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Il Manifesto di Ventotene

Sono lieto di presentare qui la seconda lezione del mio prossimo libro L’Europa in trenta lezioni che sarà pubblicato all’inizio del 2017 dalla casa editrice UTET-De Agostini.

SECONDA LEZIONE. Il Manifesto di Ventotene

Scritto nel maggio-giugno del 1941 dall’ex-comunista Altiero Spinelli e dall’ex-Giustizia e Libertà Ernesto Rossi e pubblicato la prima volta clandestinamente a Roma, a cura di e con una prefazione anonima di Eugenio Colorni, il Manifesto è giustamente considerato un testo cult del federalismo italiano. Ispirato dalla lettura di alcuni pochi testi (scritti dal liberale Luigi Einaudi e dall’economista inglese Lionel Robbins) disponibili nella biblioteca dell’isola di Ventotene dove gli autori erano stati confinati dal fascismo, il Manifesto porta come sottotitolo “Per un’Europa libera unita”. Il punto di partenza dell’analisi è la convinzione della responsabilità degli Stati sovrani nel dare vita e perpetuare “una situazione di perpetuo bellum omnium contra omnes“. La proposta era quella della formazione di una federazione europea “non come un lontano ideale, ma come una impellente tragica necessità”. I principi, scrive Spinelli, ma sarebbe meglio dire le fondamenta, di una federazione europea debbono essere: “esercito unico federale, unità monetaria, abolizione delle barriere doganali e delle limitazioni all’emigrazione tra gli stati appartenenti alla federazione, rappresentanza diretta dei cittadini ai consessi federali, politica estera unica”. Si noti, primo, la sequenza: la federazione europea non può essere imbelle, ma deve sapere difendersi; secondo, quei principi sono stati e, in parte, rimangono gli obiettivi, comunque molto ambiziosi, perseguiti e sostanzialmente conseguiti dai costruttori dell’Unione Europea.

Spinelli stesso rimproverò al Manifesto “alcuni errori politici di non lieve portata: l’ottimismo sulla imminente realizzazione dell’idea federalista; l’incomprensione della debolezza degli stati europei devastati dalla seconda guerra mondiale (e quindi la necessità dell’appoggiarsi agli Stati Uniti); l’invocazione della necessità di un partito rivoluzionario federalista (prodotti dei tempi e dell’esperienza pregressa di Spinelli) che “espressa ancora in termini troppo rozzamente leninisti” si è rivelata “caduca”. Di due idee politiche Spinelli si dichiarava molto fiero: 1. La federazione europea non era solo un ideale, ma un obiettivo. Non era “un invito a sognare”, ma “un invito a operare”. Certamente, questo operare incessante e indefesso fu la cifra dell’azione politica di Spinelli. 2. La lotta per la federazione sarebbe diventata “un nuovo spartiacque fra le correnti politiche”: progressisti e reazionari si misureranno con riferimento all’uso del potere politico. I secondi si limiteranno alla conquista del potere politico nazionale. I primi vorranno usare quel potere “come strumento per realizzare l’unità internazionale”. Analiticamente importante, questa distinzione non ha trovato una coerente e profonda traduzione nella lotta/competizione politica né negli Stati nazionali né a livello europeo.

Il “leninismo ” spinelliano torna sia nella critica alla “metodologia politica democratica” che sarà “un peso morto nella crisi rivoluzionaria” sia nella dismissione dei “predicatori [democratici] esortanti laddove occorrono capi che guidino sapendo dove arrivare”. Il punto d’arrivo è un “saldo stato federale” dotato di una forza armata europea, in grado di “spezzare le autarchie economiche” , che “abbia gli organi e i mezzi sufficienti per fare eseguire nei singoli stati federali le sue deliberazioni dirette a mantenere un ordine comune, pur lasciando agli stati stessi l’autonomia che consenta una plastica articolazione e lo sviluppo di una vita politica secondo le peculiari caratteristiche dei vari popoli” (quasi un’anticipazione del principio di sussidiarietà che, qualche decennio dopo, sarà codificato nei Trattati europei).

Il capitolo del Manifesto intitolato “Compiti del dopoguerra. La riforma della società”, discusso a fondo con Spinelli, è stato redatto principalmente da Ernesto Rossi. Lo si potrebbe definire figlio dei tempi, ma dei tempi che verranno e che, nei paesi scandinavi, stavano già arrivando. Quei compiti possono essere sintetizzati “nell’emancipazione delle classi lavoratici e la realizzazione per esse di condizioni più umane di vita”. L’obiettivo deve essere perseguito con: a) l’abolizione, la limitazione, la correzione della proprietà privata; b) la nazionalizzazione delle grandi imprese monopolistiche; c) una riforma agraria e forme di gestione cooperativa e azionariato operaio; d) provvidenze necessarie per i giovani “per ridurre al minimo le distanze fra le posizioni di partenza nella lotta per la vita [sono le eguaglianze di opportunità]; e) l’assicurazione a tutti di “vitto, alloggio e vestiario” e di misure “che garantiscano incondizionatamente a tutti, possano o non possano lavorare, un tenore di vita decente, senza ridurre lo stimolo al lavoro e al risparmio” [quanto di più vicino e simile al programma di uno Stato del benessere, del welfare].

Tre quarti di secolo dopo la sua stesura, il Manifesto di Ventotene non è soltanto un documento storico ricco di intuizioni lungimiranti e di indicazioni programmatiche, alcune delle quali tradotte nelle politiche formulate e attuate dall’Unione. Non è soltanto un monumento alla intelligenza degli avvenimenti dei suoi due autori. Continua a costituire la premessa e la promessa di una Federazione degli stati europei.


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