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“Crisi provocata dall’ego di Renzi, megalomane tendente al ricatto. Mercato delle vacche? Quello è più trasparente, qui invece solo fregature” #intervista @LaVeritaWeb
Intervista raccolta da Federico Novella
“Vedo derive non autoritarie ma confusionarie. Si può votare anche in una pandemia.”
Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza politica e accademico dei Lincei: almeno lei ha compreso le ragioni autentiche di questa crisi di governo?
«La ragione fondamentale è una: Matteo Renzi, un megalomane che avendo un ego molto gonfio e una grande invidia nei confronti del premier, ha deciso di acquisire visibilità a qualsiasi prezzo. Evidentemente, rilasciare interviste a quattordici televisioni contemporaneamente lo rende felice».
Quindi è una crisi scaturita dall’ego del senatore fiorentino?
«Sì, poi possiamo condirla con il Mes sulle spese sanitarie, le correzioni al piano europeo, la gestione dei servizi segreti, ma la sostanza è questa: c’è un leader politico che, dopo essersi scisso dal Pd, indebolendolo, ha deciso di far esplodere la crisi».
Un parlamento ricattato da Renzi?
«Ecco, la parola giusta è esattamente questa: ricatto. Con i partiti si può intavolare una trattativa, ma non puoi dire: o si fa come dico io, o faccio cadere tutto » .
In realtà pare di capire che Renzi sarebbe pronto a rientrare in maggioranza. Una retromarcia?
«Si comporta così perché, pur avendo ottenuto alcune cose, ha capito di aver mancato l’obiettivo principale: scompaginare Pd e 5 stelle. E quindi adesso ha paura delle elezioni anticipate, perché se non trova accoglienza in altri partiti, scomparirà dalla scena».
Dunque?
«Dunque Renzi tentenna: teoricamente ha ancora in mano la soluzione della crisi. Ma al momento a Pd e 5 stelle vanno bene i suoi parlamentari: ma non va bene lui».
E quindi prosegue la triste ricerca di voti in parlamento, in cambio di seggiole governative.
«Ma io non criminalizzo le trattative politiche. Se dico a un parlamentare: ti do un ministero se mi porti i voti in aula, non c’è nulla di male. Però sarebbe preferibile trattare con persone capaci e competenti …».
Se in democrazia la forma è sostanza, oggi la forma è quella del mercato delle vacche.
«Ma guardi che il mercato delle vacche è un mercato fantastico e trasparente».
Trasparente?
«Sì, perché le vacche si vedono. Il mercato delle vacche è competitivo. Sono le vacche migliori quelle che si vorrebbero comprare. Se compro una vacca dal contadino Bepi, è perché so che mi vende delle vacche buone. Non la compro dal contadino Matteo, che mi rifila sempre la fregatura».
Parliamo sempre del solito Matteo?
«Il punto è che abbiamo parlamentari eletti con un sistema elettorale pessimo, che devono il loro scranno ai dirigenti di partito. I bolzanini sono contenti di aver eletto Maria Elena Boschi, che abita ad Arezzo? I modenesi e i ferraresi hanno eletto Piero Fassino, ma non lo vedono mai: perché non protestano?» .
Lei riprenderebbe Renzi a bordo della maggioranza, oppure, come dice Zingaretti, il capo di Italia Viva è inaffidabile?
(Profondo sospiro) «Renzi è un mentitore: fossi nel gruppo dirigente di Pd e 5 stelle direi di no».
Però?
«Se trangugiare Renzi fosse il prezzo da pagare per avere stabilità fino alla scadenza della legislatura, sarei disposto a discuterne. Ma dovrebbero fare un patto tra gentiluomini: e il soggetto in questione non garantisce che ci sia un gentiluomo contraente».
Comunque: se Conte si facesse da parte, non sarebbe tutto più semplice?
«Nel Partito democratico ci sarebbero pure delle persone all’altezza del ruolo di capo del governo. Ma Conte adesso è il punto di equilibrio di una coalizione delicata. Togliere Conte significa far esplodere una vera crisi, che finora formalmente non è ancora stata aperta».
Perché Conte non lascia?
«Perché è la sua occasione della vita. Lui stesso non si sarebbe mai aspettato di arrivare a Palazzo Chigi ed entrare in qualche modo nella storia repubblicana. È normale che combatta per rimanere lì. E poi ha un vantaggio politico: per l’Unione europea è lui quello credibile: è da lui che si aspettano un programma di rilancio».
Conte esaltava il sovranismo, adesso lo attacca. Era amico di Trump, e oggi di Biden.
«Per anni tutti hanno ripetuto che le ideologie erano dannose? E questo è risultato. Conte non ha cultura politica, ha imparato in fretta a maneggiare il potere e rappresenta bene la situazione odierna».
Quale situazione?
«Quella nella quale si vive di personalismi, di interviste, sui giornali e in tv. In linea, se vogliamo, con un carattere nazionale che viaggia verso un individualismo estremo. In politica oggi sono gli umori e i malumori personali che fanno la differenza, ma solo perché non abbiamo più culture politiche. Tranne forse una».
Quale?
«Il federalismo, coniugato con l’europeismo. Purtroppo non ci sono personalità politiche adeguate per rappresentarlo.
Oggi Altiero Spinelli non saprebbe da che parte voltarsi. E buona parte della colpa ce l’ha un Pd privo di sostanza politica».
Ci crede al partito personale di Conte? Può avere un futuro?
«Al partito di Conte sono contrario: finirebbe soltanto per frammentare ancora di più il quadro politico. Allo stesso modo, non vedrei bene l’ipotesi di un pezzo di Forza Italia che si stacca per andare per conto suo » .
L’idea è quella di ritrovarsi tutti, in qualche modo, al centro…
«Me ne infischio del centro. Il centro è il luogo degli scambi più sordidi, quelli che inquinano la vita politica. Renzi dice di voler rifondare il centro, ma il suo gruppo parlamentare si chiama “Italia Viva-Socialisti”. Lui e Conte si odiano perché ambiscono allo stesso territorio politico. In più mettiamoci anche Calenda, aggressivo e pronto a tutto. Se non correrà per il Campidoglio, cercherà sicuramente di arrivare a Palazzo Chigi».
E, quindi, il centro le fa così paura?
«Io sogno un quadro bipolare, con sistema maggioritario a doppio turno. E ricorderei al capo dello Stato che quel “Mattarellum” che porta il suo nome non era affatto male …».
Conte invece rilancia il vecchio proporzionale …
«Sì, che produce frammentazione senza una soglia di sbarramento adeguata, ma che pure in molti paesi funziona benissimo. In linea di massima dobbiamo sempre ricordare che non è il sistema elettorale che produce instabilità, ma la sua classe politica » .
Problemi che lasciano il tempo che trovano, visto che quasi nessuno accetta di andare al voto. Non si può andare alle elezioni per paura del Covid, o per paura che vinca il centrodestra?
«Mi fanno sorridere i politici che dicono “non abbiamo paura delle elezioni”, quando alcuni di loro dovrebbero averne eccome. Detto questo, si può tranquillamente votare anche durante una pandemia».
Ma?
«Ma rischieremmo di buttare via il tempo per ritrovarci comunque, dopo il voto, senza una maggioranza solida».
Come mai il capo dello Stato sta concedendo a Conte ciò che negò al centrodestra nel 2018?
«È un po’ diverso. Il centrodestra nel 2018 avrebbe dovuto andarsi a cercare in parlamento qualcosa come cinquanta voti. E comunque Mattarella non ha ancora dato il via libera a nulla: oggi sta alla finestra e aspetta preoccupato. Se Conte non riesce a crearsi un gruppo parlamentare che lo sostenga, sicuramente il Colle punterà su altre soluzioni».
Appunto, se escludiamo davvero le elezioni, quali sono le altri soluzioni sul campo? Tra due giorni si vota sulla giustizia, e il destino di Conte è ancora una volta appeso a un filo.
«Non sono ancora il presidente della Repubblica, e dunque parlo ancora a titolo personale. Mi aspetto però un colpo di intelligenza politica da parte di Sergio Mattarella».
Cioè ?
«Un governo del Presidente, che vada in parlamento e dica: brutti balordi, siamo in un momento cruciale, dovete sostenere un governo che ottenga il massimo dall’Europa, con un programma di lungo respiro, e un premier e ministri capaci. Lo può fare, la Costituzione lo consente».
È un po’ diverso dal governo di unità nazionale…
«Sì, perché con il governo di unità nazionale sono i partiti che decidono di mettersi insieme, e a me non piacciono i contenitori in cui trovi dentro di tutto. No, io immagino che l’impulso arrivi dal Capo dello Stato: sarebbe lui a dettare la linea di fondo e a decidere le poltrone chiave. E sarebbe ovviamente una parentesi straordinaria».
Insomma, a giudicare dallo spettacolo cui stiamo assistendo, possiamo dire che la repubblica parlamentare si sta trasformando in oligarchia?
«Più che derive autoritarie, vedo soltanto derive confusionarie: non sappiamo cosa fare, lo facciamo male, e scarichiamo la responsabilità sugli altri».
Pubblicato il 25 gennaio 2021 su La Verità
Obiettivo per l’Europa: rilanciare un’operazione di unificazione politica per avere un governo che è espressione dei cittadini europei e non dei rispettivi Capi di Stato e di Governo
Quasi del tutto passata sotto colpevole silenzio, la (co-)decisione del Parlamento Europeo e della Commissione di legare l’assegnazione dei fondi europei al rispetto dei diritti civili e politici. È finalmente il segnale che l’Unione Europea tiene alla democrazia sua e a quella negli Stati-membri. L’UE ricorda a tutti che non è mai stata solamente un mercato, ma che è e vuole rimanere il più grande spazio di diritti e di democrazia al mondo.
Polveroni proporzional-maggioritari #LeggeElettorale
Scrivere una legge elettorale in attesa di un referendum quindi senza sapere quanti saranno i parlamentari da eleggere non è un’operazione saggia. Che la saggezza sia assente dal dibattito politico sul tipo di legge da scrivere è provato dalle affermazioni dei protagonisti politici. C’è chi vuole il “ritorno” alla proporzionale e chi lo ritiene un errore gravissimo. Però, la legge vigente, di cui fu relatore l’on. Rosato, oggi in Italia Viva, è già oggi due terzi proporzionale e un terzo maggioritaria. Quanto al testo in discussione non è, comunque, “la” temutissima “proporzionale pura” poiché prevede una soglia del 5 per cento di voti per avere accesso al Parlamento. Comprensibilmente, tanto Italia Viva quanto Leu (liberi e Uguali), ai quali i sondaggi impietosi attribuiscono rispettivamente all’incirca tre e meno di due per cento delle intenzioni di voto vorrebbero una soglia più bassa. Dal canto suo, Salvini si dichiara sbrigativamente a favore del maggioritario (sul quale Meloni non si esprime), ma non chiarisce quale. Non sarebbe un chiarimento da poco poiché il maggioritario inglese e quello francese, entrambi applicati in collegi uninominali, dove i candidati vincono o perdono, funzionano in maniera molto diversa. Infatti, il doppio turno francese offre agli elettori la grande opportunità di usare due voti: al primo turno per la candidatura preferita, al secondo per la candidatura da fare vincere, la meno sgradita.
Dopo avere detto che per gli italiani la legge elettorale è l’ultima delle preoccupazioni, affermazione alquanto discutibile, Salvini annuncia che è favorevole a due riforme: presidenzialismo e federalismo, cioè, concretamente, che vorrebbe abbandonare la democrazia parlamentare. Il capo di Italia Viva, Matteo Renzi, che non può permettersi di apparire un conservatore istituzionale, si dichiara “maggioritario” e propone la formula nota come “sindaco d’Italia”. Ma il sindaco d’Italia non è una legge elettorale. È una forma di governo di stampo sostanzialmente presidenziale poiché contiene l’elezione popolare diretta del capo dell’esecutivo, vale a dire il sindaco e il Primo Ministro. Non solo questo presidenzialismo mascherato richiederebbe la riscrittura di una manciata di articoli della costituzione italiana, ma, se disegnato seguendo il modello comunale, si basa su una legge proporzionale per l’elezione dei parlamentari, con un premio di maggioranza attribuito al capo, il sindaco o il Primo ministro, della coalizione vittoriosa. Curiosamente, nessuno si esprime in maniera limpida su due aspetti scandalosi della legge elettorale vigente: le candidature plurime e paracadutate, ovvero svincolate dalla residenza dei candidati. Sono gli strumenti con i quali i dirigenti dei partiti garantiscono l’elezione propria e dei loro più fedeli collaboratori/trici a scapito della rappresentanza politica che con il numero dei parlamentari ridotto di un terzo diventerà, a prescindere dalla formula elettorale, ancora meno soddisfacente.
Pubblicato AGL il 6 luglio 2020
Intervista sull’Europa
Con questa intervista a Gianfranco Pasquino, Professore Emerito di Scienza Politica all’Università di Bologna, proseguiamo il nostro lavoro di approfondimento sul tema dell’integrazione europea. L’intervista è a cura di Lorenzo Mesini e di Andrea Pareschi.
Che cos’era e che cosa ha rappresentato il federalismo europeo nei decenni del processo di integrazione?
All’inizio il federalismo europeo era esattamente una dottrina relativa alle modalità con cui bisognerebbe costruire uno stato federale. Un certo numero di stati, nello specifico sei, si misero d’accordo per cedere parte della loro sovranità su alcune risorse molto importanti (carbone, acciaio e soprattutto energia nucleare) a un’autorità sovranazionale. Incominciò tutto dal 1949 fino al 1957, quando si firmò il Trattato di Roma, che fu un trattato sovranazionale che diede slancio a un processo veramente federale.
Quali erano i punti di forza del programma federalista? in che misura si distingueva dall’approccio neo-funzionalista (Monnet) e da quali punti erano accomunati?
I punti di forza del programma federalista erano due. In primo luogo alcuni stati non si sarebbero più fatti la guerra (che rappresentava il problema storico dell’Europa, soprattutto dopo le due Guerre Mondiali ma non solo). In secondo luogo, mettendo insieme determinate risorse, si sarebbe riuscito a produrre anche un grande sviluppo economico. Quindi l’obiettivo era la pace e la prosperità. Credo che oggi questi obiettivi siano stati ampiamente raggiunti anche se ovviamente si discute su quanta prosperità stiamo perdendo perché non riusciamo a risolvere certi problemi. Monnet pensava che l’integrazione a livello europeo di determinate aree di cooperazione e collaborazione avrebbe avuto effetti anche su aree contigue. Questo avrebbe favorito un’integrazione progressiva verso un grande mercato comune, mercato che a sua volta avrebbe richiesto inevitabilmente uno stato, uno stato regolatore che a quel punto doveva essere uno stato federale.
La figura di Altiero Spinelli, oltre al suo indubbio valore simbolico, che ruolo ha esercitato, con la sua opera politica e il suo pensiero, sul corso effettivo del processo di integrazione? In quali fasi, se ci sono state, l’influsso di Spinelli è stato più sensibile?
Spinelli è stato importantissimo nel contesto italiano, non soltanto come fondatore del Movimento Federalista Europeo (1943) ma anche per i rapporti interpersonali che era riuscito a tessere prima con De Gasperi e poi, nel momento più importante, con Nenni (fine degli anni Sessanta). Inoltre fece cambiare posizione al PCI, che era sostanzialmente ostile al processo di unificazione europea e che invece a metà degli anni Settanta giunse ad accettare l’Europa. Al riguardo bisogna ricordare il famoso discorso di Berlinguer che da questa parte della cortina di ferro si sentiva più sicuro. Spinelli convinse il partito comunista ad accettare l’Europa e a parteciparvi attivamente. Nel 1976 venne eletto dal PCI al Parlamento Europeo, per altro dopo esser già stato commissario europeo (1970-1976). Venne poi rieletto nel 1979 e nel 1983. Per quanto riguarda i rapporti con gli altri paesi c’è un movimento federalista europeo che deve la sua ispirazione e la sua nascita anche agli sforzi di Spinelli. Inoltre tutto quello che precede l’Atto Unico (1986) è, in una certa misura, preparato da Spinelli, che voleva un nuovo trattato, ma alla fine prese atto che il massimo che si poteva ottenere in quel momento era l’Atto Unico. Scrisse un documento importantissimo intitolato Per un’Unione più stretta. Poi purtroppo morì nel 1986. È difficile dire se oggi ci sia un suo erede. In una certa misura possiamo dire che una visione di tipo federale è stata quella sostenuta dai Radicali, da Pannella, da un lato, e da Emma Bonino, dall’altro. Però il primo è morto, purtroppo Emma Bonino sta male e quindi non c’è più questa presenza. Oggi, il pensiero federalista europeo in Italia è molto debole. C’è un centro studi federalistici a Torino, che secondo me è il migliore in Italia, ma non molto di più.
Venendo alla fase più recente dell’integrazione, inaugurata dal trattato di Maastricht, in che modo le forme concrete attraverso cui questo processo si è configurato, si relazionavano all’ideale federalista? Come commenta questa importante tappa rappresentata dal trattato di Maastricht, avendo presente gli sviluppi politici successivi?
Maastricht è uno dei trattati più importanti, naturalmente. Su un punto possiamo essere tutti d’accordo: Maastricht inserì pienamente la Germania unificata (1990) in Europa. Maastricht aprì inoltre la strada alla riflessione sul potenziamento del mercato comune, del mercato unico e poi all’Euro. Quindi Maastricht ha rappresentato una svolta di grandissima importanza.
Al tempo delle discussioni in merito all’adozione dell’euro, prevalse un’interpretazione secondo la quale, l’unione monetaria non comportava necessariamente il trasferimento di competenze fiscali e finanziare a livello comunitario. Era diffusa la convinzione che un sistema di vincoli, che poi si concretizzò nel patto di stabilità, unitamente a una politica monetaria comune, fossero sufficiente a garantire un’adeguata gestione dell’unione monetaria. Jacques Delors riteneva invece che viste le notevoli differenze socio-economiche tra i paesi membri fosse necessario perseguire attivamente una politica di convergenza. Alla luce degli sviluppi successivi, che giudizio da oggi di questo dibattito? Ci furono a suo avviso carenze e/o errori evitabili?
Delors aveva sicuramente ragione. Però non riuscì a convincere un numero sufficiente di capi di stato e di governo del fatto che quella era la direzione giusta in cui bisognava andare. Però, tutti erano consapevoli del fatto che la moneta unica costituiva una premessa e che poi occorreva andare verso una politica monetaria comune e verso una una vera politica finanziaria ed economica condivisa. Le prospettive erano chiare a tutti a Maastricht, ma molti stati erano riluttanti ad andare in quella direzione. Finita la presidenza Delors, i successivi presidenti non hanno avuto la stessa forza e la stessa volontà di intervenire in materia e di premere in continuazione sugli stati. Prodi, per esempio, preferì l’allargamento dell’Unione piuttosto che l’approfondimento delle sue politiche economiche.
Negli anni Duemila, ha luogo il dibattito sulla Costituzione Europea, a cui presero parte figure di grande rilievo. La successiva bocciatura del testo nei referendum francese e olandese, impose un una pausa al processo di integrazione, che riprese poi in tono minore con il Trattato di Lisbona. Che giudizio esprime su questa fase? Furono commessi errori? Quali furono le principali carenze a suo avviso?
Gli errori furono tutti dei politici nazionali. Il referendum sulla Costituzione europea in Francia venne bocciato dai socialisti che si divisero: un parte votò contro e così fece cadere il trattato. Gli olandesi probabilmente votarono contro perché volevano più integrazione, non perché ne volevano di meno. Però, anche questo fu un brutto segno: significa che i politici olandesi favorevoli all’Europa non avevano saputo condurre una campagna elettorale adeguata. Non furono capaci di insegnare che cos’è l’Europa. Ecco se dovessi dire qual è il problema vero è che molti politici quando vanno in Europa fanno finta di essere europeisti e poi quando tornano nei loro paesi sostengono invece che bisogna evitare di cedere sovranità all’Europa. C’è un atteggiamento ambivalente che non giova assolutamente all’Unione Europea e nemmeno ai politici nazionali, che si trovano poi alle prese con fenomeni di populismo che conosciamo. Questa è una fase di transizione molto complicata, irta di pericoli e senza grandi opportunità, anche perché manca la figura di un grande europeista, di un grande federalista. Ci sono qualche volta dei politici di buona volontà, ma questo non è sufficiente.
Sotto la Commissione Prodi nuovi paesi, principalmente dell’Europa orientale, entrarono nell’Unione. Ciò fu preceduto da un dibattito circa l’opportunità che tale allargamento fosse preceduto da un approfondimento, ovvero da una più incisiva integrazione tra i paesi membri. Alla luce dei recenti avvenimenti, ritiene che si sia proceduto allora in maniera lungimirante?
No, fu tutto meno che lungimirante. Fu comprensibilmente poco lungimirante: si pensò che facendo entrare questi paesi in Europa (tutti ex regimi comunisti) si sarebbe data una spinta al consolidamento di quelle democrazie. Probabilmente questo consolidamento è avvenuto, anche se vediamo che sono stati fatti diversi passi indietro, soprattutto in Ungheria e in Polonia. È stato un allargamento frettoloso, comprensibile ma non governato bene. Le conseguenze di ciò sono oggi sotto gli occhi di tutti. Questi paesi non hanno ancora acquisito una mentalità veramente europea, non hanno acquisito comportamenti autenticamente europei. Spesso costituiscono una palla al piede per coloro che vorrebbero andare più avanti nell’integrazione, ma non possono senza convincere questi paesi che sono rimasti in una situazione in cui lo stato nazione conta di più di qualsiasi progresso verso uno stato federale europeo.
La crisi economico-finanziaria ha dato grande spazio a una galassia di forze politiche che oggi viene genericamente rubricata sotto l’etichetta di “euroscetticismo” o “populismo”. Quali sono a suo avviso le cause del successo e del consenso che riscuotono queste forze politiche?
Se c’è un elemento unico che posso riscontrare è il fatto che tutte possono qualificarsi come populiste e nazionali in quanto fanno campagne essenzialmente contro l’Europa e/o contro l’Euro. Vogliono un ritorno, che oggi è praticamente impossibile, agli stati nazionali. Ma c’è un numero consistente di cittadini-elettori che temono le conseguenze di una maggior unificazione politica e le conseguenze della globalizzazione. Qualche volta hanno anche ragione perché non sono preparati ad affrontarla: ad esempio in materia di istruzione, oppure non hanno le capacità lavorative per fronteggiarla. I populisti fanno leva su questo sentimento e possono arrivare a sfruttarlo fino a un certo punto. Ma che sia chiaro: non dovrebbero. Riescono ad avere un po’ di influenza, non tanta, nei loro rispettivi sistemi politici, mentre nel Parlamento Europeo praticamente non ne hanno. Il populismo è difficile da sconfiggere una volta per tutte, anche perché elementi di scontento ci saranno sempre e i populisti li cavalcano come d’altronde è loro facoltà.
Data la natura sovranazionale dei principali problemi che gli stati e le società europee si trovano oggi a dover affrontare, nonché la presenza di una giuntura critica interna che dovrebbe promuovere l’adozione di un più coraggioso approccio ai problemi, come spiegare il mancato approdo a meccanismi e soluzioni comunitarie? Come mai l’approccio neo-funzionalista sembra non esser più applicabile? Perché oggi il metodo intergovernativo prevale su quello comunitario?
Il neo-funzionalismo non è più applicabile perché ha avuto successo, ha fatto praticamente tutto quello che poteva: ha allargato le aree di collaborazione e cooperazione, ha prodotto prosperità diffusa. Tutti i paesi che sono entrati nell’Unione Europea sono cresciuti dal punto di vista economico. Il neo-funzionalismo è arrivato per così dire al soffitto. Per sfondare il soffitto, tuttavia, non basta il modello intergovernativo che prevede la collaborazione tra gli stati così come sono e l’utilizzo di risorse che già ci sono. Solo il federalismo garantisce maggiori risorse e una loro migliore distribuzione. Insisto: i governanti nazionali continuano a giocarsi le proprie carte sui rispettivi territori nazionali. Non c’è nessuno politico che scommetta sulla sua carriera in Europa. A dire il vero mancano anche i meccanismi adeguati. Per esempio, per un presidente eletto dai cittadini europei forse ci sarebbero gli uomini e donne disposti a entrare in competizione. Quindi il federalismo è una carta che può essere giocata, ma che richiede che ci siano quattro, cinque, sei o sette governanti nazionali disposti a giocarsela fino in fondo. E purtroppo non ci sono.
Fino a pochi anni fa l’Italia era annoverata tra più entusiasti stati membri dell’Unione. La solidità dei suoi valori europeisti non era in discussione (il referendum consultivo del 1989 e l’adesione all’euro ne furono i principali simboli). Come è stato gestito e investito quel capitale di autorevolezza dai governi italiani della cosiddetta ‘Seconda Repubblica?
Quel capitale era un capitale di emozioni e di affetti. In un certo senso, si trattava di attaccamento a un’idea. Ma non è stato messo a frutto in alcun modo. C’era una specie di mandato ai governanti di fare il possibile in Europa, senza spingersi oltre. Forse quello che era possibile è stato anche fatto. L’Italia è sempre entrata nei trattati in maniera un po’ passiva e subalterna. Poi qualcuno ha iniziato a fare campagna contro l’Europa. Berlusconi e il centrodestra hanno fatto campagna contro l’Europa e una parte di elettori ha cambiato le sue opinioni in merito. Oggi se sono europeisti, sono tiepidamente tali; altrimenti sono euroscettici o addirittura euro-ostili. La sostanza è che la maggioranza degli italiani non è più favorevole all’Europa e considera spesso l’Europa un problema e non una soluzione ai problemi.
Cosa ne rimane oggi dell’eredità del federalismo europeo? Quali sono i principali motivi della sua attuale scarsa popolarità? Secondo lei è possibile e auspicabile rilanciare una prospettiva di integrazione federale in Europa? Se si, su quali basi e con quali modalità?
Rimangono milioni di persone che credono in un’Europa federale. Rimangono dei partiti che, almeno dal punto di vista programmatico, esprimono posizioni favorevoli ad un’Europa federale. Ci sono inoltre molti parlamentari europei che condividono questa prospettiva. Purtroppo non c’è nessun capo di stato europeo che su questa prospettiva sia disposto a giocarsi la sua carriera politica. Lo vediamo in continuazione. Seppur blandamente, la Merkel potrebbe muoversi i questa prospettiva federalista. Il problema è che la Merkel governa la Germania, che è troppo grande per essere la guida di un progetto federalista europeo e che alla fine esprimerebbe una guida egemonica tedesca. Resta però il fatto che oggi il federalismo è l’unica prospettiva che può ancora essere seguita. Le altre no. Il metodo intergovernativo è quello che vediamo in azione nel Consiglio europeo. Produrrebbe forse un po’ di più di quello che oggi abbiamo (more of the same). Il neo-funzionalismo, invece, ha già dato tutto quello che poteva dare. Il problema è il passaggio federale, e il passaggio federale può essere realizzato purché ci siano donne e uomini che si impegnino a fondo. Io non li vedo purtroppo. Qualcuno dice che il passaggio federale sarebbe possibile facendo prima un passo indietro: creando una cerchia di stati disposti ad andare molto avanti nell’integrazione che dimostrerebbero così a quelli che sono meno disposti che, qualora si unissero, potrebbero fare molti progressi. È una strategia plausibile ma non facile. Non ne vedo il leader.
Pubblicato il 29 settembre 2016 su Pandora
Il Manifesto di Ventotene
Sono lieto di presentare qui la seconda lezione del mio prossimo libro L’Europa in trenta lezioni che sarà pubblicato all’inizio del 2017 dalla casa editrice UTET-De Agostini.
SECONDA LEZIONE. Il Manifesto di Ventotene
Scritto nel maggio-giugno del 1941 dall’ex-comunista Altiero Spinelli e dall’ex-Giustizia e Libertà Ernesto Rossi e pubblicato la prima volta clandestinamente a Roma, a cura di e con una prefazione anonima di Eugenio Colorni, il Manifesto è giustamente considerato un testo cult del federalismo italiano. Ispirato dalla lettura di alcuni pochi testi (scritti dal liberale Luigi Einaudi e dall’economista inglese Lionel Robbins) disponibili nella biblioteca dell’isola di Ventotene dove gli autori erano stati confinati dal fascismo, il Manifesto porta come sottotitolo “Per un’Europa libera unita”. Il punto di partenza dell’analisi è la convinzione della responsabilità degli Stati sovrani nel dare vita e perpetuare “una situazione di perpetuo bellum omnium contra omnes“. La proposta era quella della formazione di una federazione europea “non come un lontano ideale, ma come una impellente tragica necessità”. I principi, scrive Spinelli, ma sarebbe meglio dire le fondamenta, di una federazione europea debbono essere: “esercito unico federale, unità monetaria, abolizione delle barriere doganali e delle limitazioni all’emigrazione tra gli stati appartenenti alla federazione, rappresentanza diretta dei cittadini ai consessi federali, politica estera unica”. Si noti, primo, la sequenza: la federazione europea non può essere imbelle, ma deve sapere difendersi; secondo, quei principi sono stati e, in parte, rimangono gli obiettivi, comunque molto ambiziosi, perseguiti e sostanzialmente conseguiti dai costruttori dell’Unione Europea.
Spinelli stesso rimproverò al Manifesto “alcuni errori politici di non lieve portata: l’ottimismo sulla imminente realizzazione dell’idea federalista; l’incomprensione della debolezza degli stati europei devastati dalla seconda guerra mondiale (e quindi la necessità dell’appoggiarsi agli Stati Uniti); l’invocazione della necessità di un partito rivoluzionario federalista (prodotti dei tempi e dell’esperienza pregressa di Spinelli) che “espressa ancora in termini troppo rozzamente leninisti” si è rivelata “caduca”. Di due idee politiche Spinelli si dichiarava molto fiero: 1. La federazione europea non era solo un ideale, ma un obiettivo. Non era “un invito a sognare”, ma “un invito a operare”. Certamente, questo operare incessante e indefesso fu la cifra dell’azione politica di Spinelli. 2. La lotta per la federazione sarebbe diventata “un nuovo spartiacque fra le correnti politiche”: progressisti e reazionari si misureranno con riferimento all’uso del potere politico. I secondi si limiteranno alla conquista del potere politico nazionale. I primi vorranno usare quel potere “come strumento per realizzare l’unità internazionale”. Analiticamente importante, questa distinzione non ha trovato una coerente e profonda traduzione nella lotta/competizione politica né negli Stati nazionali né a livello europeo.
Il “leninismo ” spinelliano torna sia nella critica alla “metodologia politica democratica” che sarà “un peso morto nella crisi rivoluzionaria” sia nella dismissione dei “predicatori [democratici] esortanti laddove occorrono capi che guidino sapendo dove arrivare”. Il punto d’arrivo è un “saldo stato federale” dotato di una forza armata europea, in grado di “spezzare le autarchie economiche” , che “abbia gli organi e i mezzi sufficienti per fare eseguire nei singoli stati federali le sue deliberazioni dirette a mantenere un ordine comune, pur lasciando agli stati stessi l’autonomia che consenta una plastica articolazione e lo sviluppo di una vita politica secondo le peculiari caratteristiche dei vari popoli” (quasi un’anticipazione del principio di sussidiarietà che, qualche decennio dopo, sarà codificato nei Trattati europei).
Il capitolo del Manifesto intitolato “Compiti del dopoguerra. La riforma della società”, discusso a fondo con Spinelli, è stato redatto principalmente da Ernesto Rossi. Lo si potrebbe definire figlio dei tempi, ma dei tempi che verranno e che, nei paesi scandinavi, stavano già arrivando. Quei compiti possono essere sintetizzati “nell’emancipazione delle classi lavoratici e la realizzazione per esse di condizioni più umane di vita”. L’obiettivo deve essere perseguito con: a) l’abolizione, la limitazione, la correzione della proprietà privata; b) la nazionalizzazione delle grandi imprese monopolistiche; c) una riforma agraria e forme di gestione cooperativa e azionariato operaio; d) provvidenze necessarie per i giovani “per ridurre al minimo le distanze fra le posizioni di partenza nella lotta per la vita [sono le eguaglianze di opportunità]; e) l’assicurazione a tutti di “vitto, alloggio e vestiario” e di misure “che garantiscano incondizionatamente a tutti, possano o non possano lavorare, un tenore di vita decente, senza ridurre lo stimolo al lavoro e al risparmio” [quanto di più vicino e simile al programma di uno Stato del benessere, del welfare].
Tre quarti di secolo dopo la sua stesura, il Manifesto di Ventotene non è soltanto un documento storico ricco di intuizioni lungimiranti e di indicazioni programmatiche, alcune delle quali tradotte nelle politiche formulate e attuate dall’Unione. Non è soltanto un monumento alla intelligenza degli avvenimenti dei suoi due autori. Continua a costituire la premessa e la promessa di una Federazione degli stati europei.
La tattica di Salvini
Combinando instancabilmente l’attività sul territorio e la presenza nelle trasmissioni televisive, Matteo Salvini ha “recuperato” qualche punto di forza della Lega ruspante (sì, sì: è l’aggettivo giusto) che abbiamo conosciuto, oramai il più vecchio partito italiano alla soglia del trentesimo compleanno, e la ha rilanciata. La persona fisica e politica di Salvini è positivamente responsabile della crescita, anche elettorale, ma da non esagerare, della Lega. Il tentativo di farne un movimento diffuso sul territorio nazionale ha significato mettere in secondo piano la tematica federalistica, che, comunque, si era già logorata per molte buone e cattive (si configurava come un pasticcio) ragioni. Lo spostamento spregiudicato su posizioni lepeniste è tattico, dettato da circostanze e da esigenze (riuscire a costituire un gruppo al Parlamento Europeo) manipolabili. Per il resto, Salvini sfrutta, con grande verve polemica, anche naturale, quella che ritiene la tematica destinata a durare e produrre frutti elettorali: la (non) integrazione dei migranti combinandola con la sicurezza personale e delle famiglie, soprattutto nel Nord, e accentuando la critica all’Unione Europea e alle sue flagranti inadeguatezze. La strada tracciata porta piuttosto lontano.
Per quanto enfatizzato, lo scontro sulla leadership nel centro-destra con il declinante Berlusconi, declinatissimo dicono i sondaggi romani su Bertolaso, serve a Salvini esclusivamente a scopi propagandistici, di visibilità politica e di alimento per il suo ego. Qualche periodica incursione in Emilia-Romagna e a Bologna consentono di acquisire spazio e di offrire a un buon numero di elettori insoddisfatti un’alternativa praticabile. Nello spappolamento del centro-destra bolognese, Salvini non riuscirà a prosperare in maniera dirompente, ma, se non si andrà ad un accordo complessivo, la sua candidata, riconfermata anche se non proprio brillantissima, è già in campo e i temi della Lega li farà pur circolare.
La politica è anche questo: mantenere le posizioni con pazienza e fatica, tentando di costruire dal basso, ovvero dai quartieri, qualcosa che riesca a caratterizzarsi al tempo stesso come opposizione all’esistente e come preparazione di un’alternativa. Tuttavia, nella politica cittadina che spesso sembra una palude nella quale non brillano proposte lungimiranti e innovative e non hanno fatto la loro comparsa candidature trascinanti (forse su tutto questo “la città” e i suoi maîtres a penser dovrebbero interrogarsi), Salvini sa che l’attivismo della Lega potrebbe essere ricompensato. Probabilmente, sì, ma poco poco.
Pubblicato 8 aprile 2016
El rumbo de la ciencia politica ¿Hacia dònde va? Retos y trasformaciones. Conferencia magistral #México
Tlaxcala, miercoles, 14 de Octubre, 12 hs
1er Congreso Mundial de Política, Gobierno y Estudios de Futuro
y tendrá lugar los días 14, 15 y 16 de octubre en Tlaxcala, México
La Universidad Autónoma de Tlaxcala (UAT) será la sede del Primer Congreso Mundial de Política, Gobierno y Estudios de Futuro, que se realizará del 14 al 16 de octubre del presente año.
La cita será específicamente en el Centro Cultural de la UAT, y se ha convocado a 18 universidades públicas y privadas entre las que destacan la Universidad Nacional Autónoma de México (UNAM), la Benemérita Universidad Autónoma de Puebla (BUAP), la Universidad Iberoamericana y la UAT, cuyas instalaciones serán la sede.
En este Primer Congreso Nacional, se espera que participen reconocidos especialistas de diferentes países, con el objetivo de tratar temas como federalismo y gobiernos locales, gobernanza y participación social, entre otros.
Universidad Autónoma de Tlaxcala
Av. Universidad Núm. 1
Col. La Loma Xicohténcatl
Tlaxcala, Tlax.