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Mater semper certa est. Manca il pater
Renzi ha appena finito di urlare alla Festa dell’Unità di Reggio Emilia che un voto NO nel referendum non sarebbe contro di lui, ma contro Napolitano, il vero fautore e autore delle riforme. Caduta, almeno temporaneamente la richiesta di plebiscito su se stesso, Renzi la sposta su Napolitano. Il Presidente Emerito si affretta a chiedere un’amplissima intervista a “la Repubblica” e, naturalmente, l’ottiene. Senza sconfessare Renzi e richiamarlo al rispetto istituzionale, solennemente dichiara che le riforme costituzionali non sono né di Renzi né di Napolitano. Poi insiste che bisogna votarle altrimenti, ma questo lo scrivo io assumendomene le responsabilità, arriveranno Unni e Visigoti accompagnati da altre maledizioni. Peccato che, nel frattempo, un po’ lento a reagire il composito schieramento dei parlamentari del Partito Democratico, degli opinionisti, ricchi di opinioni e poveri di documentazione, e dei professorini fiancheggiatori pronti a entrare o tornare in Parlamento, continuino a ripetere che, sì, quelle riforme furono volute, anzi, imposte da Napolitano al Parlamento sostanzialmente come condizione per accettare la rielezione.
Quante altre grida renziane e quante altre interviste napolitane dovremo attendere per conoscere la verità? Però, almeno una verità già la conosciamo e abbiamo il dovere di diffonderla. Del merito delle riforme e delle loro conseguenze operative praticamente non si discute. Si sostiene che il Parlamento le ha esaminate in tot (ci sono divergenze su quante sono effettivamente state) letture. Si sottolineano i voti favorevoli delle sciagurate, magari un po’ coartate (già il coraggio che non ce l’ha non se lo può dare) minoranze del PD. Si esalta la magnifica spinta e progressista dei riformatori Renzi-Boschi dopo trent’anni e più di immobilismo come se, fatti provati e noti, nel 2001 il centro-sinistra non avesse approvato una profonda riforma del Titolo V (autonomie) e nel 2005 il centro-destra non avesse riformato addirittura 56 articoli di una Costituzione che ne ha 139. Entrambe furono riforme malfatte, la seconda facilmente bocciata dal referendum.
Naturalmente, neppure la presunta novità di riforme non proprio originali e propulsive può essere considerata una discussione sul merito né potrebbe giustificare riforme malfatte. Bontà sua, Napolitano concede, alquanto tardivamente, che bisogna riformare l’Italicum. I renziani buttano la palla in un Parlamento nel quale hanno la maggioranza, mentre in articoli e dibattiti i loro professorini di riferimento si affannano a dichiarare che l’Italicum, da loro apprezzato e giustificato in tutte le salse, non c’entra nulla con le riforme costituzionali. Ma come? conoscere le modalità con le quali sarà eletta l’onnipotente Camera dei deputati sarebbe ininfluente tanto rispetto alla valutazione delle specifiche riforme quanto sul funzionamento complessivo del sistema politico? Dal voto degli elettori, male tradotto dall’Italicum, non dipende il potere dei rappresentanti e dei governanti?
In corso d’opera e in attesa della fissazione della data del referendum, il non compianto Ministro Antonio Gava, suggerirebbe di fissarla prima dell’inizio della stagione sciistica, si fa balenare, anche dal Presidente Napolitano, che la bocciatura delle riforme, del cui “merito” quasi nulla si dice, sarebbe grave per la credibilità e l’affidabilità del paese aprendo una fase d’instabilità. Dismessi i panni dell’agitatore plebiscitario, il Presidente del Consiglio potrebbe dichiarare solennemente ad una prossima Festa dell’Unità che, immediatamente dopo la vittoria del No, si recherà da Mattarella a dare le dimissioni e che, da statista interessato alle sorti del suo paese, rassicurerà i mercati, e collaborerà fattivamente alla formazione di un nuovo governo. Il resto sta nelle mani e nella mente di Mattarella. Ci sarà modo di parlarne.
Pubblicato il 10 settembre 2016
Il Ministro dell’Agricoltura Martina e le colture politiche
L’allungarsi della campagna referendaria rischia di logorare i sostenitori del sì che ne hanno già dette di cotte e di crude e che, per fare punti agli occhi di Renzi (e Lotti), sono costretti ad inventarsi un po’ di tutto. In verità, che la riforma non è “la più bella”, non c’era proprio bisogno che ce lo dicesse il ministro Maurizio Martina (Corriere della Sera, 5 settembre, p. 13). Sarebbe stato preferibile che ci spiegasse perché è “la più utile”. Quali “più utili” obiettivi conseguirebbe? La semplificazione legislativa sicuramente no, visto che sarebbero almeno tre o quattro i procedimenti legislativi, invece di uno, quello attuale che, forse Martina non lo sa, consente al bicameralismo italiano di fare più leggi degli altri bicameralismi europei e al governo di ottenere, in un modo, i decreti, o nell’altro, la fiducia, quello che vuole, persino nei tempi che vuole, a condizione che sappia cosa vuole e entro quando. Per documentazione, Martina potrebbe rivolgersi agli uffici della Camera che hanno pubblicato un prezioso libretto, Insomma, sul merito Martina dice poco di nuovo e quel poco continua a essere sbagliato. Poi, però, seguendo una moda inaugurata, voglio farle onore, dal Ministro Boschi, ci dà qualche lezione di storia costituzionale.
I sostenitori del sì hanno tirato in ballo sia i Costituenti, che volevano cambiare il bicameralismo prima ancora di approvarlo oppure un minuto dopo la sua approvazione. Gli Atti della Costituenti non danno grande sostegno a queste fantasiose tesi mettendo, piuttosto, in rilievo che, inevitabilmente, nessuno dei Costituenti vinceva sempre. Poi sono stati chiamati in causa i comunisti: Enrico Berlinguer, Nilde Iotti, Pietro Ingrao, tutti impertinenti sostenitori ante litteram della riforma fatta da questo governo, ma non dagli esponenti di sinistra, altrimenti non si capirebbe perché il Comitato di Martina si chiami “Sinistra per il Sì”. Nessuno dei tre dirigenti del PCI può difendersi, ma come si fa a pensare che: 1) l’abolizione del bicameralismo abbia qualche attinenza con la riforma Renzi-Boschi?; come si fa a credere che 2) avendo tutt’e tre in maniera diversa espresso l’opinione che il bicameralismo italiano poteva essere riformato l’avrebbero fatto, qui sta, enorme, il discorso/confronto sul merito, allo stesso modo di quel che ha fatto il governo attuale? Infatti, punto che sfugge a tutti i sostenitori del sì, Berlinguer, Iotti e, soprattutto, Ingrao avrebbero guardato al contesto. Non avrebbero fatto riforme spezzatino.
In via di principio, poiché, bontà sua, afferma che “studiare la storia ha sempre senso”, Martina dovrebbe essere d’accordo sulla rilevanza del contesto. Avendola presumibilmente studiata, sostiene che “il passaggio fondamentale che abbiamo davanti ci spinge a rivedere cosa dicevano i costituenti, le grandi culture politiche del passato, Dossetti, Calamandrei” . Qualcuno più purista di me si chiederebbe se, oltre ai due citati, che rappresentano l’uno la cultura del cattolicesimo democratico, l’altro quella dell’azionismo liberale, la “Sinistra per il Sì” non dovesse citare, per esempio, il socialista di sinistra Lelio Basso e anche alcuni di quegli estremisti “costituzionali” dei comunisti. Però, il quesito lancinante è: dovremmo andare adesso subito a rivedere che cosa hanno detto quei Costituenti, a re-interpretare quelle culture politiche e costituzionali? Non era il caso di farlo prima di scrivere le riforme? Comunque, ci sono fior fiore di studiosi, per rimanere agli esempi citati da Martina, che potrebbero dirci senz’ombra di dubbio che cosa hanno fatto Dossetti e Calamandrei e quali metri di giudizio applicherebbero alle riforme renzian-boschiane. Quanto alle culture politiche, sarebbe interessante ascoltare da Martina, quando si rialza dallo studio della storia, qual’è la cultura politica istituzionale moderna che sorregge, uhm, meglio puntella, le riforme sottoposte a referendum. Quali sono i sistemi politici con i quali l’Italia dovrebbe confrontarsi, quali sono gli autori di riferimento, ad esempio, sulla democrazia deliberativa, sul ruolo delle autonomie, sui compiti e sui poteri dei cittadini: John Rawls (una teoria della giustizia), Ronald Dworkin (i diritti presi sul serio), Jürgen Habermas (il patriottismo costituzionale), Jon Elster (lo studio delle costituzioni e delle società) oppure Woody Allen di “Provaci ancora Sam”?
Pubblicato il 6 settembre 2016 su La Terza Repubblica
Referendum e plebiscito. La retromarcia di Renzi e la gaffe del ministro Boschi
Ci ha messo cento giorni (e qualche decina di sondaggi per lui negativi) Matteo Renzi a capire che “personalizzare” il referendum costituzionale trasformandolo in un plebiscito sulla sua persona (e sul suo governo) è diventato assolutamente controproducente. Rimane dubbio se abbia anche capito che la personalizzazione di un referendum non è soltanto un errore politico, ma è, soprattutto, una grave distorsione costituzionale. Adesso, si potrebbe discutere in maniera meno esagitata nel merito delle riforme (ma già da qualche tempo i migliori dei costituzionalisti e qualche, pochissimi, politologo lo stanno facendo). Mettendo subito da parte l’argomento, storicamente sbagliato, che questo governo è l’unico, negli ultimi trent’anni, ad avere fatto riforme costituzionali. Le fecero sia il centro-sinistra nel 2001 sia il centro-destra di Berlusconi nel 2005. Entrambi le fecero male. Non c’è due senza tre?
Per discutere sul merito, Renzi potrebbe anche sgombrare il campo dalla sua promessa/minaccia “se perdo me ne vado”. Dovrebbe, invece, dire “se perdo imparo la lezione e ricomincio da capo” che, scomodando il molto riluttante Max Weber, è la qualità del vero leader politico. Chi, invece, ha diverse lezioni da imparare, ma non sembra applicarsi abbastanza, è il Ministro delle Riforme Maria Elena Boschi. Ne ha già dette molte come, ad esempio, che i capilista bloccati (spesso, lo sappiamo e lo possiamo prevedere, anche paracadutati) sarebbero i “rappresentanti di collegio”, mentre, in politica, la “rappresentanza” si ha, ovviamente ed esclusivamente, con libere elezioni, non con nomine e non con cooptazioni.
La più recente esternazione, scommetto non l’ultima, della Boschi (forse anche per evitarne troppe altre sarebbe opportuno fissare una data ravvicinata per il referendum) è che “chi vota no non rispetta il (lavoro del) Parlamento”. Sia il referendum abrogativo sia il referendum costituzionale sono proprio gli strumenti con i quali i cittadini esprimono la loro opinione su quanto è stato fatto dal Parlamento. Debbono essere richiesti da coloro che ritengono che il Parlamento ha legiferato male e che una specifica legge, anche costituzionale, non risponde alle necessità del paese e alle preferenze dell’elettorato. Fra l’altro, dovrebbe essere assodato che la richiesta di referendum, anche dei referendum costituzionali, non spetta a coloro che quelle leggi hanno fatto, ma agli oppositori. “Plebiscito è quando governo chiede voto su suo operato”.
I Costituenti, che se ne intendevano e che credo sarebbero molto preoccupati (indignati?) dallo stato del dibattito italiano, volevano che i cittadini potessero valutare le riforme fatte dal Parlamento, ma volevano altresì evitare una delegittimazione del Parlamento che, in un paese ad alto tasso di antiparlamentarismo, sarebbe comunque un guaio. Questa è la ragione per la quale il referendum costituzionale non può essere richiesto se la modifica è stata approvata da due terzi dei parlamentari. Un “no” popolare che sconfessi due terzi dei parlamentari indica una profonda crisi di rappresentanza e qualcosa di più a tutto beneficio degli antiparlamentaristi. Invece, un più o meno sonoro, ma sempre sano, “NO” ad una legge ordinaria e a modifiche costituzionale non è mai mancanza di rispetto nei confronti del Parlamento. Molto concretamente è rigetto da parte degli elettori, più precisamente, poiché i referendum costituzionali non hanno quorum, dagli elettori informati, delle modifiche approvate, non dal Parlamento in quanto tale, ma da una specifica maggioranza parlamentare (non entro nei particolari dolorosi del se e quanto quella maggioranza è stata coartata e ricattata).
E’ augurabile che il Ministro Boschi, dopo una ripassatina o, meglio, una lettura attenta della Costituzione, si corregga. Se, poi, anche si scusa con i potenziali elettori del no, certamente non sovversivi, tanto meglio. Certo, impostare una discussione sul merito delle modifiche costituzionali con chi ha poche, vaghe e superficiali cognizioni costituzionali non è finora stato per niente facile. Temo che non lo sarà neppure nell’autunno del referendum.
Pubblicato il 12 agosto 2016
Tre cose che so sulle revisioni costituzionali
Discutere con lo stuolo di renziani della prima ora e di convertiti in corso d’opera, spesso ancora più zelanti (ovvero fanatici) sul merito delle revisioni costituzionali è praticamente impossibile. A qualsiasi obiezione di merito i renziani e i loro disinvolti fiancheggiatori, presenti anche nei mass media, contrappongono tre obiezioni. La prima è che bisognava comunque fare qualcosa dopo trent’anni di immobilismo. La seconda è che, da qualche parte, qualcosa, meglio se una tesi dell’Ulivo (ma quello di Renzi appoggiato da Alfano e Verdini è un governo del brand Ulivo?) o qualcuno, meglio se un vecchio comunista (incidentalmente, non ricordo di avere visto stagliarsi alto il profilo di Napolitano riformatore delle istituzioni e della legge elettorale), hanno proposto cambiamenti molto simili a quanto da loro fatto. Terzo, dati rapporti di forza nel Parlamento eletto nel febbraio 2013 non era possibile fare niente di più, ma soprattutto niente di diverso. Nessuna delle tre obiezioni tiene.
Alla prima obiezione ho contrapposto tempo fa (Cittadini senza scettro. Le riforme sbagliate, Egea/UniBocconi 2015), quello che ho definito “un’altra narrazione”. Nessun immobilismo negli ultimi trent’anni. Anzi, notevole attivismo dei cittadini e del Parlamento. Legge sulle autonomie locali 1990; referendum sulla preferenza unica 1991; abolizione di 4 ministeri e del finanziamento statale dei partiti più, cambiamento della legge elettorale del Senato nel 1993; approvazione delle legge sull’elezione diretta dei sindaci nel 1993; approvazione del Mattarellum nel 1993. Riforma del Titolo V nel 2001; revisione di 56 articoli della Costituzione nel 2005 (poi bocciata da referendum ovviamente e correttamente non chiesto dai revisionisti, ma contro di loro: referendum oppositivo); legge elettorale Porcellum 2005. Tralasciando alcune riforme minori, è evidente che il ritornello dell’immobilismo, da un lato, è pura e semplice, ma colpevole, ignoranza; dall’altro, è un deplorevole ricorso alla manipolazione dei fatti su uno almeno dei quali il Presidente Mattarella, parte in causa, ha il dovere istituzionale di farsi sentire.
Andare alla ricerca delle Tesi dell’Ulivo che l’Ulivo non tentò in nessun modo di tradurre in pratiche ha qualcosa di patetico. Senza contare l’avversione della maggioranza degli ulivisti a quanto veniva fatto nella Commissione Bicamerale presieduta da D’Alema fino a contribuire al suo fallimento, quelle tesi non sono il Vangelo istituzionale del buon riformatore. Quanto ai vecchi comunisti, almeno per quello che riguarda il Senato la loro posizione iniziale fu: nessun Senato, monocameralismo. La distanza fra il monocameralismo e il bicameralismo con il Senato trasformato in camera di regioni discreditate è qualitativa, abissale. All’obiezione che le riforme fatte non hanno nessuna visione sistemica, ma sono episodiche e occasionali, gli improvvisati riformatori non hanno risposta alcuna. Soprattutto, non spiegano che forma di governo verrà fuori da quanto hanno cambiato e dal chiaro ridimensionamento nei fatti dei poteri del Presidente della Repubblica che non dovrà più nominare il Presidente del Consiglio, che sarà automaticamente il capo del partito che avrà ottenuto il premio di maggioranza, e non potrà più opporsi allo scioglimento del Parlamento quando quel capo di maggioranza lo riterrà opportuno e benefico per i suoi interessi di partito.
Infine, l’invito dei renziani a prendere atto che in questo parlamento non era possibile fare riforme di tipo e qualità diversa è, di nuovo, il prodotto di una combinazione di ignoranza e di manipolazione. La politica consiste nella capacità di creare le condizioni per le riforme. Nel Parlamento eletto nel 2013 era possibile, da un lato, cercare, con pazienza, ma anche con durezza, altri interlocutori, magari nelle aule parlamentari senza produrre un accordo extraparlamentare, il Patto del Nazareno che, naturalmente, ha posto enormi paletti alla legge elettorale poiché, in sostanza, l’Italicum contiene tutte le componenti del Porcellum in piccolo: porcellinum. Dall’altro, persino volendo mantenere un filo del discorso con Berlusconi, altre soluzioni erano possibili, soprattutto per quanto riguarda il Senato. Semplicemente, non sono state esplorate. Qualcuno vorrebbe raccontare la favola che Berlusconi ha imposto la sopravvivenza di cinque senatori (i Senatori delle Autonomie) nominati dal Presidente della Repubblica? Oppure che Berlusconi ha fortemente voluto che al Senato delle autonomie fosse conferito il potere di nominare due giudici costituzionali?
Da ultimo, il Presidente del Consiglio ricorre al ricatto plebiscitario senza nessun precedente in Italia su referendum costituzionale: “se bocciate riforme me ne vado”. No comment? No!
Pubblicato il 25 aprile 2016
7 marzo a #RomaInConTra #Costituzione30Lezioni
Live lunedì 7 marzo 2016 – ore 18.30
Palazzo Santa Chiara
Piazza di Santa Chiara, 14
Mercoledì 9 marzo in seconda serata sulle principali emittenti regionali
Enrico Cisnetto InConTra
Gianfranco Pasquino
autore di
La Costituzione in trenta lezioni (UTET 2015)
Perché sono scomparse le culture politiche in Italia
Brano tratto da La scomparsa delle culture politiche in Italia Paradoxa, Numero 4 – 2015
“…Una cultura politica contiene una visione della società e dello Stato, come sono e come dovrebbero diventare. Attribuisce diritti e doveri, ruoli e compiti ai governanti, ai rappresentanti e ai cittadini. Si fonda su criteri precisi di rappresentatività e di responsabilizzazione. Cerca di tenere insieme tutto questo nella maniera più coerente possibile. Negli articoli del fascicolo che seguono ciascuno degli autori esplora e valuta i molti aspetti delle diverse e specifiche culture politiche italiane e delle ragioni che hanno portato alla loro eclissi.
Qui, desidero anzitutto rilevare alcune delle più significative conseguenze della scomparsa delle culture politiche in Italia. La prima conseguenza è la destrutturazione dei partiti esistenti, allora, fra il 1992 e il 1994, e gli scomposti tentativi di ristrutturazione-accorpamento-riaggregazione con ulteriori divisioni, scissioni, decomposizioni. È un meandro nella cui tortuosità è difficilissimo nonché, francamente, non particolarmente utile e gratificante cercare di districarsi. Non ne è ipotizzabile nessuna utile acquisizione cognitiva. Ovviamente, la destrutturazione dei partiti ha effetti negativi anche sulla stabilità dei governi e, qualora i governi riescano a mantenere una qualche stabilità, che spesso costeggia l’immobilismo e la stagnazione, neppure sulla loro operatività. Infine, laddove non esistono più culture politiche che richiedano adesione a principi e impegno a perseguire una visione di società e di Stato, transitare da un partito ad un altro, da un gruppo parlamentare ad un altro non implica nessuno sforzo doloroso, nessun agonizing reappraisal, nessuno stravolgimento di principi (magari soltanto il “tradimento” dei rappresentati, ma anche questo effetto, con la legge elettorale del 2005 e con quella del 2015, è discutibile). Insomma, il trasformismo italiano, sul quale Marco Valbruzzi ha scritto pagine importanti, non trova ostacoli in culture politiche inesistenti, ma, al massimo, suscita qualche, purtroppo ininfluente, critica moralistica.
La scomparsa delle culture politiche classiche ha portato con sé, travolgendole, anche culture politiche i cui elementi portanti erano trasversali, vale a dire che avevano penetrato e arricchito ciascuna di quelle culture, ma che, da sole, hanno dimostrato di non potere sopravvivere. Tutti o quasi europeisti sembravano gli italiani, accomunati dalla speranza che l’Europa riuscisse ad obbligare la democrazia italiana a diventare migliore. Eppure, anche se, qua e là, nei partiti sono esistiti, pochissimi, federalisti, la cultura politica del federalismo rimase per l’appunto confinata a nicchie (e alla straordinaria combattività di Altiero Spinelli). Qualcuno, soprattutto i radicali, talvolta in maniera deliberatamente provocatoria, ha esaltato i diritti dei cittadini, delle persone, non confondendoli, succede di frequente anche questo, con le rivendicazioni, addirittura accompagnandoli con il richiamo ai doveri (sic) da adempiere. Comunque, da sole, né una cultura dei diritti, per intenderci alla Ronald Dworkin (1931-2013), né una cultura basata sui principi della società giusta alla John Rawls (1921-2002) sono in grado da sole, isolatamente,di contribuire in maniera decisiva alla formulazione di una cultura politica. Nel caso italiano, poi, nella non grande misura in cui entrambe le culture, diritti e giustizia sociale, sono presenti, troppo spesso vengono brandite contro i governi e contro lo Stato quasi che entrambe fossero culture alternative sempre all’opposizione. Certamente, né gli scritti di Dworkin né quelli di Rawls autorizzano questa interpretazione. Tuttavia, elementi sia dell’una che dell’altra sono indispensabili per la formulazione di qualsiasi cultura politica liberal-democratica. Infine, anche se affascinante nella sua concezione, il patriottismo costituzionale non sembra orientato a dare vita ad una cultura politica autosufficiente e autonoma. Ciononostante, costituisce un’importante componente trasversale a molte culture politiche. Elaborato dal filosofo politico tedesco Jürgen Habermas con l’obiettivo preminente di sventare in maniera anticipata qualsiasi propensione di superiorità nazionale/istica tedesca, all’insegna della frase Deutschland über alles, un tempo contenuta nell’inno, il patriottismo costituzionale ha trovato un’infelice traduzione italiana nell’espressione “la Costituzione più bella del mondo”. Più o meno “imbruttita” da riforme nient’affatto apprezzabili dal punto di vista della sua architettura complessiva, la Costituzione non può stare a fondamento di nessuna cultura politica, ma dovrebbe essere variamente presente in tutte. Per completezza, aggiungerò che sottolineare, com’è giusto, che la Costituzione nata dalla Resistenza è fondata sui valori dell’antifascismo non significa affatto che una cultura politica possa nascere e mantenersi esclusivamente sul pure essenziale richiamo all’antifascismo, per di più, variamente declinato e interpretato.
Non è, naturalmente, questa la sede nella quale delineare le componenti e le caratteristiche di culture politiche competitive che, nel contesto italiano, conducano al miglioramento della qualità della democrazia. Qualcuno potrebbe anche rifugiarsi dietro lo schermo della società liquida alla Zygmunt Bauman e sostenere che nelle società contemporanee che non sono riuscite a preservare le loro culture politiche, la liquidità ne impedisce qualsiasi resurrezione e creazione. Altri potrebbero affidare la rinascita ovvero la comparsa di nuove culture politiche ad un mix di europeismo e di globalizzazione: act local, think global. In conclusione, molto realisticamente, non si vedono le minime premesse che nel mondo della politica, fra gli intellettuali, nell’opinione pubblica italiana si stia facendo strada la richiesta di cultura politica e ne stiano emergendo, seppure agli stadi preliminari, attrezzati portatori. Le implicazioni e le conseguenze per la democrazia italiana di questa triste situazione sono sotto gli occhi di tutti.”
Gianfranco Pasquino

Paradoxa, ANNO IX – Numero 4 – Ottobre/Dicembre 2015
La scomparsa delle culture politiche in Italia
a cura di Gianfranco Pasquino
Sommario
Editoriale Caveat di Laura Paoletti
Contributi
Perché sono scomparse le culture politiche in Italia Gianfranco Pasquino
La scomparsa della cultura socialista in Italia Giuliano Amato
Il tramonto della cultura cattolico-democratica Agostino Giovagnoli
Necessità e debolezza della cultura politica comunista Achille Occhetto
La sconfitta della cultura di destra (e la sua eventuale rinascita) Marcello Veneziani
La dispersione della cultura giuridico-politica del Partito d’Azione Stefano Merlini
Il tramonto delle culture politiche liberali in Italia Giorgio Rebuffa
L’offuscamento della cultura federalista europea Pier Virgilio Dastoli
Le propaggini della cultura “gramsciazionista” Dino Cofrancesco
Cinque tesi sull’assenza di culture partitiche in Italia Marco Valbruzzi
La stanchezza della cultura imprenditoriale Enrico Cisnetto
Tre cose che so sulla Francia

Tre cose che so sulla Francia. Prima cosa, accertabilissima: il Front National non ha (ancora) vinto un bel niente. É in testa in sei regioni. Soltanto in due, una al Sud-Est, l’altra al Nord, dispone attualmente di una percentuale di voti intorno al 40 per cento, difficile da superare. Nelle altre quattro regioni può perdere a due condizioni: a) che vadano a votare elettori astenutisi al primo turno che non vogliono che vinca il partito guidato da Marine Le Pen. Sarà facile scoprire se questa condizione sarà soddisfatta confrontando in quelle regioni le percentuali dei votanti al primo turno con quelle al secondo turno che, incidentalmente, non è un ballottaggio poiché possono rimanere in lizza più di due candidati purché abbiano superato la soglia percentuale di accesso. Seconda condizione: b) che socialisti e gollisti si diano almeno una mossa e la comunichino alta e forte agli elettori.
Seconda cosa che so: il Front National non è un partito populista e Marine Le Pen non è una leader populista. La destra in Francia ha regolarmente dato vita a partiti ultranazionalisti oppure a qualche esperimento “carismatico”-plebiscitario. Se dobbiamo davvero (ri)definirlo, il Front National è il Partito della Nazione (di Francia). E’ spalmato su tutto il territorio francese. E’ forte, ma non fortissimo, un po’ dappertutto (tranne che nell’alta borghesia parigina). Ha un elettorato che in altri tempo avremmo definito, noi che sappiamo qualcosa dei partiti e delle classi sociali, un partito interclassista. Non è un partito pigliatutti (plurale) poiché Marine Le Pen sicuramente ha preclusioni, ad esempio, contro i non-cattolici, contro gli immigrati, anche se hanno la cittadinanza, contro la borghesia. Il programma del FN ha pochi elementi populisti, contro le elites e contro l’establishment, contro la tecnocrazia europea, che si trovano in tutti i partiti di estrema destra classica.
Terza cosa che so (e che Pierluigi Battista, Corriere della Sera, non sa) è che, trattandosi di elezioni regionali e non presidenziali, il tripolarismo, ovvero i candidati di tre schieramenti al secondo turno, è evento possibile, nient’affatto scandaloso e neppure ingannevole. Se le desistenze socialiste sono intese per sconfiggere le candidate/i candidati del Front NationaI favorendo i gollisti, ci stanno tutte: “è la politica, bellezza”. Quello che conta è che le desistenze sono inutili (qualcuno, anche fra i socialisti francesi, direbbe persino stupide), se non sono almeno in parte concordate in maniera tale da essere premiate dagli elettori, ma possono anche essere bocciate. Hanno un precedente talmente clamoroso che mi meraviglio grandemente che non venga ricordato. Nelle elezioni presidenziali del 2002, il candidato socialista, a causa della presenza di una pletora di candidature nella sinistra, venne preceduto da Jean-Marie Le Pen e non riuscì ad andare al ballottaggio. Dopo un’agonizing reappraisal, i socialisti e tutta la sinistra francese decisero di votare il gollista Chirac, dimostrando con le percentuali di essere ancora molto vivi, se non decisivi. Insomma, il secondo turno consente operazioni significativamente importanti, non negoziazioni opache, ma trasparenti e nient’affatto criticabili, non alle spalle degli elettori, ma di fronte a loro.
Coda: dunque, qualsiasi sistema elettorale a doppio turno offre grandi opportunità politiche agli elettori. Quelli che non sono andati alle urne possono ripensarci. Quelli che ci sono già andati hanno la possibilità, una volta visto e valutato l’esito del primo turno, di cambiare voto. No, il Front National non ha ancora vinto niente. E, sì, gli elettori francesi hanno una seconda chance. Vive la France.
Pubblicato il 10 dicembre 2015
Pasquino intervista Huntington
Intervista immaginaria a Samuel Huntington sugli attentati di Parigi
Samuel P. Huntington (1927-2008) è stato Professore di Government a Harvard per più di quarant’anni. Ha scritto libri fondamentali sul ruolo politico dei militari The Soldier and the State (1957), sulla politica degli USA, sulla democratizzazione The Third Wave (1993) e il più brillante, il più letto e il più citato libro sullo sviluppo politico Political Order in Changing Societies (1968, ristampato ripetutamente fino al 2006 con una presentazione ad opera di Francis Fukuyama). Ha acquisito fama mondiale con il saggio Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale (1996).
A vent’anni dalla pubblicazione del suo tanto criticato libro, possiamo, dunque, dire, Professor Huntington, che aveva ragione lei: è in corso uno scontro di civiltà?
Non ho mai avuto dubbi sulle probabilità che uno scontro di civiltà si stesse preparando. Credo sia giusto ricordare ai lettori che ho collegato quel probabile scontro alla ristrutturazione di un “ordine politico mondiale”. Lo scontro è in atto, ma del nuovo ordine mondiale non vedo nessuna traccia. Aggiungo che, contrariamente a quello che hanno scritto fin troppi critici, anche italiani, del mio libro, spesso senza avere neanche letto il titolo nella sua interezza, non ho mai auspicato lo scontro di civiltà. Intendevo mettere in guardia i decisori politici e altri eventuali protagonisti.
Invece, che cosa è successo?
E’ successo che, da un lato, il Presidente George W. Bush si è buttato in una guerra facile da vincere contro Saddam Hussein, senza nessuna strategia di costruzione di ordine politico in quella zona del mondo; dall’altro, persino negli USA e in Gran Bretagna, ma, soprattutto, in maniera raccapricciante e scandalosa, in alcuni paesi europei, hanno vinto quelli che voi chiamati i “buonisti” (e che Mrs Thatcher chiamerebbe i “wet”, gli umidi, a lei Prof Pasquino di fornire la, peraltro facile, interpretazione). Fintantoché penserete che c’è un Islam buono e che i terroristi, perché in questo modo, con buona pace di Massimo Cacciari, debbono essere chiamati, sono addottrinati e guidati dall’Islam cattivo, non potrete preparare nessuna risposta. Quelle folcloristiche, “Je suis Charlie” e “Je suis Paris”, sono moralmente apprezzabili, ma politicamente del tutto irrilevanti.
Prima di chiederle che cosa bisognerebbe fare, vorrei che lei replicasse anche a coloro che dicono che è in corso anche una guerra dentro l’Islam.
Nella mia analisi dello scontro di civiltà non c’è nulla, proprio nulla che suggerisca o stabilisca che ciascuna delle civiltà sia in grado di mantenere ordine politico al suo interno. Le ricordo che una delle mie frasi che hanno fatto imbestialire i maomettani e scandalizzato i buonisti è “I confini dei paesi arabi grondano di sangue”. Tutti quei confini continuano a grondare di quel sangue, nient’affatto solo del loro, ma anche di quello dei curdi e dei cristiani. L’aggiunta è che il grondar di sangue si è esteso a tutti i territori del Medio-Oriente e del Maghreb. Non abbiamo, però, ascoltato gli imam dell’Islam buono alzare la loro voce e promettere a chi uccide e si uccide per massacrare altri, non un paradiso sessuale, ma la punizione di Allah (un inferno sessuale?).
Fino a quando durerà il terrorismo islamico?
Non c’è nessuna buona ragione per ipotizzare che la sua fine sia vicina. Al contrario. Proprio l’instabilità dei regimi, non la mancanza di democrazia, ma di ordine politico, dalla Siria all’Iraq, dalla Libia all’Egitto, dallo Yemen al Sudan, alimenta conflitti e tensioni con il Califfato, chiamatelo ISIS o Daesh, che mira ad imporsi anche grazie alle sue spettacolari e sanguinarie attività in Europa, dimostrando la proprio potenza di reclutamento e di fuoco. La fine non è in vista.
E fino a quando durerà lo scontro di civiltà.
Lo scontro di civiltà (e dentro l’Islam politico e bellico) durerà fino a quando le altre “civiltà”, a partire da quella che chiamo civiltà occidentale, unitamente a quella russo-ortodossa, non riusciranno a reagire e a prevenire qualsiasi incursione terroristica facendo uso costante e immediato, senza nessuna concessione, dei loro apparati militari e di intelligence, e fino a quando nell’area medio-orientale non emergerà una potenza egemone, che potrebbe essere l’Arabia Saudita, non ricattabile da terroristi di nessun tipo e in grado di imporre e mantenere l’ordine.
Che cosa direbbe agli affannati teorici del multiculturalismo?
Che lo Stato islamico non si combatte e non si debella rinunciando a pezzi rilevanti della cultura e della civiltà europea, condonando tradizioni di oppressione degli uomini sulle donne, accettando che i principi politici siano sottomessi (si, ho visto il libro di Houellebecq, ma avrei preferito leggere altro, per esempio, Raymond Aron) ai dettami delle autorità religiose, consentendo che la sharia venga applicata perché, in fondo, contiene le punizioni stabilite dal Corano. Al multiculturalismo contrappongo nella loro interezza, e spero che lo facciano anche, orgogliosamente, tutti i leader dell’Occidente, le Dichiarazioni dei diritti formulate dalle Nazioni Unite. L’universalismo è la mia stella polare. Fortunatamente la condivido con almeno un paio di miliardi di persone che ritengono il multiculturalismo un dannosissimo cedimento e che pensano che non esista niente di meglio del rispetto e dell’attuazione di diritti universali.
Intervista immaginaria a cura di Gianfranco Pasquino che si vanta di avere conosciuto personalmente Huntington e di avere letto tutti i suoi libri e molti dei suoi numerosi articoli.
Pubblicato il 16 novembre 2015
Una regolata a sindacati e partiti
Si discute della legge su partiti e sindacati. Perché servono norme su democrazia interna dei corpi intermedi in crisi
Dare una “regolata” a sindacati e partiti attuando in questo modo, fino in fondo, due begli articoli della Costituzione: 39 e 49? In Parlamento giacciono da tempo numerose proposte di legge riguardanti entrambi i soggetti. In particolare, per la regolamentazione dei partiti, la migliore rimane quella che ha per primo firmatario Valdo Spini. In linea di massima, è utile che soggetti che svolgono compiti di grande importanza sia di rappresentanza sia di governo debbano uniformarsi a regole precise, verificabili, che ne affermino e confermino la legittimità della leadership, dei procedimenti decisionali, delle attività. Fra le tante crisi illusorie e fantasiose che si attribuiscono alla democrazia, in special modo, alla democrazia italiana, la più importante non è affatto quella di decisionalità. Governi e parlamenti hanno la possibilità di decidere come e quando vogliono. Il loro problema è che spesso non posseggono le conoscenze e non hanno la capacità, personali e collettive, per scegliere fra le alternative. In qualche caso, persino l’attuale governo, non sanno costruire e confrontare le alternative. Tuttavia, la vera “crisi” di cui soffre la democrazia italiana è quella di rappresentanza. Non è chiaro chi rappresenta chi e perché. Spesso, i rappresentanti, ad esempio, i sindacati, vengono accusati di rappresentare soltanto una parte molto limitata dei lavoratori e di quelli che non lavorano più, i pensionati. Nascono sigle e siglette, organismi autonomi che, sostenendo di rappresentare la base, hanno soltanto scarni vertici, tutti intenzionati a partecipare a qualsiasi processo di contrattazione. La risposta minacciata dal Presidente del Consiglio si chiama disintermediazione. E’, naturalmente, peggiore del male, vale a dire, della frammentazione corporativa. Una buona legge che misuri la rappresentatività dei sindacati e che obblighi a tenere in ordine registri vari e a stabilire le modalità con le quali si diventa sindacalisti e si viene selezionati per i necessari passaggi di carriera toglierebbe alibi a Renzi, ma anche ai sindacati, grandi e piccoli. Obbligherebbe alla competizione e culminerebbe in una rappresentanza rafforzata da un effettivo rapporto con i rappresentati.
Una volta, partiti solidi, grandi, ma anche piccoli,respingevano qualsiasi legge che li riguardasse sostenendo di avere le capacità di fare funzionare le loro organizzazioni senza nessuna intrusione della magistratura, con tutti i rischi che poteva (può) comportare. Poi la tipologia dei partiti, molto più in Italia che altrove e molto in peggio, è cambiata. Un po’ tutti i partiti sono diventati personalisti. Un po’ in tutti i partiti sono i dirigenti, a cominciare dal capo, che si oppongono a una regolamentazione che inevitabilmente imbriglierebbe il loro potere politico, ridurrebbe la loro libertà d’azione, darebbe strumenti in mano delle minoranze. E’ una visione sostanzialmente, ma non del tutto, miope, che sottace l’effetto positivo delle regole che consentirebbero alla maggioranza di chiedere credibilmente il leale sostegno delle opposizioni alle decisioni prese rispettando le regole e che manderebbe più che un semplice messaggio positivo agli elettori: “le nostre procedure decisionali sono democratiche, la selezione delle candidature, con o senza primarie [ma le primarie in sé non sono mai responsabili delle sconfitte elettorali, qualche volta, delle vittorie, sì] è trasparente e giustificabile, le scelte programmatiche offrono spazi d’intervento anche ad associazioni che, a loro volta, rispettino le regole”. Sarebbe, persino, possibile a partiti profondamente, ma dolorosamente per troppi dirigenti di vertice, ristrutturati, tornare a chiedere un finanziamento misurato su criteri di rappresentatività, allo Stato.
Nulla di tutto questo è all’orizzonte. Sono le burocrazie sindacali, spesso molto sovradimensionate e gonfiate, che vi si oppongono, mandando il messaggio deleterio che l’innovazione non abita lì. Sono i gruppi dirigenti partitici che, quando hanno il potere, non lo vogliono subordinare a nessuna regola e che chiedono (più) democrazia soltanto quando sono all’opposizione, ma lo fanno non da “sinceri democratici” quanto da oppositori che vorrebbero un brandello di potere. Passare dalla critica a quello che succede alla proposta di quello che dovrebbe succedere è particolarmente difficile poiché tutti i partiti italiani sono squilibrati, non hanno assetti solidi, non hanno leadership destinate, nonostante le loro ambizioni, a durare. Forse, quindi, una legge sarebbe prematura, ma lanciare la discussione potrebbe servire a correggere qualche forzatura e a creare condizioni migliori, persino approntando in qua e in là qualche isola di rappresentanza sindacale e partitica più rispondente alle esigenze di una cittadinanza enormemente (e, spesso, giustificatamente) insoddisfatta.
Pubblicato il 17 giugno 2015 su terzarepubblica.it
Il giorno della retorica
Il 25 aprile, il 2 giugno e il 4 novembre vivono sulla retorica che, per quanto rotonda, sonora e spesso ipocrita, non riesce a eliminare del tutto la sostanza. Anche se quest’anno forse meno invasiva e pervasiva che nel passato, la retorica della celebrazione richiede, anzitutto e soprattutto, che ciascuna di quelle date evochi una sostanziale unità e qualche volta anche la bontà degli italiani. Ricordare il conflitto, soprattutto quando è stato vero e profondo, è considerato divisivo. Meglio, invece, auspicare una memoria condivisa dimenticando bellamente che questo è un paese senza memoria, meno che mai condivisa, al massimo intessuta di brandelli di vita vissuta e raccontata, a seconda dei luoghi, dei tempi, delle famiglie, dei buoni o dei cattivi maestri. Alla retorica si potrebbe sfuggire con la storia, quella storia che dalla marcia su Roma alla fuga a Pescara, dal quasi dimenticato eccidio di Boves alle stragi di Sant’Anna di Stazzena e di Marzabotto, dalla Repubblichetta di Salò a Piazzale Loreto ha portato alla Liberazione dell’Italia dal nazifascismo.
Si potrebbe insegnare che, sì, i nazifascisti erano, per dirla con un termine contemporaneo, stragisti, ma che anche alcuni partigiani usarono della loro Resistenza per qualche vendetta personale, ingiustificabile, ma comprensibile se vista come conseguenza della precedente repressione fascista. Si potrebbe insegnare, come fatto in maniera egregia da Claudio Pavone, che la Resistenza fu anche una guerra civile, che gli italiani combatterono gli uni contro gli altri armati, ma che erano in corso altre due guerre. La più importante, il vero spartiacque fra libertà e oppressione, fu la guerra di liberazione nazionale contro l’occupante nazista che puntellava il regime fantoccio chiamato Repubblica di Salò. La terza guerra, quella di classe, subordinata alle prime due, mirava a stabilire in Italia un regime grosso modo (allora, esisteva soltanto l’URSS) comunista. La guerra di classe fu certamente una guerra di minoranza, ma avrebbe lasciato una traccia non positiva in tutti coloro che, usando un impreciso metro di rivoluzione sociale, credettero, dissero e scrissero che la Resistenza era stata tradita. Proprio, no, il fatto è che fra i partigiani solo una minoranza combatté la guerra di classe e la perse. Invece, la Resistenza riuscì a vincere proprio nelle più significative rivendicazioni sociali, tutte trasferite nella Costituzione.
Neppure la Costituzione merita di finire nella melassa della retorica, anzi, delle due retoriche contrapposte. Non è un documento catto-comunista poiché fior fiore di articoli furono scritti grazie ai contributi determinanti dei socialisti, degli azionisti, in special modo, di Piero Calamandrei, persino dei liberali (Luigi Einaudi). Non è un documento da imbalsamare, come vorrebbero troppi catto-comunisti. Anzi, furono gli stessi Costituenti a delineare le procedure per introdurre opportune modifiche costituzionali. Altrove, come in Germania, il superamento del nazismo è stato lento, graduale, ma politicamente e culturalmente efficacissimo. Si è, infine, trasposto nel patriottismo costituzionale, nella consapevolezza che le regole, le procedure, le istituzioni che incanalano e regolano i conflitti rappresentano lo strumento migliore per garantire coesione a una società. In Italia dove pure sarebbe ancora più necessario fare riferimento al patriottismo costituzionale, strumento di coesione sociale, questa strada è sostanzialmente preclusa dalla mancata conoscenza della storia e da celebrazioni, come la Liberazione, che, svolte senza approfondimenti storici, confortano i “credenti”, irritano i faziosi, dispiacciono agli ignoranti, lasciano il tempo che trovano fra gli indifferenti. Un po’ tutti, poi, pensano che dovrebbero essere gli altri a lavorare per una Repubblica migliore. Lo slogan “ora e sempre Resistenza” non è soltanto logoro. E’ monco. Se non viene finalmente accompagnato dallo studio congiunto della storia e della Costituzione, rimarrà sterile. Da qui, abbiamo ragione di pensare che dovrebbe partire “la buona scuola”. Allora, il 25 aprile diventerebbe opportunamente non la celebrazione retorica di un giorno, ma il compimento politico e culturale di un processo di apprendimento per (formare) buoni cittadini.
Pubblicato il 27 aprile 2015


