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Il modello laburista condivisibile ma difficile da esportare in Italia #intervista @ildubbionews del 6 luglio 2024

Secondo il professore emerito di Scienza Politica a Bologna nel nostro Paese «possiamo guardare alla Francia» mentre il Regno Unito è lontano
Intervista raccolta da Giacomo Puletti
Secondo Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza Politica a Bologna, la vittoria di Starmer dimostra che «per vincere bisogna riuscire a rappresentare o ad attrarre almeno una parte del centro» anche se «quello di Starmer, comunque lo si guardi, è qualcosa che non può essere riprodotto in Italia» dove invece «possiamo guardare alla Francia».
Professor Pasquino, il voto britannico ha certificato il ritorno dei laburisti al governo, con la svolta al centro impressa da Starmer: che ne pensa?
La Gran Bretagna offre sempre lezioni di democrazia. In questo caso ne ha offerte tre: la prima è che chi ha il potere si logora. Quattordici anni di governo sono lunghi, i conservatori hanno fatto qualche errore anche nella scelte delle loro leadership e alla fine hanno dovuto cedere il potere. La seconda è che il sistema elettorale incentiva i cambiamenti di opinione, amplificandoli. La terza, molto rilevante, è che per vincere bisogna riuscire a rappresentare o ad attrarre almeno una parte del centro. Che non significa, ovviamente, abbandonare destra e sinistra.
Quel centro che invece in Francia è in grande difficoltà, con Macron stretto tra destra e sinistra. È giusto fare alleanze solo “contro” qualcuno, come è il Fronte popolare?
Il centro di Macron ha perso dei pezzi negli ultimi anni ma in parte li ha anche recuperati. E io penso sia giusto creare alleanze contro qualcosa. In Francia la situazione è molto più polarizzata che in Gran Bretagna. Il Le Pen inglese sarebbe Farage, che però ha già vinto con la Brexit. Le Pen deve invece ancora dimostrare di aver tagliato i ponti con quella destra dalla quale provengono lei, suo padre e gran parte degli elettori. Inevitabilmente il Fronte popolare è un’alleanza contro, ed è normale che sia così. Poi possiamo riflettere sulle contraddizioni ma è logico che sia orientato contro l’estrema destra. E non è in nessun modo anti democratico.
In Italia tendiamo sempre a voler riprodurre le mode che vengono dall’estero, e infatti in molti già parlano di seguire l’esempio di Starmer: è replicabile?
Quello di Starmer, comunque lo si guardi, è qualcosa che non può essere riprodotto in Italia. Perché è capo di un grande partito, ma non di una colazione. Noi un partito grande lo abbiamo avuto con la Democrazia Cristina, alla quale dobbiamo ancora essere in buona misura grati, ma sarebbe un errore guardare alla Gran Bretagna. Possiamo guardare alla Francia, ma lì c’è il doppio turno che è un grande dispensatore di opportunità politica a chi sa coglierle. E sembra che la sinistra le abbia colte attraverso le d’esistenza. Che però sono possibili e anzi rese imperative dal sistema elettorale.
E dunque cosa dovrebbe fare il centrosinistra italiano per tornare vincente?
Il centrosinistra italiano deve pensare in maniera generosa. La France Insoumise di Melenchon ha rinunciato a una parte considerevole di loro candidati perché era l’unico modo per creare un campo alternativo a Le Pen. Quanti in Italia tra Conte, Renzi, Schlein e gli altri sarebbero disposti a fare queste rinunce purché vinca un candidato comune? È un discorso proponibile ma difficile, e questo è il vero scoglio da superare.
È difficile desistere se le posizioni nella coalizione sono opposte…
Bisogna avere una base valoriale comune che deve essere ovviamente la Costituzione. Dopodiché si possono accettare le diversità su alcune politiche ma bisogna sapere definire e negoziare. È un’operazione complessa e che richiede enorme pazienza, intelligenza e che di certo un doppio turno come quello francese faciliterebbe.
Chi ha provato, con successi alterni, a riproporre la terza via in Italia è stato Matteo Renzi, ormai dieci anni fa: cosa è cambiato da allora?
Prenda due fotografie: una di Renzi mentre parla in pubblico o in Senato e una di Starmer mentre fa campagna elettorale. La personalità di Renzi era travolgente. Era ego all’ennesima potenza. La figura di Starmer è quella di mi coordinatore di un’attività politica rilevante, di un selezionatore dei parlamentari. E che offre agli elettori l’immagine di un leader rassicurante. Tutto quello che faceva Renzi serviva solo alla sua grandeur e questo è stato l’errore drammatico. La sua personalità ha sfasciato un’operazione che poteva essere vincente se fosse stata condotta con meno personalismo e maggiore generosità.
Schlein ha aperto al centro negli ultimi giorni: può essere lei la figura in grado di compiere questo passo?
Se la domanda è “può essere” la risposta è affermativa, se la domanda è “sta tentando di farlo” la risposta è probabilmente sì, se la domanda è “ci sta riuscendo” la risposta è probabilmente ancora no. Perché Schlein viene da un passato movimentista piuttosto acceso e quindi ci sono dei “sospetti” nei suoi confronti. Serve che faccia qualcosa di più ma non posso essere io a dirle cosa fare. Ma certamente deve capire quali sono i punti di resistenza alla sua leadership, che ci sono. E cercare di capire come superarli.
Come può inserirsi in questo contesto il Movimento 5 Stelle di Conte?
Conte è in una tenaglia. Deve in qualche modo entrare in quel campo se vuole vincere ancora. Riuscendo a smussare alcune delle sue punte. Dall’altro lato deve mantenere alcuni aspetti di sua visibilità utili a tenere un certo elettorato in quel campo. Forse Conte l’ha capito ma non so se sarà in grado di fare un’operazione del genere. La vittoria lo vedrebbe premiato in uno schieramento nel quale non potrà mai essere primo. La sconfitta avrebbe ripercussioni sul Movimento e sullo stesso Conte.
Pubblicato il 6 luglio 2024 su Il Dubbio

La democrazia dell’astensione e i trucchetti della destra @DomaniGiornale

Gradualmente, con bassi e alti, impuntature e contraddizioni, giravolte e regressi, sembra che coloro che frequentano il “capo largo” abbiano finalmente appreso l’abc della politica: Avanzare Bene Coalizzandosi. Non tutti, per carità, hanno colto appieno l’insegnamento. Appesantito dal suo ego, qualcuno rilutta e aspetta, talvolta intralcia, ma la lezione è chiara e gli elettori sembrano apprezzarla. Non vogliono perdere quello che hanno (avuto) da buone amministrazioni di centro-sinistra. Vogliono ottenerlo quando le promesse di candidature adeguate e condivise appaiono preferibili rispetto alle prestazioni degli amministratori del centro-destra. Azzardato è sostenere come, sull’onda dell’entusiasmo ha affermato Elly Schlein, che nel voto favorevole al centro-sinistra stanno anche la richiesta di più fondi alla sanità pubblica e la critica all’autonomia regionale (malamente) differenziata. Gli elettori, almeno la maggior parte di loro, ragionavano su tematiche locali, evidenti, urgenti, importanti, ma, certo anche il rumore di fondo di brutte riforme nazionali ha influito sul loro voto. Non è forse inutile ricordare ai dirigenti del centro-sinistra che sulle tematiche più propriamente relative al governo nazionale: aggressione russa all’Ucraina e europeismo, le differenze fra loro restano, con parte degli elettori non disponibili a premiare potenziali governanti che non offrissero una visione convincente, condivisa e praticabile.
Già, gli elettori. L’astensionismo che cresce si offre a molteplici interpretazioni, la meno accettabile delle quali mi pare il disagio. Piuttosto, a livello delle emozioni, porrei l’accento sull’indifferenza (l’uno o l’altra per me pari sono) e sull’alienazione (va male, andrà peggio, non ci posso fare niente). Non escludo i “soddisfatti” (comunque si me la cavo abbastanza bene chiunque vinca). Il punto, però, è che, non solo il voto è “dovere civico” (art. 48 della Costituzione bellina), ma in democrazia è, più che auspicabile, raccomandabile che il maggior numero possibile di cittadini esprima le sue preferenze, sia coinvolta, partecipi. Se la partecipazione è un obiettivo di sinistra, allora dirigenti e attivisti del centro-sinistra dovrebbero dedicare molte più energie a raggiungere elettori fuoriusciti e elettori mai entrati. La democrazia può funzionare anche con alti tassi di astensionismo, ma la sua qualità non sarà buona e le diseguaglianze rimarranno molte e alte, se non addirittura cresceranno.
Pur essendo per lo più vero che al secondo turno elettorale e al ballottaggio (non sono la stessa cosa) diminuiscono gli elettori, stabilire che per vincere la carica in palio sia sufficiente il 40 per cento dei voti (con il perdente magari al 39 per cento) non avrà nessun effetto sul tasso di astensione. Invece, avrebbe effetti negativi sulla legittimità e sulla rappresentatività del candidato vittorioso, proprio quella legittimità e rappresentatività che la maggioranza assoluta garantisce. Qui, il punto è che il ballottaggio è un ottimo strumento politico per i candidati rimasti in lizza e per gli elettori. I primi sono obbligati a cercare voti allargando lo schieramento che li sostiene e prefigurando la coalizione di governo. I secondi ottengono maggiori informazioni e sanno di disporre di un voto decisivo. Chi rinuncia a questa opportunità si assume la responsabilità dell’eventuale elezione del candidato meno gradito. Chi vota al secondo turno ha preferenze più intense e esprime maggiore impegno politico. Il Presidente del Senato La Russa e i leghisti firmatari del disegno di legge (però, che cattivo gusto presentarlo sull’onda di una sconfitta!) che chiamerò “40 per cento ebbasta”, hanno paura di questi elettori? E, forse, stanno anche prefigurando una inaccettabile soglia per l’elezione popolare diretta del Presidente del Consiglio? No, grazie.
Articolo pubblicato il 26 giugno 2024 su Domani
Le due leader dimostrino di saper incidere anche in Europa @DomaniGiornale

Il parlamento europeo e il Consiglio dei capi di governo vedono arrivare gli italiani, soprattutto le italiane. No, né Meloni né Schlein, pure furbettamente elette, andranno ad occupare il seggio da europarlamentari, ma la loro presenza nella Unione Europea si sentirà, eccome. “Giorgia” è il capo del governo italiano, l’unico dei governi che ha avuto un buon successo elettorale e il cui partito, invece di perderne, ha triplicato i seggi nell’Europarlamento. Elly, già europarlamentare, è la segretaria del partito che avrà singolarmente più seggi fra i componenti dell’eurogruppo dei Socialisti&Democratici. Entrambe godranno, seppur in maniera diversa, di importanti opportunità politiche.
Giorgia ne ha fin da subito due molto significative. Prima opportunità: la sua preferenza e il suo voto potranno essere davvero incisivi nella designazione della/del Presidente della Commissione che, certamente, se ne ricorderà e ne terrà conto nella sua attività. La seconda è più che un’opportunità, un potere effettivo. Come ogni capo di governo, quello italiano ha per l’appunto il potere di nominare un Commissario, se il/la Presidente non è già della sua “nazione” di appartenenza. Meloni dovrà, da un lato, sfuggire alla tentazione dell’amichettismo alla quale troppi nel suo partito sono particolarmente sensibili. Dall’altro, cercherà di confutare tutti coloro che la accusano di non avere una classe dirigente. Individuare la personalità competente, europeista e, ovviamente, anche affidabile alla quale attribuire una carica prestigiosa che può essere importantissima per rappresentare l’Italia, ma con lo sguardo e l’impegno per cambiare l’Europa, è una vera sfida.
Salvo molto improbabili e imprevedibili sorprese, i Socialisti&Democratici Europei faranno parte della maggioranza parlamentare a sostegno della prossima Commissione e della relativa Presidenza. Hanno ragione coloro che sottolineano che spesso gli europarlamentari danno vita a maggioranze a geometria variabile. Bisogna aggiungere subito che, in primo luogo, è giusto che su molte materie gli europarlamentari votino secondo coscienza e scienza (quello che hanno imparato e che sanno). Questo è il senso della rappresentanza politica. In secondo luogo, in quelle geometrie variabili le destre delle più variegate sfumature di nero non sono mai state determinanti. Resta da vedere quanto vorranno e riusciranno ad esserlo i Fratelli e le Sorelle d’Italia. Non determinante, un aggettivo che nell’Unione Europea non si attaglia quasi mai a un singolo attore politico, partitico e istituzionale, se non in negativo per chi ricorre allo sciagurato potere di veto, ma molto influente potrebbe/potrà essere l’europacchetto dei parlamentari democratici. Chi li guiderà, mi auguro di concerto e con frequente consultazione con Elly Schlein, dovrà anzitutto puntare alla Presidenza di una o più commissioni parlamentari di rilievo e sostanza: Affari Costituzionali, Ambiente, Economia. Dovrà, poi, ma non voglio esagerare nei tecnicismi, avere la capacità di dialogare e interloquire con i Commissari e con i loro collaboratori, alti e competenti funzionari, tutt’altro che burocrati che tramano nell’ombra. Compito che potrebbe essere ricco di ricompense personali e politiche
Concluse la fase del voto e la relativa conta, sconfitti i malamente attrezzati profeti del malaugurio che soffiavano nel vento delle destre sovraniste, qualunquiste, antieuropeiste, da adesso il capo del governo e la leader dell’opposizione hanno l’obbligo, non “divertente”, ma impegnativo, assorbente e potenzialmente gratificante di trovare le modalità di incidere sulle politiche e sul percorso europeo. Quasi tutto quel che si può fare nella nazione Italia dipende da quello che si riesce a fare, con competenza e credibilità, nell’Unione Europea. Anche, forse in special modo, a Bruxelles si misura la qualità della leadership politica.
Pubblicato il 12 giugno 2024 su Domani
Alla democrazia non servono duelli tv e personalizzazioni @DomaniGiornale

L’Agcom è finalmente intervenuta per bloccare il tanto lungamente strombazzato duello televisivo fra la Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni detta Giorgia, e la segretaria del maggiore partito d’opposizione Elly Schlein, che non è il capo dell’opposizione, qualifica che non le può essere unanimemente riconosciuta, certamente non da Giuseppe Conte (e neppure da qualcuno nel Partito Democratico). Poiché oramai è già in corso la campagna per l’elezione del Parlamento europeo, è ovvio che debbono essere rigorosamente rispettate tutte le regole della par condicio. Quindi, non può essere concesso nessun vantaggio di visibilità e di propaganda a qualsivoglia dei leader di partito rispetto agli altri. Giusto così. Però, nel bene, che è scarso, e nel male, che è abbondante, rimane la necessità di una riflessione approfondita, anche a futura memoria, su tutta la sostanza politica che motivava il duello.
Anzitutto, sta la mancata comprensione che se la campagna per l’elezione del Parlamento europeo fosse ridotta ad un duello influenzerebbe molto negativamente l’affluenza alle urne. Le elezioni europee comportano una competizione con legge elettorale proporzionale fra una pluralità di partiti. Ciascuno dei partiti deve potere usufruire lo spazio politico e televisivo che gli spetta, niente di meno e niente di più. Ricordo e sottolineo che, sommati, i due elettorati di Fratelli d’Italia e del Partito Democratico rappresentano al massimo il 50 per cento di chi ha votato, all’incirca un terzo o poco più degli aventi diritto.
Un duello avrebbe inviato il messaggio sbagliato e fuorviante (tale sarebbe anche nelle elezioni politiche nazionali) della politica italiana semplificata e impoverita a un confronto fra due persone, alle loro figure e alle loro esperienze. Il duello non mancherebbe di interesse, soprattutto per gli studiosi, dal punto di vista della comunicazione, ma sarebbe terribilmente riduttivo e, soprattutto, fornirebbe un tot di informazioni deprimenti. Lasciando sullo sfondo, ma non del tutto, non mi stanco di dirlo poiché è una ferita all’etica in politica, il deprecabile fatto che entrambe, Meloni e Schlein, con le loro candidature ad una carica, europarlamentare, che non andranno a ricoprire, ingannano tanto consapevolmente quanto colpevolmente l’elettorato, il duello avrebbe potuto far credere all’esistenza in Italia di una situazione bipartitica/bipolare che attualmente non esiste. Ci vuol altro, a cominciare da una buona legge elettorale, che un duello per dare forma e vita ad un bipolarismo decente.
Da almeno trent’anni, la politica italiana è (stata) malamente personalizzata, con le caratteristiche personali, anche fisiche, dei dirigenti politici che fanno aggio sulle loro idee e proposte politiche spesso degne di nota per la miseria e il provincialismo dei contenuti. Un duello non può non esaltare i tratti fisici superficiali (faccine, sbuffi, ammiccamenti, battutine, interruzioni, armocromia e altre piacevolezze), con l’interpretazione affidati agli psicologi, sicuramente a tutto scapito dei contenuti. Dubitare che le duellanti si sarebbero impegnate a fondo nell’affrontare di petto le tematiche europee è più che lecito, assolutamente doveroso. Invece di essere un confronto ad alto contenuto politico e pedagogico, qualsiasi duello televisivo, è da tempo noto, finisce per acquisire inevitabilmente componenti teatrali e spettacolari, belle e brutte, comunque poco politiche nel senso nobile della parola, cioè relative alla vita nella polis, in questo caso l’Unione Europea.
Naturalmente, chi intende cambiare la politica italiana in senso presidenzialista, che significa attribuire grande potere politico-istituzionale ad una persona, ha coerentemente tutto l’interesse a promuovere e accettare duelli, praticati, ma non frequenti neppure nelle repubbliche presidenziali. Chi pensa che la politica democratica si costruisca e si perfezioni attraverso il coinvolgimento dell’elettorato, della cittadinanza nella ricerca e nella formulazione di decisioni collettive, non può che ritenere che qualsiasi duello fra persone sia inadeguato, talvolta controproducente, mai migliorativo. Quello che potrebbe gratificare gli ego personali, anche dei conduttori del duello, molto difficilmente giova alla crescita della politica democratica. Anzi, la squilibra.
Pubblicato il 18 maggio 2024 su Domani
L’arte di costruire e coltivare le alleanze. Dove falliscono i capi, la parola agli elettori @formichenews

Per mettere insieme due elettorati che, in partenza, condividono solo l’opposizione al governo delle destre, appare indispensabile rinunciare alla reciprocità del fuoco che è proprio fuori luogo chiamare “amico”. Vincere sulle carni del proprio indispensabile alleato significa solo continuare a perdere. Il commento di Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza politica, socio dell’Accademia dei Lincei
Sbagliata fin dall’inizio (ah, se chi vuol fare politica studiasse o almeno leggesse un po’ di Scienza politica!), l’espressione “campo largo” è finalmente da cestinare senza nessuna riluttanza. Nella pratica, né a Bari né altrove non esiste nessun campo largo nel quale rincorrere l’elettorato di sinistra, conquistarlo, sommarlo. Ci sono campetti di elettori/trici fedeli, testardi, spesso faziosi, molto refrattari, poco inclini a farsi sommare. Eppure, dare vita a coalizioni vincenti è l’arte della politica. Richiede pazienza e idee.
Schematicamente sosterrò che, in misura diversa, né Schlein né Conte sembrano avere dimostrato di essere in possesso delle due doti necessarie in quantità sufficienti. Allora, vadano pure verso lo schema prodiano: competition is competition, meglio, naturalmente, senza esagerare nelle accuse reciproche scavando fosse in quel campo.
Per mettere insieme due elettorati che, in partenza, condividono solo l’opposizione al governo delle destre, appare indispensabile rinunciare alla reciprocità del fuoco che è proprio fuori luogo chiamare “amico”. Vincere sulle carni del proprio indispensabile alleato significa solo continuare a perdere. Non sarebbe neanche una vittoria di Pirro, ma una vittoria da “pirla”. Suggerisco come punto di partenza quella riflessione mai avvenuta sulle condizioni che hanno portato alla vittoria di Alessandra Todde in Sardegna.
La scelta in una buona candidatura è l’elemento maggiormente unificante. Viene prima di qualsiasi programma perché nelle elezioni a cariche monocratiche (presidente di regione e sindaco), le singole persone, con le loro esperienze, le loro competenze, le qualità professionali, politiche, personali, sono il programma. Sono le gambe sulle quali la coalizione correrà per conquistare quella carica. Qualcuno dirà che proprio il caso di Bari, dove né Conte né Schlein vogliono “sacrificare” il loro candidato, costituisce la prova provata che i due campetti rimarranno separati e che la sconfitta sarà meritatissima. Ineccepibile. Schlein ha tentato di riunificare i campetti con le primarie. Conte si è chiamato fuori. Forse, gli attivisti condividono. Rimane, però, una grande, potenzialmente decisiva, opportunità offerta dalle regole di quella buona legge attraverso la quale si eleggono i sindaci. Difficile che il candidato delle destre baresi vinca al primo turno. Al ballottaggio, insieme a lui, si presenterà chi fra il candidato pentastellato e il candidato democratico avrò ottenuto più voti. Soltanto una tremenda combinazione, che non escludo, di narcisismo e faziosità potrebbe tradursi nella non convergenza dei voti democratici sul pentastellato o viceversa.
Insomma, la convergenza non fatta dai capi verrebbe prodotta, magari grazie anche all’incoraggiamento di Conte, Schlein e con una nobile dichiarazione del candidato sconfitto, dagli elettorati. Naturalmente, questo, che sarebbe il migliore degli esiti possibile, è ripetibile in altri cointesti locali con gli adattamenti dei diversi casi. Anche i capi dei partiti talvolta imparano. A livello nazionale, in attesa delle nuove regole elettorali, un po’ tutti i “centro-sinistri” saranno chiamati a operare per un rapporto più stretto e solidale già in partenza. Una mia stretta e brava collaboratrice sostiene che suo figlio di sei anni, sarà il federatore delle sinistre italiane. A buon intenditor/trice poche parole.
Pubblicato il 6 aprile 2024 su Formiche.net
Le due leader non facciano trucchi sull’UE @DomaniGiornale

Struggente l’attesa di sapere se le due donne più importanti nella politica italiana inganneranno l’elettorato e si candideranno ad una carica, europarlamentare, che, incompatibile, con le loro cariche di governo e di rappresentanza in Italia, non hanno nessuna intenzione di accettare. Appassionante il dibattito su quale sarebbe il loro personale valore aggiunto per i rispettivi partiti che entrambe spiegheranno con dovizia di particolari, lo sappiamo tutti, quando l’ennesima conduttrice di talk televisivo formulerà l’audace domanda: “perché mai la sua candidatura/elezione dovrebbe servire a promuovere le politiche europee che stanno (ci sono, vero?) nel programma del suo partito dato che lei non entrerà in quel Parlamento europeo?” No, questa non è “la politica, bellezza”. Nient’affatto. Di presa in giro, si tratta, di meschini calcoli di bottega che sviliscono la campagna elettorale e il senso italiano di stare nell’Unione Europea.
Da molti punti di vista le elezioni europee del 9 giugno si stanno caratterizzando come elezioni cruciali per l’Unione Europea. Non esiste nessun rischio di dissoluzione, ma non è difficile cogliere qualche concreto pericolo di stagnazione e retrocessione. Alcune domande “sorgono spontanee”. Possono essere formulate seguendo propositi e prospettive che hanno già circolato qualche tempo fa. Primo, allargare l’Unione ai non pochi paesi, sullo sfondo anche l’Ucraina, che hanno già fatto domanda di adesione e le cui credenziali hanno loro consentito l’accesso ai negoziati? Oppure, dilazionare, posticipare, mantenere lo status quo? Secondo, approfondire l’Unione con formule di vario tipo, soprattutto per pervenire ad una gestione più estesa e più ampiamente condivisa delle politiche economiche e fiscali e a costruire una autonoma politica di difesa? Oppure limitarsi a quello che c’è e che per alcuni governi sovranisti è già fin troppo? Accelerare l’integrazione in tutti i campi, sperimentando politiche a velocità diverse che spingerebbero a emulazioni virtuose anche attraverso il completo superamento delle votazioni all’ unanimità? Oppure rallentare fino a fermarsi a quello che c’è, l’acquis communautaire, che non pochi sovranisti desiderano contenere, limare, ridurre?
I Popolari europei hanno già acconsentito, seppure con dissensi numericamente non trascurabili, all’ambizione della loro Ursula von der Leyen di essere riconfermata Presidente della Commissione, scegliendola come candidata di punta, su cui puntare. Prontamente, Giorgia Meloni, chi sa se anche nella sua qualità di Presidente del Gruppo Conservatori e Riformisti Europei, è scesa in campo, dichiarando la sua disponibilità a votare von der Leyen per un secondo mandato. Poi, se mai i voti di Fratelli d’Italia e dei Conservatori e Riformisti risultassero decisivi, ne seguirà logicamente e politicamente, senza scandalo, più di un condizionamento sulle politiche della Commissione, dove si troverà un rappresentante di FdI, e sulla stessa Presidente.
Pure i Socialisti e i Democratici europei hanno già nominato il loro, non molto noto, candidato Presidente. Cinque anni fa, von der Leyen non era la candidata di punta dei Popolari. Sbucò dalla manica larga dell’allora molto potente Angela Merkel. Poiché una situazione non dissimile, di insoddisfazione/inadeguatezza delle candidature ufficiali potrebbe ripresentarsi, la richiesta da avanzare ai dirigenti dei partiti e ai candidati consiste nell’esprimere le loro preferenze relativamente a allargare, approfondire, accelerare e a disegnare l’identikit della Presidenza della Commissione maggiormente in grado di andare nella direzione scelta. Con una frase ad effetto, questo ci chiede l’Europa e questo serve a chi desidera un’Europa più vicina ai cittadini europei (almeno e specialmente a quelli che votano).
Pubblicato il 20 marzo 2024 su Domani
Le due leader non ingannino gli elettori @DomaniGiornale

Non è consentito essere contemporaneamente parlamentare nazionale e europarlamentare, Qualora un/a parlamentare nazionale, candidatasi al Parlamento europeo, venga eletta dovrà inevitabilmente optare per l’uno o l’altro parlamento. La candidatura di chi sa e addirittura dichiara preventivamente che, anche se eletta, non andrà al Parlamento europeo costituisce comunque una truffa agli elettori. Non può essere nascosta né sminuita sostenendo che la campagna elettorale offre la grande opportunità di parlare di Europa agli elettori senza nessun doveroso obbligo di accettare l’eventuale elezione. Infatti, è del tutto evidente che questa opportunità può essere sfruttata, a maggior ragione, anche dai segretari dei partiti, dai ministri e dal capo del governo, tutte persone informate dei fatti, dei malfatti e dei misfatti, anche senza che si presentino candidati a cariche che sanno (e dichiarano) di non andare a ricoprire.
I mass media dovrebbero regolarmente informare l’e/lettorato quantomeno dell’esistenza di quella che è una insuperabile incompatibilità. La Presidente del Consiglio Giorgia Meloni giustifica la sua eventuale candidatura come capolista in tutt’e cinque le circoscrizioni come un servizio reso al partito che trarrebbe grande vantaggio dalla sua notevole capacità di conquistare voti. L’inganno cambia di qualità, ma rimane tale. La persona del leader prevale proprio per la sua capacità attrattiva di voti sul discorso concernente l’Unione Europea, il suo parlamento, il compito degli eletti/e. Non è ancora chiaro se e quanto il gruppo dirigente del Partito Democratico intenda fare pressione sulla sua segretaria Elly Schlein, peraltro, già europarlamentare per un mandato, affinché si candidi, anche lei in versione “specchietto per le allodole”, in almeno una circoscrizione. Per questa eventualità valgono, in misura appena inferiore, tutte le obiezioni rivolte alla candidatura Meloni.
Tuttora incerta e indecisa su come sfruttare le elezioni europee, nel frattempo Meloni sembra più che propensa a un confronto pubblico con la segretaria del PD la quale, naturalmente, non potrebbe permettersi il lusso di rifiutare. L’eventuale duello oratorio ha già trovato ben disposti, addirittura entusiasti sostenitori in alcune reti televisive e in alcuni giornalisti che, a vario titolo, vorrebbero esserne i moderatori. Qualcuno ha già provveduto a resuscitare un importante esempio di duello politico del passato: elezioni del marzo 1994, da una parte Silvio Berlusconi, dall’altra parte Achille Occhetto. Quella competizione elettorale era chiaramente bipolare; la posta in gioco era altrettanto chiaramente Palazzo Chigi. Oggi, in questa fase, nell’attuale contesto partitico, quantomeno tripolare, non esiste nessuna delle due condizioni di fondo. Le elezioni politiche non sono certamente dietro l’angolo. La Presidenza del Consiglio è solidamente nelle mani dell’attuale occupante (il termine inglese incumbent è molto più pregnante).
Pertanto, il duello Meloni/Schlein, per quanto possa avere elementi politicamente interessanti, vedrebbe la componente spettacolare (l’insieme di postura, mimica, atteggiamenti, lessico, abbigliamento) che i mass media esalterebbero attraverso valutazioni e commenti che diventerebbero virali, prevalere sui contenuti politici. Non c’è nessun bisogno di alimentare la politica spettacolo (che fu molto contenuta nel duello Berlusconi/Occhetto). All’ordine del giorno sta non stabilire chi è la più brava oratrice del reame, ma chi ha le idee migliori da portare e esprimere nel parlamento europeo. I dirigenti dei partiti si confrontino in pubblico quando in gioco/in palio c’è una posta politica, non diseducativamente per vincere la sfida dell’audience e dello share. Non farne avanspettacolo, ma dare dignità alla politica, questo è il dovere delle leadership democratiche.
Pubblicato il 10 gennaio 2024 su Domani
Make Europe Great Again (MEGA). Quel che dobbiamo fare per l’Europa, ovvero per noi @formichenews

Immigrazione, Patto di Stabilità e Crescita, nuove e numerose adesioni, sicurezza e pace sono le sfide che, se troveranno soluzioni condivise tra il 2024 e il 2029, promettono di cambiare per il meglio l’Unione europea e la vita dei cittadini/e europei/e con effetti positivi anche sulla costruzione di un nuovo ordine internazionale. La riflessione di Gianfranco Pasquino, europeo nato a Torino, professore emerito di Scienza politica nell’Università di Bologna e Accademico dei Lincei.
Non c’è soluzione specificamente italiana ai problemi che in qualche modo riguardano l’Unione Europea e gli altri Stati-membri e i loro cittadini. Chiamarsi fuori significa per l’Italia non soltanto dovere provvedere da sé, ma rendere più difficile, quasi impossibile prendere decisioni che per funzionare richiedono accordi e concordia europea. Due esempi sono sufficienti: l’immigrazione e la revisione del Patto di Stabilità e Crescita, ma all’orizzonte si staglia l’adesione di nuovi stati a completamento geografico (e politico) dell’Unione Europea. Questa mia premessa è indispensabile per capire quanto alta è e possa diventare la posta in gioco dell’elezione del Parlamento europeo il 9 giugno 2024.
Anche se è giusto rammaricarsene, è inevitabile, comunque, impossibile da proibire, che i dirigenti dei partiti italiani pensino a sfruttare l’esito delle elezioni europee per rafforzare le loro posizioni in Italia. Assisteremo sicuramente ad un consistente travaso di voti e seggi dalla Lega, più che dimezzata, a Fratelli d’Italia che quadruplicherà i suoi voti e i suoi seggi. Lungi da me affermare che questo esito fortemente positivo per quei Fratelli servirà a poco o nulla se non incidesse sulla formazione della prossima maggioranza nel Parlamento europeo. Certo, dirigenti e eletti del Partito dei Conservatori e Riformisti, di cui Giorgia Meloni è presidente, non saranno davvero soddisfatti se mancheranno l’obiettivo di sostituire i Democratici e Socialisti dando vita ad una nuova maggioranza con Liberali, Verdi e Popolari. Poiché in democrazia, e l’Unione Europea è il più grande spazio di libertà, di diritti, di democrazia mai esistito al mondo, i voti contano, anche la, al momento probabile, prosecuzione della maggioranza attuale sarà consapevole della necessità di tenere conto della nuova distribuzione di seggi. Ma i seggi senza idee e proposte non fanno cambiare le politiche, forse neppure le cariche come, per esempio, quella della Presidenza della Commissione.
Spetterà alla campagna elettorale andare oltre i temi nazionali e la conta nazionale, pur, gioco di parole, tenendone conto. Finora non si è visto praticamente nulla di concreto, nulla di nuovo, nulla di affascinante. Peggio. La discussione sulle candidature a capolista e in quante circoscrizioni di Giorgia Meloni e di Elly Schlein (e giù per li rami delle altre liste con la lodevole eccezione di Giuseppe Conte che si è chiamato fuori) segnala la persistenza di una fattispecie di malcostume, politico e etico. C’è incompatibilità fra la carica di europarlamentare e quella di parlamentare nazionale. Dunque, poiché, naturalmente, né Schlein né, meno che mai, Meloni rinuncerebbero alla carica nazionale, è troppo poco denunciare che la loro presenza come capolista è uno “specchietto per le allodole”. Si tratta di un vero e proprio inganno a danno degli elettori, inganno che tutti i commentatori/trici e tutti i media dovrebbero, non assecondare con toto nomi e probabili desistenze a favore di fedelissimi/e, ma denunciare ad alta voce misfatti e misfattiste.
Poiché le decisioni europee nel prossimo parlamento si annunciano molto importanti, la composizione delle liste dovrebbe rispecchiare competenze e esperienze, non solo affidabilità personale e politica che, pure, è giusto che contino. La presenza di europarlamentari capaci è da considerarsi ancor più necessaria e significativa se la maggioranza sarà risicata. Talvolta, una argomentazione convincente riesce a spostare voti, a diventare vincente. Immigrazione, Patto di Stabilità e Crescita, nuove e numerose adesioni, sicurezza e pace sono le sfide che, se troveranno soluzioni condivise tra il 2024 e il 2029, promettono di cambiare per il meglio l’Unione Europea e la vita dei cittadini/e europei/e con effetti positivi anche sulla costruzione di un nuovo ordine internazionale.
Pubblicato il 31 12 2023 su Formiche.net
Il Governo e quella ferita a un diritto costituzionale @DomaniGiornale

Qualsiasi sciopero che coinvolga settori importanti, come è quello dei trasporti, e che riguardi non soltanto un grande numero di addetti, ma anche più in generale di lavoratori, finisce per configurarsi come uno sciopero generale. Diventa rapidamente anche uno sciopero politico se e nella misura in cui l’obiettivo di fondo è contrastare, cambiare, bocciare la legge finanziaria e se e quando contro quello sciopero intervengono i governanti più o meno legittimati dall’essere responsabili specifici del settore chiamato a scioperare. Insomma, lo sciopero generale indetto da CGIL e UIL (troppo spesso, a mio parere, la CISL prende le distanze) e dichiarato improponibile nei tempi annunciati da una Commissione di nomina governativa si è inevitabilmente trasformato in uno scontro fra il segretario generale della Cgil Maurizio Landini e il Ministro dei Trasporti Matteo Salvini.
Poiché Landini ottiene prontamente e opportunamente il sostegno della segretaria del Partito Democratico Elly Schlein e di buona parte degli oppositori e a Salvini, anche per non lasciarlo lucrare da solo i frutti della contrapposizione, si accodano altri governanti, quello che è in atto deve essere considerato un vero importante scontro fra l’opposizione sociale e parlamentare, da un lato, e il governo Meloni, dall’altro. Non credo che lo scontro socio-politico possa essere derubricato a semplici divergenze sulle interpretazioni della normativa che regola gli scioperi. Comunque, non solo le molto impegnative dichiarazioni dei protagonisti da entrambe le parti sono andate parecchio oltre un confronto in punta di diritto, ma lo schieramento intorno a Landini e gli alleati di Salvini mirano ad ottenere qualcosa di molto differente da una soluzione salomonica.
Infatti, quelli che chiamerò gli ambienti governativi si sono incamminati lungo la strada scivolosa e compromettente del ridimensionamento del diritto di sciopero o quantomeno della valutazione discrezionale caso per caso della sua legittimità. A maggior ragione, Landini, Bombardieri, le opposizioni ritengono indispensabile, quasi imperativo procedere allo sciopero per ribadire il suo essere un diritto non sopprimibile. Non so se il Direttore mi consentirà di esprimere su questo giornale le mie riserve sulla efficacia pratica di alcuni scioperi. Da tempo, non da solo, auspico un ripensamento delle forme sindacali di lotta tali da andare oltre la componente talvolta poco più che simbolica della partecipazione dei lavoratori al fine di conseguire risultati concreti e duraturi senza creare danni e disagi alla cittadinanza.
Adesso, però, è in ballo un diritto costituzionale contestato, compromesso, a rischio di essere conculcato. Pertanto, lì bisogna ballare. Probabilmente, agli inizi il “conculcamento” del diritto di sciopero non era all’ordine del giorno del governo Meloni, ma nell’arco delle alternative disponibili è oramai considerato una eventualità tutt’altro che sgradita, nient’affatto da escludere. Poiché la narrazione governativa è che, nelle condizioni socio-economiche ereditate e date l’operato di Meloni e dei suoi ministri è stato positivo e ancor più lo risulterà nei prossimi mesi/anni, coloro che si oppongono, che remano e agiscono contro le scelte del governo: finanziaria e altro, premierato e autonomie differenziate, preferisco il plurale, vanno contro gli interessi e il futuro radioso della Nazione. Pertanto, se il prezzo da pagare è quello di essere criticato e insultato per avere ridimensionato lo sciopero, anche procurando una ferità al diritto di sciopero, il governo prenderà atto e andrà avanti. Non è ricattabile. Ma non è affatto detto che sia invincibile.
Pubblicato il 15 novembre su Domani
Pasquino: “Schlein e Conte discutono su tutto. E Meloni governa…” #intervista @ildubbionews


Il professore critica l’atteggiamento della segretaria del Pd e del leader del M5S: “Sono entrati in uno stallo dal quale è difficile uscire, perché servirebbe una fantasia che non hanno”. Intervista raccolta da Giacomo Puletti
Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza Politica all’università di Bologna, commenta i recenti screzi tra Pd e M5S e spiega che «nessuno si sta impegnando affinché gli elettorati dei due partiti capiscano che o si mettono insieme o resteranno all’opposizione per i prossimi dieci anni».
Professor Pasquino, Calenda lamenta la fine del dialogo con Pd e M5S sulla sanità, dopo le convergenze sul salario minimo: l’opposizione riuscirà a trovare altre punti d’incontro?
Da quello che vedo mi pare che né Schlein né Conte né gli altri, tra cui Calenda, abbiano una strategia. Operano giorno per giorno reagendo in maniera non particolarmente brillante a quello che fa il governo. La battaglia sul salario minimo è stata una cosa buona, visto che sono giunti a una specie di accordo di fondo ponendo il tema sull’agenda governativa, ma poi non si è visto altro.
Pensa che sia una questione di posizionamento in vista delle Europee?
C’è sicuramente competizione tra i partiti, ma è anche vero che i loro elettorati sono diversi e nessuno si sta impegnando affinché quegli elettorati capiscano che o ci si mette insieme o si è destinati, come dice la presidente Meloni, a restare all’opposizione per i prossimi dieci anni.
Come finirà la partita sul salario minimo?
Il Cnel farà una proposta che assomiglia a quella che ha ricevuto, con alcune variazioni. Giorgia Meloni la accetterà cambiando alcune cose ma rimanendo nel solco del salario minimo e dicendo che la sua è una proposta migliorativa rispetto a quella delle opposizioni. Non si chiamerà salario minimo, ma la presidente del Consiglio se lo intesterà.
Non pensa che, soprattutto tra Pd e M5S, ci siano terreni sui quali giocare le stesse partite?
Il punto è che non vedo le modalità con le quali possano convergere. Sono entrati in uno stallo dal quale è difficile uscire, perché servirebbe una fantasia che non hanno. Una volta contatisi alle Europee vedremo cosa succederà, ma anche lì non mi aspetto sorprese. L’unica potrebbe essere lo sfondamento del Pd attorno al 25 per cento, che mi auguro, o un declino del M5S. Ma quest’ultimo evento non sarebbe positivo perché la diminuzione dei voti farebbe aumentare la radicalità di quel partito, allontanando ancora di più le possibilità di un’alleanza con i dem.
A proposito di dem, crede che Schlein abbia impresso quella svolta al partito che tanto predicava o gli apparati del Nazareno impediscono qualsiasi tentativo di rivoluzione?
Gli apparati non sono sufficientemente forti da impedire nulla, ma ho l’impressione che l’input di leadership che arriva da Schlein non sia adeguato. Non si è ancora impadronita della macchina del partito e questo segnala un elemento di debolezza che ha poco a che vedere con le politiche che propone. Sono le modalità con le quali le propone a essere sbagliate. Insomma vedo molto movimento e non abbastanza consolidamento.
Uno che si muove molto è Dario Franceschini, che sta dando vita a una nuova corrente di sostegno alla segretaria: servirà?
Non mi intendo abbastanza di queste cose perché ho sempre detestato le correnti. Detto ciò, il punto fondamentale è che sostenere la segretaria è utile al partito, contrastarla fa male a tutti. Fare un correntone contro la segretaria è sbagliato, ma lo è anche fare una correntina a favore della leader. Se le correnti agissero sul territorio per accogliere nuovi elettori sarebbe positivo, ma devo dire che vedo poco movimento sul territorio.
Beh, le feste dell’Unità non sono certo quelle di una volta…
Per forza, continuano con la pratica di invitare sempre gli stessi senza cercare qualcosa di nuovo e creare così un dibattito vero che catturi l’attenzione della stampa.
Un tema di cui si dibatte molto è l’immigrazione: pensa che su questo Pd e M5S possano trovare una strategia comune di contrasto alle politiche del governo, che proprio su di esse fonda parte del suo consenso?
Il tema è intrattabile. Non so se il governo raccoglie consensi con le strategie sull’immigrazione ma di certo non sta risolvendo il problema. È intrattabile perché nessuno ha una strategia e tutti, maggioranza e opposizione, pensano che sia un’emergenza congiunturale quando invece è strutturale. Per i prossimi venti o trent’anni uomini, donne e bambini arriveranno in Europa dall’Africa e dall’Asia perché non hanno possibilità di mangiare o perché scappano da regimi autoritari. L’unica cosa da fare è agire in Europa senza contrastare le visioni altrui e andando in una direzione di visioni condivise e obiettivi comuni. E su questo il governo mi pare carente.
In Slovacchia ha vinto le elezioni Robert Fico, iscritto al Pse ma pronto ad allearsi con l’ultradestra e smettere di inviare armi a Kyiv. È un problema per la sinistra europea?
Sono rimasto stupito dall’incapacità dei Socialisti europei di trattare con i sedicenti socialdemocratici di Fico. La sua espulsione doveva avvenire già tempo fa. Mi pare che siano 4 gli europarlamentari del suo partito e dovevano essere cacciati. Perché non si può stare nel Pse se non si condividono i valori del partito, e Fico non li condivide. Valeva la stessa cosa per il Ppe con Orbán, e questo potrebbe far perdere voti agli uni e agli altri.
In caso di crollo di Popolari e Socialisti ci sarà spazio per maggioranze diverse a Bruxelles?
Meloni dice che è in grado di portare sufficienti seggi a Strasburgo per far sì che ci sia un’alleanza tra Popolari, Conservatori e Liberali e quindi fare a meno dei Socialisti. Io non credo che questi numeri ci saranno, a meno che non siano i voti degli stessi Popolari a spostarsi verso i Conservatori. È più facile pensare che ci sarà continuità nelle alleanze, dopodiché vedremo chi siederà al vertice dell’Ue. Ma è ancora presto per parlarne.
Eppure Salvini scalpita e tira per la giacchetta Tajani tutti i giorni sognando il “centrodestra europeo”. Ci sono possibilità?
Le destre son quelle che sono e non credo che l’Europa possa permettersi di accettare Salvini e Le Pen all’interno della maggioranza che governerà nei prossimi cinque anni.
Pubblicato il 3 ottobre 2023 su Il Dubbio