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Il modello laburista condivisibile ma difficile da esportare in Italia #intervista @ildubbionews del 6 luglio 2024

Secondo il professore emerito di Scienza Politica a Bologna nel nostro Paese «possiamo guardare alla Francia» mentre il Regno Unito è lontano
Intervista raccolta da Giacomo Puletti
Secondo Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza Politica a Bologna, la vittoria di Starmer dimostra che «per vincere bisogna riuscire a rappresentare o ad attrarre almeno una parte del centro» anche se «quello di Starmer, comunque lo si guardi, è qualcosa che non può essere riprodotto in Italia» dove invece «possiamo guardare alla Francia».
Professor Pasquino, il voto britannico ha certificato il ritorno dei laburisti al governo, con la svolta al centro impressa da Starmer: che ne pensa?
La Gran Bretagna offre sempre lezioni di democrazia. In questo caso ne ha offerte tre: la prima è che chi ha il potere si logora. Quattordici anni di governo sono lunghi, i conservatori hanno fatto qualche errore anche nella scelte delle loro leadership e alla fine hanno dovuto cedere il potere. La seconda è che il sistema elettorale incentiva i cambiamenti di opinione, amplificandoli. La terza, molto rilevante, è che per vincere bisogna riuscire a rappresentare o ad attrarre almeno una parte del centro. Che non significa, ovviamente, abbandonare destra e sinistra.
Quel centro che invece in Francia è in grande difficoltà, con Macron stretto tra destra e sinistra. È giusto fare alleanze solo “contro” qualcuno, come è il Fronte popolare?
Il centro di Macron ha perso dei pezzi negli ultimi anni ma in parte li ha anche recuperati. E io penso sia giusto creare alleanze contro qualcosa. In Francia la situazione è molto più polarizzata che in Gran Bretagna. Il Le Pen inglese sarebbe Farage, che però ha già vinto con la Brexit. Le Pen deve invece ancora dimostrare di aver tagliato i ponti con quella destra dalla quale provengono lei, suo padre e gran parte degli elettori. Inevitabilmente il Fronte popolare è un’alleanza contro, ed è normale che sia così. Poi possiamo riflettere sulle contraddizioni ma è logico che sia orientato contro l’estrema destra. E non è in nessun modo anti democratico.
In Italia tendiamo sempre a voler riprodurre le mode che vengono dall’estero, e infatti in molti già parlano di seguire l’esempio di Starmer: è replicabile?
Quello di Starmer, comunque lo si guardi, è qualcosa che non può essere riprodotto in Italia. Perché è capo di un grande partito, ma non di una colazione. Noi un partito grande lo abbiamo avuto con la Democrazia Cristina, alla quale dobbiamo ancora essere in buona misura grati, ma sarebbe un errore guardare alla Gran Bretagna. Possiamo guardare alla Francia, ma lì c’è il doppio turno che è un grande dispensatore di opportunità politica a chi sa coglierle. E sembra che la sinistra le abbia colte attraverso le d’esistenza. Che però sono possibili e anzi rese imperative dal sistema elettorale.
E dunque cosa dovrebbe fare il centrosinistra italiano per tornare vincente?
Il centrosinistra italiano deve pensare in maniera generosa. La France Insoumise di Melenchon ha rinunciato a una parte considerevole di loro candidati perché era l’unico modo per creare un campo alternativo a Le Pen. Quanti in Italia tra Conte, Renzi, Schlein e gli altri sarebbero disposti a fare queste rinunce purché vinca un candidato comune? È un discorso proponibile ma difficile, e questo è il vero scoglio da superare.
È difficile desistere se le posizioni nella coalizione sono opposte…
Bisogna avere una base valoriale comune che deve essere ovviamente la Costituzione. Dopodiché si possono accettare le diversità su alcune politiche ma bisogna sapere definire e negoziare. È un’operazione complessa e che richiede enorme pazienza, intelligenza e che di certo un doppio turno come quello francese faciliterebbe.
Chi ha provato, con successi alterni, a riproporre la terza via in Italia è stato Matteo Renzi, ormai dieci anni fa: cosa è cambiato da allora?
Prenda due fotografie: una di Renzi mentre parla in pubblico o in Senato e una di Starmer mentre fa campagna elettorale. La personalità di Renzi era travolgente. Era ego all’ennesima potenza. La figura di Starmer è quella di mi coordinatore di un’attività politica rilevante, di un selezionatore dei parlamentari. E che offre agli elettori l’immagine di un leader rassicurante. Tutto quello che faceva Renzi serviva solo alla sua grandeur e questo è stato l’errore drammatico. La sua personalità ha sfasciato un’operazione che poteva essere vincente se fosse stata condotta con meno personalismo e maggiore generosità.
Schlein ha aperto al centro negli ultimi giorni: può essere lei la figura in grado di compiere questo passo?
Se la domanda è “può essere” la risposta è affermativa, se la domanda è “sta tentando di farlo” la risposta è probabilmente sì, se la domanda è “ci sta riuscendo” la risposta è probabilmente ancora no. Perché Schlein viene da un passato movimentista piuttosto acceso e quindi ci sono dei “sospetti” nei suoi confronti. Serve che faccia qualcosa di più ma non posso essere io a dirle cosa fare. Ma certamente deve capire quali sono i punti di resistenza alla sua leadership, che ci sono. E cercare di capire come superarli.
Come può inserirsi in questo contesto il Movimento 5 Stelle di Conte?
Conte è in una tenaglia. Deve in qualche modo entrare in quel campo se vuole vincere ancora. Riuscendo a smussare alcune delle sue punte. Dall’altro lato deve mantenere alcuni aspetti di sua visibilità utili a tenere un certo elettorato in quel campo. Forse Conte l’ha capito ma non so se sarà in grado di fare un’operazione del genere. La vittoria lo vedrebbe premiato in uno schieramento nel quale non potrà mai essere primo. La sconfitta avrebbe ripercussioni sul Movimento e sullo stesso Conte.
Pubblicato il 6 luglio 2024 su Il Dubbio

Ancora non ha vinto nessuno. Il doppio turno francese spiegato da Pasquino @formichenews del 01/07/2024

Dai seggi francesi non c’è ancora una indicazione su chi ha vinto né su chi ha perso, è il bello del doppio turno. Il ballottaggio sancirà il colore della nuova maggioranza parlamentare, e molto dipenderà da come si muoveranno le forze politiche. Il commento di Gianfranco Pasquino, accademico dei Lincei e professore emerito di Scienza Politica
Nelle elezioni, come le legislative francesi, nelle quali si vota con un sistema di doppio turno in collegi uninominali, nessun partito “vince” al primo turno. Più correttamente è in testa se ha più voti degli altri. Vincono, il seggio, i candidati che ottengono il 50 per cento più uno di voti espressi (votanti almeno il 25 per cento degli aventi diritto). Fonte “Le Monde” ore 10.30, 76 eletti al primo turno, leggera prevalenza, forse 40, fra cui Marine, del Rassemblement. Quindi, Le Pen non ha vinto, ma il suo Rassemblement National ha ottenuto più voti dei concorrenti, ancorché con una percentuale un po’ inferiore a quella che le attribuivano i sondaggi.
Adesso, comincia quella che non è una operazione riprovevole, nient’affatto un mercato delle vacche, ma un confronto/scontro aperto e trasparente. Candidati e candidate di RN rimarranno tutti/e in lizza. L’onere di decidere che cosa fare al secondo turno è tutto sulle spalle e, sperabilmente, anche nella testa dei dirigenti nazionali e locali del Nouveau Front Populaire e di Ensemble pour la République. Per loro, il problema da risolvere è quello della desistenza di quale candidato poiché se “corrono” entrambi le probabilità di una sconfitta sono elevatissime. I voti del primo turno contano, chi è in testa fra i due, magari con un buon vantaggio, deve diventare il candidato unico al secondo turno. Però, esistono sicuramente situazioni locali nelle quali i dirigenti sanno che il riporto di voti è più sicuro se uno specifico candidato rimane in campo (largo). Decenni di storia elettorale hanno dimostrato che al secondo turno i candidati dei partiti estremi hanno maggiori difficoltà a fare il pieno dei voti della loro area. Al contrario, il candidato della sinistra moderata sa di potere attrarre tutti o quasi i voti degli elettori “estremi”, che non hanno altra scelta, e di non perdere voti verso il centro.
Un numero nient’affatto trascurabile di elettori ragiona proprio nei termini che gli americani definiscono electability, probabilità/capacità dei candidati di riuscire a essere eletti. Personalità, radicamento, esperienza, credibilità, capacità di rappresentare al meglio la coalizione che si è formata per fare convergere i voti su di lui/lei per eleggerlo sono i fattori cruciali. Talvolta può risultare decisiva la propensione degli elettori a raccogliere e tradurre in voto l’invito dei dirigenti, a loro volta quanto credibili?, dei loro partiti. Quel che sappiamo, infine, è che è sempre stato difficilissimo per i Le Pen, Jean-Marie e Marine, andare oltre il loro perimetro iniziale, trovare voti aggiuntivi al secondo turno. Scampoli di destra disponibile ce ne sono, forse anche qualche gollista che il Generale de Gaulle disapproverebbe sferzantemente. Conta la loro collocazione nei collegi dove potrebbero essere decisivi. Alla fine, una lezione è chiara e significativa: il doppio turno offre grandi opportunità ai candidati, ai dirigenti, ai massa media e ai commentatori (sic!), ma soprattutto agli elettori. Alors, l’esito lo scrivono loro.
Pubblicato il 1° luglio 2014 su Formiche.net
Il ballottaggio fa bene alla democrazia e sbaglia chi a destra dice il contrario @DomaniGiornale

Il ballottaggio è una variante dei sistemi elettorali a due turni. Questi sistemi richiedono che al primo turno sia dichiarato vincente colui/colei che ha ottenuto la maggioranza assoluta dei voti espressi. Altrimenti si svolge un secondo turno di votazioni al quale sono ammessi/e coloro che soddisfano i criteri predefiniti: i primi due, qui oppure tutti coloro che hanno ottenuto una certa percentuale di voti oppure essere fra i primi tre, quattro, cinque, e così via. Peraltro, nella Terza Repubblica francese il doppio turno utilizzato era del tutto aperto, vale a dire non solo potevano passare al secondo turno tutti i candidati presentatisi al primo turno, ma erano ammesse anche nuove candidature. Assolutamente fuori luogo e sbagliato è parlare di ballottaggi quando le candidature rimaste in lizza sono più di due. Meglio, ma anche no, essere creativi: trilottaggi, tetralottaggi, etc
Il ballottaggio è la modalità assolutamente prevalente nel caso di elezioni a cariche monocratiche: sindaci, governatori negli USA, presidenti della Repubblica, ma non in USA e, per esempio, non in alcune repubbliche presidenziali, come l’Argentina dove è sufficiente il 45 per cento oppure anche solo il 40 per cento purché, clausola importantissima, con un vantaggio del 10 per cento sul secondo classificato. Non esiste nessun Primo ministro eletto direttamente dai suoi concittadini, pardon, dal popolo. Sarebbe, comunque, auspicabile che la sua elezione fosse affidata ad un sistema che preveda il ballottaggio. Ne va in buona misura della sua rappresentatività e della sua legittimità. Dovendo, per essere eletto, ottenere la maggioranza assoluta dei votanti avrebbe l’obbligo, compatibilmente con la sua posizione di partenza, di diventare il più rappresentativo possibile. Più ampia la rappresentatività più forte la legittimità.
L’esistenza del ballottaggio ha una molteplicità di implicazioni per tutti i protagonisti: dirigenti dei partiti; candidati; elettori. La prima implicazione è che al primo turno la quasi totalità dei dirigenti dei partiti vorrà presentare una candidatura per “contare” i suoi elettori e per farli eventualmente “valere” appunto al ballottaggio quando li inviterà a dare il voto al candidato preferito ovvero, comunque, meno sgradito. Ricorro ad un unico esempio, estremo, ma proprio per questo di straordinario interesse.
Nelle elezioni presidenziali francesi del 2002 la proliferazione di candidature a sinistra: un comunista, qualche trotskista, due ecologisti, un socialista dissidente, ebbe un impatto devastante su Lionel Jospin, candidato ufficiale del Parti Socialiste che, per 200 mila voti, risultò escluso dal ballottaggio a favore dell’estremista di destra Jean-Marie Le Pen. Prima lezione del sistema con ballottaggio: fin dal primo turno bisogna tentare di evitare la frammentazione di uno schieramento. Anche il successivo ballottaggio fra Le Pen e il presidente in carica, il gollista Jacques Chirac, produsse riflessioni e azioni del massimo interesse per chi vuole capire la logica e la dinamica del ballottaggio. Privi di un candidato sul quale avrebbero potuto convergere, gli elettori che si consideravano di sinistra, dirigenti e militanti, in particolare, ma non solo, del Parti Socialiste, si trovarono ad un bivio: trincerarsi dietro la formula pilatesca “né l’uno né l’altro” oppure dare indicazione di voto. Nel primo caso avrebbero lasciato tutto il rischio della sconfitta e tutto il merito della vittoria a Chirac. Invece, annunciando il voto a favore del Presidente gollista contro lo sfidante di estrema destra avrebbero potuto contarsi al tempo stesso dando anche mostra di grande generosità politica e (ri)affermando il principio fondamentale della disciplina repubblicana: nessuna apertura a destra, nessuna accondiscendenza con la destra. In Italia l’equivalente non sarebbe la conventio ad excludendum che veniva esercitata nei confronti sia dei neo-fascisti sia dei comunisti, ma piuttosto la pregiudiziale antifascista.
L’esito del ballottaggio francese dimostrò con i numeri che a Le Pen non riuscì nessun sfondamento, ma la conquista di appena qualche centinaio di migliaia di voti in più, mentre i voti ottenuti da Chirac corrisposero in maniera sostanziale alla somma dei suoi gollisti più quelli delle inquiete e troppo sparse membra della sinistra. Il ballottaggio servì agli elettori che si erano spappolati al primo turno per dimostrare di avere imparato la lezione e di saperla mettere in pratica.
In effetti, questo dell’apprendimento è un ulteriore elemento positivo del ballottaggio. Nelle due settimane intercorrenti fra il primo voto e il secondo, entrambi i candidati rimasti in lizza debbono impegnarsi a fondo nello svolgimento del compito più bello della politica. Sono tre gli adempimenti che lo sostanziano: spiegare il programma facendo risaltare originalità e priorità delle politiche proposte; raggiungere il maggior numero di elettori compatibilmente con alcuni valori irrinunciabili: evidenziare le caratteristiche, non solo politiche, ma anche personali, che lo/la rendono la scelta preferibile, migliore nelle condizioni date. Al suo specifico livello qualsiasi ballottaggio usufruisce di notevole visibilità e, attraverso gli operatori dei mass media, anche i peggio attrezzati e i meno obiettivi, spinge verso la trasparenza. La competizione ostacola e impedisce trame oscure che i più politicizzati degli operatori hanno tutto l’interesse a denunciare.
Infine, l’esito non è qualcosa che possa essere sottovalutato o addirittura trascurato nella valutazione politica complessiva del ballottaggio. Matematicamente vince chi ha ottenuto la maggioranza assoluta dei voti espressi. Detto altrimenti, la maggioranza assoluta dei votanti produce la vittoria del candidato preferito ovvero, ad ogni buon conto, meno sgradito. In democrazia, la maggioranza assoluta conferisce logicamente e politicamente legittimità a colui/colei che l’hanno ottenuta e che, in qualche modo, dovranno tenerne conto nel loro operato. Anche se, per lo più, gli eletti/e si affrettano a dichiarare “sarò il/la Presidente di tutti”, nella pratica non sarà così, ma il buon proposito rimane significativo e avrà qualche incidenza sui comportamenti concreti, tutti da registrare, studiare, soppesare e valutare.
Molte voci critiche del ballottaggio si sono levate dal centro-destra, i cui candidati, spesso, ma nient’affatto regolarmente (non disponiamo di dati affidabili a causa della straordinaria varietà delle situazioni: candidature, loro provenienza, loro alleanze) risultano/erebbero sconfitti nei ballottaggi. Più spiegazioni, spesso caso per caso, spesso idiosincratiche, sono plausibili e possibili per ciascuna e per tutte queste sconfitte, anche che le candidature delle destre non sanno andare oltre il loro perimetro di partenza. Le destre italiane scelgono come spiegazione prevalente la propensione opportunistica del centro-sinistra a dare corpo a grandi ammucchiate, alleanze confuse e pasticciate, a sostegno dei suoi candidati pervenuti al ballottaggio. In un certo senso, questa è proprio la logica che sta a fondamento del ballottaggio: consentire agli elettori di “ammucchiarsi” dietro la candidatura, come già detto, meno sgradevole/sgradita. Grazie a Matteo Salvini “quando il popolo vota ha sempre ragione” (se vota due volte ha doppiamente ragione), è plausibile rovesciare la valutazione delle destre. Lungi da qualsiasi manipolazione, il ballottaggio è un generoso e efficace dispensatore di risorse politiche che vanno dall’aumento di informazioni alla trasparenza della competizione e dei sostenitori, lobby incluse, alla facoltà di cambiare voto con riferimento all’offerta dei candidati. Non è poco. Chi vuole elettori interessati, informati e partecipanti (chi non vota non conta) deve elogiare incondizionatamente il ballottaggio e battersi per preservarlo.
Pubblicato il 28 giugno 2024 su Domani
Due o tre cosine che so sulle presidenziali in Francia. Firmato Pasquino @formichenews

Il semipresidenzialismo francese con il sistema elettorale a doppio turno è un grande dispensatore di opportunità politiche. Ma soltanto a chi, conoscendolo, sa come utilizzarlo. L’analisi del professor Gianfranco Pasquino
“Una riconferma non scontata” è il titolo dell’editoriale del “Corriere della Sera”. In effetti, nessuno, meno che mai la maggior parte dei commentatori italiani, ha fatto degli sconti a Emmanuel Macron. Pochissimi, poi, si sono curati di fare due conti, ad esempio, sul numero dei voti. Nelle elezioni questi numeri assoluti danno molte più informazioni delle percentuali. Comincerò dal famigerato problema dell’astensione, secondo troppi, giunta a livelli elevatissimi. Ecco: al primo turno il 10 aprile votarono 35 milioni e 923 mila 707 francesi (73,69%); al ballottaggio 35 milioni 96mila 391 (71.99%): una diminuzione quasi impercettibile e, per di più facilmente spiegabile. Non pervenuto al ballottaggio il candidato da loro votato al primo turno circa 900 mila elettori hanno comprensibilmente pensato “fra Macron e Le Pen ça m’est égal” e se ne sono andati à la mer. I paragoni sono sempre da fare con grande cautela, ma nello scontro Trump/Biden novembre 2020 votò il 66,7% degli americani che festeggiarono l’alta affluenza e l’esito.
Nelle due settimane trascorse dal primo turno Macron è passato da 9milioni 783 mila 058 voti a 18.779.642 quindi quasi raddoppiando il suo seguito, mentre Marine Le Pen è passata da 8milioni 133mila 828 voti a 13 milioni 297 mila 760, 5 milioni di voti in più. L’aumento dei voti per Macron va spiegato soprattutto con la confluenza degli elettori di Mélenchon (più di 7 milioni al primo turno), variamente e erroneamente catalogati come populisti, più quelli comunisti (800 mila) e socialisti (di Anne Hidalgo, 600 mila). La crescita di Le Pen è dovuta agli elettori di Zemmour (2 milioni 485 mila 226). Entrambi hanno tratto beneficio dallo sfaldamento dei repubblicani già gollisti che avevano votato Valérie Pécresse : 1.679.001 elettori alla ricerca del meno peggio. Insomma, una elezione presidenziale nient’affatto drammatica, con esito largamente prevedibile (parlo per me e per fortuna scrivo quindi posso essere controllato e verificato), decisivamente influenzato dalle preferenze calcolate (che significa basate su valutazioni e aspettative) degli elettori francesi.
Honni soit colui che contava su una vittoria di Marine Le Pen per fare aumentare le vendite del giornale su cui scrive e per dichiarare il crollo dell’Unione Europea. Tuttavia, un crollo, in verità, doppio, c’è stato e meriterà di essere esplorato anche con riferimento all’esito delle elezioni legislative di giugno: ex-gollisti e socialisti sono ridotti ai minimi termini anche se con Mélenchon stanno non pochi elettori socialisti.
Uno dei pregi delle democrazie è che la storia (oops, dovrei scrivere “narrazione”?) non finisce -lo sa persino Fukuyama autore di alcuni bei libri proprio sulle democrazie- e che le democrazie e, persino (sic) gli elettorati continuano a imparare. Marine Le Pen ha annunciato che mira a conquistare la maggioranza parlamentare. Non ci riuscirà. Il doppio turno in collegi uninominali, che non è affatto un ballottaggio, come leggo sul “Corriere della Sera” 25 aprile, p. 3, offre a Mélenchon l’opportunità di “trattare” con Macron a sua volta obbligato a trovare accordi più a sinistra che al centro. Presto, avremo la possibilità di contare quei voti tenendo conto delle mosse e delle strategie politiche formulate per conquistarli e combinarli. Il semipresidenzialismo francese con il sistema elettorale a doppio turno è, come scrisse più di 50 anni fa Domenico Fisichella, un grande dispensatore di opportunità politiche, ma soltanto a chi, conoscendolo, sa come utilizzarlo.
Pubblicato il 25 aprile 2022 su Formiche.net
VIDEO Semipresidenzialismo, doppio turno, leadership politica liberal-riformista: che invidia, la Francia! @WarRoomCisnetto #TraScienzaePolitica @UtetLibri

Se a Roma ci fosse un Macron
Enrico Cisnetto ne discute con Sandro Gozi, Eurodeputato Renew Europe e Segretario Generale Partito Democratico Europeo, Marc Lazar, Presidente School of Government Luiss – Roma, Professore di Storia e Sociologia Politica Istituto Sciences Po – Parigi e Gianfranco Pasquino, Professore emerito Scienza Politica Università Bologna, autore di “Tra scienza e politica. Un’autobiografia” (UTET)
21 aprile 2022
Non è vero che il sistema francese premia gli estremisti @DomaniGiornale


Sono un estimatore nella sua interezza del sistema semipresidenziale francese della Quinta Repubblica. Ha efficacemente portato la Francia fuori dalla palude (l’espressione è di Maurice Duverger) garantendo governabilità e alternanza. La sua validità è testimoniata anche dalla diffusione che il modello complessivo, con pochi adattamenti, ha avuto dal Portogallo a Taiwan, dalla Polonia ad alcuni stati africani. Pour cause. Naturalmente, è possibile riscontrare qualche inconveniente, discutibile, cioè da sottoporre a discussione, ma bisogna saperlo fare con le opportune osservazioni “sistemiche”. Vale a dire che ciascuna componente del sistema deve essere vista e valutata, correttamente definita, nell’ambito complessivo del semipresidenzialismo. Ho l’impressione che Carlo Trigilia (“Domani”, 13 aprile) sia scivolato in un serio fraintendimento guardando al sistema elettorale maggioritario a doppio turno per, alla fine, liquidarlo come inadeguato in sé e ancor più per l’Italia. Un conto è l’elezione del Presidente della Repubblica, un conto alquanto diverso è l’elezione dell’Assemblea nazionale. Sempre di doppio turno si tratta, ma quello per la Presidenza è un doppio turno tecnicamente “chiuso”: al secondo turno, correttamente definito ballottaggio, accedono solo i primi due candidati. Qui non è possibile fare nessun discorso sulla (dis)proporzionalità dell’esito. Piuttosto, è molto probabile che entrambi i candidati cercheranno di offrire il massimo di rappresentanza politica all’elettorato, pur sapendo di avere dei limiti. Alla fine, il vittorioso dichiarerà inevitabilmente che intende rappresentare tutti i suoi concittadini, essere il “loro” Presidente e toccherà agli studiosi, all’opinione pubblica, all’opposizione valutare se, come e quanto saprà tenere fede alla promessa.
Il doppio turno per l’elezione dell’Assemblea nazionale è “aperto”, vale a dire possono accedere al secondo turno tutti i candidati che hanno superato una soglia predeterminata, nel caso francese, almeno il 12,5 per cento dei voti degli aventi diritto. La soglia è alta; è stata spesso messa in discussione; sono state esplorate alternative, ma nata come 5 per cento, arrivata al 12,5, là è rimasta. Sicuramente e inevitabilmente, sovrarappresenta i partiti grandi (premio di “grandezza” non distante, ma molto diverso da un premio di maggioranza) rendendo difficilissima la vita dei partiti piccoli e sottorappresentando quelli che si collocano alle estreme dello schieramento partitico che in Francia e non solo va da destra e sinistra e viceversa. Non è affatto vero che questo doppio turno premia gli estremisti, come sembra sostenere e temere Trigilia. Al contrario, serve proprio per scoraggiarli e sottorappresentarli a meno che godano di un elevato e diffuso consenso nel qual caso, però, democraticamente vincono il dovuto. Riferirsi al successo “presidenziale” di Mélenchon e ai voti di Zemmour per sostenere che la polarizzazione è uno degli effetti deprecabili del doppio turno è semplicemente sbagliato, anche perché il doppio turno, che sarà un ballottaggio, li ha esclusi. Semmai, si potrebbe deprecare che la vittoria di Macron o di Le Pen dipenda dai voti di quegli specifici elettori etichettati come estremisti. Pronti, non tutti, lo sappiamo, ad entrare nell’arena del ballottaggio, saranno costretti a scegliere una candidatura meno estrema di quella votata al primo turno. Incidentalmente, rispetto alle elezioni del 2017, non c’è dubbio che Marine Le Pen si è deliberatamente “moderata” per conquistare voti gollisti insoddisfatti dalla républicaine Valérie Pécresse. Insomma, le critiche di Trigilia sono fuori bersaglio.
Pubblicato il 15 aprile 2022 su Domani
Domandona preliminare da porre a chi vi parla di #LeggeElettorale “Quale è l’ultimo libro/articolo che hai letto sui sistemi elettorali?” #ignoranti #manipolatori
Torna il sexissimo dibattito sulle leggi elettorali. Usando sempre rigorosamente il plurale, sistemi proporzionali e sistemi maggioritari, è subito il caso di affermare ad altissima voce che il criterio dominante di qualsiasi scelta deve essere quello del potere degli elettori. Ridotti i deputati a 400 e i senatori a 200, sia il maggioritario inglese sia quello francese a doppio turno sono praticabili. I collegi uninominali dei deputati avrebbero 125 mila elettori; quelli dei senatori 250 mila, tutti raggiungibili facendo campagna sul territorio. I proporzionalisti hanno l’obbligo di trovare un’altra, non l’ampiezza dei collegi, giustificazione per la loro proposta.
Parlamentari a lezione dai francesi
Guardare con invidia ai risultati elettorali francesi e sostenere che in Italia tutto questo sarebbe stato conseguibile con le riforme renzian-boschiane e l’Italicum significa non sapere e non capire nulla né delle forme di governo né delle leggi elettorali. Il semi-presidenzialismo francese si fonda sull’elezione popolare diretta del Presidente della Repubblica. Poiché è assolutamente improbabile che un candidato ottenga la maggioranza assoluta al primo turno si va al ballottaggio fra i due candidati che hanno ottenuto più voti. Il ballottaggio che, inevitabilmente, bipolarizza la competizione, non dà premi in seggi, ma attribuisce la carica. Il grande merito di Macron è stato quello di avere fatto campagna elettorale su una tematica fortemente bipolarizzante: “Europa Sì/No”, conquistando voti dai gollisti, dai centristi, dai socialisti. Nelle elezioni legislative, l’effetto di trascinamento della sua vittoria presidenziale è stato meno grande delle previsioni, ma sufficiente a consegnare la maggioranza assoluta all’Assemblea Nazionale ai parlamentari eletti del suo schieramento: La République en Marche.
Il 75 per cento dei deputati non hanno fatto parte dell’Assemblea eletta nel 2012. Quindi c’è stato un enorme rinnovamento favorito dal sistema elettorale a doppio turno nei collegi uninominali. Gli elettori che sono andati alle urne (l’unico neo della vittoria de La Rèpublique en Marche è il tasso di astensionismo giunto addirittura al 57 per cento) sono riusciti a dare al Presidente una maggioranza assoluta, 308 seggi su 577, ma non hanno, come si temeva, fatto scomparire l’opposizione. Il doppio turno nei collegi uninominali consente agli elettori non soltanto di valutate la personalità del candidato/a, le sue qualità, eventualmente, la sua capacità di rappresentanza, ma anche al secondo turno di votare in maniera strategica, vale a dire di scegliere candidature che operino come contrappeso al Presidente e alla sua maggioranza. È un fenomeno verificatosi più volte nella storia della Quinta Repubblica, in maniera più evidente in occasione della vittoria presidenziale di Sarkozy nel 2007. Insomma, il semipresidenzialismo francese è riuscito fino ad oggi a consentire la formazione di maggioranze di governo, talvolta coalizioni, dando significativo potere agli elettori (incidentalmente, due voti “liberi”, debbo proprio scriverlo, sono più efficaci di uno), rendendo possibile l’alternanza, ma anche favorendo la ristrutturazione del sistema dei partiti.
Il Presidente socialista François Hollande non si è ricandidato nella consapevolezza, corroborata dai sondaggi, che sarebbe andato incontro ad una sonora sconfitta, poi subita dai candidati del suo partito. Ecco, il semi-presidenzialismo francese e la legge elettorale a doppio turno nei collegi uninominali consentono una chiara attribuzione di responsabilità ai detentori delle cariche con gli elettori messi in condizione di premiarli/punirli proprio a seconda delle loro “prestazioni”. Nulla di tutto questo sarebbe stato possibile con le riforme italiane sconfitte dal referendum e con la legge elettorale dichiarata in più punti incostituzionale. Ridicoli sono, pertanto, le sommarie e semplicistiche comparazioni che proliferano sulla rete e nelle dichiarazioni dei parlamentari italiani ai quali è lecito chiedere di imparare qualcosa. Cambiare forma di governo è, naturalmente, un’operazione difficilissima, ma non impossibile. Però, la legge elettorale che il Parlamento deve, comunque, formulare potrebbe ispirarsi al doppio turno francese: più potere agli elettori, rappresentanza politica assicurata nei collegi, spinta alla formazione di coalizioni che daranno vita a governi. Questi sono gli elementi caratterizzanti la dinamica politica francese che è giusto invidiare, che è possibile imitare. Fuori dal chiacchiericcio su occasioni sprecate, che mai furono tali, e proposte che mai sono state fatte. Macron mette in cammino la Francia, mentre i capi dei partiti italiani e i loro parlamentari rimangono in stallo.
Pubblicato AGL il 20 giugno 2017
Mattarelli, malintenzionati e meline #LeggeElettorale
Avendo scritto una legge elettorale che tutta l’Europa ci avrebbe invidiato e che metà Europa avrebbe imitato, è del tutto naturale che i renziani siano rimasti disorientati dalla sentenza della Corte Costituzionale che ha triturato l’Italicum appena un po’ meno di quello che aveva fatto con il Porcellum, il vero padre dell’Italicum. Incredibilmente, quasi all’unisono i renziani, in politica, nel giornalismo, nei social, continuano ad additare il grandissimo pericolo che il paese corre con il “ritorno alla proporzionale”. Qui cascano tutti gli asini, renziani di varia e variabile osservanza. Infatti, in primo luogo non esiste “la” proporzionale, ma diverse varietà di leggi elettorali proporzionali, con clausole di accesso al Parlamento e di contenimento/riduzione della proporzionalità dell’esito, la variante tedesca essendo sperimentatamente la migliore. In secondo luogo, il Porcellum era un sistema elettorale proporzionale più o meno distorto dal premio di maggioranza. Nel 2006, il 70 per cento dei parlamentari fu eletto con riferimento proporzionale ai voti ottenuti dai loro partiti; nel 2008, addirittura l’85 per cento furono eletti proporzionalmente e nel 2013 di nuovo il 70 per cento. In realtà, renziani et al desiderano un premio che distorca la rappresentatività dell’esito e consenta che il partito (oppure, meno probabile, la coalizione) che ottenga più voti venga premiato con un numero di seggi che lo porti alla maggioranza assoluta. Il sistema rimarrebbe di fatto proporzionale, alla distorsione della rappresentanza si arriverebbe con quello che, in maniera chiaramente manipolatoria, è definito premio di governabilità. Dove (dovrei precisare, ma per chi nulla sa e nulla legge di scienza politica, la precisazione suona pedantesca, in quale libro in quale manuale?) sia scritto che la governabilità si conquista riducendo/comprimendo la rappresentatività rimane molto misterioso. Quindi, attenzione, i renziani non vogliono affatto un sistema elettorale maggioritario né di tipo inglese né di tipo francese, entrambi essendo molto competitivi e, quel che più conta, entrambi richiedendo collegi uninominali. Né Renzi né Berlusconi desiderano un sistema elettorale non soltanto fondato sulla competitività, ma che non consentirebbe loro di nominare i rispettivi parlamentari.
È in questa chiave che si può capire quanto strumentale sia l’indicazione da parte di Renzi del Mattarellum. La prova provata è che le giornaliste renziane si affrettano ad aggiungere che Renzi lo propone, ma nessuno lo vuole: quindi, già morto. Il fatto è che le proposte di riforma elettorale attualmente giacenti nella Commissione Affari Costituzionali della Camera sono trenta, dieci delle quali presentate da deputati del PD. Se il Mattarellum fosse davvero la proposta ufficiale del Partito Democratico, il capo del Partito, anche se non ancora segretario, avrebbe dovuto sconsigliare la proliferazione e il capogruppo da lui voluto avrebbe già dovuto invitare al ritiro di proposte che intralciano l’iter del Mattarellum. Nel frattempo, viene avanzata l’ipotesi di un blitz di approvazione del Mattarellum alla Camera per forzare la mano al Senato oppure, più probabilmente, per dimostrare che sono gli altri a non volere il Mattarellum e per chiedere elezioni anticipate, altra stupidaggine poiché senza leggi elettorali abbastanza omogenee le elezioni anticipate porterebbero a quella Weimar che, incuranti dell’assurdità del paragone, alcuni commentatori ventilano come futuro dell’Italia. In questo caso, un futuro agevolato dai comportamenti di Matteo Renzi e dei suoi sostenitori che preferiscono portare il sistema politico nell’ingovernabilità se non riescono a riconquistare il governo.
Quanto alle sentenze della Corte Costituzionale su Porcellum e Italicum, è egualmente sbagliato tanto addossare ai giudici la responsabilità di avere in definitiva scritto, fra taglia e cuci, una legge proporzionale che, invece, è l’esito inevitabile del disboscamento di quanto di palesemente incostituzionale i sedicenti riformatori avevano lasciato o inserito nell’Italicum quanto decidere che i paletti posti dalla Corte obblighino ad andare in una specifica direzione, essenzialmente proporzionale. La Corte ha detto quello che non bisogna fare. Al Parlamento spetta stabilire che cosa è meglio fare per ottenere una buona legge elettorale che non dia, al momento, vantaggi e non configuri svantaggi per nessuno. Con due o tre ritocchi, il Mattarellum può sicuramente essere una legge di questo tipo. Altrimenti, come Giovanni Sartori, dal quale traggo anche questo insegnamento, non si stancava di sostenere, il sistema migliore nelle condizioni date è il doppio turno in collegi uninominali. E basta.
Pubblicato il 8 aprile 2017

