvedimento operoso. Non bisogna disintermediare, ma fare sì che il partito e i suoi candidati/e si rapportino alle associazioni economiche (i sindacati, proprio così), sociali, religiose, culturali, non con mire egemoniche strumentalizzanti, ma per interazioni fruttuose produttive di quel capitale sociale che rende robuste e vibranti le società, anche quelle non proprio e non sempre davvero civili. Sì, la politica in Italia, la politica italiana è arrivata al tornante al quale senza esagerazioni né drammatizzanti né superlative l’astensionismo ne dichiara e evidenzia una condizione deplorevole, tutt’altro che attribuibile esclusivamente al governo di destra e tutt’altro che magicamente risolvibile da una qualsiasi coalizione di centro sinistra. Ma se il centro-sinistra vuole tornare, provare a vincere meglio che tenga conto del sintetico catalogo sopra squadernato.   

Pubblicato l’8 ottobre 2025 su Domani

Solo un governo fatto da vassalli non riconosce la Palestina @DomaniGiornale

Giorno dopo giorno Gaza diventa il condensato dei drammi e delle contraddizioni del conflitto in Medio-Oriente e delle incapacità, delle inadeguatezze e dei neppure molto oscuri disegni di alcuni protagonisti. In primis non possono che stare le tremende condizioni in cui Netanyahu ha ridotto i gazawi. Non basta dire che tutto finirebbe se Hamas liberasse gli ostaggi anche se le pressioni sui capi di quell’organizzazione debbono essere intensificate da tutti e l’eventuale bluff merita di essere chiamato con un cessate il fuoco temporaneo. I dirigenti israeliani e i loro sostenitori non possono avere dimenticato in che modo furono trattati gli ebrei nell’Europa dell’Olocausto. Oramai raggiunti dall’accusa di genocidio e con Netanyahu criminale di guerra dovrebbero porre un limite alle loro efferate azioni a Gaza. Questo esito sarebbe più probabile se il Presidente Trump smettesse di inviare armi ad Israele. Non verrà avvicinato dalla sequenza di riconoscimenti dello stato della Palestina.

 Oggettivamente, quello stato non esiste e la sua costruzione richiederà tempo e impegno. Legittimo è anche pensare che l’attuale Autorità Nazionale Palestinese non abbia né l’autorevolezza politica né la credibilità e la competenza per procedervi in maniera efficace. E’ altresì possibile dubitare che Abu Mazen riesca a controllare, disarmare, escludere i dirigenti di Hamas, ma molto difficile sarà comunque evitare che le migliaia di palestinesi che anni fa votarono Hamas e che lo hanno a lungo sostenuto non intendano avere un ruolo politico nel nuovo stato. Se il riconoscimento è un gesto politico inteso a mandare soprattutto, credo, un messaggio di profonda riprovazione al governo Netanyahu e in subordine di sostegno alle aspirazioni di molti palestinesi, anche il non riconoscimento è un gesto politico. Se il cancelliere tedesco Merz sente giustamente il peso di un passato indimenticabile, le motivazioni del governo italiano appaiono fragili e sono forse opportunistiche.

  Non compiere un gesto simbolico, ma tutt’altro che ininfluente soprattutto perché risulterebbe sgradito al Presidente degli USA, è una posizione molto criticabile che segnala subordinazione, mancanza di autonomia, forse persino rinuncia all’esercizio della sovranità nazionale da parte del governo italiano. Ancora più triste sarà il giorno in cui il riconoscimento dello Stato palestinese da parte del governo italiano dovesse arrivare a ruota di quello di Trump. Peggio ancora se quel riconoscimento fosse rivendicato come contributo alla posizione comune e condivisa dell’Occidente.

   Quello che sappiamo delle opinioni pubbliche nelle democrazie europee e occidentali nelle quali hanno la possibilità di esprimersi liberamente è che il governo israeliano ha bruciato gran parte del capitale di sostegno di cui ha a lungo goduto. Dappertutto le opinioni pubbliche occidentali hanno, per così dire, svoltato. Le immagini di repressione e di oppressione ad opera del governo israeliano assolutamente e inequivocabilmente sproporzionate rispetto a qualsiasi comprensibile rappresaglia per le atrocità commesse da Hamas il 7 ottobre 2023, soprattutto l’agonia e la morte di un numero elevatissimo di bambini, hanno giustamente contribuito alla crescita di sostegno per i palestinesi. Quel sostegno non può essere intaccato neppure dalle totalmente deprecabili manifestazioni di dissennata violenza dei sedicenti pro-Pal italiani. Al tempo stesso, quel sostegno è tuttora privo di uno sbocco politico in direzione di un reale sollievo per i palestinesi di Gaza.  

Resta da vedere se l’operazione della Global Sumud Flotilla riuscirà a conseguire i suoi obiettivi, a cominciare dalla rottura pacifica del blocco navale imposto da Israele. Da un lato, rinunciando a scorte armate, i partecipanti dimostrerebbero che mezzi non violenti possono conseguire obiettivi di notevole importanza, non tanto contro Israele, ma soprattutto a favore della popolazione di Gaza. Dall’altro lato, al governo israeliano si offre la grande opportunità di dimostrare che “pietà non l’è morta”.

Pubblicato il 24 settembre 2025 su Domani

Gaza è una tragedia dell’Umanità @DomaniGiornale

Gaza è una tragedia, non “umanitaria”, aggettivo tremendamente ambiguo in questa situazione, ma dell’umanità. Conseguenza anche, ma nient’affatto esclusiva e necessitata, dei crimini commessi da Hamas il 7 ottobre e che probabilmente Hamas avrebbe potuto evitare liberando senza condizioni gli ostaggi israeliani, Gaza sta affondano sotto il tiro incrociato di altri crimini, di gravissimi errori, di deprecabili ambizioni. La rappresaglia, secondo qualsiasi criterio davvero sproporzionata, scatenata dal Primo ministro Netanyahu lo ha giustamente reso un criminale di guerra. Finora la continuazione della rappresaglia contro Hamas e i palestinesi gli è anche servita, obiettivo da non dimenticare, a mantenere la carica e a procrastinare il processo per reati di corruzione.

L’opinione pubblica israeliana, inevitabilmente attraversata da molte linee di divisione, sembra dare priorità allo sforzo bellico. Una piccola parte protesta contro quella che è l’indifferenza del capo del governo alla sorte degli ostaggi ancora in vita. La destra, soprattutto quella religiosa, trae vantaggio dalla situazione che contempla il suo ruolo indispensabile per la continuazione del governo e ne approfitta per espandere gli insediamenti. Grande e fondato appare il timore che la democrazia in Israele venga imprigionata e sottomessa dai comportamenti di Netanyahu e dei suoi sostenitori.

Il riconoscimento, da parte di alcuni governi, non soltanto europei, di un improbabile Stato palestinese, risulta essere poco più che una mossa propagandistica più o meno apprezzabile e condivisibile, che purtroppo fa anche correre il rischio che si tralasci di pensare e di operare rapidamente per soluzioni più concrete e praticabili. La foto del segretario di Stato Marco Rubio a Gerusalemme con il Primo ministro israeliano proprio nelle ore in cui questi lanciava l’invasione di Gaza che dovrebbe essere l’operazione finale (non commento la terminologia e la sua macabra assonanza con “soluzione finale”) è certamente meno raccapricciante di quelle dei tre autocrati Xi Jinping, Putin, Kim Jong-un a Shanghai alla ricerca di un diverso ordine internazionale, mai specialità dei dittatori. Però, segnala l’impotenza degli USA e la connivenza del loro Presidente con il governo israeliano.

L’affarista newyorkese insediatosi alla Casa Bianca, stende il tappeto rosso per il criminale di guerra Putin in cambio di nulla (certo non, visti gli esiti del pessimamente organizzato e deprecabile incontro bilaterale, l’agognato Premio Nobel), ma fa di peggio con Netanyahu. Smettesse di sostenerlo economicamente e soprattutto con abbondanti forniture di armi potrebbe cercare di avvicinare la fine del conflitto. Qualcuno dovrebbe far sapere a Trump l’immobiliarista che soltanto a conflitto concluso sarà possibile cominciare i lavori per costruire, incuranti degli ordigni bellici che saranno rimasti in grande quantità, luoghi di vacanze di superlusso. Quanto breve in questa visione malata è il passaggio di Gaza dalla tragedia alla farsa che, però, sarebbe riscattata dalle migliaia di posti di lavoro a disposizione dei palestinesi locali. Questo è, finora non sono arrivate smentite e neppure indicazioni alternative, il livello di raffinatezza del pensiero geopolitico elaborato a Washington.

Immagino che sul continente europeo molti, come me continuino a sentire acutamente un profondo senso di colpa per i comportamenti dei loro governanti e dei loro connazionali ai tempi dell’Olocausto. Nessuno creda che la tragedia di Gaza offra l’opportunità di liberarsi di sensi di colpa. Anzi, dovremmo tutti interrogarci sulle ragioni della nostra inadeguatezza di pensiero e di azione. Giusto armare l’Unione Europea per dissuadere gli attacchi dal fronte orientale e difendersi adeguatamente, In qualche modo, però, interrogandosi sugli errori commessi in Medio Oriente l’Unione Europea deve provvedere anche a elaborare una strategia ad ampio raggio per il perseguimento di paci giuste fuori del suo continente, a cominciare da quel che resterà di Gaza.

Pubblicato il 17 settembre 2025 su Domani

In Francia sono in crisi i partiti, non la democrazia @DomaniGiornale

 “Chi conosce il diritto costituzionale classico e ignora la funzione dei partiti, ha un’idea sbaglia dei regimi politici contemporanei; chi conosce la funzione dei partiti e ignora il diritto costituzionale classico ha un’idea incompleta ma esatta dei regimi politici contemporanei”. Questa frase del giurista e politologo francese Maurice Duverger, è tratta dal suo giustamente famosissimo libro Les partis politiques (1951). Mantiene tutta la sua validità e bisogna farne tesoro analitico. Anni dopo, pur fiero oppositore del Gen. de Gaulle e inizialmente delle istituzioni della Quinta Repubblica, Duverger diventò sostenitore e cantore del semipresidenzialismo, modello di governo poi diffusosi con successo in Portogallo e in non poche democrazie postcomuniste dell’Europa centro-orientale. Fedele alla sua impostazione, oggi Duverger suggerirebbe di guardare alle notevoli difficoltà di funzionamento (come sono bravo a evitare la parola crisi meno che mai associandola a democrazia) della Quinta Repubblica, ma, senza in nessun modo sottovalutare l’assetto costituzionale, andando ad esplorare in special modo la struttura e la dinamica del sistema dei partiti.

   Fintantoché i partiti gollista e, in maniera appena inferiore, il Parti Socialiste hanno saputo raccogliere e organizzare il consenso dell’elettorato, la Francia, che, è opportuno ricordarlo, veniva dall’esperienza disastrosa della Quarta Repubblica, ha acquisito dinamismo, si è modernizzata, ha dato vita a energizzanti alternanze al governo e grande spolvero alla sua grandeur. Indebolitisi i partiti per molte ragioni, una delle quali è il declino delle qualità delle loro leadership, è diventato più difficile acquisire e mantenere un funzionamento soddisfacente delle istituzioni semipresidenziali.

    Nel 2017 Emmanuel Macron conquistò la presidenza sfruttando un appositamente creato veicolo elettorale che scompaginò la sinistra, soprattutto i socialisti, e in parte anche i gollisti. Poi, contando probabilmente troppo sulle sue capacità personali, non si è impegnato a sufficienza per radicare sul territorio, operazione comunque difficile, la sua comunque strutturalmente debole organizzazione politica. Riconquistata la presidenza nel 2022 soltanto grazie a quel che rimane della “disciplina repubblicana” con la quale de Gaulle escludeva democraticamente la destra da qualsiasi accesso al governo, Macron si è trovato a fronteggiare un’Assemblea Nazionale nella quale i “suoi” deputati non sono mai stati maggioranza assoluta e hanno dimostrato di non avere abbastanza forza di attrazione. Al contrario.

   La sua esagerata autostima e una malposta volontà di ripicca nei confronti di alcuni settori della sinistra, in particolare quelli guidati da Jean-Luc Mélenchon, hanno portato l’orgoglioso Presidente Macron in un vicolo cieco. Potrebbe procedere a sciogliere nuovamente il Parlamento, sperando in qualche colpo di fortuna elettorale, ma il rischio di logorare a suo personale scapito sia l’elettorato sia le istituzioni è molto grave. Non riesce a trovare, probabilmente oggi non esiste, una personalità in grado di convincere almeno parte dei rappresentanti della France Insoumise a sostenere un nuovo governo. Per di più non potendo ricandidarsi per un terzo mandato, le sue dimissioni in tempi brevi aprirebbero una voragine, pardon la strada per l’Eliseo al Rassemblement National, anche se non all’inibita Marine Le Pen ovvero, in alternativa, non meno sgradita al campione di europeismo Macron, ad un esponente anti-Unione Europea di France Insoumise. Se i non sottomessi saranno capaci, superando le loro differenze, di trovare un candidato vincente.

  Comunque vada, senza una effettiva e significativa ristrutturazione del sistema dei partiti, il funzionamento del sistema politico francese non migliorerà. Anzi, continuerà ad essere la palla al piede delle indispensabili riforme economiche e sociali la cui attuazione richiede una guida politica competente, affidabile, legittimata dal consenso elettorale. Vaste programme, bien sûr

Pubblicato il 10 settembre 2025 su Domani

Le fatiche di Sisifo della sinistra multiforme @DomaniGiornale

Da qualche tempo, forse più che nel recente passato, per intenderci ai tempi dei governi guidati da Berlusconi, le opposizioni italiane si (rap)presentano all’elettorato e all’opinione pubblica in maniera frammentata e particolaristica, conflittuale al loro interno, improponibili come governanti. In parte consapevolmente e deliberatamente, in parte anche, va detto, con egoismo e insipienza, sembrano avere deciso che ciascuna di loro rappresenta una sua parte di elettorato, che a ciascuna di loro viene appaltata quasi in esclusiva una tematica importante.

   Coerentemente con la sigla prescelta, Alternativa Verdi e Sinistra si definisce con riferimento alle tematiche ambientali, affidate a Bonelli, e alle tematiche sociali più antagoniste (quelle sulle quali il Partito Democratico è più timido) riserva di Fratoianni, sempre televisivamente ripresi insieme (par condicio). Lasciato un po’ (troppo) sullo sfondo il reddito di cittadinanza, le 5 Stelle di Giuseppe Conte, lui più che altri, si caratterizzano come il partito più contrario alla guerra con tutte le ambiguità del caso. Dal canto loro, Renzi e Calenda sono essi stessi tutto un programma personalistico e non esitano a rimarcarlo in maniera più o meno plateale ogniqualvolta possibile, preferendo farlo con prese di distanza rispetto alle posizioni del Partito Democratico.

   In quanto vero e proprio, anche se spesso insoddisfacentemente, partito, il PD non può limitarsi a possedere una sola preminente e prominente tematica che lo caratterizzi una volta per tutte. In aggiunta alla sanità e al salario minimo garantito (che non merita di essere lasciato appassire), deve avere una pluralità di offerte e di posizioni programmatiche e deve cercare di fare sintesi con quelle dei potenziali e indispensabili alleati. Al suo interno, e non soltanto perché la segretaria Elly Schlein da quell’interno, che poco si concilia con alcune sue propensioni di movimento, non viene e poco lo conosce, stanno diverse “sensibilità” che cercano di manifestarsi, per l’appunto intorno ad una tematica. Di recente, sono stati i cattolici, sì, lo so, molto più di una semplice tematica, piuttosto un posizionamento (ideale?), a esprimere il loro disagio. La sostanza complessiva è che l’elettorato percepisce una immagine variegata delle opposizioni che, talvolta attrae e talvolta respinge, a seconda dei luoghi e della prevalenza non del tutto casuale di uno o di altro oppositore.

Marciare separati per offrire il massimo di rappresentanza ad una società frammentata e conflittuale, agitata da interessi particolaristici è comprensibile. Può servire e riuscire, ma è una fatica di Sisifo. Richiede determinazione, pazienza e raffinatezza. Si esaurisce di volta in volta. Per stare alle parole della politica, il campo deve essere definito, popolato e allargato costantemente. Per colpire uniti, che è la seconda, decisiva fase, se non ad una unità impossibile, forse neppure desiderabile, da chi crede che il pluralismo è la vera ricchezza, è essenziale non soltanto formulare un programma, non una sommatoria, coerente, ma dimostrare molto più che la semplice condivisione e intenzione di sostenerlo. Invece, nelle aule del Parlamento, nel salotti dei talk televisivi, sui social, nelle piazze, i dirigenti delle opposizioni ricercano la loro visibilità segnalando quanto gli altri siano distanti e, soprattutto, siano in errore, sbaglino. Gli elettori vedono e sentono, alcuni se ne dolgono e se ne vanno (lontano dalle urne). Pochi, non sufficienti, si lasciano attrarre da promesse contrastanti. Altri, lo sappiamo da diverse ricerche, non vogliono un governo attraversato da tensioni che potrebbero essere paralizzanti se non letali.

Sarebbe sbagliato chiedere alle opposizioni di appiattirsi abbandonando temi cari e importanti per l’lettorato, ma se non riescono ad elaborare una credibile prospettiva di governo non all’ultimo minuto, il futuro loro e quel che più conta dei loro elettori sarà triste e gramo.

Pubblicato il 3 settembre 2025 su Domani

Per arrivare alla pace servono veri mediatori @DomaniGiornale

A nessuno sono note le capacità di mediazione del Presidente Trump. Al contrario, le sue esternazioni all’inizio del secondo mandato (tertium non datur!) hanno mostrato propensioni autoritarie e impositive che mal si conciliano, anzi, per niente, con gli assi portanti di qualsiasi mediazione minimamente efficace e produttiva. Infatti, i suoi maldestri passi non hanno finora prodotto nulla di positivo e molto di deprecabile. L’accettazione del cessate il fuoco, tra Russia e Ucraina e tra Netanyahu e Hamas, deve costituire senza se senza ma la premessa imprescindibile di un negoziato che conduca in tempi necessariamente non predefinibili ad una pace decente (sì, lo so che il mantra è “pace giusta e duratura”, ma non sembra funzionare). I mediatori non dovrebbero porsi nessun altro obiettivo né quello di ottenere il conferimento del Premio Nobel per la pace né quello della trasformazione delle spiagge della striscia di Gaza in una riviera internazionale di lusso. I desideri di Trump lo squalificherebbero fin dall’inizio come mediatore credibile se non fossero sostenuti dalla potenza militare gli USA e dalle dimensioni spropositate del suo ego. Quello che è da temere ancor più è la sua visione complessiva, espressa politicamente e visivamente nell’incontro in Alaska con l’autocrate Putin, di come ricostruire l’ordine internazionale, vale a dire con accordi bilaterali. Chi vuole mediare non deve stendere nessun tappeto rosso, meno che mai omaggiando l’aggressore né, naturalmente, deve continuare a vendere armi al governo israeliano.

Trump non è né il mediatore ideale né l’unico mediatore possibile anche se è inevitabile. L’Unione Europea ha l’obbligo politico e, lo scrivo con convinzione, morale di rivendicare un posto di rilievo al tavolo delle trattative. Lo può fare e deve cercare di farlo fin da adesso se le sue autorità, a cominciare dalla Presidente della Commissione Ursula von der Leyen e l’Alto Rappresentante per gli Affari Esteri Kaja Kallas, prendono l’iniziativa. A quel tavolo dovrebbe essere presente e avere un ruolo anche il segretario generale delle Nazioni Unite. Però, sono consapevole che per le sue posizioni espresse in maniera imprudente e talvolta esagerata, Antonio Guterres è persona sgradita tanto a Zelensky quanto a Netanyahu (che gradisce solo se stesso).

La situazione generale dei due conflitti mi pare talmente grave, complicata, potenzialmente foriera di sviluppi ancora più drammatici da richiedere qualche innovazione che potrebbe essere sostenuta dai policy-makers di una pluralità di stati, anche, forse soprattutto, dai Volenterosi e dalle loro opinioni pubbliche. Non soltanto credo che sarebbe opportuno che a Putin e Zelensky e a Netanyahu e Hamas venisse chiesto di suggerire un certo, piccolo, numero di mediatori a loro graditi e nei quali hanno fiducia, ma anche che emergessero candidature autorevoli di personalità di indiscusso prestigio dotate di competenza in materia. Finora sono circolate idee vecchie, inadeguate, senza retroterra storico-culturale, talvolta essenzialmente desideri, non tutti pii, purtroppo alcuni piuttosto empi.

Più pensieri più proposte più soluzioni verranno affacciate meglio sarà e più probabile sarà trovare le strade da percorrere oggi e domani perché certo porsi anche il compito di evitare la riproposizione di conflitti simili è oramai imperativo.

    Tutto questo sembra un futuribile alquanto improbabile a sostegno del quale, peraltro, non sarebbe difficile sollecitare riflessioni condivise, valutazioni dei pro e dei contro, indicazioni che i protagonisti, da Trump ai governi in conflitto e ai loro sostenitori, siano in linea di principio disponibili a muoversi in questa mai sperimentata direzione che, peraltro, presenta, a mio parere, più opportunità che rischi. L’alternativa è sotto gli occhi di tutti: prosecuzione dei conflitti e dei massacri che creano anche situazioni peggiori nelle quali trattare e costruire futuri accettabili.

Pubblicato il 27 agosto 2025 su Domani

Le elezioni regionali e il compagno trend @DomaniGiornale

Entrare e battersi nella competizione per la visibilità con la Presidente del Consiglio che occupa con la sua immagine “internazionale” tutti gli schermi del reame è operazione impervia. Meglio limitarsi a pochissime critiche mirate e plausibili, ma i dirigenti dell’opposizione italiana raramente si contengono esibendosi in critiche non sempre fondate con il risultato di accrescere la visibilità di Giorgia Meloni. Peraltro, tutti, commentatori e operatori politici, dovrebbero avere imparato e sapere che la politica internazionale non è mai la tematica dominante nelle preoccupazioni degli elettori e che gli elettori, anche quelli italiani, non hanno sempre ragione, ma sanno distinguere la posta in gioco al momento delle elezioni.

   Dunque, non sarà l’immagine di Giorgia Meloni seduta compiaciuta al fianco del Presidente Trump a farli scegliere il candidato di Fratelli d’Italia alla Presidenza della Regione Marche. In tre delle sei regioni che in relativamente rapida sequenza andranno al voto fra settembre e dicembre, il Presidente uscente è di centro-sinistra in tre di centro-destra. Le tre regioni di centro-sinistra: Campania, Puglia e Toscana sembrano inespugnabili, con il Veneto di centro-destra che è inespugnabilissimo, mentre nelle Marche e, alquanto meno, in Calabria, il centro-destra rischia, rispettivamente molto e un po’.

Al momento, la grande novità è che il centro-sinistra sembra avere raggiunto l’accordo su tutte le candidature. Anche se rimangono alcuni problemi relativi alle liste a sostegno e a candidature ingombranti e riottose ai Consigli regionali. Qualsiasi riflessione di fondo deve partire da una constatazione elementare quasi una lezione di politica, forse finalmente appresa e condivisa: “correre” separati implica la quasi certezza della sconfitta. Naturalmente e comprensibilmente, ciascuno dei potenziali alleati deve trovare il modo di affermare la sua importanza coalizionale anche per tradurla in voti. Indicare il candidato di vertice o imporre qualche tematica specifica e caratterizzante, qualche priorità nel programma da formulare e presentare è sempre il modo migliore di acquisire visibilità.

   Nessuno è così ingenuo da non vedere che nel centro-sinistra, contrariamente al centro-destra, esistono due problemi reali, preliminari e non facilmente risolvibili. Primo, la segretaria del Partito Democratico è costantemente sotto esame all’interno e fuori, anche se nessuno sa, vuole, riesce e proporre un’alternativa. Elly Schlein, la cui leadership richiede più di un approfondimento analitico e politico, ha comunque conseguito obiettivi rilevanti. Secondo, in prospettiva, ma con effetti e ripercussioni frequenti e sicuramente volute, Giuseppe Conte non ha mai (ancora?) abbandonato la ambizione e la speranza di tornare lui a Palazzo Chigi. Dunque, fa stagliare il suo profilo di governante, senza, per quel che conta, trovare il mio gradimento. Qui mi limiterò a dire che il centro-sinistra dovrà comunque chiarire i criteri di selezione dell’antagonista della Meloni dei record, di durata e stabilità.

La pazienza e la insistenza con la quale Schlein continua opportunamente a cercare di costruire un campo il più largo possibile, senza nocive contraddizioni e contrapposizioni, vanno apprezzate poiché sono assolutamente meritorie. Gli esiti delle imminenti elezioni regionali potranno confortarla. Qualche decennio fa i socialdemocratici tedeschi all’opposizione si trovarono a vincere una dopo l’altra quattro, cinque elezioni in alcuni importanti Länder. Scherzosamente, ma non troppo, si riferirono a quella che sembrava (e fu) la tendenza all’aumento cospicuo dei loro voti anche a livello nazionale come al Genosse Trend (compagno trend). Ecco, con l’aggiunta di un po’ di quell’indispensabile impegno sul territorio, talvolta colpevolmente mancato, per parlare con la “gente” (che è fare politica, le sei elezioni regionali prossime venture potrebbero diventare il Genosse Trend del centro-sinistra.

Pubblicato il 20 agosto 2025 su Domani

Chi vuole la pace deve costruire la democrazia @DomaniGiornale

Si vis pacem, para bellum. Crediamo tutti di sapere che cosa significa questa frase latina. È il chiaro invito ad armarsi per rendere noto e evidente a tutti i potenziali aggressori che il nostro paese, pardon, la nostra Nazione è pronta, forse non solo militarmente, a difendersi. Qualcuno pensa, a mio parere correttamente, che prepararsi alla guerra non voglia dire preparare la guerra, che la difesa richieda non solo armamenti, ma convinzioni, condivisioni e motivazioni, che, concretamente, più di quarant’anni (1946-1989) di preparazione alla guerra sul continente europeo abbiano garantito la pace. Certo, l’equilibrio del terrore fu il prodotto della (rin)corsa agli armamenti fra le due superpotenze: USA e URSS, e anche della consapevolezza di entrambe che un bellum nucleare avrebbe significato il loro reciproco annientamento. Insomma, in qualche modo, prepararsi alla guerra in maniera visibile contribuì a mantenere la pace (almeno sul continente europeo). Che in materia di preparazione attiva e consapevole si possa scrivere molto altro è pacifico (sic), another time another place. Ma queste considerazioni mi paiono sufficienti a delineare in maniera non fumosa il problema e la soluzione che viene proposta.

Si vis pacem, para pacem è quel che, senza nessuna elaborazione, alcuni politici e intellettuali, non soltanto italiani contrappongono a chi indica la strada della preparazione alla/della guerra. Credo che sarebbe opportuno soffermarsi a pensare non soltanto quale pace dovremmo preparare, ma soprattutto in che modo, delineandone tempi, ritmi, strumenti, protagonisti. “Svuotare gli arsenali e colmare i granai”, come suggerito da Sandro Pertini nel suo primo discorso da Presidente della Repubblica italiana (1978-1985), è una bella frase ad effetto che riecheggia quanto auspicato dal profeta Isaia: “spezzare le spade per farne aratri, trasformare le lance in falci”. Con la stessa logica, ma non vorrei proprio essere blasfemo, chi sostiene, in Italia sono molti collocati a sinistra, che le spese per le armi vanno a scapito di quelle per la sanità, dovrebbe volere trasformare i carri armati e i droni in autoambulanze, perorando e agendo affinché, condizione essenziale, lo facessero tutti gli Stati. Rimane più che lecito chiedere a chi non vuole che l’Italia partecipi al riarmo dell’Unione Europea quale contributo alternativo la nostra Nazione dovrebbe impegnarsi a dare per la difesa degli stati membri dell’UE.

Preparare la pace significa anche, preliminarmente, riflettere sulle cause delle guerre, proporre spiegazioni storico-comparate, segnalare le modalità con le quali un certo numero di guerre sono state prevenute e impedite. Non vedo nulla di tutto questo nei discorsi di coloro che dicono di voler preparare la pace.

Si vis pacem, para democratiam. Nelle relazioni internazionali una generalizzazione molto robusta e finora non smentita è che le democrazie non si fanno la guerra fra di loro. È vero che le democrazie sono entrate e continuano a entrare in guerra per una pluralità di motivi, ma l’avversario, il nemico è regolarmente, provatamente uno Stato, una Nazione non democratica. Al proposito, fa la comparsa in tutta la sua pregnanza e lungimiranza la lezione del grande filosofo illuminista tedesco Immanuel Kant (1724-1804). La sua tesi è che la pace perpetua è conseguibile ampliando l’area delle Repubbliche, termine usato allora per definire i paesi governati, non nell’oppressione e nella repressione, ma con il consenso, e procedendo alla costruzione di una Federazione di Repubbliche. L’Unione Europea ne è un ottimo esempio.

   Qui si pone il problema di come preparare la democrazia. Troppo facile sostenere che non è possibile esportare la democrazia chiavi in mano. Piuttosto le democrazie e i democratici, soprattutto coloro che vogliono la pace, hanno il dovere politico e morale di favorire e incoraggiare tutti quei molti comportamenti che nei differenti paesi vanno nel senso della protezione e promozione dei diritti civili e politici, sostenendo coloro che se ne fanno portatori e difensori. La diplomazia, vigorosa, insistente e generosa, delle idee e delle risorse è il modo migliore per fare sbocciare i fiori democratici.

Ne concludo che chi vuole la pace deve coerentemente e insistentemente operare per portare, piantare, innaffiare quei fiori democratici a cominciare dai paesi responsabili di operazioni militari più o meno speciali e affini. Hic et nunc. Il resto sono chiacchiere.

Pubblicato il 10 agosto 2025 su Domani

Le ambizioni di due ego non portano alla pace @DomaniGiornale

Con l’aggressore russo bisogna certamente parlare. Senza illusioni. Le più o meno velate minacce reciproche e negozialmente propedeutiche Trump e Putin se le sono già scambiate. Per ciascuno di loro l’incontro in Alaska serve anche obiettivi che sono congiuntamente personali e politici. Almeno per il momento, Putin ha ottenuto il riconoscimento di interlocutore privilegiato del Presidente degli USA. Da parte sua, perseguendo il Premio Nobel per la pace, Trump vuole porre fine all’operazione militare [molto] speciale che da più di tre anni il governo autoritario russo conduce contro la democratica Ucraina. Entrambi sono largamente consapevoli che, riuscissero a raggiungere un accordo, non soltanto la loro leadership rifulgerebbe, ma ne conseguirebbero anche due effetti collaterali di enorme importanza.

   Il primo effetto sarebbe quello di dimostrare l’impotenza dell’Unione Europea, apparentemente nano militare e diplomatico, comunque finora incapace di porre fine ad un gravissimo conflitto sul suo territorio. Ad entrambi molto sgradita, l’UE si è, peraltro, è opportuno ricordarlo e sottolinearlo, dimostrata capace di contribuire in maniera decisiva allo sforzo bellico degli ucraini.  Il secondo effetto, inevitabile, se l’aggressione venisse premiata con la cessione di territorio ucraino, uno, forse il principale e più sbandierato, degli obiettivi russi, si configurerebbe come l’accettazione a non troppo futura memoria di un esito simile per Taiwan insistentemente rivendicata da Xi Jinping come parte integrante della sua Cina. Il compiaciuto amichevole silenzio della Cina sulla guerra contro l’Ucraina è molto eloquente.

Premiare le ambizioni e le azioni russe creerebbe un precedente pesantissimo a tutto scapito della sovranità e della democrazia di Taiwan. In qualche modo, però, è necessario non sottovalutare le preoccupazioni russe e tenerle in grande conto per aprire qualsiasi negoziato. Siamo ancora ai preliminari che non possono non consistere prioritariamente nel cessate il fuoco accompagnato da uno scambio di prigionieri e, soprattutto, dalla restituzione dei bambini rapiti agli ucraini. A questo punto, lo sapremo prestissimo, si porrà il problema di una vera propria conferenza di pace.

   Forse, Trump si renderà conto che senza la partecipazione, in particolare di Zelensky, ma anche dell’Unione Europea, qualsiasi pace “giusta e duratura” è semplicemente impensabile. Se l’operazione militare speciale russa è stata davvero motivata dalla inquietudine dell’autocrate del Cremlino che sentiva la Nato “abbaiare” ai suoi confini, la rinuncia ufficiale di Zelensky a entrare nell’Alleanza Atlantica è cruciale. Appena meno essenziale è che l’Unione Europea affermi, senza specificarne i tempi, che non esistono le condizioni per l’adesione dell’Ucraina all’UE. Meglio non addentrarsi nel complicatissimo e conflittuale discorso sulla neutralità dell’Ucraina. Inevitabile, invece, è affrontare l’argomento delle terre rare abbondantemente presenti sul territorio controllato dal governo ucraino e fortemente concupite da Trump e da Putin. Saranno necessari impegni ucraini di garantire l’accesso e la commercializzazione senza pregiudizi e senza discriminazioni di quelle preziosissime risorse.

Al momento queste considerazioni possono tutte sembrare premature, ma è indubbio che fanno parte del bagaglio di aspettative e aspirazioni con il quale Trump e Putin si apprestano al loro incontro in Alaska. Quanto più problematico e meno produttivo risulterà l’incontro tanto più probabile diventerà il ritaglio di un ruolo importante per il Presidente ucraino e per chi, Ursula von der Leyen e/o Kaja Kallas verrà designata a rappresentare l’Unione europea. L’esito peggiore dell’incontro sarebbe la continuazione del conflitto, se non addirittura una congiunta, più o meno sottile, ma vergognosa e irricevibile richiesta di capitolazione a Zelensky. Estote parati.

Pubblicato il 13 agosto 2025 su Domani

Meloni ferita nell’orgoglio dal caso Almasri si (ri)legga Montesquieu @DomaniGiornale

Molta acqua è passata sotto i ponti di Parigi, di Londra, di New York e Washington, certamente anche di Roma, da quando nel 1748 il barone di Montesquieu formulò e argomentò uno dei principi fondamentali delle democrazie: la separazione dei poteri. Per evitare il despotismo, allora, monarchico, è indispensabile che il potere esecutivo ceda il potere legislativo e il potere giudiziario ad organismi appositi che eserciteranno quei poteri con grande, rispettata autonomia. Passarono pochi anni e sull’altra sponda dell’Atlantico nelle originali e preziose riflessioni de Il Federalista (1787-1788) Hamilton e Madison si espressero a favore di “istituzioni separate che condividono i poteri” con nessuna istituzione posta in condizione di prevalere sulle altre, se non temporaneamente e, comunque, in maniera, entro certi limiti, controversa e controvertibile.

Abitualmente nelle democrazie i contrasti più frequenti si svolgono fra i detentori del potere esecutivo e gli operatori del potere giudiziario. I primi che, pure dovrebbero essere consapevoli che i loro atti sono sempre suscettibili del controllo di legalità, di conformità alla Costituzione e alle leggi vigenti, si fanno sempre forti del consenso elettorale. Hanno vinto le elezioni. Traducono e eseguono un mandato politico. Il popolo è con loro, non con i magistrati che di voti non ne hanno e, probabilmente, non ne otterrebbero. Questa giustificazione di chiara impronta populista è molto frequentemente utilizzata, ma non per questo più convincente e accettabile. Né è possibile sostenere che le decisioni assunte in sede giudiziaria contraddicendo quanto fatto dai detentori del potere esecutivo configurino una situazione di governo dei giudici i quali, non eletti, usurperebbero il potere degli elettori, del popolo, quindi sovvertendo la democrazia.

Pulsioni populiste e scivolate in direzione autoritaria sono apparse anche nell’ambito del mondo “progressista” italiano, espresse e alimentate, ad esempio, dai variegati sostenitori della democrazia “decidente”. Ridurre i lacci e i lacciuoli a chi avendo vinto le elezioni ha (avrebbe) non soltanto il potere, ma anche il dovere di decidere secondo le sue preferenze e il programma sottoposto all’elettorato e, in qualche modo e misura, approvato fu l’obiettivo sbagliato di quei terribili semplificatori.

Una concezione, alquanto schematica, di questo tipo porta inevitabilmente, da un lato, a criticare pesantemente tutti coloro che chiedono il rispetto rigoroso delle regole e ritengono corrette le sanzioni contro chi le viola. Dall’altro, implica che esista una gerarchia di decisori in base al potere politico di cui dispongono. Dunque, le decisioni, appunto, più importanti debbono essere prese dai detentori delle cariche di governo più elevate. Da qui, fermo restando che lasciare libero il generale libico Almasri è stata, sostengono, una decisione politica con la quale i magistrati europei e italiani non dovrebbero interferire, proviene la rivendicazione della Presidente del Consiglio Meloni della sua responsabilità politica. Mandare al giudizio del Tribunale dei Ministri soltanto i Ministri dell’Interno e della Giustizia e un sottosegretario significa riconoscere che tutt’e tre hanno uno spazio decisionale autonomo e una specifica responsabilità politica. Questo riconoscimento turba profondamente Giorgia Meloni che lo sente e lo interpreta come una grave diminutio della sua autorità e autorevolezza. Non è lei che controlla tutto e decide tutto.

Il suo dispiacere e la sua irritazione, immediatamente condivisi dai suoi sostenitori, rivelano una brutta e sgradevole concezione della democrazia. Potere politico concentrato nel vertice, potere dell’esecutivo che non deve essere sottoposto al controllo della legge sono entrambe posizioni che si scontrano, lo scrivo con un po’ di retorica democratica, con i principi formulati da Montesquieu e da Hamilton e Madison. Quella strada porta in una direzione sbagliata, pericolosa.

Pubblicato il 6 agosto 2025 su Domani