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Populismo: la sfida e la risposta
I fattori economici, vale a dire disoccupazione, redditi bassi, disagi personali e familiari contano abbastanza nel produrre e nel sostenere leader e movimenti populisti. Più importanti, però, forse addirittura decisivi, sono i fattori culturali: persone e comunità che temono che gli immigrati scombussolino e turbino i loro stili di vita, i loro valori, i loro rapporti sociali e violino impunemente le regole scritte e non scritte. Questi timori non debbono essere “deplorati”, ma capiti. Meritano una risposta alta e convincente.
Le democrazie esistono. Hanno problemi. Imparano a risolverli senza violenza #IlRaccontodellaPolitica
IL RACCONTO DELLA POLITICA
Lezione 6Le democrazie esistono. Hanno problemi. Imparano a risolverli senza violenza
“La democrazia è una promessa. I cittadini, interessati, informati, partecipanti, operano per realizzarla. Cosi facendo migliorano la loro vita e le vite degli altri”
La tecnologia non salverà la democrazia, servono più cultura e più pensiero
La tecnologia non salverà la democrazia, servono più cultura e più pensiero
Se non c’è una discussione informata che precede la decisione, secondo Pasquino, è meglio astenersi. Ma su Internet prevalgono le immagini, è difficile riuscire a comunicare ragionamenti complessi, spesso si preferiscono le battute più o meno sagaci. Con gli strumenti digitali, quindi, possiamo al massimo dire se chiudere una strada alle automobili, cioè prendere decisioni elementari. Si potrebbe stare un attimo a decidere sulla pena di morte, ma se prima non si è strutturato un discorso sulla decisione, gli esiti che emergono dalla rete possono essere drammatici. La democrazia che ha in mente Pasquino è l’agorà: quel luogo dove i cittadini si incontrano, si scambiano le idee, si confrontano anche con chi ne sa di più. Per questo serve più cultura e più pensiero. Ad esempio, le élite sono tali nella misura in cui sono in grado di elaborare idee. Molto spesso non sono particolarmente ricche, ma hanno una cultura. Il problema è che le élite culturali sono una minoranza che ha ormai molte difficoltà ad influenzare la maggioranza, in più coloro che ne fanno parte sono restii ad impegnarsi in politica per paura di farsi etichettare come casta.
“La tecnologia non salverà la democrazia,
servono più cultura e più pensiero”
Intervista a Gianfranco Pasquino di Gabriele Giacomini, 21 giugno 2017
Gianfranco Pasquino è Professore emerito di Scienza politica all’Università di Bologna e membro dell’Accademia Nazionale dei Lincei. Attualmente è James Anderson Senior Adjunct Professor alla SAIS-Europe. È editorialista dell’Agenzia Giornali Locali del gruppo L’Espresso.
Come stanno i partiti italiani?
Purtroppo la crisi dei partiti italiani è una realtà oramai accertata, assodata e anche sostanzialmente irreversibile. Oggi in questo paese è rimasto un unico partito, che non sta molto bene in salute, che si chiama Partito Democratico. Tutti gli altri non si chiamano neanche più partiti, non sono organizzazioni partitiche, ma sono perlopiù dei comitati elettorali o delle reti di utenti del web che si scambiano qualche informazione, qualche polemica, si espellono a vicenda e così via. Nessuno di questi gruppi si chiama partito, sia giustamente perché partiti non sono, sia per evitare il discredito – uso questo termine – di cui godono i partiti definiti tali.
C’è chi parla di partiti personali.
Infatti, la maggior parte delle organizzazioni che ci sono attualmente possono essere definite personalistiche. Quindi abbiamo il movimento di Grillo, Forza Italia di Berlusconi, la Lega di Salvini, Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni e poi ci sono gli Alfaniani, i Verdiniani. Tutto ruota attorno ai nomi. Dietro i nomi, però, non c’è granché dal punto di vista dell’elaborazione programmatica. Ci sono ambizioni personali che si mettono insieme e che qualche volta ottengono un po’di soddisfazioni e qualche seggio in parlamento.
Che ruolo hanno avuto i media, prima la televisione e poi Internet, nella crisi dei partiti?
La televisione ha un po’ di responsabilità. Internet parecchia perché chi comunica su Internet spesso non ha la capacità di comunicare ragionamenti complessi, altre volte non lo vuole fare deliberatamente e si limita alle battute più o meno spiritose e sagaci. Ma credo sia stata soprattutto la stampa, quotidiana e settimanale, per intenderci testate come La Repubblica e Il Corriere, L’Espresso e Panorama, a diffondere ampiamente discredito nei confronti dei partiti. Se dovessi indicare il maggior responsabile per la crisi dei partiti in questi ultimi dieci, quindici anni, direi che è il libro di Stella e Rizzo, La Casta che ha colpito profondamente l’immaginazione di un milione di lettori e che ha diffuso il discredito, lasciando intendere che gli uomini e le donne dei partiti di questo paese sarebbero tutti o quasi esponenti di una casta.
Prima accennava al fatto che manca elaborazione programmatica.
Questo dipende sostanzialmente dal crollo dei partiti tradizionali che in passato avevano governato il paese, certamente qualche volta anche nella forma peggiore, la partitocrazia. Quando il Partito comunista nell’89 va in difficoltà, giustamente perché non si era rinnovato durante gli anni precedenti, gli elettori sentono che non hanno nemmeno più bisogno di votare Democrazia cristiana, nel senso che non c’è necessità di una diga contro un partito comunista che non pone più nessun tipo di sfida e di minaccia. Nel frattempo, altri partiti avevano avuto dei problemi anche maggiori con Mani Pulite: molti segretari dei partiti politici vengono indagati e a quel punto c’è il crollo. Però il crollo in realtà era già nelle cose, perché era scomparso il fondamento culturale, erano scomparse le culture politiche. Non c’era più una cultura politica socialista, comunista, democratico cattolica. Di marxismo non si parlava più. Di tanto in tanto i comunisti recuperavano Gramsci. Una cultura socialista sopravviveva in parte nella rivista “Mondoperaio”, ma fu rapidamente normalizzata da Craxi. Era scomparsa anche la cultura cattolico democratica, il cui ultimo grande esponente è stato Pietro Scoppola. Senza culture politiche è difficile far vivere o rivivere i partiti politici.
Nella globalizzazione la democrazia ha ancora il potere sufficiente per incidere sulla vita dei cittadini? Forse i cittadini percepiscono che la politica ha un potere limitato.
I tedeschi risponderebbero che sono convinti della capacità della politica di incidere e che la cancelliera Merkel e il ministro Schaeuble fanno delle scelte politiche rilevanti. Ma prendiamo un altro esempio. I grandi operatori economici internazionali, le agenzie di rating, la banca Goldman Sachs attaccano la Danimarca? No. Si potrebbe dire perché il trofeo è troppo piccolo. Ma potrebbe essere che non l’attaccano perché il paese è governato bene, perché i cittadini hanno fiducia nelle loro istituzioni e nel loro stato, perché le banche non hanno fatto pasticci. E quindi in realtà la politica, se fatta bene, è in grado di resistere, di scoraggiare qualsiasi vento della globalizzazione. I paesi governati bene non vengono attaccati dalla globalizzazione finanziaria, non vengono messi in crisi dalla globalizzazione delle comunicazioni. Se fossimo ben governati anche noi non verremmo attaccati. Veniamo attaccati perché siamo deboli, vulnerabili, ma questo è appunto un problema legato alle carenze della politica.
Umberto Eco era molto critico nei confronti di Internet. Sosteneva che Internet da risalto a voci che non meriterebbero questa possibilità. Lei è d’accordo?
Sono molto d’accordo. Aggiungerei che noi naturalmente possiamo difenderci da Internet, nel senso che dovremmo sapere selezionare le persone e le fonti con le quali vogliamo parlare, interagire, delle quali leggiamo i tweet o cose del genere. Però, nel frattempo, sta emergendo un cambiamento culturale che Sartori aveva preveggentemente colto nel suo libro Homo Videns: subiamo una grande esposizione alle immagini e non siamo più in grado di elaborare ragionamenti. Si passa dall’uomo cartesiano “cogito ergo sum” all’uomo insipiens “video ergo sum”. Questo ostacola i ragionamenti, quando invece la politica è un mondo dove le persone si scambiano opinioni che hanno costruito magari attraverso letture e lo studio, è un mondo dove c’è un confronto razionale che però richiede appunto un pensiero. Se invece ci limitiamo a scambiare delle immagini allora entriamo in una situazione che rende difficile la vita della e nella democrazia.
I nuovi media favoriscono risposte populiste?
I nuovi media vengono usati dai populisti nella misura in cui è facile fare affermazioni brevi, fare un tweet, farne tanti. Questo naturalmente favorisce il discorso populista che per definizione non è un discorso particolarmente articolato. Basta dirsi contro, insultare, ripetere le stesse parole, schierarsi con il popolo, spesso la parte peggiore (che c’è, eccome se c’è) del popolo.
Come è possibile creare le condizioni per un confronto politico di qualità migliore?
La risposta standard è insegnare e diffondere cultura. Però, i ragazzini guardano le immagini prima ancora di iniziare ad andare a scuola. E a scuola addirittura si pensa che usando Internet si riesca a offrire un insegnamento migliore. Le élite sono tali nella misura in cui hanno fatto un percorso culturale, si dimostrano in grado di elaborare idee. Molto spesso le élite non sono particolarmente ricche, ma hanno una cultura. Ovviamente ci sono anche élite di tipo economico, ma, ad esempio, Trump non è certamente una élite culturale. Il problema è che le élite culturali sono una minoranza che non riesce più ad influenzare la maggioranza, perché quella maggioranza è raramente in grado di capire che cosa dice l’élite. Anche se le élite sminuzzano il loro pensiero, lo semplificano, quella maggioranza che è andata male a scuola, che ha seguito corsi fatti male, che non legge praticamente mai un libro, non riesce a seguire.
Qual è il ruolo delle élite in democrazia?
R. Come noto Aristotele non aveva grande fiducia nella democrazia, però sperava che mettendo insieme diverse modalità di governo si formasse quella che lui chiamava politeia, cioè il buon governo. Sartori sosteneva che il compito della democrazia è di selezionare una pluralità di élites, e che chi ci rappresenta deve essere migliore di noi. Altrimenti perché lo votiamo? Deve essere migliore di noi, naturalmente. Quando sento Grillo che dice che uno vale uno penso che non abbia capito niente e che stia distruggendo la democrazia rappresentativa. Uno non vale uno. Un parlamentare deve valere di più di un cittadino. Se qualcuno entra in parlamento pensando che gli possono essere sufficienti le conoscenze e le competenze da cittadino ha sbagliato il luogo da frequentare. Non vedo bene il futuro della democrazia perché le élite non vengono selezionate adeguatamente, e in più coloro che fanno parte delle élite politiche non vogliono esporsi al ludibrio di sentirsi chiamare casta. Mentre magari stanno facendo un lavoro davvero importante, anche per i loro cittadini, e parecchi di loro ci rimettono in termini di denaro, di tempo libero, di energie, di attività che stavano compiendo prima. Se non ci rendiamo conto che fare politica non è un gratuito servizio, ma è un compito importante, non riusciremo ad avere il contributo delle élite e tante altre cose.
Che cosa ne pensa dell’utilizzo del digitale per prendere decisioni politiche?
La democrazia che ho in mente io si chiama agorà: quel luogo dove i cittadini si incontrano, si scambiano le idee, parlano anche con qualcuno che ne sa di più. È chiaro che Socrate non lo troveremo più tanto facilmente nel mondo, Ci sono però persone che hanno intelligenze, conoscenze e disponibilità a dialogare. La rete e gli strumenti digitali possono servire qualche volta per prendere delle decisioni, su punti molto semplici, ma se prima non si è stati in grado di strutturare il discorso sulla decisione, gli esiti che vengono fuori dalla rete possono essere drammatici. Faccio un esempio: la reintroduzione della pena di morte. È facile dire sì o no. Ma è opportuno fare prima un dibattito su che cosa significhi tutto questo. Un dibattito di questa complessità non può essere fatto nella rete, certamente non solo. Al massimo. sulla rete possiamo dire se chiudere una strada alle automobili, cioè prendere decisioni elementari. Ma anche in questo caso probabilmente le persone che abitano in quella strada e che hanno l’automobile potrebbero spiegare perché quella strada non deve essere chiusa. Se non c’è una discussione informata che precede la decisione è meglio astenersi.
Quali nuove forme di impegno e partecipazione politica vede all’orizzonte?
Naturalmente ci sono dei movimenti che si attivano. Ad esempio, qualcuno potrebbe dire che i No Tav sono una nuova forma di partecipazione. L’azione di questi movimenti deve però essere valutata nella sua complessità, ad esempio, chiedendosi se è giusto che siano solo gli abitanti della Valle di Susa a decidere sulla Tav, anche per coloro che trarrebbero enormi benefici dalla rete ad ‘alta velocità. Altri potrebbero sostenere che le varie associazioni No Profit sono luoghi importanti di partecipazione, purché, aggiungo io, siano davvero indipendenti. In generale, senza una struttura fondamentalmente partitica, organizzata, che duri nel tempo, questi movimenti e queste organizzazioni sono transeunti, nascono e muoiono. Quelli che reggono sono, ad esempio, quelli vicini alla Chiesa, perché la Chiesa è una struttura molto potente, radicata e che dura nel corso del tempo, una struttura dalla quale una serie di organizzazioni traggono alimento, sostegno, appoggio e qualche volta anche denaro. Tutti gli altri movimenti non organizzati sono molto fragili e traballanti. Possono svolgere un compito importante in democrazia, ma non possono essere loro il fondamento della democrazia.
Pubblicato il 30 gennaio 2018 su fondazionebassetti.org
Sartori, il teorico della democrazia che portava la logica nella politica
Intervista raccolta da Alessandro Lanni per RESET
«La scienza politica deve essere rilevante, non è lo studio delle farfalle». E il tentativo di trovare la teoria nella realtà è quello che ha cercato di fare per tutta la vita Giovanni Sartori, il politologo fiorentino scomparso il 1 aprile a quasi 93 anni. La battuta è di Gianfranco Pasquino, anch’egli scienziato della politica, ex senatore, ma qui soprattutto allievo e grande conoscitore di Sartori fin da quando frequentava le aule dell’università “Cesare Alfieri” di Firenze negli anni Sessanta. Nel teorico che cerca la “rilevanza” delle sue idee nella realtà sta l’originalità di Sartori, spiega Pasquino. Reset gli ha chiesto di tratteggiare un ritratto a partire dai ricordi personali per arrivare collocare quello che definisce un “gigante della scienza politica mondiale” nella giusta prospettiva.
Come inizia la carriera di Giovanni Sartori come scienziato della politica?
Sartori scriveva moltissimo in numerose riviste nelle quali faceva di tutto, anche il direttore. Scrive e scrive, dal 1950 al ’64 che è l’anno in cui vince un concorso non di scienza politica ma di sociologia. E si tratta di un concorso celebre perché, se non sbaglio, i vincitori dei tre posti furono: Franco Ferrarotti, il secondo Sartori e il terzo Alessandro Pizzorno. Insomma, un concorso di giganti.
E così arriva a insegnare alla “Cesare Alfieri”.
A questo punto, quando l’università di Firenze lo chiama, chiede che il suo posto sia trasformato da sociologia in scienza della politica, una cattedra nuova fatta per lui. In quegli anni però era già famoso all’estero, in particolare negli Stati Uniti perché la scienza politica europea fino all’inizio degli anni Sessanta era piuttosto modesta.
Un grande intellettuale invisibile all’opinione pubblica italiana?
Sartori diventa molto famoso in Italia quando comincia a scrivere sul Corriere della sera nel 1969, quando arriva alla direzione Giovanni Spadolini. Ero a Firenze nel corso che teneva per i giovani allievi – a dicembre del 1967 – non aveva visibilità pubblica in Italia. In quegli anni Sartori era esclusivamente dedito a studiare, a frequentare università e convegni molto lontani dall’Italia. La sua presenza pubblica fino al 1969 era quasi inesistente.
Qual era la situazione della scienza politica in quegli anni in Europa?
C’era un solo personaggio, il norvegese Stein Rokkan che era soprattutto un grande organizzatore culturale. E poi c’erano Maurice Duverger e Raymond Aron che erano visibili, direi, perché “parigini”. Non ricordo un tedesco o un inglese vero scienziato della politica agli inizi degli anni Sessanta. Un grande storico della politica inglese scrisse un libro molto cattivo contro la scienza della politica americana. Bernard Crick era un personaggio importante nella cultura anglosassone e che scrisse in seguito una bellissima biografia di George Orwell.
E Sartori come si collocava in questo panorama?
Sartori era famoso perché andava ai convegni internazionali e scriveva e parlava l’inglese molto bene. È lui stesso a tradurre il suo libro Democrazia e definizioni (Il Mulino 1967) e lo pubblica in America nel 1960 in una versione da lui tradotta e adattata Democratic Theory (1962). Proprio in quegli anni viene invitato a Yale.
In che modo ha segnato la scienza politica?
L’originalità vera era la sua grandissima capacità di scrivere in maniera efficace e brillante e in maniera molto precisa. La costruzione dei concetti di Sartori e l’uso delle parole sono incredibili. E poi l’uso della logica in scienza politica con un atteggiamento positivistico ovvero il contrario dell’idealismo. Sartori aveva iniziato insegnando filosofia e aveva scritto anche su Croce. Ma fu comunque sempre un positivista. L’altro elemento di originalità è che lui conosceva la storia filosofica di questi concetti, quello di rappresentanza e di democrazia in primo luogo.
In Italia che ruolo ha svolto?
Da un lato, c’era la scienza della politica alla Norberto Bobbio, che era un filosofo, che era l’ala sinistra e che io definirei “azionista” anche se Bobbio era molto vicino anche ai socialisti. Sartori era il contrappeso, era la cultura politica liberale classica. Torino, quella di Bobbio, era una facoltà di scienze politiche spostata a sinistra, Firenze invece era piuttosto ortodossa e di destra, destra liberale in quel periodo. I due sapevano di essere diversi e sfruttavano queste differenze. Sartori ha scritto di democrazia molto prima che ne scrivesse Bobbio che pubblica Il futuro della democrazia nel 1984, Sartori aveva scritto il suo addirittura nel 1957. La versione definitiva, una vera e propria summa, fu The Theory of Democracy Revisited (1987, in due volumi), recensita dal filosofo torinese nella rivista “Teoria Politica”.
Un concetto chiave della democrazia liberale è quello di “élites”, oggi uno dei principali bersagli dei movimenti populisti di destra e di sinistra nel mondo.
Sartori ha scritto sulle élites. Ha studiato Mosca, Michels e Pareto. Quel concetto di élites Sartori lo tiene presente in particolare perché la sua teoria della democrazia è largamente ispirata a quella di Schumpeter ovvero l’idea che gli elettori scelgono tra gruppi in competizione tra di loro e chi vince e dovrà governare è di fatto un’élite politica. Si tratta di una teoria competitiva della democrazia tra gruppi che dovrebbero avere competenze e capacità. Una buona democrazia secondo Sartori è quella governata da élites politiche e non conquistata da élites economiche.
E come pensava che la democrazia potesse raggiungere questo obiettivo?
Sartori vuole che la democrazia sia governante, ma non si impicca a questo aggettivo. Quello che importa sono le procedure e le modalità con cui vengono scelti i governi. E qui c’è la valutazione positiva del sistema tedesco dopo il 1949 che ha saputo produrre élites governanti.
Un’altra definizione sartoriana è quella di “poliarchia del merito”.
“Poliarchia” è un termine utilizzato da Robert Dahl che Sartori conosceva e frequentava perché un periodo ha insegnato a Yale nel 1966 o ’67, credo. Il punto fondamentale – su cui Sartori è d’accordo con Bobbio – è che la democrazia c’è quando c’è pluralismo.
“Pluralismo polarizzato”. Con questa espressione Sartori definisce la democrazia italiana, in particolare quella della “Prima repubblica”.
In verità, il caso italiano lo ha attratto solo in un secondo tempo. Sartori ha sempre voluto fare della politica comparata e l’Italia era solo un caso, e nemmeno tra i più importanti. Chi voleva confrontare sistemi politici sessant’anni fa doveva inevitabilmente studiare gli Usa, la Gran Bretagna e la Germania. Ma poi doveva studiare la Francia che presenta una transizione di regime politico dalla Quarta alla Quinta repubblica nel 1958. E Sartori l’ha detto ripetutamente: per capire l’Italia bisogna soprattutto aver studiato altri sistemi. Chi conosce solo l’Italia non è neanche in grado di spiegare l’Italia.
E da dove è partito per capire l’Italia?
Il pluralismo polarizzato si trovava nella Germania di Weimar, nella Spagna che poi diventerà franchista, nella Francia della IV repubblica e nel Cile di Allende. Dove ci sono due opposizioni estreme, anti-sistema, l’una di destra e l’altra di sinistra comunista non è possibile avere coalizioni stabili. In tutti i casi di pluralismo polarizzato il sistema è crollato. Solo in Italia si è salvato grazie al fatto che il centro era molto grande. Questa spiegazione comparata mi sembra ancora molto brillante.
Quella descrizione del caso italiano funziona ancora?
Oggi si potrebbe dire che non essendoci più fascisti e comunisti quel tipo di sistema politico è scomparso. Eppure la polarizzazione può ancora esserci. Se esistono partiti che si collocano all’estrema destra e sinistra che non possono collaborare tra di loro, è chiaro che il sistema si blocca di nuovo al centro. Sartori diceva che questo è un caso classico in cui non c’è alternanza e nel centro si scaricano tutte le contraddizioni e quindi anche la corruzione si rivolge verso il centro che governando sempre diviene il catalizzatore di chi vuole privilegi. Dove non c’è alternanza non si mandano mai via i “mascalzoni” dal potere. E questo è stato il caso italiano.
Ma esistono oggi in Italia destra e sinistra estrema?
Il problema vero – e questo lo ha scritto anche Sartori – è che il sistema italiano è destrutturato. I partiti ci sono e non ci sono, spariscono, si fondono e si scindono e il sistema non è consolidato. Il sistema del “pluralismo polarizzato” ha resistito perché tra il 1946 e il 1992 nascono pochissimi partiti, praticamente solo la Lega. Mentre nel periodo post-92 è successo di tutto. Un sistema nel quale si producono sbalzi, inconvenienti, rotture che quindi non garantisce la governabilità, parola cara ai renziani, ma che Sartori usa pochissimo, è destinato all’instabilità .
Sartori e Bobbio sono stati due giganti della filosofia e della scienza politica.
Norberto Bobbio è stato un grande filosofo della politica. Di lui rimane il tentativo di creare una teoria generale della politica, sempre smentita, ma i cui elementi si possono trovare nei suoi scritti. Il libro Destra e sinistra rimane un tentativo importante di definizione delle due polarità politiche. Il profilo ideologico del Novecento è il miglior libro di Bobbio, un libro straordinario. Bobbio apprezzava molto Sartori, malgrado criticasse alcuni aspetti delle sue posizioni politiche e a sua volta Sartori ha apprezzato molto Bobbio. C’era anche un rapporto personale buono. Sartori parlò alle Lezioni Bobbio l’anno successivo alla morte del filosofo e scrisse un bellissimo necrologio nella “Rivista Italiana di Scienza Politica” (che aveva fondato nel 1971), dichiarando senza mezzi termini : “era il migliore di noi”.
E qual è l’eredità che Giovanni Sartori ci lascia oggi?
Di Sartori rimane un libro insuperato, forse insuperabile, sui partiti e rimane la teoria della democrazia. La democrazia partecipativa, deliberativa oppure in rete, si possono pur fare, ma prima bisogna aver costruito la democrazia nei termini delineati da Sartori. Altrimenti queste sono “corsette” fatte su un filo sull’abisso. E soprattutto di Sartori rimane l’idea che la scienza politica debba essere applicabile, che deve essere applicata. Le conoscenze sono migliori nel momento in cui sono applicabili alla realtà. La scienza politica serva a capire i meccanismi e le istituzioni, ma, soprattutto, a trasformare quei meccanismi e quelle istituzioni per migliorare la vita. E lo studio di come gli uomini e le donne si comportano in politica secondo certe regole. Questa parte del pensiero di Sartori, enunciata nel libro Ingegneria costituzionale comparata (più volte pubblicata dal Mulino, da ultimo 2004) è potentissima, anche quando si è in disaccordo. E’ il migliore esempio di come si possa fare scienza politica rilevante.
Pubblicato il 10 aprile 2017 su
Referendum, i buoi e il popolo
Eh, già, il quesito referendario, quello che troveremo sulla scheda, è un po’, come dire, “orientante”. Volete voi tante cose belle risparmiando tempo, poltrone e soldi? Basta un Sì. Sobbalzano sulle loro poltrone commentatori austeri, ma anche no; colti, magari non proprio; inventivi assolutamente sì poiché con la machiavelliana “realtà effettuale” preferiscono non sporcare i tasti del loro PC. E’ un disastro, annuncia Aldo Cazzullo nell’editoriale “Referendum, una trappola per le èlite” (Corriere della Sera, 5 ottobre). Gli italiani, sostiene, sono dei bastian contrari. Hanno la tendenza a dire no, sempre no, fortissimamente no. Un famoso fiorentino, tal Alighieri Dante, non la pensava così. Infatti, scrisse a preclare lettere due versetti famosetti riferiti proprio all’Italia: “le genti del bel paese là dove il sì suona” (Inf. XXXIII, vv. 79-80). Su questi versetti fece affidamento un altro toscano, appena meno famoso di Dante, il più volte Primo ministro Amintore Fanfani, nella sua campagna referendaria per abrogare la legge sul divorzio. I no prevalsero e da allora, spiegano sussiegosi e preoccupati (per le sorti del BelPaese) i commentatori del renzismo, il NO vince. Dopodiché, anche senza l’ausilio di Galileo Galilei e dei molti eccellenti scienziati e matematici che l’Italia ha avuto, sembra utile andare a vedere i dati.
Dal maggio 1974 all’aprile 2016 si sono tenuti in Italia 67 referendum abrogativi. I “sì” hanno vinto 23 volte; i “no” 16 volte. In ventisette dei ventotto casi nei quali non è stato raggiunto il quorum, hanno, inutilmente, prevalso i “sì”; una sola volta il non-successo ha arriso ai no. Prima del referendum costituzionale indetto per il 4 dicembre, si sono tenuti due referendum costituzionali . Nell’ottobre 2001, il centro-sinistra si è fatto confermare senza che ne esistesse nessuna necessità la sua mediocre riforma del Titolo V della Costituzione, adesso ripudiata persino da uno dei suoi estensori. Nel giugno 2006, il centro-sinistra versione Unione guidata da Prodi ha ottenuto l’abrogazione della Grande Riforma di Berlusconi e Fini. Nel primo caso, affluenza 34 per cento, vinsero i “sì”; nel secondo, affluenza 52 per cento, la vittoria fu del “no”. Ci fu anche un referendum consultivo per conferire poteri costituenti al Parlamento Europeo. Tenutosi in concomitanza con le elezioni europee, la partecipazione fu elevatissima: 80,8 per cento. I favorevoli, “si” furono l’88 per cento. Insomma, l’Italia, contraddicendo Cazzullo & Bad Company, dimostra di essere piuttosto il bel paese delle genti di Dante che fanno suonare il “sì”.
Da questi dati appare con chiarezza che non esiste nessuna propensione degli elettori italiani a votare in prevalenza contro le elite, anche perché risulterebbe davvero azzardato pensare che gli italiani attribuiscano la qualifica di elite ai loro governanti e ai loro parlamentari. Anzi, tutte le classifiche di prestigio collocano i “mestieri” di governante e di parlamentare verso gli ultimi posti, poco sopra i sindacati e i partiti. Allora, rilevato con fastidio il tentativo subdolo di influenzare gli elettori chiamandoli a non contrapporsi al Parlamento (copyright Boschi) e alle elite politiche che hanno fatto un duro lavoro e a non bocciarlo con un loro “no” populista, non resta che mettere in rilievo quello che è il punto più evidente e più rassicurante delle votazioni referendarie. Gli elettori italiani hanno regolarmente valutato le scelte in campo, le alternative e le conseguenze/implicazioni e hanno votato sul merito. Quando né le scelte né le conseguenze apparivano loro chiare si sono comprensibilmente astenuti. Chi pensa che il popolo è bue dovrebbe riflettere sulla sua personale concezione di democrazia.
Pubblicato AGL il 12 ottobre 2016
Non dei populisti, ma del popolo (referendario) bisogna avere paura
Una replica alla Nota di Michele Salvati
Referendum cinico e baro. Fabbrini sostiene, e Salvati concorda convintamente, che i «no» ai referendum partono sempre avvantaggiati, addirittura, molto spesso, vincono. Entrambi non menzionano, però, che, fuori d’Italia, questo non è accaduto in due casi-contesti chiave. In Francia, quando nel 1958 l’incauto e avventuroso de Gaulle fece votare il popolo sulla Costituzione della Quinta Repubblica, vinse proprio lo oui. Poi, quando nel 1962, a completamento e perfezionamento della Repubblica semipresidenziale, il generale-presidente sottopose a referendum l’elezione diretta del presidente della Repubblica ne conseguì un altro chiaro e forte oui. La Gran Bretagna rincara la dose della confutazione: Brexit. Infatti, contro la «teoria» di un’inadeguata politologia hanno vinto i sostenitori del yes, we leave. Quanto all’Italia potrebbe essere sufficiente ricordare che nel 1993 gli elettori votarono «sì» addirittura a otto referendum, cinque dei quali su materie elettorali-istituzionali. Insomma, le prove empiriche di quello che sostiene Fabbrini e che supporta Salvati sembrano, «diciamo», debolucce. Per di più, il governo Renzi, che entrambi appoggiano pancia a terra – ma non possono dirlo – li ha anche parecchio delusi. Infatti, il referendum costituzionale, inconsapevole dei loro (allora inespressi) pareri, lo ha fermamente voluto il capo (del governo), spingendolo ai limiti non della personalizzazione, ma del plebiscitarismo.
Se Renzi e Boschi non avessero insistito, probabilmente non avremmo nessun generosissimo – poiché le riforme sono state approvate da una maggioranza parlamentare – referendum altrimenti impossibile poiché il variegato, articolato e disorganizzato fronte del «no» le 500 mila firme proprio non è riuscito a raccoglierle. Tuttavia, il governo che afferma di volere la partecipazione dei cittadini, ha anche invitato gli elettori all’astensione sul referendum relativo alle trivellazioni, facendolo fallire per mancanza di quorum. Avesse collocato la data insieme alle amministrative di giugno, questo governo così impegnato nel ridurre i costi della politica sarebbe riuscito a risparmiare un centinaio di milioni di euro. Purtroppo, persino l’opportunismo istituzionale bisogna prima o poi pagarlo.
Il peggio, però, è che, Renzi e Boschi hanno esagerato nel loro entusiasmo partecipazionista referendario. Infatti, i due giovani riformatori, non contenti del referendum abrogativo così com’è, ne formulano una disciplina aggiuntiva, rendendolo più difficile da chiedere (800 mila firme), ma più facile per il conseguimento del quorum commisurato alla percentuale di votanti alle precedenti elezioni politiche, quindi più esposto al fatidico «no».
Poi, però, esagerano e introducono altre fattispecie referendarie (non meglio precisati referendum «propositivi e d’indirizzo»), ovvero moltiplicano le possibilità attraverso le quali le élite oscurantiste mobiliteranno il popolo (scelgano i lettori a quale animale assimilarlo) contro le élite buone che vogliono soltanto portare in questo malandato Paese (attualmente ottava potenza industriale al mondo) «magnifiche sorti e progressive». A sventare il pericolo letale, ringraziando fin d’ora la prudenza (sic?) della Corte costituzionale che ha rinviato la decisione, sarà poi indispensabile togliere il ballottaggio dall’Italicum.
Hai visto mai che il popolo faccia vedere le stelle alle élite degli algoritmi confindustriali, dei banchieri internazionali, dei governanti ex rottamatori? E dei politologi e dei loro amici.
Pubblicato il 20 settembre 2016