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Democrazia, non melassa #paradoXaforum

Gli editorialisti del “Corriere della Sera” continuano a inquietarmi, anzi, ad irritarmi. Lo fanno con grande nonchalance. Spesso annunciano solennemente grandi verità, ad esempio, contrariamente a quel che (non) ha (mai) scritto Francis Fukuyama “la storia non è finita”. Avessero mai letto il libro! Qualche volta, poi, le enunciazioni sono non solo fattualmente sbagliate, ma pericolose poiché annegano differenze cruciali e conducono in melasse e paludi dalle quali non si esce più (e, infatti, lì rimangono a dibattersi).
“L’obiezione [alle critiche ai suoi comportamenti balordi] che Trump sia stato democraticamente eletto (come del resto Putin o Xi Jinping o Orbán o Erdogan, sorvolando sull’affidabilità di certe votazioni) non sposta di un millimetro che [la democrazia] sia entrata in una fase clinica delicatissima” (Carlo Verdelli, La democrazia archiviata, “il Corriere della Sera”, 6 marzo 2025, p. 1 e 36).
Questa frase, il cui tenore è simile a molte altre che vengono periodicamente pubblicate da “il Corriere” più spesso che da altri, è assolutamente diseducativa, nei fatti e nelle implicazioni. In primo luogo è sbagliato “sorvolare sull’affidabilità di certe votazioni”. Elezioni libere, segrete, periodiche stanno al cuore delle democrazie, ma le democrazie si fondano su diritti e Costituzioni. Si può discutere del quantum di manipolazione venga effettuato in crescendo in Ungheria, Turchia e Russia, ma di elezioni politiche democratiche in Cina non è proprio il caso di parlare. Secondo, chi scrive di politica ha l’obbligo di documentarsi, di controllare i fatti, di fare riferimenti verificabili e verificati. Il fact-checking non è un gioco di società; è un esercizio utilissimo, pedagogicamente importante, altamente democratico. Consente di aprire e svolgere dibattiti e confronti in pubblico combinando dati e interpretazioni, facendo crescere la quantità e la qualità delle conoscenze, affinando le spiegazioni.
Chi andasse, come dovrebbero sempre fare i giornalisti, gli opinionisti e, naturalmente, gli studiosi, ad analizzare le migliori serie statistiche sulle democrazie, Freedom House, Economist Intelligence Unit, V-Dem, riscontrerebbe un notevole aumento del numero dei sistemi politici democratici nel secondo dopoguerra e troverebbe traccia di alcune difficoltà e problemi di funzionamento spesso seguiti da soluzioni, e nessun crollo, tranne il Venezuela Nessun ingresso dei regimi democratici attualmente esistenti in, qualsiasi cosa significhi, “una fase clinica delicatissima”. A qualche affannato commentatore, mi sento di dire: Medice cura te ipsum.
In giro per il mondo, dall’Iran al Myanmar, sono molti gli oppositori, uomini, donne, studenti, intellettuali, che mettono regolarmente consapevolmente continuativamente a rischio la loro personale salute proprio per conquistare i fondamenti della democrazia. Questa, dove, quando, chi e come, lottano proprio per la democrazia, sarebbe una bella ricerca. Ho molte idee in materia. Quanto alla morte della/e democrazia/e non avviene per cause naturali, ma per mano di sicari e criminali. Le democrazie non muoiono. Vengono uccise, per lo più dalle elite, economiche, militari, politiche, burocratiche, religiose. Proprio mentre completo questo sintetico post, l’autorevole, come si usa dire, “New York Times”, riferendosi ad una serie di improvvisate decisioni del Presidente Trump (e del consigliere Musk), titola Democracy Dies in Dumbness: “nessun presidente è stato così ignorante delle lezioni della storia, così incompetente nell’attuare le sue proprie idee”. Ma, molto resiliente, la democrazia tollera anche la stupidità del Presidente USA. Chi vivrà vedrà.
Pubblicato il 7 marzo 2025 su ParadoXaforum
VIDEO I “ludi cartacei” negli autoritarismi. Finalità e conseguenze #Intervento al #Convegno IL PENSIERO DI GIACOMO MATTEOTTI – Accademia Nazionale dei Lincei

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Gianfranco Pasquino
Giacomo Matteotti fu, è sempre doveroso sottolinearlo e ribadirlo, un uomo rigoroso e coraggioso. Già nel mirino dei fascisti, la sua durissima, articolata e dettagliata denuncia dell’irregolarità delle elezioni italiane del 6 aprile 1924 spinse i fascisti a decretarne e compierne l’assassinio.
Quelle elezioni anticiparono quanto avvenne in seguito, quasi subito, a partire dal Portogallo di Salazar, in non poche situazioni di autoritarismo nelle quali si tennero consultazioni elettorali dall’esito essenzialmente scontato. Qui, delineato il contesto, brevemente analizzata la legge elettorale, valutati i risultati, la mia relazione si indirizza all’individuazione in chiave comparata delle motivazioni che spingono un certo numero di leader autoritari a organizzare e a consentire lo svolgimento di elezioni.
Ludi cartacei
Non può esistere nessuna democrazia laddove non si vota. Infatti, se non si tengono elezioni, il demos (popolo) è privato dell’essenziale kratos (potere) di esprimere le proprie preferenze in materia di persone e di partiti. Tuttavia, non è affatto detto che possano essere considerati democratici automaticamente tutti i sistemi politici nei quali si tengono consultazioni elettorali. Infatti, a parte i brogli, sempre possibili anche nei regimi democratici, da tempo molti regimi non democratici hanno proceduto ad organizzare procedimenti elettorali variamente manipolandoli e efficacemente controllandone gli esiti. Nei regimi totalitari, Unione Sovietica, Cina, Corea del Nord, le elezioni servono fondamentalmente come strumento di mobilitazione della cittadinanza e si svolgono entro i confini del partito totalitario senza nessuna possibilità di partecipazione per gli oppositori, mentre diversa è stata e continua ad essere la situazione nei regimi autoritari, anche nella variante regimi militari (ad esempio, in Brasile negli anni settanta del secolo scorso).
Un buon numero di governanti autoritari sono convinti di avere in misura, più o meno grande, abbastanza consenso per vincere comunque quelle elezioni. Quasi nessuno di loro dubita di avere la capacità di impedire, se necessario anche con la violenza, il successo di qualsiasi opposizione. Sono convinti che la situazione complessiva del regime e della distribuzione del potere non sarà in nessun modo o quasi cambiata dal risultato elettorale. Certamente, il regime non verrà rovesciato da(gli) elettori che si rivelassero in maggioranza favorevoli all’opposizione. L’unico rischio percepito, ma non troppo temuto, è che gli oppositori si dimostrino più popolari delle aspettative, dei rapporti delle polizie segrete e di eventuali sondaggi di opinione. Pertanto, tenendo conto di rischi non necessari e di costi, in energie e in denaro, inevitabili, la domanda “perché i governanti autoritari decidono di andare a elezioni?” è del tutto legittima ed esige una risposta convincente.
Quale ne è l’utilità, particolaristica, per singoli capi autoritari, e sistemica, per il regime che vogliono costruire e tenere sotto controllo, delle consultazioni elettorali? Molto probabilmente i capi autoritari perseguono uno o più dei seguenti obiettivi: la ricerca di legittimazione interna, domestica e internazionale; la mobilitazione dei sudditi, singoli, gruppi, associazioni, favorevoli al governo autoritario; l’identificazione degli oppositori. Dal canto suo, quel che rimane dell’opposizione non ha scelta. Se intende dimostrare agli osservatori esterni che il capo autoritario non ha il controllo democratico e completo sul sistema politico, ha il dovere politico di prendere parte alle elezioni. Deve offrire un’alternativa ai suoi elettori, nella consapevolezza dei rischi che tutti i suoi candidati, come Giacomo Matteotti, e coloro che coraggiosamente vorranno comunque essere suoi elettori inevitabilmente corrono. Riflettere sulle motivazioni e sulle azioni dei governi autoritari e delle opposizioni serve a illuminare le modalità di esercizio e di eventuale consolidamento del potere autoritario, ma anche della validità o meno delle reazioni e risposte delle opposizioni. Nonostante un numero crescente di analisi anche approfondite e comparate, abbiamo ancora molto da imparare sia per smascherare sia per meglio contrastare i numerosi autoritarismi tuttora esistenti e prosperanti.
Da almeno mezzo secolo una pluralità di organizzazioni internazionali, a partire dalle Nazioni Unite (ONU), compresa l’Unione Europea, procedono al monitoraggio delle elezioni politiche in numerosi stati per lo più di dubbia democraticità. Personalmente, ho svolto il compito di osservatore parlamentare in due occasioni elettorali di enorme importanza, entrambe nel Cile di Pinochet. Nel 1988 quando in un referendum/plebiscito la domanda rivolta all’elettorato cileno riguardava l’estensione per alcuni anni del governo guidato dal Gen. Pinochet: sì/no. Prevalsero i “no” portando alla seconda occasione elettorale l’anno successivo 1989: le elezioni presidenziali alle quali Pinochet non si candidò e che furono vinte dal candidato democristiano Patricio Aylwin sostenuto dalla Concertazione Democratica formata da praticamente tutti i partiti di opposizione con regolarità formale del procedimento elettorale. In quelle due occasioni imparai lezioni che solo chi lavora “sul campo” può ricevere e apprendere.
Troppo spesso, ancora oggi, infatti, gli osservatori elettorali giungono sul luogo delle elezioni all’incirca una settimana prima del voto e, nel migliore dei casi, riescono a valutare lo svolgimento di quel voto, sono ammessi ad assistere allo spoglio delle schede, si trovano in condizione di cogliere e denunciare errori e manipolazioni dell’esito. La mia esperienza, la lettura di alcune esperienze altrui, ma, in special modo, una migliore conoscenza delle dinamiche elettorali, molto più complesse di quel che si pensava, mi ha portato ad alcune riflessioni e conclusioni che trovano riscontro nella documentata denuncia di Giacomo Matteotti relativa alla sostanziale irregolarità delle elezioni politiche italiane del 1924.
Quel che avviene il giorno del voto è il prodotto variamente costruito molti mesi prima. Dunque, possiamo pure apprezzare positivamente quel che vediamo e non vediamo quando gli elettori imbucano la scheda nell’urna e quando gli scrutatori leggono scheda per scheda. Assolutamente indispensabile, però, è sapere attraverso quali passaggi si sia arrivati al giorno della votazione. Alcuni passaggi sono sempre, comunque e ovunque, obbligati. Il primo riguarda il riconoscimento e l’accettazione dei partiti ammessi a concorrere e delle candidature da loro presentate. Nelle recenti elezioni presidenziali russe, è noto che Putin ha provveduto per tempo a scoraggiare e impedire la presenza di partiti di opposizione e, quando da lui ritenuto necessario, ad emarginare fino all’eliminazione fisica, gli oppositori più temerari.
Nel 2024 mezzo mondo è già andato, ad esempio, la Russia, la Polonia, il Portogallo, l’India, oppure andrà, ad elezioni a livello nazionale. In questo mezzo mondo ci sono molti regimi autoritari dalle cui esperienze concrete e dalle modalità con le quali svolgeranno le elezioni sarà possibile trarre una pluralità di insegnamenti, generali: su regole e comportamenti, e specifici: sui contesti e sui protagonisti. Grazie alle conoscenze di cui già disponiamo saremo in grado di meglio illuminare e comprendere quello che succederà e non succederà e per quali motivi. Grazie a quello che impariamo potremo addirittura giungere ad una migliore comprensione delle elezioni passate, del loro significato, del loro impatto.
In questo relativamente sintetico intervento, l’oggetto è costituito dalla dettagliata, precisa e potente denuncia formulata dal deputato socialista Giacomo Matteotti riguardante la irregolarità delle elezioni politiche tenutesi il 6 aprile 1924. Come vedremo, tutti i punti sollevati e sottolineati con vigore da Matteotti contribuiscono a delineare le modalità con le quali, probabilmente non in maniera coordinata e strategica, ma sicuramente deliberata e criminale, le autorità fasciste hanno perseguito i loro obiettivi. Del tutto consapevole che, secondo l’insegnamento di Giovanni Sartori, chi conosce un solo caso non conosce neppure quel caso (vale a dire, non può mai essere in grado di affermare con sicurezza che cosa è normale e che cosa è eccezionale), ogniqualvolta possibile farò ricorso a comparazioni.
L’esito
Le elezioni politiche del 6 aprile 1924 si tennero in una situazione nella quale il Duce mirava a dimostrare a tutti i protagonisti politici, in particolare, sia alle opposizioni sia a coloro che attendevano opportunisticamente a schierarsi, sia al Re, a se stesso e ai gerarchi intorno a lui sia, da ultimo, ma di non minore importanza, all’opinione pubblica internazionale, che il fascismo già godeva di ampio, diffuso, probabilmente, addirittura maggioritario, consenso elettorale (che terrei molto distinto dal più esigente consenso politico). Peraltro, Mussolini non intendeva correre nessun rischio cosicché affidò a Giacomo Acerbo (1888-1969), sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, la stesura di una nuova legge elettorale. Sul tronco della esistente legge proporzionale venne innestato un cospicuo premio di maggioranza. Alla lista che avesse ottenuto più voti, ma almeno il 25 per cento, sarebbero stati attribuiti i due terzi dei seggi. Con affluenza alle urne di quasi il 64 per cento degli aventi diritto, la composita Lista nazionale dei fascisti, spudorato carrozzone elettorale, ottenne il 60 per cento dei voti e conquistò 355 seggi. Il Partito Socialista Unitario, per il quale Matteotti fu rieletto deputato, ottenne 422.957 voti e conquistò 24 seggi.
Per completezza di informazione, la tabella riporta i numeri assoluti e le percentuali di voti ottenute da tutte le liste e i partiti presentatisi. Due dati spiccano: da un lato, il 60 per cento di voti ottenuti dalla Lista Nazionale (nota come Listone) ampia aggregazione voluta e guidata dai fascisti; dall’altro, la frammentazione complessiva dello schieramento di liste e partiti contrario al fascismo, fra l’altro, segnale di debolezza e vulnerabilità delle sinistre, anche di non marginale insipienza.
TAB. 1 Risultato delle elezioni politiche nazionali del 6 aprile 1924
| Partito | Risultati | Seggi | ||||
| Voti | % | ± | Num | ± | ||
| 21. Lista Nazionale | 4 305 936 | 60,09 | n.d. | 355 | n.d. | |
| 4. Lista nazionale bis | 347 552 | 4,85 | n.d. | 19 | n.d. | |
| 5. Partito Popolare Italiano | 645 789 | 9,01 | n.d. | 39 | n.d. | |
| 3. Partito Socialista Unitario | 422 957 | 5,90 | n.d. | 24 | n.d. | |
| 23. Partito Socialista Italiano | 360 694 | 5,03 | n.d. | 22 | n.d. | |
| 19. Partito Comunista d’Italia | 268 191 | 3,74 | n.d. | 19 | n.d. | |
| 10. Partito Repubblicano Italiano | 133 714 | 1,87 | n.d. | 7 | n.d. | |
| 7. Partito Democratico Sociale Italiano | 111 035 | 1,55 | n.d. | 10 | n.d. | |
| 18. Liberali | 78 099 | 1,09 | n.d. | 4 | n.d. | |
| 6. Liberali indipendenti | 74 317 | 1,04 | n.d. | 4 | n.d. | |
| 15. Partito dei Contadini d’Italia | 73 569 | 1,03 | n.d. | 4 | n.d. | |
| 8. Opposizione costituzionale | 72 941 | 1,02 | n.d. | 8 | n.d. | |
| 12. Slavi e Tedeschi | 62 491 | 0,87 | n.d. | 4 | n.d. | |
| 13. Opposizione costituzionale | 45 365 | 0,63 | n.d. | 5 | n.d. | |
| 11. Opposizione costituzionale | 33 473 | 0,47 | n.d. | 0 | n.d. | |
| 2. Liberali | 29 936 | 0,42 | n.d. | 3 | n.d. | |
| 22. Camillo Corradini | 29 574 | 0,41 | n.d. | 2 | n.d. | |
| 17. Partito Sardo d’Azione | 24 059 | 0,34 | n.d. | 2 | n.d. | |
| 14. Fasci nazionali | 18 062 | 0,25 | n.d. | 1 | n.d. | |
| 9. Liberali | 12 925 | 0,18 | n.d. | 1 | n.d. | |
| 1. Opposizione costituzionale | 6 153 | 0,09 | n.d. | 1 | n.d. | |
| 16. Liberali indipendenti | 5 275 | 0,07 | n.d. | 1 | n.d. | |
| 20. Liberali indipendenti | 3 395 | 0,05 | n.d. | 0 | n.d. | |
| Iscritti | 11 939 452 | 100,00 | ||||
| ↳ Votanti (% su iscritti) | 7 614 451 | 63,78 | n.d. | |||
| ↳ Voti validi (% su votanti) | 7 165 502 | 94,10 | ||||
| ↳ Voti non validi (% su votanti) | 448 949 | 5,90 | ||||
| ↳ Astenuti (% su iscritti) | 4 325 001 | 36,22 | ||||
Almeno un risultato di quelle elezioni dell’aprile 1924 costituì per Matteotti, pur nella disperazione generale, un motivo di soddisfazione: il suo partito degli espulsi risultò il primo dei partiti della sinistra lacerata, con 422.957 voti e 24 eletti, a fronte dei 360.694 voti con 22 eletti del Partito Socialista Italiano e dei 268.191 voti con 19 eletti del Partito comunista d’Italia. Nonostante tutto, nell’ora del grande pericolo i lavoratori appartenenti alla classe sociale che ciascuno dei tre partiti intendeva rappresentare e guidare, avevano dato il maggiore consenso relativo a Turati e a Matteotti. Ma questo esito non poteva essere sufficiente e soddisfacente per chi, come Matteotti e i socialisti riformisti, credeva nella democrazia basata sulle preferenze dei cittadini e sulle regole attraverso le quali quelle preferenze potevano essere espresse e fatte contare.
La denuncia
Nella seduta della Camera dei deputati del 30 maggio 1924 dedicata alla “Verifica dei poteri e convalida degli eletti”, il neo-rieletto deputato Giacomo Matteotti pronunciò un lungo, circostanziato e documentato discorso inteso a stigmatizzare l’irregolarità complessiva delle elezioni e a chiederne il riesame dell’esito alla Giunta per le elezioni. Denunciò le violenze che in ottomila comuni avevano negato alle minoranze la possibilità di parlare in pubblico, che il sessanta per cento dei candidati socialisti non aveva potuto circolare liberamente nelle circoscrizioni, che molti avevano dovuto cambiar residenza o emigrare, che nei comuni di campagna i fascisti occupavano le sezioni elettorali, che le elezioni non erano valide di fronte alla dichiarazione del governo di rimanere in carica qualunque fosse il loro esito.
Nel 1924 probabilmente per impossibilità tecnica e politica di copertura dell’intero territorio nazionale, ma anche perché gli oppositori ancora godevano di presenza, di visibilità, di sostegno, Mussolini consentì qualche forma di competizione. Tuttavia, come documenta Matteotti, le intimidazioni e le scorrettezze furono numerosissime, diffuse a macchia di leopardo. Seguirò passo passo ciascuno dei punti sollevati e argomentati da Matteotti (sempre facendo riferimento al testo pubblicato nel volume curato da Stefano Caretti e Jaka Makuc) che non si focalizzano sulla sola espressione del voto, ma inquadrano in maniera assolutamente esemplare l’intero procedimento elettorale.
La correttezza di qualsiasi procedimento elettorale inizia dalla presentazione delle liste dei candidati per ciascun partito. In ciascuna circoscrizione la presentazione doveva avvenire mediante un documento notarile al quale era richiesta l’apposizione di un certo numero di firme dalle 300 alle 500. Tuttavia, cito Matteotti: ”in sette circoscrizioni su quindici la raccolta delle firme fu impedita con violenza” (p. 100). “A Genova i fogli con le firme già raccolte furono portati via dal tavolo su cui erano stati firmati” (p. 101). Inoltre, le “persone che hanno dato il loro nome per attestare sopra un giornale o in un documento che un fatto era avvenuto sono state immediatamente percosse e messe quindi nella impossibilità di confermare il fatto stesso” (p. 102).
Consapevole, come tutti dovremmo essere, che la democraticità delle elezioni si misura anche sulla possibilità di ottenere e accettare la candidatura e, di conseguenza, di liberamente cercare e ottenere voti per il proprio partito, Matteotti insiste su questo punto segnalando che “molti non accettarono la candidatura, perché sapevano che accettare la candidatura voleva dire non avere più lavoro l’indomani o dovere abbandonare il proprio paese ed emigrare all’estero” (p. 108). Aggiunge il ben più grave fatto che il socialista “Berta fu assassinato nella sua casa per avere accettato la candidatura” (ibidem).
Coloro prescelti come candidati debbono poi impegnarsi nella campagna elettorale che è una fase di enorme importanza per molteplici ragioni. La campagna elettorale consente ai candidati di farsi (meglio) conoscere dagli elettori al tempo stesso che, a seconda delle loro propensioni e capacità, sono messi in grado di molto apprendere sulle preferenze, sugli interessi, sulle condizioni di vita, sulle aspettative dell’elettorato, non soltanto di coloro che voteranno per loro. D’altro canto, le campagne elettorali possono costituire una grande opportunità di apprendimento politico anche per gli elettori. In una (in)certa misura non sono mai pochi gli elettori che cercano di capire quali candidati e quali partiti rappresenterebbero al meglio quello che desiderano, quello che ritengono utile, al limite la visione di società e, forse, del mondo che hanno. In quegli anni di scontro ideologico e di prospettive opposte, ovviamente la campagna elettorale era destinata a svolgersi in maniera tesa, dura, conflittuale, inevitabilmente e, per i fascisti, programmaticamente, violenta. Chiaramente, l’uso della violenza in qualsiasi campagna elettorale, tollerata, quando non addirittura promossa dai governanti autoritari e dai loro sostenitori, va a scapito della democraticità delle elezioni e del loro esito.
Anche in questo caso, la denuncia di Matteotti fu precisa e documentata. Il deputato socialista segnalò anzitutto che per moltissimi candidati fu sostanzialmente impossibile “esporre in contradittorio con il programma del Governo in pubblici comizi o anche in privati locali le loro opinioni. In Italia, nella massima parte dei luoghi, anzi, quasi da per tutto questo non fu possibile” (p. 103). A Genova, la campagna elettorale dei socialisti si svolse con una conferenza privata ad inviti alla quale partecipò anche il liberale Giovanni Amendola. Le intimidazioni e le repressioni furono di natura tale che “su 100 dei nostri candidati circa 60 non potevano circolare liberamente nella loro circoscrizione”. “Non solo non potevano circolare, ma molti di essi non potevano neppure risiedere nelle loro stesse abitazioni, nelle loro stesse città” (p. 106). In definitiva, la situazione complessiva fu tale che solo in un piccolo numero degli 8mila comuni italiani fu possibile la libera propaganda.
Con queste premesse anche il “semplice atto di votare” era destinato a diventare inevitabilmente una sfida alle squadracce di Mussolini, ai pur innegabilmente molti sostenitori, ai benpensanti timorosi che le onde lunghe della violenza giungessero fino alle loro famiglie. Matteotti sintetizza l’insieme dei comportamenti sottolineando due punti. Primo, la diffusa consapevolezza del “valore relativo del voto” dal momento che il fascismo “in ogni caso avrebbe mantenuto il potere con la forza” (p. 96). Secondo, che, al momento del voto, “nessuno si è trovato libero, perché ciascun cittadino sapeva a priori che se anche avesse osato affermare a maggioranza il contrario, c’era una forza a disposizione del Governo che avrebbe annullato il suo voto e il suo responso” (p. 97). L’esistenza di una “milizia armata a disposizione di un partito” … “impedisce all’inizio e fondamentalmente la libera espressione della sovranità popolare ed elettorale” (p. 99).
Il momento del voto
Poi venne il giorno dell’apertura dei seggi. Fra gli elementi che garantiscono lo svolgimento in libertà delle elezioni vi è, nota e sottolinea Matteotti, la possibilità che ai seggi siano presenti i rappresentanti di ciascuna delle liste in competizione (p. 109), mentre “quasi dappertutto si son svolte fuori della presenza di alcun rappresentante di lista” (ibidem). Piuttosto, le commissioni presenti ai seggi risultarono composte quasi totalmente di aderenti al partito dominante: “nel 90 per cento e, credo, in qualche regione fino al 100 per cento dei casi, tutto il seggio era fascista e il rappresentante della lista di minoranza non poté presenziare le operazioni. Dove andò, meno in poche grandi città e in qualche rara provincia, esso subì le violenze che erano minacciate a chiunque avesse osato controllare dentro il seggio la maniera come si votava, la maniera come erano letti e constatati i risultati “ (p. 109). Solo en passant ricordo che in occasione delle elezioni presidenziali tenutesi nel febbraio 2024 in Russia, la televisione ha mostrato le immagini di militari che, fucile spianato, addirittura entravano e uscivano dalle cabine elettorali.
Oggi, lo scrutinio delle schede votate è il momento più tranquillo dei procedimenti elettorali nei regimi non-democratici. Praticamente, risulta essere la ratifica quasi notarile della bontà o meno del lavoro di manipolazione del voto svolto a monte. La prima osservazione di Matteotti riguarda la differenza fra le località nelle quali era esistito qualche spazio di libertà e quelle più strettamente controllate. Nelle prime, “le minoranze raccolsero una tale abbondanza di suffragi da superare la maggioranza – con questa conseguenza però che la violenza che non si era avuta prima delle elezioni, si ebbe dopo le elezioni”: distruzioni di giornali, devastazioni di locali, bastonature alle persone (p. 110).
In moltissimi contesti la votazione avveniva in tre maniere. “La regola del tre” dichiarata e apertamente insegnata persino dal prefetto di Bologna. “I fascisti consegnavano agli elettori un bollettino contenente tre numeri o tre nomi, secondo i luoghi variamente alternati, in maniera che tutte le combinazioni, cioè tutti gli elettori, uno per uno, potessero essere controllati e riconosciuti personalmente nel loro voto” (p. 112). In altri luoghi “furono incettati i certificati elettorali, metodo che in realtà era stato usato in qualche piccola circoscrizione nell’Italia prefascista allargato a larghissime zone del meridione” (p. 113). Matteotti sottolinea che l’ampia disponibilità di certificati elettorali derivava dalla elevata astensione degli elettori che non si ritenevano liberi di esprimere il loro pensiero. Quei “certificati furono raccolti e affidati a gruppi di individui i quali si recavano alle sezioni elettorali per votare con diverso nome fino al punto che certuni votarono dieci volte” (p. 114). Inoltre, “alcuni ebbero dentro le cabine la visita di coloro che erano incaricati di controllare i loro voti. Se la Giunta delle elezioni volesse aprire i plichi e verificare i cumuli di schede che sono state votate, potrebbe trovare che molti voti di preferenza sono stati scritti sulle schede tutti dalla stessa mano così come altri voti di lista furono cancellati o addirittura letti al contrario” (p. 115). Con un tocco di ironia, Matteotti rileva che i candidati socialisti noti sono stati fortemente contrastati, mentre i nuovi (inevitabilmente molto meno conosciuti) ce l’hanno fatta.
Sintesi, e oltre
Gli storici possono sottoporre a verifica, controllare, arricchire il resoconto di Matteotti. I politici che hanno fatto i loro compiti di candidati e le loro campagne elettorali, in special modo nelle situazioni autoritarie troveranno molte conferme di quanto hanno vissuto di persona. Gli studiosi dei sistemi politici, in particolare, dei regimi autoritari, non possono che ammirare l’acume, di alto livello politologico, con il quale Matteotti descrive il procedimento elettorale che il fascismo volle controllare e indirizzare verso un esito che ne legittimasse il dominio.
Tutto il materiale e la documentazione raccolta e presentata da Matteotti, nel suo giustamente indignato excursus in qualità di osservatore partecipante, ruolo molto invidiato e apprezzato dagli studiosi di scienza politica, di una consultazione elettorale non libera, costituisce quasi un vademecum di come, per l’appunto, e cosa osservare per valutare la qualità delle elezioni. Tutto giustifica in maniera più che convincente la frase che caratterizza in maniera perentoria quel discorso pronunciato il 30 maggio 1924 sulla “verifica dei poteri e convalida degli eletti”: “contestiamo in questo luogo e in tronco la validità di questa elezione” (p. 96). Quell’obiettivo, dichiarò il parlamentare Giacomo Matteotti, implicava “portare nella camera l’eco delle proteste che altrimenti nel paese non possono avere alcun’altra voce ed espressione” (p. 103). Nella concezione di Matteotti quell’aula, che Mussolini definì “sorda e grigia”, essendo il luogo della sovranità popolare, aveva il nobile compito di riconfigurare quella sovranità calpestata da brogli e manipolazioni, dalla violenza del governo fascista, dei suoi apparati, delle sue squadracce.
Il prezzo che Matteotti fu obbligato pagare, la perdita della vita, testimonia la sua totale, convinta, deliberata, consapevole dedizione alla democrazia e alla giustizia. La sfida che aveva lanciato al regime fu considerata giustamente tanto forte e tanto pericolosa che il Duce stesso si sentì obbligato a contrastarla nel famoso/infame discorso del 3 gennaio 1925.
“dichiaro qui, al cospetto di questa Assemblea e al cospetto di tutto il popolo italiano, che io assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto. Se le frasi più o meno storpiate bastano per impiccare un uomo, fuori il palo e fuori la corda! Se il Fascismo non è stato che olio di ricino e manganello, e non invece una passione superba della migliore gioventù italiana, a me la colpa! Se il Fascismo è stato un’associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere!”.
Queste parole poste, credo appropriatamente, a conclusione del mio breve testo in omaggio a Matteotti, costituiscono il trampolino di lancio del fascismo movimento, con esplicite componenti di criminalità politica e comune, verso il fascismo regime. Dopo, non ci saranno più elezioni, solo oppressione e repressioni mirate. Non credo che in un regime non democratico sia mai giustificato e giustificabile affermare che “quando un popolo vota ha sempre ragione”. Certamente, però, gli autoritari hanno imparato che il voto del popolo presenta sempre dei rischi. Meglio non darlo per scontato, come fecero nel 1988 il dittatore cileno Augusto Pinochet e i suoi collaboratori. La ricetta giusta è manipolare per tempo l’opinione pubblica e contrastare, controllare e combattere con la violenza gli oppositori, soprattutto i più audaci e intransigenti, come Alexei Navalny. L’esperienza, la vicissitudine e la denuncia di Giacomo Matteotti, esempi preclari di coraggio civile e politico, continuano a essere altamente istruttive, da onorare.
Bibliografia minima
Caretti, S. e Makuc, J. (a cura di), Giacomo Matteotti. Democrazia e fascismo, Pisa, Pisa University Press, 2021
Degl’Innocenti, M., Giacomo Matteotti e il socialismo riformista, Milano, Franco Angeli, 2022
Fornaro, F., Giacomo Matteotti. L’Italia migliore, Milano, Bollati Boringhieri, 2024
Garnett, H.A. e Zavadskaya, M. (a cura di), Electoral integrity and political regimes: actors, strategies and consequences, Abingdon, Oxon- New York, NY,: Routledge, 2017
Hermet, G., Rouquié, A., Linz, J.J., Des élections pas comme les autres, Paris, Presses de la Fondation Nationale des Sciences Politiques, 1978.
Hermet, G., Rose, R., Rouquié, A. (a cura di), Elections wihout Choice, Londra, Macmillan, 1978
Norris, P., Strengthening Electoral Integrity, Cambridge,Cambridge University Press, 2017.
Schedler, A. (a cura di), Electoral Authoritarianism. The Dynamics of Unfree Competition, Boulder and London, Lynne Rienner Publishers, 2006.
Zunino, P., L’ideologia del fascismo. Miti, credenze, valori, Bologna, il Mulino, 1985.
In chiave comparata le motivazioni che spingono un certo numero di leader autoritari a organizzare e a consentire lo svolgimento di elezioni: I “ludi cartacei” negli autoritarismi. Finalità e conseguenze #Intervento al #Convegno IL PENSIERO DI GIACOMO MATTEOTTI – Accademia Nazionale dei Lincei

Giacomo Matteotti fu, è sempre doveroso sottolinearlo e ribadirlo, un uomo rigoroso e coraggioso. Già nel mirino dei fascisti, la sua durissima, articolata e dettagliata denuncia dell’irregolarità delle elezioni italiane del 6 aprile 1924 spinse i fascisti a decretarne e compierne l’assassinio.
Gianfranco Pasquino
Quelle elezioni anticiparono quanto avvenne in seguito, quasi subito, a partire dal Portogallo di Salazar, in non poche situazioni di autoritarismo nelle quali si tennero consultazioni elettorali dall’esito essenzialmente scontato. Qui, delineato il contesto, brevemente analizzata la legge elettorale, valutati i risultati, la mia relazione si indirizza all’individuazione in chiave comparata delle motivazioni che spingono un certo numero di leader autoritari a organizzare e a consentire lo svolgimento di elezioni.
Ludi cartacei
Non può esistere nessuna democrazia laddove non si vota. Infatti, se non si tengono elezioni, il demos (popolo) è privato dell’essenziale kratos (potere) di esprimere le proprie preferenze in materia di persone e di partiti. Tuttavia, non è affatto detto che possano essere considerati democratici automaticamente tutti i sistemi politici nei quali si tengono consultazioni elettorali. Infatti, a parte i brogli, sempre possibili anche nei regimi democratici, da tempo molti regimi non democratici hanno proceduto ad organizzare procedimenti elettorali variamente manipolandoli e efficacemente controllandone gli esiti. Nei regimi totalitari, Unione Sovietica, Cina, Corea del Nord, le elezioni servono fondamentalmente come strumento di mobilitazione della cittadinanza e si svolgono entro i confini del partito totalitario senza nessuna possibilità di partecipazione per gli oppositori, mentre diversa è stata e continua ad essere la situazione nei regimi autoritari, anche nella variante regimi militari (ad esempio, in Brasile negli anni settanta del secolo scorso).
Un buon numero di governanti autoritari sono convinti di avere in misura, più o meno grande, abbastanza consenso per vincere comunque quelle elezioni. Quasi nessuno di loro dubita di avere la capacità di impedire, se necessario anche con la violenza, il successo di qualsiasi opposizione. Sono convinti che la situazione complessiva del regime e della distribuzione del potere non sarà in nessun modo o quasi cambiata dal risultato elettorale. Certamente, il regime non verrà rovesciato da(gli) elettori che si rivelassero in maggioranza favorevoli all’opposizione. L’unico rischio percepito, ma non troppo temuto, è che gli oppositori si dimostrino più popolari delle aspettative, dei rapporti delle polizie segrete e di eventuali sondaggi di opinione. Pertanto, tenendo conto di rischi non necessari e di costi, in energie e in denaro, inevitabili, la domanda “perché i governanti autoritari decidono di andare a elezioni?” è del tutto legittima ed esige una risposta convincente.
Quale ne è l’utilità, particolaristica, per singoli capi autoritari, e sistemica, per il regime che vogliono costruire e tenere sotto controllo, delle consultazioni elettorali? Molto probabilmente i capi autoritari perseguono uno o più dei seguenti obiettivi: la ricerca di legittimazione interna, domestica e internazionale; la mobilitazione dei sudditi, singoli, gruppi, associazioni, favorevoli al governo autoritario; l’identificazione degli oppositori. Dal canto suo, quel che rimane dell’opposizione non ha scelta. Se intende dimostrare agli osservatori esterni che il capo autoritario non ha il controllo democratico e completo sul sistema politico, ha il dovere politico di prendere parte alle elezioni. Deve offrire un’alternativa ai suoi elettori, nella consapevolezza dei rischi che tutti i suoi candidati, come Giacomo Matteotti, e coloro che coraggiosamente vorranno comunque essere suoi elettori inevitabilmente corrono. Riflettere sulle motivazioni e sulle azioni dei governi autoritari e delle opposizioni serve a illuminare le modalità di esercizio e di eventuale consolidamento del potere autoritario, ma anche della validità o meno delle reazioni e risposte delle opposizioni. Nonostante un numero crescente di analisi anche approfondite e comparate, abbiamo ancora molto da imparare sia per smascherare sia per meglio contrastare i numerosi autoritarismi tuttora esistenti e prosperanti.
Da almeno mezzo secolo una pluralità di organizzazioni internazionali, a partire dalle Nazioni Unite (ONU), compresa l’Unione Europea, procedono al monitoraggio delle elezioni politiche in numerosi stati per lo più di dubbia democraticità. Personalmente, ho svolto il compito di osservatore parlamentare in due occasioni elettorali di enorme importanza, entrambe nel Cile di Pinochet. Nel 1988 quando in un referendum/plebiscito la domanda rivolta all’elettorato cileno riguardava l’estensione per alcuni anni del governo guidato dal Gen. Pinochet: sì/no. Prevalsero i “no” portando alla seconda occasione elettorale l’anno successivo 1989: le elezioni presidenziali alle quali Pinochet non si candidò e che furono vinte dal candidato democristiano Patricio Aylwin sostenuto dalla Concertazione Democratica formata da praticamente tutti i partiti di opposizione con regolarità formale del procedimento elettorale. In quelle due occasioni imparai lezioni che solo chi lavora “sul campo” può ricevere e apprendere.
Troppo spesso, ancora oggi, infatti, gli osservatori elettorali giungono sul luogo delle elezioni all’incirca una settimana prima del voto e, nel migliore dei casi, riescono a valutare lo svolgimento di quel voto, sono ammessi ad assistere allo spoglio delle schede, si trovano in condizione di cogliere e denunciare errori e manipolazioni dell’esito. La mia esperienza, la lettura di alcune esperienze altrui, ma, in special modo, una migliore conoscenza delle dinamiche elettorali, molto più complesse di quel che si pensava, mi ha portato ad alcune riflessioni e conclusioni che trovano riscontro nella documentata denuncia di Giacomo Matteotti relativa alla sostanziale irregolarità delle elezioni politiche italiane del 1924.
Quel che avviene il giorno del voto è il prodotto variamente costruito molti mesi prima. Dunque, possiamo pure apprezzare positivamente quel che vediamo e non vediamo quando gli elettori imbucano la scheda nell’urna e quando gli scrutatori leggono scheda per scheda. Assolutamente indispensabile, però, è sapere attraverso quali passaggi si sia arrivati al giorno della votazione. Alcuni passaggi sono sempre, comunque e ovunque, obbligati. Il primo riguarda il riconoscimento e l’accettazione dei partiti ammessi a concorrere e delle candidature da loro presentate. Nelle recenti elezioni presidenziali russe, è noto che Putin ha provveduto per tempo a scoraggiare e impedire la presenza di partiti di opposizione e, quando da lui ritenuto necessario, ad emarginare fino all’eliminazione fisica, gli oppositori più temerari.
Nel 2024 mezzo mondo è già andato, ad esempio, la Russia, la Polonia, il Portogallo, l’India, oppure andrà, ad elezioni a livello nazionale. In questo mezzo mondo ci sono molti regimi autoritari dalle cui esperienze concrete e dalle modalità con le quali svolgeranno le elezioni sarà possibile trarre una pluralità di insegnamenti, generali: su regole e comportamenti, e specifici: sui contesti e sui protagonisti. Grazie alle conoscenze di cui già disponiamo saremo in grado di meglio illuminare e comprendere quello che succederà e non succederà e per quali motivi. Grazie a quello che impariamo potremo addirittura giungere ad una migliore comprensione delle elezioni passate, del loro significato, del loro impatto.
In questo relativamente sintetico intervento, l’oggetto è costituito dalla dettagliata, precisa e potente denuncia formulata dal deputato socialista Giacomo Matteotti riguardante la irregolarità delle elezioni politiche tenutesi il 6 aprile 1924. Come vedremo, tutti i punti sollevati e sottolineati con vigore da Matteotti contribuiscono a delineare le modalità con le quali, probabilmente non in maniera coordinata e strategica, ma sicuramente deliberata e criminale, le autorità fasciste hanno perseguito i loro obiettivi. Del tutto consapevole che, secondo l’insegnamento di Giovanni Sartori, chi conosce un solo caso non conosce neppure quel caso (vale a dire, non può mai essere in grado di affermare con sicurezza che cosa è normale e che cosa è eccezionale), ogniqualvolta possibile farò ricorso a comparazioni.
L’esito
Le elezioni politiche del 6 aprile 1924 si tennero in una situazione nella quale il Duce mirava a dimostrare a tutti i protagonisti politici, in particolare, sia alle opposizioni sia a coloro che attendevano opportunisticamente a schierarsi, sia al Re, a se stesso e ai gerarchi intorno a lui sia, da ultimo, ma di non minore importanza, all’opinione pubblica internazionale, che il fascismo già godeva di ampio, diffuso, probabilmente, addirittura maggioritario, consenso elettorale (che terrei molto distinto dal più esigente consenso politico). Peraltro, Mussolini non intendeva correre nessun rischio cosicché affidò a Giacomo Acerbo (1888-1969), sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, la stesura di una nuova legge elettorale. Sul tronco della esistente legge proporzionale venne innestato un cospicuo premio di maggioranza. Alla lista che avesse ottenuto più voti, ma almeno il 25 per cento, sarebbero stati attribuiti i due terzi dei seggi. Con affluenza alle urne di quasi il 64 per cento degli aventi diritto, la composita Lista nazionale dei fascisti, spudorato carrozzone elettorale, ottenne il 60 per cento dei voti e conquistò 355 seggi. Il Partito Socialista Unitario, per il quale Matteotti fu rieletto deputato, ottenne 422.957 voti e conquistò 24 seggi.
Per completezza di informazione, la tabella riporta i numeri assoluti e le percentuali di voti ottenute da tutte le liste e i partiti presentatisi. Due dati spiccano: da un lato, il 60 per cento di voti ottenuti dalla Lista Nazionale (nota come Listone) ampia aggregazione voluta e guidata dai fascisti; dall’altro, la frammentazione complessiva dello schieramento di liste e partiti contrario al fascismo, fra l’altro, segnale di debolezza e vulnerabilità delle sinistre, anche di non marginale insipienza.
TAB. 1 Risultato delle elezioni politiche nazionali del 6 aprile 1924
| Partito | Risultati | Seggi | ||||
| Voti | % | ± | Num | ± | ||
| 21. Lista Nazionale | 4 305 936 | 60,09 | n.d. | 355 | n.d. | |
| 4. Lista nazionale bis | 347 552 | 4,85 | n.d. | 19 | n.d. | |
| 5. Partito Popolare Italiano | 645 789 | 9,01 | n.d. | 39 | n.d. | |
| 3. Partito Socialista Unitario | 422 957 | 5,90 | n.d. | 24 | n.d. | |
| 23. Partito Socialista Italiano | 360 694 | 5,03 | n.d. | 22 | n.d. | |
| 19. Partito Comunista d’Italia | 268 191 | 3,74 | n.d. | 19 | n.d. | |
| 10. Partito Repubblicano Italiano | 133 714 | 1,87 | n.d. | 7 | n.d. | |
| 7. Partito Democratico Sociale Italiano | 111 035 | 1,55 | n.d. | 10 | n.d. | |
| 18. Liberali | 78 099 | 1,09 | n.d. | 4 | n.d. | |
| 6. Liberali indipendenti | 74 317 | 1,04 | n.d. | 4 | n.d. | |
| 15. Partito dei Contadini d’Italia | 73 569 | 1,03 | n.d. | 4 | n.d. | |
| 8. Opposizione costituzionale | 72 941 | 1,02 | n.d. | 8 | n.d. | |
| 12. Slavi e Tedeschi | 62 491 | 0,87 | n.d. | 4 | n.d. | |
| 13. Opposizione costituzionale | 45 365 | 0,63 | n.d. | 5 | n.d. | |
| 11. Opposizione costituzionale | 33 473 | 0,47 | n.d. | 0 | n.d. | |
| 2. Liberali | 29 936 | 0,42 | n.d. | 3 | n.d. | |
| 22. Camillo Corradini | 29 574 | 0,41 | n.d. | 2 | n.d. | |
| 17. Partito Sardo d’Azione | 24 059 | 0,34 | n.d. | 2 | n.d. | |
| 14. Fasci nazionali | 18 062 | 0,25 | n.d. | 1 | n.d. | |
| 9. Liberali | 12 925 | 0,18 | n.d. | 1 | n.d. | |
| 1. Opposizione costituzionale | 6 153 | 0,09 | n.d. | 1 | n.d. | |
| 16. Liberali indipendenti | 5 275 | 0,07 | n.d. | 1 | n.d. | |
| 20. Liberali indipendenti | 3 395 | 0,05 | n.d. | 0 | n.d. | |
| Iscritti | 11 939 452 | 100,00 | ||||
| ↳ Votanti (% su iscritti) | 7 614 451 | 63,78 | n.d. | |||
| ↳ Voti validi (% su votanti) | 7 165 502 | 94,10 | ||||
| ↳ Voti non validi (% su votanti) | 448 949 | 5,90 | ||||
| ↳ Astenuti (% su iscritti) | 4 325 001 | 36,22 | ||||
Almeno un risultato di quelle elezioni dell’aprile 1924 costituì per Matteotti, pur nella disperazione generale, un motivo di soddisfazione: il suo partito degli espulsi risultò il primo dei partiti della sinistra lacerata, con 422.957 voti e 24 eletti, a fronte dei 360.694 voti con 22 eletti del Partito Socialista Italiano e dei 268.191 voti con 19 eletti del Partito comunista d’Italia. Nonostante tutto, nell’ora del grande pericolo i lavoratori appartenenti alla classe sociale che ciascuno dei tre partiti intendeva rappresentare e guidare, avevano dato il maggiore consenso relativo a Turati e a Matteotti. Ma questo esito non poteva essere sufficiente e soddisfacente per chi, come Matteotti e i socialisti riformisti, credeva nella democrazia basata sulle preferenze dei cittadini e sulle regole attraverso le quali quelle preferenze potevano essere espresse e fatte contare.
La denuncia
Nella seduta della Camera dei deputati del 30 maggio 1924 dedicata alla “Verifica dei poteri e convalida degli eletti”, il neo-rieletto deputato Giacomo Matteotti pronunciò un lungo, circostanziato e documentato discorso inteso a stigmatizzare l’irregolarità complessiva delle elezioni e a chiederne il riesame dell’esito alla Giunta per le elezioni. Denunciò le violenze che in ottomila comuni avevano negato alle minoranze la possibilità di parlare in pubblico, che il sessanta per cento dei candidati socialisti non aveva potuto circolare liberamente nelle circoscrizioni, che molti avevano dovuto cambiar residenza o emigrare, che nei comuni di campagna i fascisti occupavano le sezioni elettorali, che le elezioni non erano valide di fronte alla dichiarazione del governo di rimanere in carica qualunque fosse il loro esito.
Nel 1924 probabilmente per impossibilità tecnica e politica di copertura dell’intero territorio nazionale, ma anche perché gli oppositori ancora godevano di presenza, di visibilità, di sostegno, Mussolini consentì qualche forma di competizione. Tuttavia, come documenta Matteotti, le intimidazioni e le scorrettezze furono numerosissime, diffuse a macchia di leopardo. Seguirò passo passo ciascuno dei punti sollevati e argomentati da Matteotti (sempre facendo riferimento al testo pubblicato nel volume curato da Stefano Caretti e Jaka Makuc) che non si focalizzano sulla sola espressione del voto, ma inquadrano in maniera assolutamente esemplare l’intero procedimento elettorale.
La correttezza di qualsiasi procedimento elettorale inizia dalla presentazione delle liste dei candidati per ciascun partito. In ciascuna circoscrizione la presentazione doveva avvenire mediante un documento notarile al quale era richiesta l’apposizione di un certo numero di firme dalle 300 alle 500. Tuttavia, cito Matteotti: ”in sette circoscrizioni su quindici la raccolta delle firme fu impedita con violenza” (p. 100). “A Genova i fogli con le firme già raccolte furono portati via dal tavolo su cui erano stati firmati” (p. 101). Inoltre, le “persone che hanno dato il loro nome per attestare sopra un giornale o in un documento che un fatto era avvenuto sono state immediatamente percosse e messe quindi nella impossibilità di confermare il fatto stesso” (p. 102).
Consapevole, come tutti dovremmo essere, che la democraticità delle elezioni si misura anche sulla possibilità di ottenere e accettare la candidatura e, di conseguenza, di liberamente cercare e ottenere voti per il proprio partito, Matteotti insiste su questo punto segnalando che “molti non accettarono la candidatura, perché sapevano che accettare la candidatura voleva dire non avere più lavoro l’indomani o dovere abbandonare il proprio paese ed emigrare all’estero” (p. 108). Aggiunge il ben più grave fatto che il socialista “Berta fu assassinato nella sua casa per avere accettato la candidatura” (ibidem).
Coloro prescelti come candidati debbono poi impegnarsi nella campagna elettorale che è una fase di enorme importanza per molteplici ragioni. La campagna elettorale consente ai candidati di farsi (meglio) conoscere dagli elettori al tempo stesso che, a seconda delle loro propensioni e capacità, sono messi in grado di molto apprendere sulle preferenze, sugli interessi, sulle condizioni di vita, sulle aspettative dell’elettorato, non soltanto di coloro che voteranno per loro. D’altro canto, le campagne elettorali possono costituire una grande opportunità di apprendimento politico anche per gli elettori. In una (in)certa misura non sono mai pochi gli elettori che cercano di capire quali candidati e quali partiti rappresenterebbero al meglio quello che desiderano, quello che ritengono utile, al limite la visione di società e, forse, del mondo che hanno. In quegli anni di scontro ideologico e di prospettive opposte, ovviamente la campagna elettorale era destinata a svolgersi in maniera tesa, dura, conflittuale, inevitabilmente e, per i fascisti, programmaticamente, violenta. Chiaramente, l’uso della violenza in qualsiasi campagna elettorale, tollerata, quando non addirittura promossa dai governanti autoritari e dai loro sostenitori, va a scapito della democraticità delle elezioni e del loro esito.
Anche in questo caso, la denuncia di Matteotti fu precisa e documentata. Il deputato socialista segnalò anzitutto che per moltissimi candidati fu sostanzialmente impossibile “esporre in contradittorio con il programma del Governo in pubblici comizi o anche in privati locali le loro opinioni. In Italia, nella massima parte dei luoghi, anzi, quasi da per tutto questo non fu possibile” (p. 103). A Genova, la campagna elettorale dei socialisti si svolse con una conferenza privata ad inviti alla quale partecipò anche il liberale Giovanni Amendola. Le intimidazioni e le repressioni furono di natura tale che “su 100 dei nostri candidati circa 60 non potevano circolare liberamente nella loro circoscrizione”. “Non solo non potevano circolare, ma molti di essi non potevano neppure risiedere nelle loro stesse abitazioni, nelle loro stesse città” (p. 106). In definitiva, la situazione complessiva fu tale che solo in un piccolo numero degli 8mila comuni italiani fu possibile la libera propaganda.
Con queste premesse anche il “semplice atto di votare” era destinato a diventare inevitabilmente una sfida alle squadracce di Mussolini, ai pur innegabilmente molti sostenitori, ai benpensanti timorosi che le onde lunghe della violenza giungessero fino alle loro famiglie. Matteotti sintetizza l’insieme dei comportamenti sottolineando due punti. Primo, la diffusa consapevolezza del “valore relativo del voto” dal momento che il fascismo “in ogni caso avrebbe mantenuto il potere con la forza” (p. 96). Secondo, che, al momento del voto, “nessuno si è trovato libero, perché ciascun cittadino sapeva a priori che se anche avesse osato affermare a maggioranza il contrario, c’era una forza a disposizione del Governo che avrebbe annullato il suo voto e il suo responso” (p. 97). L’esistenza di una “milizia armata a disposizione di un partito” … “impedisce all’inizio e fondamentalmente la libera espressione della sovranità popolare ed elettorale” (p. 99).
Il momento del voto
Poi venne il giorno dell’apertura dei seggi. Fra gli elementi che garantiscono lo svolgimento in libertà delle elezioni vi è, nota e sottolinea Matteotti, la possibilità che ai seggi siano presenti i rappresentanti di ciascuna delle liste in competizione (p. 109), mentre “quasi dappertutto si son svolte fuori della presenza di alcun rappresentante di lista” (ibidem). Piuttosto, le commissioni presenti ai seggi risultarono composte quasi totalmente di aderenti al partito dominante: “nel 90 per cento e, credo, in qualche regione fino al 100 per cento dei casi, tutto il seggio era fascista e il rappresentante della lista di minoranza non poté presenziare le operazioni. Dove andò, meno in poche grandi città e in qualche rara provincia, esso subì le violenze che erano minacciate a chiunque avesse osato controllare dentro il seggio la maniera come si votava, la maniera come erano letti e constatati i risultati “ (p. 109). Solo en passant ricordo che in occasione delle elezioni presidenziali tenutesi nel febbraio 2024 in Russia, la televisione ha mostrato le immagini di militari che, fucile spianato, addirittura entravano e uscivano dalle cabine elettorali.
Oggi, lo scrutinio delle schede votate è il momento più tranquillo dei procedimenti elettorali nei regimi non-democratici. Praticamente, risulta essere la ratifica quasi notarile della bontà o meno del lavoro di manipolazione del voto svolto a monte. La prima osservazione di Matteotti riguarda la differenza fra le località nelle quali era esistito qualche spazio di libertà e quelle più strettamente controllate. Nelle prime, “le minoranze raccolsero una tale abbondanza di suffragi da superare la maggioranza – con questa conseguenza però che la violenza che non si era avuta prima delle elezioni, si ebbe dopo le elezioni”: distruzioni di giornali, devastazioni di locali, bastonature alle persone (p. 110).
In moltissimi contesti la votazione avveniva in tre maniere. “La regola del tre” dichiarata e apertamente insegnata persino dal prefetto di Bologna. “I fascisti consegnavano agli elettori un bollettino contenente tre numeri o tre nomi, secondo i luoghi variamente alternati, in maniera che tutte le combinazioni, cioè tutti gli elettori, uno per uno, potessero essere controllati e riconosciuti personalmente nel loro voto” (p. 112). In altri luoghi “furono incettati i certificati elettorali, metodo che in realtà era stato usato in qualche piccola circoscrizione nell’Italia prefascista allargato a larghissime zone del meridione” (p. 113). Matteotti sottolinea che l’ampia disponibilità di certificati elettorali derivava dalla elevata astensione degli elettori che non si ritenevano liberi di esprimere il loro pensiero. Quei “certificati furono raccolti e affidati a gruppi di individui i quali si recavano alle sezioni elettorali per votare con diverso nome fino al punto che certuni votarono dieci volte” (p. 114). Inoltre, “alcuni ebbero dentro le cabine la visita di coloro che erano incaricati di controllare i loro voti. Se la Giunta delle elezioni volesse aprire i plichi e verificare i cumuli di schede che sono state votate, potrebbe trovare che molti voti di preferenza sono stati scritti sulle schede tutti dalla stessa mano così come altri voti di lista furono cancellati o addirittura letti al contrario” (p. 115). Con un tocco di ironia, Matteotti rileva che i candidati socialisti noti sono stati fortemente contrastati, mentre i nuovi (inevitabilmente molto meno conosciuti) ce l’hanno fatta.
Sintesi, e oltre
Gli storici possono sottoporre a verifica, controllare, arricchire il resoconto di Matteotti. I politici che hanno fatto i loro compiti di candidati e le loro campagne elettorali, in special modo nelle situazioni autoritarie troveranno molte conferme di quanto hanno vissuto di persona. Gli studiosi dei sistemi politici, in particolare, dei regimi autoritari, non possono che ammirare l’acume, di alto livello politologico, con il quale Matteotti descrive il procedimento elettorale che il fascismo volle controllare e indirizzare verso un esito che ne legittimasse il dominio.
Tutto il materiale e la documentazione raccolta e presentata da Matteotti, nel suo giustamente indignato excursus in qualità di osservatore partecipante, ruolo molto invidiato e apprezzato dagli studiosi di scienza politica, di una consultazione elettorale non libera, costituisce quasi un vademecum di come, per l’appunto, e cosa osservare per valutare la qualità delle elezioni. Tutto giustifica in maniera più che convincente la frase che caratterizza in maniera perentoria quel discorso pronunciato il 30 maggio 1924 sulla “verifica dei poteri e convalida degli eletti”: “contestiamo in questo luogo e in tronco la validità di questa elezione” (p. 96). Quell’obiettivo, dichiarò il parlamentare Giacomo Matteotti, implicava “portare nella camera l’eco delle proteste che altrimenti nel paese non possono avere alcun’altra voce ed espressione” (p. 103). Nella concezione di Matteotti quell’aula, che Mussolini definì “sorda e grigia”, essendo il luogo della sovranità popolare, aveva il nobile compito di riconfigurare quella sovranità calpestata da brogli e manipolazioni, dalla violenza del governo fascista, dei suoi apparati, delle sue squadracce.
Il prezzo che Matteotti fu obbligato pagare, la perdita della vita, testimonia la sua totale, convinta, deliberata, consapevole dedizione alla democrazia e alla giustizia. La sfida che aveva lanciato al regime fu considerata giustamente tanto forte e tanto pericolosa che il Duce stesso si sentì obbligato a contrastarla nel famoso/infame discorso del 3 gennaio 1925.
“dichiaro qui, al cospetto di questa Assemblea e al cospetto di tutto il popolo italiano, che io assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto. Se le frasi più o meno storpiate bastano per impiccare un uomo, fuori il palo e fuori la corda! Se il Fascismo non è stato che olio di ricino e manganello, e non invece una passione superba della migliore gioventù italiana, a me la colpa! Se il Fascismo è stato un’associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere!”.
Queste parole poste, credo appropriatamente, a conclusione del mio breve testo in omaggio a Matteotti, costituiscono il trampolino di lancio del fascismo movimento, con esplicite componenti di criminalità politica e comune, verso il fascismo regime. Dopo, non ci saranno più elezioni, solo oppressione e repressioni mirate. Non credo che in un regime non democratico sia mai giustificato e giustificabile affermare che “quando un popolo vota ha sempre ragione”. Certamente, però, gli autoritari hanno imparato che il voto del popolo presenta sempre dei rischi. Meglio non darlo per scontato, come fecero nel 1988 il dittatore cileno Augusto Pinochet e i suoi collaboratori. La ricetta giusta è manipolare per tempo l’opinione pubblica e contrastare, controllare e combattere con la violenza gli oppositori, soprattutto i più audaci e intransigenti, come Alexei Navalny. L’esperienza, la vicissitudine e la denuncia di Giacomo Matteotti, esempi preclari di coraggio civile e politico, continuano a essere altamente istruttive, da onorare.
Bibliografia minima
Caretti, S. e Makuc, J. (a cura di), Giacomo Matteotti. Democrazia e fascismo, Pisa, Pisa University Press, 2021
Degl’Innocenti, M., Giacomo Matteotti e il socialismo riformista, Milano, Franco Angeli, 2022
Fornaro, F., Giacomo Matteotti. L’Italia migliore, Milano, Bollati Boringhieri, 2024
Garnett, H.A. e Zavadskaya, M. (a cura di), Electoral integrity and political regimes: actors, strategies and consequences, Abingdon, Oxon- New York, NY,: Routledge, 2017
Hermet, G., Rouquié, A., Linz, J.J., Des élections pas comme les autres, Paris, Presses de la Fondation Nationale des Sciences Politiques, 1978.
Hermet, G., Rose, R., Rouquié, A. (a cura di), Elections wihout Choice, Londra, Macmillan, 1978
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Zunino, P., L’ideologia del fascismo. Miti, credenze, valori, Bologna, il Mulino, 1985.
La democrazia al tempo di X, fra polarizzazione, intelligenze artificiali e fake news #ParliamoneOra #5aprile #Bologna


Nell’ambito delle iniziative congiunte di ParliamoneOra e dell’Università di Bologna su temi della contemporaneità, venerdì 5 aprile dalle 17 alle 19:30 presso l’aula Prodi complesso di San Giovanni in Monte.
Nel 2024 andranno al voto 4 miliardi di persone. Andranno al voto alcuni dei paesi più popolosi al mondo e alcune delle democrazie storicamente più robuste.
Il sistema di rappresentanza attraverso i partiti politici è ancora un modello valido per organizzare il consenso rispetto alle “bolle” di mono-pensiero dei “social”? L’elezione diretta dei capi di governo garantisce l’espressione della volontà popolare? Fino a che punto gli strumenti di comunicazione di massa, lo sviluppo dell’intelligenza artificiale, l’uso sistematico della disinformazione, possono influenzare se non determinare gli esisti elettorali?
Ne discutiamo con
Fulvio Cammarano (Storia Contemporanea)
Donatella Campus (Scienza Politica, Università di Bergamo),
Giovanna Cosenza (Filosofia e Teoria dei Linguaggi),
Andrea Morrone (Diritto Costituzionale),
Gianfranco Pasquino (Professore emerito di Scienza Politica),
coordina Dario Braga (presidente onorario di ParliamoneOra)
E’ possibile anche seguire in collegamento da remoto collegadosi a
ID riunione: 363 457 587 166
Passcode: a3aXYm
Chi non vota non conta #amministrative2021 #elezioni #democrazia #astensionismo
Dal TG5 delle 20 di martedì 19 ottobre 2021
La partita elettorale in Emilia Romagna #Intervista @RadioRadicale
Intervista raccolta da Roberta Jannuzzi il 2 gennaio 2020
Durata: 7 min 41 sec
26 gennaio è la data del primo appuntamento elettorale del 2020.
In Calabria come in Emilia Romagna.
Ma è in quest’ultima regione che si gioca la partita più attesa.
Qui Matteo Salvini porta avanti la sua battaglia di carattere nazionale, la sinistra cerca di evitare una sconfitta storica, il movimento delle Sardine è comparso per la prima volta dando prova dell’esistenza di quell’Italia silenziosa alla quale, forse, si riferiva nel discorso di fine anno del presidente Mattarella.
Sette i candidati alla presidenza della regione Emilia-Romagna e 17 liste.
Contro il Governatore del Pd Stefano Bonaccini, Lucia Borgonzoni per il centrodestra, ma anche il candidato del M5S, Simone Benini, più quattro candidati di liste civiche, di sinistra o no-vax.
Ne parliamo con il professor Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza Politica all’Università degli Studi di Bologna.
Cosa significa “parlamentarizzare” la crisi
Il presidente del Consiglio Conte parli in Aula, accetti il dibattito, svolga la replica e poi si proceda alla votazione. Questi non sono stanchi rituali della Prima Repubblica
Ottimo il proposito manifestato dal Presidente del Consiglio Conte di parlamentarizzare la crisi. La situazione dei rapporti fra i due alleati che fanno parte del suo governo appare non solo conflittuale, ma contraddittoria e confusa.
Le prospettive sembrano ugualmente avvolte in incertezze e calcoli oscuri. Il governo Conte nacque, non perché “eletto dal popolo”, ma ottenendo la fiducia del Parlamento, come avviene, con modalità leggermente diverse, in tutte le democrazie parlamentari (anche quando il capo dello Stato è un monarca). Al Parlamento il governo deve rispondere dei suoi comportamenti: del fatto, del non fatto, del fatto male.
Quel Parlamento ha il potere di porre termine all’esistenza del governo, ma anche di trasformarlo attraverso rimpasti e persino semi-ribaltoni. Si fa così dalla Germania alla Spagna fino alla madre di tutte le democrazie parlamentari: la Gran Bretagna. É legittimo e nient’affatto scandaloso che i parlamentari tengano al loro seggio (non poltrona) e difendano i loro posti di lavoro proprio come il Ministro Salvini ei sottosegretari leghisti dimostrano di tenere alla loro carica. Infatti, nonostante la sfiducia da loro espressa nel governo di cui fanno parte, non l’hanno ancora abbandonata.
La parlamentarizzazione di una crisi di governo non si può esaurire nel pure importante e forse decisivo discorso del capo del governo. Conte dovrà ovviamente spiegare ai parlamentari che cosa è successo e quali sono le sue valutazioni, ma la parlamentarizzazione vuole qualcosa di più. Se, terminato il suo discorso, Conte subito salirà al Quirinale per rimettere il suo mandato nelle mani del Presidente Mattarella parleremo al massimo di parlamentarizzazione interrupta.
Invece, Conte dovrebbe sentire l’obbligo istituzionale e politico di aprire il confronto con i partiti rappresentati in parlamento, sollecitarne consenso e dissenso, chiederne le spiegazioni, procedere a una replica, al limite, volere dai parlamentari anche un voto esplicito sul suo operato. Non dovrebbe sfuggire/rifuggire dal voto pensando che, se sconfitto, metterebbe a repentaglio un possibile re-incarico. Comunque, con una diversa maggioranza potrebbe senza nessun ostacolo istituzionale riprendere a fare il Presidente del Consiglio.
Tutti questi: discorso, dibattito, replica, voto in parlamento, persino il re-incarico, non sono stanchi rituali della Prima Repubblica, nella quale, incidentalmente, nessuna crisi di governo fu mai parlamentarizzata con i canoni che ho appena delineato. Questi passi corrispondono a qualcosa di molto importante per il Parlamento e per la politica. Governanti e rappresentanti, ministri e parlamentari si assumono visibilmente di fronte all’elettorato il massimo di responsabilità: decidere della funzionalità e della vita di un governo e della formazione di un altro governo.
Il dibattito serve a fare sì che gli elettori acquisiscano un’alta quantità di informazioni rilevanti, si formino un’opinione, giungano a valutazioni adeguate che saranno loro utili nel caso di eventuali nuove elezioni. Certo, nessuno deve avere paura delle elezioni, ma nessuno può pensare che la democrazia, né quella parlamentare né le altre fattispecie, si esaurisca nel voto. Votare è un passaggio importante (meglio quando esiste una legge elettorale non indecente), ma la democrazia è anche informazione e assunzione di responsabilità.
Non mi resta che augurarmi che la concezione di “parlamentarizzazione della crisi” del Presidente del Consiglio sia ricca e articolata e ricomprenda un dibattito chiarificatore. Avrà effetti positivi per la soluzione della probabile crisi, per la formazione su limpide basi del prossimo governo e, comunque, anche per eventuali lezioni anticipate.
Pubblicato il 19 agosto 2019 su huffingtonpost.it
Una grande regione, una grande occasione #Emilia Romagna @rivistailmulino
Primum vincere deinde philosophari oppure primum philosophari deinde vincere? Se sia meglio dedicare tutte le proprie energie a conquistare una carica importante come quella di Presidente della Regione Emilia-Romagna e poi ragionare su cosa fare oppure se sia preferibile aprire un grande e approfondito dibattito sulla “filosofia” della politica, sui contenuti del riformismo, su che cosa debba e possa essere un partito del cambiamento nell’Italia sovranista? Già, perché il voto europeo del 26 maggio ha detto alto e forte, chiarissimo che in Italia i sovranisti (la Lega di Matteo Salvini e i Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni ai quali si aggiungono alcuni esponente di sinistra e i loro cattivi maestri) costituiscono una ampia maggioranza e che l’alternativa è debole, scompaginata, confusa. Certo, qualcuno potrebbe sostenere che fare della filosofia in prossimità di elezioni dall’esito incerto è una perdita di tempo che rischia di essere decisiva. E’ facile replicare che trovare sedi, organizzare dibattiti, produrre confronti, distribuire documenti sulla cultura e sulla Weltanschauung del partito politico riformista è un modo importante anche di e per fare campagna elettorale. Tutto questo fervere (potenziale) di iniziative sarebbe anche in grado di attrarre l’attenzione di chi giustamente sente la politica politicata, centrata su persone e cariche, malamente raccontata dai commentatori, lontana e sgradevole (ha ragione!). Bisognerebbe ovviamente anche fare circolare in tempo reale e in maniera gradevole e brillante su twitter, Facebook, Instagram, con una vasta gamma di App, quello che viene variamente prodotto nelle modalità tradizionali. Conosco l’obiezione che sostiene che la cattiva comunicazione è la conseguenza quasi inevitabile di contenuti mediocri, brutti e cattivi, male pensati, non in grado di riflettere le condizioni di vita e i mondi vitali dei cittadini né di guardare al futuro in maniera empatica e originale. So, però, che qualche volta è possibile fare ottima comunicazione anche senza avere contenuti altrettanto buoni e che la comunicazione è di per sé un fattore politico di grande rilevanza anche autonoma.
Chi vuole semplicemente vincere può anche andare oltre quello che sto suggerendo, con una scrollata di spalle, magari senza accusarmi di elitismo (accusa di sapore populista) e, soprattutto, contro proponendo. Meglio sarebbe se la controproposta fosse argomentata con una narrazione convincente che non si compiaccia degli esiti positivi del passato, ma neppure delle vittorie elettorali in diverse città emiliano-romagnole, e non si arresti lì. Il passato recentissimo della Regione Emilia-Romagna parla di un tracollo della partecipazione elettorale nel novembre del 2014, di qualche lacrima di coccodrillo (al maschile e al femminile) e successivamente di nessuna riflessione seria sul fenomeno. Non merita la definizione di riflessione quello che è un wishful thinking di Zingaretti e dei suoi collaboratori che il PD crescerà a livello nazionale riconquistando gli astenuti. Qui si che è appropriato richiamare l’espressione vaste programme di uno dei grandi statisti europei del XX secolo, il sovranista Charles de Gaulle. Dai dirigenti poIitici e dai militanti, che ci sono ancora, del PD è lecito aspettarsi e pretendere di conoscere in che modo gli astensionisti saranno raggiunti, persuasi e (ri)portati nell’alveo di un partito che non ha neppure ancora iniziato una qualsiasi riflessione sulle ragioni del suo declino.
A quello che fu il glorioso e pluripremiato partito riformista, nascosto sotto le spoglie del PCI e timoroso di essere preso come esempio nazionale, si chiede di cominciare a delineare proprio un partito del futuro, non di lotta e di governo, ma di elaborazione culturale concernente un sistema politico e sociale (all’economia riescono a pensarci alla grande i molti efficienti imprenditori emiliano-romagnoli) che offra opportunità in ogni momento della vita dei suoi cittadini e che premi i meriti. La buona amministrazione che, con molti sindaci e sindache, il Presidente della Regione Stefano Bonaccini può vantare, rischia di non essere sufficiente per ottenere un secondo mandato. Per questo è mia convinzione che debba essere delineato un futuro che non è la semplice prosecuzione del presente. “Filosofiamo” allora su una sinistra composita e plurale che disegni alleanze non all’insegna della protezione di posizioni acquisite, ma di rappresentanza e governo di preferenze e interessi che si sono diversificati e che tali rimarranno nel futuro prevedibile, che non si nasconda dietro liste civiche, ma rivendichi la sua politicità, che sia disposta e in grado di praticare nel suo ambito la democrazia anche nel dare accesso in maniera trasparente agli interessi di una pluralità di interlocutori, fra i quali, ovviamente, le associazioni del più vario tipo, e in Emilia-Romagna ce ne sono tantissime, che riconosca le competenze non soltanto quando rendono un servizio e coincidono con le preferenze e i pregiudizi dei dirigenti politici, ma proprio quando li mettono in questione e li sfidano senza nessun timore reverenziale.
Questa è la filosofia politica di chi crede che l’innovazione scaturisce dal conflitto fra idee e persone (sento il dovere di aggiungere “portatrici di idee”) e che in Emilia-Romagna tutto questo è possibile a patto che idee e conflitti non vengano spazzati sotto il tappeto del conformismo al quale, ahiloro, ahitutti, molti nel PD hanno fatto largo e esiziale ricorso. Chi vince dopo avere filosofato avrà anche avuto la possibilità di capire quali delle sue proposte hanno conquistato maggiore consenso, quali sono inadeguate, quali sono da buttare e quali da perfezionare. Tutte le altre strade sono molto corte e non conducono a Roma. L’occasione, grande, è adesso, qui.
Pubblicato il 30 maggio 2019 su rivistalmulino.it
“Bobbio e Sartori. Capire e cambiare la politica”@egeaonline @RadioRadicale
Claudio Landi ha intervistato Gianfranco Pasquino sul suo nuovo saggio
“Bobbio e Sartori. Capire e cambiare la politica”
(Università Bocconi Editore)
Venerdì 15 febbraio 2019
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La Sinistra ha sbagliato la campagna elettorale #AustrianElection @OmnibusLa7 @La7tv
Il commento di Gianfranco Pasquino sulle elezioni politiche in Austria, Omnibus La7, puntata del 16 ottobre 2017





