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Quirinale, quali sono davvero le conseguenze del possibile passaggio di Draghi dal governo al Colle? @DomaniGiornale


Dai commenti, di retroscenisti e folkloristi, deduco che per l’elezione al Quirinale è già stata superata la fase dei requisiti richiesti. Male. Per molti commentatori, comunque, il problema s’era posto solo con riferimento all’aggettivo ripetuto ad nauseam “divisivo”. Quasi sparita la necessità che il candidato/a dia garanzie di sapere proteggere ruolo, prerogative, potere della Presidenza. Addirittura, Più Europa e Azione, per voce di Emma Bonino, hanno dichiarato di votare la signora (sic) Cartabia per fare la (quale?) riforma della giustizia arrivando così, inopinatamente, alla Presidenza governante. A questo evitabile proposito, è forse utile ricordare che il semipresidenzialismo de jure prevede che il Presidente nomini comunque un Primo Ministro. Non so se il ministro Giorgetti temesse/tema (o auspicasse) che Draghi presidente della Repubblica significhi semipresidenzialismo di fatto con la scelta di un Presidente del Consiglio di suo gradimento, ma il tema è posto nettamente in queste ore.
Premesso che desidererei che chi critica Draghi e il suo operato in quanto capo del governo dovrebbe coerentemente estendere la sua critica anche al più alto sponsor di Draghi, ovvero al Presidente Sergio Mattarella, molti hanno capito che elezione del Presidente e futuro del governo si intrecciano. Chi vuole che Draghi rimanga al governo dovrebbe avere capito che l’attuale Presidente del Consiglio vuole giustamente la garanzia che la maggioranza che lo sostiene sia quella che elegge il Presidente della Repubblica e che, di conseguenza, s’impegni a coadiuvarne l’opera. Dunque, il nuovo Presidente deve più o meno esplicitamente prendere un impegno di continuità. Ci sono almeno due presidenziabili che quell’impegno sono disponibili a prenderlo, che non pretenderebbero di governare e che sono credibili. Non stanno, però, tra i tre nomi proposti dal centro-destra.
Quanto all’eventuale transizione, inusitata, da capo del governo a Presidente della Repubblica, che sarebbe effettuata da un capo di governo inusitatamente non politico e non parlamentare, non serve a nulla limitarsi a notarne l’eccezionalità. Necessario è chiedersi quali ne sarebbero le implicazioni istituzionali e politiche con riferimento al caso concreto del viaggio di Draghi da Palazzo Chigi al Quirinale. Se quel viaggio è benedetto dalla maggioranza che sostiene Draghi, allora sarebbe opportuno che i leader dei partiti di maggioranza comunicassero (quasi certamente ne hanno già, per quanto separatamente, discusso con lui) al Presidente che, se è vero che il Presidente della Repubblica “nomina il Presidente del Consiglio”, la Costituzione materiale si basa sul suggerimento, talvolta anche di più, di uno o più nomi ad opera dei capi dei partiti i cui parlamentari daranno o no la fiducia all’incaricato dal Presidente della Repubblica. Insomma, Draghi eletto Presidente della Repubblica deve sapere che potrà esercitare la moral suasion, ma che la politica di una democrazia parlamentare riconosce a partiti e parlamentari molti poteri e notevole flessibilità. Talvolta mi illudo (non riesco a non farlo) che mettere in luce alcuni meccanismi, indicarne le modalità di attuazione e lo spazio di discrezionalità sia utile anche agli operatori ciascuno dei quali dispone di un quid di potere politico. C’è un rischio per Draghi che sale al Colle, ma c’è anche un rischio per Draghi se al Colle salirà un politico troppo sensibile alle richieste dei partiti che lo hanno prescelto. Non è facile stabilire qual è il rischio minore e per chi (temo per il sistema politico italiano).
Pubblicato il 25 gennaio 2022 su Domani
Tutte le ragioni che ha Mattarella per preoccuparsi @DomaniGiornale
Da una parte, i numeri; dall’altra parte, gli interessi, anche corposi: la politica è in larga misura questa combinazione. Per fortuna non soltanto questo, ma nei momenti di crisi gli interessi contano quanto i numeri e persino i numeri sono interessati. Già in partenza il Presidente Mattarella è splendidamente posizionato per avere il quadro degli interessi e per raccogliere le informazioni più convincenti e più aggiornate sui numeri. Notevole è finora stata la mobilità di un piccolo, ma potenzialmente decisivo, gruppo di parlamentari italiani che hanno cambiato “gabbana” più volte e che non hanno ancora trovato il luogo più adeguato per fare contare il loro voto. Incidentalmente, “la” proporzionale non c’entra proprio niente con questi vorticosi movimenti. Tutti costoro sono stati nominati dai capi dei partiti e delle correnti. Non dovranno rendere conto agli elettori dei loro comportamenti. Quindi cercano di tranne il massimo dal seggio di cui dispongono consapevoli che in un certa misura lo possono usare come moneta di scambio.
Per molti parlamentari e per alcuni partiti, la posta in gioco è anche altra: come giungere a contare nella assegnazione e utilizzazione degli ingenti fondi del programma NextGenerationEU. In qualche modo tutti i dirigenti dei partiti, di governo e di opposizione, sono giunti alla conclusione che quei fondi possono non soltanto cambiare la vita dell’Italia e degli italiani, ma anche consentire di allargare il loro consenso elettorale sia nella fase di assegnazione sia nella fase di realizzazione. Impoliticamente oppure troppo politicamente, convinto, in parte giustamente, che quei fondi li aveva ottenuti lui personalmente, Conte ha tentato una operazione di accentramento quasi esclusivo, sicuramente eccessivo e quindi facilmente criticabile. Le critiche di Renzi (e di Confindustria) a Conte fanno leva proprio su un accentramento a Palazzo Chigi che non forniva abbastanza risorse ai suoi gruppi di riferimento (e ad alcune imprese private non molto propositive, ma interessatissime alle fetta della grande torta europea). Gradualmente, forse troppo lentamente, Conte ha ceduto a malincuore su alcune procedure, su alcune modalità, sulla cabina di regia e sui manager, ma questi cedimenti hanno, da un lato, mostrato la sua debolezza, dall’altro, suggerito a chi voleva di più che, in effetti, di più poteva ottenere.
Le dimissioni di Conte e questa convulsa fase di costruzione di un governo rinnovato o di un altro governo hanno riaperto tutti i giochi. Un (in)certo, relativamente piccolo, numero di parlamentari si trovano investiti di molto potere contrattuale che, oltre a lusingare il loro personale ego, eserciteranno/eserciterebbero anche su qualche capitolo del Piano di Ripresa e di Rilancio. Soprattutto, però, sembra diventata possibile, ma al momento in cui scrivo non (ancora) molto probabile, un’altra opzione. Se nascerà il Conte ter, Italia Viva (o dovrei più appropriatamente scrivere Renzi) avrà ministeri e più voce in capitolo su alcune politiche di ripresa con molti fondi da distribuire. Nel caso in cui, come ha dichiarato Emma Bonino, la dis-cont-inuità significasse mettere da parte Conte per dare vita ad una coalizione Ursula, allora, userò la terminologia americana, sarà a whole new ball game. Forse non proprio nuovissimo perché includere nella nuova coalizione di governo Forza Italia, solo in quanto nella UE si trova fra i Popolari Europei che hanno votato Ursula von der Leyen, avrà conseguenze enormi. Anzitutto, dovrà cadere la pregiudiziale negativa dei Cinque Stelle nei confronti di Berlusconi. In secondo luogo, è immaginabile che non siano affatto pochi i parlamentari del PD, non quelli di Italia Viva, che si sentiranno a disagio (splendido understatement). Ma, soprattutto, terzo, si squadernerebbe il problema mai risolto del gigantesco conflitto di interessi dell’imprenditore Silvio Berlusconi. Molte delle sue attività si svolgono e molte delle sue imprese operano nei settori nei quali possono/debbono essere investiti i fondi europei. Ce n’è abbastanza per essere vigili e preoccupati. Non gli faccio un torto se penso che lo sia anche il Presidente Mattarella.
Pubblicato il 29 gennaio 2021 su Domani
Svolta europeista per salvare il governo Conte
La ricerca di una maggioranza più solida a sostegno del governo Conte, quello esistente, ma, eventualmente, anche quello futuro, si presenta tutt’altro che facile. Deve evitare di dare vita a una situazione “raffazzonata” e “raccogliticcia”, vale a dire, senza principi condivisi e con parlamentari di varia provenienza tenuti insieme soltanto dal desiderio, pur legittimo, di non andare a elezioni anticipate e non perdere il seggio. Inoltre, quel gruppo/gruppetto ha bisogno, a norma di regolamento, del nome di un partito presentatosi alle elezioni del marzo 2018. La scoperta che l’on Cesa, capo dell’UDC, potrebbe essere coinvolto in attività della ‘ndrangheta in Calabria rende improbabile l’utilizzazione di quel nome e simbolo anche se, forse, potrebbe facilitare la migrazione di senatori che vi si siano identificati.
Uno dei punti di forza del discorso e del governo Conte è il richiamo all’Unione Europea. Grazie all’impegno e alla credibilità del Presidente del Consiglio l’Italia potrà disporre di 209 miliardi di Euro, 129 sotto forma di prestiti a bassissimi tassi di interesse e 80 come sussidi da non restituire. Questa massa di soldi arriveranno all’Italia una volta valutati i programmi di investimenti in alcune aree privilegiate, dall’economia verde alle infrastrutture, dalla digitalizzazione alla coesione sociale, i loro tempi, la loro fattibilità. Vi si possono aggiungere 36-37 miliardi di Euro del MES esclusivamente per spese sanitarie dirette e indirette. Finora il Movimento 5 Stelle ha opposto un rigido rifiuto e, non casualmente, Renzi ha posto l’accento sull’utilità di un ricorso immediato al MES che è anche la posizione del Partito Democratico e di Forza Italia. Dunque, dire sì al MES può significare inserire un’utile contraddizione nello schieramento di centro-destra e mandare un messaggio positivo ai senatori/senatrici di Forza Italia in condizione di disagio.
Il nucleo portante della rinnovata azione di governo, quella che giustificherebbe anche una maggioranza più coesa e indispensabilmente allargata è proprio costituito da una decisa svolta europeista. Conte potrebbe sfidare ItaliaViva ad essere coerente su questo terreno e incoraggiare la formazione di un gruppo di parlamentari di diverse provenienza, ma tutti orientati a mettere in evidenza la loro comune posizione europeista. Lì potrebbe trovarsi il sen. Nencini, socialista; lì potrebbe giungere la sen. Bonino della lista Più-Europa; lì finirebbero anche gli ex-democristiani che sempre furono europeisti nonché gli europeisti di Forza Italia. Un gruppo di questo genere darebbe un contributo positivo essenziale al rafforzamento numerico, ma anche politico del governo.
Nel 1941 l’ex-comunista Altiero Spinelli, il radicale Ernesto Rossi, il socialista Eugenio Colorni scrissero che sarebbe venuto il tempo di sostituire alla declinante differenziazione “destra/sinistra” quella fra i contrari all’unificazione politica dell’Europa e i favorevoli. Ottanta anni dopo a Conte si presenta l’opportunità di contribuire alla realizzazione di questa profezia.
Pubblicato AGL il 22 gennaio 2021
Legion d’Onore, perché sto dalla parte di Augias. L’opinione di Pasquino @formichenews
Una volta per tutte (sì, sono consapevole del tasso di retorica di questa affermazione) è essenziale che si dica alto e forte che anche sulla scena internazionale, non v’è nulla di più importante dei diritti delle persone. L’opinione di Gianfranco Pasquino
Con un gesto nobile e esemplare Corrado Augias ha restituito all’ambasciatore di Francia a Roma la Legion d’Onore per protestare contro l’assegnazione della stessa onorificenza al presidente egiziano Al-Sisi. La motivazione di Augias è chiara e condivisibile. Non si può stare nella stessa compagnia di chi, come Al-Sisi, calpesta i diritti umani.
Da anni gli egiziani depistano le indagini sul rapimento e l’assassinio di Giulio Regeni; da quasi un anno tengono in carcere in condizioni repellenti il loro concittadino Patrick Zaki, studente di master all’Università di Bologna, senza un’imputazione precisa. Questi fatti sono ben noti alle autorità francesi e, naturalmente, anche al presidente Macron. Infatti, la concessione della Legion d’Onore a Al-Sisi è stata fatta quasi di soppiatto senza grande cerimonia, non a causa del Covid, ma per timore delle proteste dei francesi stessi, a cominciare dagli intellettuali. Non voglio fare paragoni, ma ricordo che in occasione dell’invasione sovietica dell’Ungheria nel 1956, Nenni restituì il premio Lenin per la pace ricevuto nel 1951. Mi aspetterei che anche altri italiani premiati con la Legion d’Onore seguissero, ciascuna con la sua motivazione che, però, deve assolutamente includere Regeni (e Zaki), l’esempio di Augias. Particolarmente importante è che lo facciano Emma Bonino e Piero Fassino, per il loro ruolo politico e sensibilità personale ai diritti delle persone.
In alcune dichiarazioni Augias ha sostenuto che comprende i vincoli dell’azione politica. È lampante, peraltro, che non è affatto disposto a condividerli e a giustificarli in nome del mercato, del più o meno libero commercio, della rilevanza strategica. Sono tutte motivazioni che hanno appesantito i comportamenti delle autorità italiane e che non hanno condotto a nessun esito. Evidentemente, a sua volta, il presidente Macron pone a fondamento della sua politica estera motivazioni che nulla hanno a che vedere con i diritti, alla faccia di tutti coloro che fra noi (e fra i francesi stessi) hanno ammirato la République proprio per la sua opera ispirata dalla protezione e dalla promozione dei diritti umani.
Quella Legion d’Onore a Al-Sisi avrebbe potuto essere condizionata al suo impegno a rispondere alle richiese della magistratura italiana (manifestazione della solidarietà fra Paesi europei, non di malposta concorrenza). A maggior ragione, dovremo noi, proprio come insistentemente fanno i genitori di Regeni, chiedere alle autorità italiane, dal ministro degli Esteri al ministro della Difesa e, naturalmente al capo del governo che alzino il tiro dell’azione diplomatica, a cominciare dal sempre più sacrosanto richiamo dell’ambasciatore italiano al Cairo e al blocco delle transazioni commerciali.
Una volta per tutte (sì, sono consapevole del tasso di retorica di questa affermazione) è essenziale che si dica alto e forte che anche sulla scena internazionale, non v’è nulla di più importante dei diritti delle persone.
Pubblicato il 14 dicembre 2020 su formiche.net
Dopo fake news e gossip, Conte (ora) è più forte
Limpidamente bocciata nell’aula del Senato la sfiducia delle destre e della radicale Bonino contro il Ministro della Giustizia Bonafede, è venuto il tempo di fare chiarezza sullo stato di salute del governo, del Parlamento, della democrazia italiana. Forse, solo momentaneamente zittiti, i retroscenisti ricominceranno fra qualche tempo a dire che sentono spifferi e scricchioli, tensioni e conflitti, che si moltiplicano le voci di crisi del Governo Conte e di sostituzione del Presidente del Consiglio (ad opera del solito noto che immagino, conoscendolo, sorridente e preoccupato). Sono tutte fake news e gossip sostanzialmente irrilevanti. Quand’anche Renzi ottenesse qualche Presidenza di Commissione chi conosce i governi di coalizione sa che sono richieste fisiologiche e non scandalose che potrebbero persino rafforzare il governo. Lascerei alle sedicenti anime belle, ma certo non brave dal punto di visto delle conoscenze del funzionamento delle democrazie parlamentari, di stracciarsi le vesti. Poi, magari, potrebbero gettare uno sguardo oltre le Alpi e, non dico che apprenderebbero, ma almeno vedrebbero la normalità di pratiche nient’affatto eversive.
Conte ne esce effettivamente rafforzato anche perché, come nei Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, ci ha messo la faccia. Si è assunto responsabilità politiche e personali. Talvolta commette errori, ma ha dimostrato di sapersi correggere e di non attribuirli ad altri. Appena smetto di ridere vorrei anche aggiungere che non ho mai letto di derive autoritarie effettuate attraverso la decretazione d’urgenza. Né mi pare che il Presidente del Consiglio abbia chiesto “pieni poteri”. Assolutamente fuori luogo proporre un paragone fra Conte e Orbán che s’era già deliberatamente incamminato su un percorso poco democratico.
Avendo, sicuramente, più a cuore di molti di noi la democrazia, le anime belle si sono ripetutamente lamentate poiché il Parlamento italiano era chiuso non per ragioni legate al contagio, ma perché “qualcuno” voleva evitare che controllasse le pericolosissime attività sovversive del governo Conte. Con la riunione d’aula di mercoledì 20 maggio, il Senato ha già tenuto sei sessioni in maggio. Furono sei in marzo e nove in aprile. Per la Camera i dati sono otto in marzo, dodici in aprile, sei, finora, in maggio. Negli stessi mesi, la Camera dei Comuni inglese, la madre di tutte le Camere basse, si è riunita dieci volte in marzo, quattro in aprile, cinque in maggio; il Bundestag tre volte in marzo, due in aprile, cinque in maggio; il Congreso de los diputados spagnolo nove volte in marzo, sette in aprile, due in maggio; la Camera bassa austriaca (Nationalrat) quattro volte in marzo, quattro in aprile, due in maggio..
Sono ancora esterrefatto che, a suo tempo, nessuno abbia replicato a Salvini, giunto fino all’occupazione per poche ore del Senato, a Meloni e ai commentatori piangenti che: “Ciascuna Camera può essere convocata in via straordinaria per iniziativa del suo Presidente o del Presidente della Repubblica o di un terzo dei suoi componenti” (art. 62 della Costituzione). Al Senato il centro-destra ha 142 seggi su 320, alla Camera 265 su 630, quindi, in entrambi i casi ben più di un terzo (Senato 107; Camera 210). Una semplice e veloce raccolta di firme telematiche, smart collection, e le Camere si sarebbero dovute riunire. No, non è stato il governo a tenere chiuso il Parlamento, ma l’ignoranza e il disinteresse di chi strepitava e non agiva. Infine, la democrazia italiana, appena scossa delle differenze d’opinione e politiche fra le regioni e il governo, non esce in nessun modo indebolita da questa difficile, non finita, prova. Ha inevitabilmente manifestato inadeguatezze che sono strutturali (quelle della burocrazia), ma nessun cedimento nelle sue strutture portanti: Parlamento, governo, Presidente della Repubblica. In attesa del prossimo voto in aula e del prossimo dottissimo retroscena.
Pubblicato il 22 maggio 2020 su Il fatto Quotidiano
Il governo esce più forte dal Senato, perché le destre si sono dimostrate deboli #intervista @ildubbionews
«Renzi ha voluto dimostrare di essere in grado di far cadere il governo, ma di avere l’intelligenza di non farlo. Bonafede? E’ stato convincente, era la mozione ad essere fuori fuoco»
Intervista raccolta da Giulia Merlo
Renzi ha giocato bene la partita politica e Bonafede si è rivelato più convincente delle aspettative. Insomma «il governo esce rafforzato dal confronto d’aula al Senato, nella misura in cui le destre hanno dimostrato la loro debolezza». Sintetizza così la giornata campale di ieri, il professore emerito di Scienza politica Gianfranco Pasquino, che ne estrapola una lezione precisa: «Chi fa cadere un governo lo fa solo se sa di poterne controllare le conseguenze».
Renzi ha definito quello di ieri al Senato “il suo intervento più difficile”. Che impressione le ha fatto in aula?
L’ho trovato molto efficace, meno fanfarone del solito. Ha detto cose di sostanza e in particolare un passaggio è stato molto importante: ha spiegato che il suo gruppo non ha sfiduciato Bonafede perché appoggia il governo guidato da Conte. Il premier questo deve tenerlo ben presente. Si è detto che questa scelta di Italia Viva sia costata 48 ore di contrattazione con Palazzo Chigi. Io non so cosa Renzi abbia chiesto a Conte né quale ricompensa abbia concesso il presidente del Consiglio, ma francamente mi interessa poco. Anzi, credo che in un governo di coalizione sia giusto e corretto che il premier vada incontro agli interessi di una componente irrequieta, che chiede visibilità. Perché di questo stiamo parlando: Italia Viva va male nei sondaggi e ha bisogno di acquisire spazio. Ma questo fa parte della politica e non mi scandalizzerei se Conte concedesse a Renzi un sottosegretario in cambio del salvataggio di Bonafede. Sarebbe uno scambio perfettamente legittimo.
Renzi di fatto ha spostato il focus sul premier. Bonafede, dunque, è rimasto sullo sfondo di un confronto che solo apparentemente riguardava il suo ruolo?
Io non credo sia del tutto così. Bonafede è il ministro della Giustizia e in un qualsiasi organigramma di governo è il terzo o quarto ruolo più importante. Inoltre, in Italia la situazione della giustizia è particolarmente delicata e dunque acquista ulteriore rilevanza, anche alla luce delle conseguenze di questo Coronavirus. La mozione era decisamente contro Bonafede e la sua replica agli attacchi è stata molto convincente: ho ascoltato un ministro che è arrivato preparato e ha dimostrato di saper ben argomentare e documentare le sue scelte. Era la mozione ad essere fuori fuoco.
La mozione di Bonino non era centrata?
Sul tema delle carceri Bonino combatte una battaglia giusta, era la mozione ad essere sbagliata perché giocava sui malumori e sulle intemperanze della maggioranza. Bonino avrebbe potuto chiedere e forse anche ottenere migliori condizioni per il carcere senza bisogno di questa mozione di sfiducia, che mi sembra frutto di una certa voglia di protagonismo. Anche perché mi chiedo: se anche la mozione sua o quella delle destre fosse passata, si sarebbero risolti i problemi della giustizia?
Eppure lo stesso Renzi ha detto che, se Italia Viva avesse usato il metro giustizialista dei 5 Stelle, Bonafede sarebbe stato sfiduciato.
Io trovo che gli argomenti contrapposti del giustizialismo e garantismo in questo caso siano mal posti. Mi spiego: io non ho mai apprezzato la teoria radicale del “nessuno tocchi Caino”. A mio modo di vedere Caino deve essere toccato eccome, cacciandolo in galera per omicidio. Su questo lo Stato deve essere deciso, perché se i colpevoli non vengono puniti si trasmette un messaggio di impunità e di doppiopesismo giudiziario. In questo senso, è la stessa cultura giuridica italiana a non aver mai sciolto il dilemma tra giustizialismo e garantismo. Figuriamoci se può averlo fatto la politica. Per questo ritengo che nel caso di Bonafede la categoria giustizialista non c’entri. Renzi ha parlato di cultura del sospetto e ha detto che, sulla base di quella, si sarebbe stati legittimati a sospettare del comportamento del ministro.
E dunque perché Renzi non lo ha sfiduciato? Sulla base di una vera condivisione del progetto politico del governo o per mero tatticismo?
Sarebbe troppo facile risponderle che lo ha fatto per entrambe le ragioni. Io credo che all’origine di tutte le scelte di Renzi ci sia la rivendicazione di aver fatto nascere questo governo lo scorso agosto, quando ha aperto la strada all’alleanza Pd-5Stelle. Nello stesso tempo, Renzi è irritato perché questo merito non gli viene riconosciuto e per questo è arrivato alle estreme conseguenze di uscire dal Pd per fondare un suo movimento. Detto questo, Renzi sa di aver bisogno di voti per rimanere in politica ma questi voti, per ora, non stanno venendo fuori. Dunque ha bisogno di più tempo. Accanto a questo ragionamento di convenienza, però, credo che Renzi abbia la consapevolezza del fatto che il Paese si trova in un momento molto delicato e che far cadere ora il governo sarebbe gravissimo.
Lei che giudizio dà della scelta politica di Renzi?
Ritengo che Renzi abbia voluto dimostrare di avere la forza di far cadere questo governo, ma anche l’intelligenza di non farlo cadere. Su questa scelta spera di ottenere un giudizio positivo da parte dei futuri elettori.
Una scelta lungimirante?
Guardi, chi è politicamente responsabile compie azioni rilevanti come far cadere un governo solo se ha la certezza di controllarne le conseguenze, almeno nel medio periodo. Tradotto: si può far cadere il governo Conte solo nella misura in cui si è in grado di prevedere quale governo gli succederà, e soprattutto che questo governo successivo sia migliore di quello attuale. Attualmente, però, queste due condizioni non esistono.
Dunque il confronto di ieri al Senato è stato la proverbiale montagna che ha partorito il topolino?
Non direi. Anzi, mi sembra che dal confronto di ieri siano emersi alcuni dati politicamente molto rilevanti. Il primo, che la destra di Salvini e Meloni è debole e può pensare di vincere solo se la maggioranza attuale si sfarina. Il secondo, che Bonafede si è dimostrato adeguatamente competente. Il terzo, che il governo è uno e trino: uno è Conte, gli altri tre sono le sinistre di Pd, Italia Viva e Leu, e di questi il presidente del Consiglio deve tener più conto.
Dunque il governo esce rafforzato o indebolito da questa non sfiducia a Bonafede?
Il governo esce appena appena più forte, nella misura in cui le destre si sono dimostrate deboli. Questo esecutivo, tuttavia, ha sfide di ben altra portata davanti: penso al MES, che andrebbe preso così com’è ma su cui i 5 Stelle si sono aggrovigliati in una posizione ideologica. Al netto della parentesi di ieri, il governo rimane in una posizione difficile perché imbarca acqua da più lati e solo ogni tanto riesce a mettere un tappo. E, per sentirsi al sicuro, ha ancora moltissima strada da fare.
Pubblicato il 21 maggio 2020 su ildubbio.news
Campagna elettorale permanente o inesistente?
Ripetendo ossessivamente, come fanno troppi giornalisti e commentatori, che Salvini più di Di Maio sono in campagna elettorale permanente, che cosa abbiamo svelato e/o imparato?: che la campagna elettorale permanente ha poco non ha quasi niente a che vedere con le prossime importanti votazioni per eleggere il Parlamento europeo. Quante e quali informazioni utili per la loro scelta europea otterranno gli elettori italiani da come sarà risolto il caso Siri, sottosegretario leghista indagato per corruzione? Che cosa di rilevante per l’Unione Europea dice loro la fotografia di Salvini che parla dal balcone del comune di Forlì dal quale si affacciava Benito Mussolini? Specularmente, che cosa penseranno i governanti degli Stati-membri dell’UE, nessuno dei quali cambierà di qui ad ottobre, poiché non ci saranno altre elezioni nazionali dopo quelle recenti in Spagna, della posizione dell’Italia rispetto all’UE? Sono certamente interessati a conoscere quanto potere ha il Presidente del Consiglio Conte, da qualcuno accusato di essere un burattino nelle mani di Salvini e Di Maio. Infatti, burattino o no, Conte dovrà decidere, salvo imprevisti non del tutto improbabili (autodimissioni di Siri), dimostrando le sue preferenze e reali capacità, non di avvocato del popolo, ma di capo di un governo di coalizione. Avere un capo di governo credibile nell’UE sarebbe una buona notizia per gli italiani che, dalla campagna elettorale permanente, non hanno finora avuto elementi utili per eleggere con un utilissimo voto gli europarlamentari italiani. Da Giorgia Meloni viene la richiesta di un voto per andare “in Europa per cambiare tutto”. Lo slogan, che proposta programmatica non è, del PD di Zingaretti pone l’accento sul lavoro affidando a più rappresentanti del PD nel Parlamento europeo il problema di come affrontare e risolvere il problema del lavoro in Italia. Candidato capolista in quattro circoscrizioni su cinque, Berlusconi si presenta come colui che darà vita a una coalizione contro le sinistre, i verdi, i liberali e che comprenderà Popolari, Conservatori e, grande novità, i non meglio definiti sovranisti “illuminati”. Non sarà, però, facilissimo convincere l’ungherese Orbán ad abbandonare la sua autodefinizione di democratico illiberale e “illuminare” il sovranista Salvini affinché, poi, torni nel suo alveo naturale italiano: il centro-destra. Tra chi vuole “più Europa” (la lista di Emma Bonino), chi ne vuole meno a casa propria (i sovranisti delle varie sfumature), chi (Calenda) sostiene di “essere [già] europeo”, ma vuole uno Stato nazionale forte, e chi vuole cambiarla tutta l’Europa (Fratelli d’Italia) senza dirci come, è difficile che l’elettorato italiano sia in grado di scegliere a ragion veduta chi rappresenterà meglio le sue preferenze, anche ideali, e i suoi legittimi interessi in sede europea. Fin d’ora è possibile dire che la campagna elettorale permanente combattuta fra Cinque Stelle e Lega su tematiche italiane, comunque vada a finire, non rafforzerà le posizioni italiane a Bruxelles.
Pubblicato AGL il 8 maggio 2019
Il Pd non è predestinato all’opposizione. Si guardi all’Europa.
Intervista raccolta da Francesca Scaringella
Per il politologo è chiaro che il Partito democratico non potrà guidare il Paese, ma deve rendere conto a un elettorato che lo ha votato per proseguire nelle sue azioni. Escludendo però prossime elezioni
“Non è vero che c’è stato un nulla di fatto. Le consultazioni servono”. Così Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza politica all’Università di Bologna, inizia la conversazione con Formiche.net sulla situazione che si sta delineando dopo queste prime consultazioni dei partiti al Colle.
“Quando leggo sui giornali che c’è stato un nulla di fatto, penso sia una chiave di lettura totalmente sbagliata. A questo punto tutti gli attori, ovvero i dirigenti di partito e il Presidente della Repubblica si sono incontrati, si sono scambiati delle idee, faranno proposte, e hanno capito dove stanno le maggiori compatibilità o incompatibilità. Ne sappiamo tutti di più, tranne i giornalisti che danno informazioni in base a quello che pensano i dirigenti di partito, ed è un fatto grave…”.
Il professore, che ha appena pubblicato il suo ultimo volume Deficit Democratici. Cosa manca ai sistemi politici, alle istituzioni e ai leader, edito da Egea, casa editrice della Università Bocconi, si è interrogato in questi giorni anche sul futuro del Partito democratico, in relazione alle scelte che sta portando avanti ora. Il Pd, secondo il professore, deve capire quale è la linea da seguire, dal momento che dispone di un 20% delle Camere, anche se dalle urne il risultato è stato negativo. Seguire adesso la linea di un leader, Matteo Renzi, che alle elezioni non ha avuto conferme, anzi, potrebbe essere per il partito una strada perdente. Pasquino infatti precisa che “la linea di Renzi è comunque perdente perché ha già perso 2 milioni e mezzo di elettori il 4 marzo”. “Lui può anche continuare a far perdere di più (la linea del partito ndr) se vuole, ma ciò non è la volontà degli elettori che non hanno votato il Pd per mandarlo all’opposizione. Ma lo hanno votato per dire di proseguire nella sua azione, per portare avanti interessi e nel caso guidare il Paese”.
Certamente, sostiene Pasquino “è chiarissimo che il Pd non potrà guidare il Paese, ma non si capisce per quale motivo debba stare all’opposizione”. Pasquino infatti si domanda come si possa interpretare il ruolo del Pd dalla parte dell’opposizione, tra l’altro, “a un governo che nemmeno esiste. Opposizione a che cosa? A quali ministri? A quale programma? A quali priorità? Tutto ciò è semplicemente sbagliato. Il partito è ‘immobilizzato’, forse, per dirla meglio, si muove malamente, perché ora ha sulle spalle tutti i parlamentari nominati da Renzi grazie alla pessima legge elettorale di Rosato, il quale è stato incomprensibilmente o comprensibilmente, nominato vice presidente della Camera. Definire questa situazione paradossale è un eufemismo”.
Ma alla fine le consultazioni, che comunque sono state esplorative e sicuramente hanno delineato, come dice il professore, un quadro più chiaro sia ai partiti sia a Mattarella, che esecutivo possono tirare fuori, pensando anche ai numeri delle Camere e alle coalizioni che si possono formare? Sono davvero vicine le elezioni, come si legge in queste ore?
Pasquino risponde chiaramente che parlare di elezioni a un mese dal voto sia qualcosa di “stupidissimo”. “Il Parlamento comunque dovrebbe rifare la legge elettorale – spiega il professore – e se votassimo in tempi brevi, con la stessa legge, davvero si può pensare che l’elettorato cambierebbe in maniera significativa le sue preferenze?”. È qualcosa da evitare assolutamente e consiglia ai grandi giornali di non scriverne più per non trattare argomenti fuori luogo. Inoltre, spiega che se si guardano i tempi tecnici, si andrebbe alle urne a luglio, una sorta di “elezioni balneari”.
In realtà, però, Pasquino precisa che proprio il Presidente della Repubblica ha tolto questo dubbio. Non si va di nuovo al voto, ma anzi si lavora per un nuovo governo. “Mattarella ha fatto sapere, direi in maniera molto chiara, che la discriminante è l’Europa. E questo crea problemi alla Lega e in parte al M5S, perché essendo entrati in Europa, finalmente, non possono portarsi dietro il ‘fardello’ della Lega. Se dicono che sono atlantici, i 5 stelle hanno un altro problema perché Salvini è un putinista e questa è una situazione che crea difficoltà di ‘costruzione’. Il Pd deve ricordarsi che ha appoggiato Emma Bonino, la quale ha rilasciato una dichiarazione non felice sul fatto che l’onere e l’onore di governare lo ha chi ha vinto, ma non è così perché non ha vinto nessuno. Qualcuno deve fare un governo, Emma Bonino deve dire che appoggerà convintamente un governo cha ha una politica europeista. E lo deve dire anche al Pd che bisogna appoggiare un governo europeista, non però con un personaggio che quando arriva in conferenza si porta via la bandiera dell’Europa”.
Pubblicato il 6 aprile 2018 su formiche.net
No ai balletti sui Presidenti
Una cosa sola già sappiamo: non è buono il modo finora seguito per eleggere i Presidenti di Camera e Senato. Tutti avrebbero dovuto impararlo da quanto è successo a cominciare dal 1994. Nessuna “partitizzazione” è accettabile. Nessuno scambio a futura memoria deve costituire un fattore nella selezione delle candidature. Nessuna compensazione dei rapporti di forza fra i partiti nelle coalizioni: scontro Salvini-Berlusconi; contrasto latente fra ortodossi e eterodossi (rispetto a cosa?) dentro il Movimento 5 Stelle. Se questa è la nuova politica della presunta Terza Repubblica, meglio arrestarsi a pensare, riflettere, forse studiare. No, i Presidenti delle Camere non debbono essere il prodotto di nessuna maggioranza semplicemente fondata sui numeri. Non debbono neanche prefigurare una maggioranza di governo. Semmai, tutto il contrario. Per coloro che credono, spero siano molti, che una democrazia è il luogo dove esistono fremi e contrappesi, allora la garanzia iniziale e decisiva è proprio rappresentata da Presidenti che emergano per le loro qualità dai ranghi dei partiti che staranno all’opposizione. La “garanzia” consiste proprio nel consentire all’opposizione, di avere tempi e modi di controllare l’operato della maggioranza di governo, d’intervenire sui disegni di legge, di avanzare controproposte che siano regolarmente prese in considerazione, non insabbiate o bocciate pregiudizialmente e pretestuosamente. Al momento, nessuno dovrebbe essere o affermare di essere all’opposizione rinunciando a formulare criteri e ad avanzare proposte.
In base a quanto sappiamo della maggioranza dei Presidenti del passato, da un lato, giungevano a cariche istituzionali prestigiose, come sono entrambe le Presidenze, dopo un percorso politico spesso altrettanto prestigioso che s’era concluso. Potevano dedicare tutte le loro energie personali e capacità allo svolgimento di un compito cruciale: fare funzionare al meglio il Parlamento, l’istituzione cruciale in una democrazia parlamentare. Non facevano più “politica”. Invece, alcuni dei successori giunti a quelle presidenze nel pieno della carriera politica, se non addirittura, all’inizio della carriera, come i due presidenti adesso uscenti, hanno fatto eccome “politica” in maniera talvolta nociva al buon funzionamento del Parlamento, alla linearità dei rapporti governo/parlamento, accettando e ratificando qualche sconfinamento governativo di troppo. Un importante criterio con il quale filtrare le candidature consiste nel non attribuirle a chi potrebbe usarle come trampolino per il seguito della sua carriera politica.
Le Presidenze non sono merce di scambio. Dunque, debbono essere valutate separatamente e la scelta deve avvenire con riferimento ai meriti delle singole candidature. Sarebbe bello ascoltare proposte che elogino le qualità delle candidature. Personalmente, credo sia difficile trovare al Senato persona più autorevole di Emma Bonino, sicuramente giunta al termine della sua carriera più propriamente politica, rispettosa senza eccessi della Costituzione italiana, nota e apprezzata sulla scena europea, da sempre convinta dell’importanza del ruolo del Parlamento. La sua elezione non prefigurerebbe nessuna maggioranza e non sarebbe neppure un premio per il partito, il PD, nella cui coalizione è stata eletta. Alla Camera, la scelta è più complessa, ma valgono tutte le considerazioni che ho già svolto. La maggiore difficoltà riscontrabile è dovuta all’enorme ricambio avvenuto per i deputati e quindi all’assenza di una personalità dotata di esperienza e prossima al compimento della sua carriera politica. Non tanto provocatoriamente, potrebbe essere un esponente del Movimento 5 Stelle al suo secondo e, se sarà fatto valere il limite dei due mandati, ultimo mandato. Non sarebbe uno scambio, ma il semplice riconoscimento che il partito di maggioranza relativa ha il titolo elettorale e politico a ottenere quella carica. Qualsiasi altra considerazione è superflua, se non addirittura dannosa e controproducente.
Pubblicato AGL il 23 marzo 2018
C’è ancora poca Europa, troppo tiepido Juncker
Ha suscitato una fiammata di dibattito la preoccupazione espressa dal Presidente della Commissione Europea Jean-Claude Juncker che dopo il voto del 4 marzo l’Italia non sia/sarà in grado di darsi un governo “operativo”. Grande levata di scudi da tutti i protagonisti della campagna elettorale i quali, invece, di alleviare la preoccupazione di Juncker e dire a quale governo operativo daranno vita, hanno preferito gridare con toni e enfasi diverse all’interferenza dell’Europa nelle elezioni italiane. Juncker ha poi fatto una piccola marcia indietro, ma è immaginabile che lui, gli altri governi degli Stati-membri dell’Unione e, naturalmente, molti italiani siano davvero preoccupati dalla prospettiva di un non-governo dopo il voto, se non, peggio, di un governo non più europeista. Sarebbe sorprendente il contrario ovvero che Juncker dichiarasse che non gliene importa un bel niente di quel che succede in un paese che è uno dei sei Stati fondatori, che è la seconda economia manifatturiera dell’Unione Europea e che, nel bene, che c’è, eccome, e nel male, che pure fa capolino, sostiene una visione europeista federalista.
Occuparsi e preoccuparsi anche della politica negli Stati-membri sta nei doveri costitutivi della Commissione europea. Forse, guardando a quello che è successo e continua a succedere in Ungheria, Polonia e Slovacchia, la Commissione dovrebbe persino essere più intrusiva. Giustamente non è stata criticata quando ha espresso la sua critica alla Brexit e ai suoi protagonisti. Non lo è stata quando ha espresso il suo apprezzamento per la vittoria di Emmanuel Macron in Francia. È stata criticata per non avere più rapidamente e più incisivamente deprecato i tentativi secessionisti dei catalani che incidono anche sull’Unione Europea come la conosciamo e come vorremmo che diventasse, più “stretta”, più solida, più determinata.
È nell’interesse di tutti i cittadini degli Stati-membri che l’Unione Europea funzioni in maniera migliore e che, quindi, i governi di ciascuno Stato siano non soltanto stabili, ma per l’appunto operativi e che soddisfino fino in fondo i criteri della democraticità. Mi spingo più in là sottolineando che l’Unione Europea, la Commissione e il suo Presidente devono continuare a essere fortemente interessati agli sviluppi politici in ciascun paese anche perché sono troppo spesso accusati, soprattutto dai cosiddetti sovranisti di avere costruito strutture burocratiche e oligarchiche. Se vogliamo più politica e crediamo che il conflitto politico, ovviamente dentro le regole e le procedure, anche quelle elettorali, costituisca il sale delle democrazie, il parere e gli auspici di Juncker hanno un significato, contano, sono da prendere in seria considerazione.
All’insegna della non-interferenza, tutti i politici italiani e la grande maggioranza dei commentatori ne hanno approfittato per evadere la domanda implicita, ma chiarissima, di Juncker: “avrà l’Italia un governo operativo?” e, personalmente, aggiungo di quale caratura: europeista o sovranista? Nonostante i bene intenzionati sforzi di Emma Bonino, l’Europa non è nei primi posti dei punti programmatici e delle battaglie elettorali in corso. Senza esagerare in retorica, non sempre da disprezzare, sarebbe opportuno che i capipartito dicessero con grande limpidezza agli elettori che l’Europa è il destino dell’Italia e che starne fuori significa sprofondare nel Mediterraneo. Se vogliamo migliorare l’Italia dobbiamo cercare di essere più credibili come Stato-membro dell’UE grazie ad un governo in grado di assumere impegni e rispettarli ottenendo in cambio l’aiuto necessario all’economia e a problemi come, soprattutto l’immigrazione.
Stare fuori dall’Unione significa credere che l’Italia da sola saprà risolvere problemi che sono già difficili per l’Unione: pura, ma pericolosissima illusione. Insomma, Juncker ha peccato per difetto. Sarebbe stato molto preferibile che, candidamente, dicesse: “senza Europa voi italiani non andrete da nessuna parte e senza un governo operativo renderete difficile anche le importantissime attività dell’Unione”.
Pubblicato AGL il 25 febbraio 2018