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L’ammuina di Meloni e le proposte da fare in UE @DomaniGiornale

“Non chiedetevi che cosa l’Unione Europea può fare per voi, ma che cosa voi potete fare per l’Unione Europea”. Questa parafrasi di una delle più efficaci affermazioni contenute nel discorso inaugurale della Presidenza di John Kennedy non può evidentemente diventare patrimonio dei sovranisti, neppure dei più lungimiranti fra loro (no, non rispondo alla richiesta di precisazioni e approfondimenti). Può, tuttavia, oppure, proprio per questo, essere utilizzata per valutare e migliorare le posizioni prese dagli Stati-membri dell’Unione per quel che riguarda il Meccanismo Europeo di Stabilità (MES) e il Patto di Stabilità e Crescita.

    Del primo, la possibilità per ciascuno Stato-membro di avere accesso a fondi europei in caso di necessità, non sono in discussione le clausole specifiche, che non è possibile cambiare, ma l’adesione dell’Italia, indispensabile a consentirne all’occorrenza a richiesta l’utilizzo a ciascuno e tutti gli altri Stati, dunque, anche Ungheria e Polonia, quando era sovranista. Benvenuto al governo guidato dall’europeista Donald Tusk che segnala l’esistenza di molti ottimi anticorpi nella democrazia polacca. Il Patto di Stabilità e Crescita ha molta più rilevanza per le politiche economiche e sociali degli Stati-membri nei prossimi cinque anni. Riguarda il tetto del debito pubblico da considerarsi accettabile e le modalità previste/formulate per un rientro più o meno graduale, e il deficit tollerabile, comunque da ridursi in particolare, ma non solo, per l’Italia.

   Non è chiaro se la Presidente del Consiglio italiano Meloni e il Ministro dell’Economia Giorgetti stiano concordemente utilizzando la ratifica del MES come strumento di pressione per ottenere migliori condizioni per il Patto di Stabilità. Già altri Stati-membri, in particolare i paesi del gruppo Visegrad, hanno proceduto di tanto in tanto ad applicare la strategia dello scambio, talvolta, con successo. Fa certamente parte del gioco agire, non troppo spesso, seguendo i dettami del “do ut des”. Forse, però, gli Stati-membri dell’Unione, non soltanto quelli economicamente più forti, nonostante le sue difficoltà attuali la Germania rimane nel club, ma anche quelli che definiamo più frugali, non gradiscono e non apprezzano queste “ammuine” se non vengono accompagnate da proposte alternative, migliorative, in special modo, credibili. La credibilità di queste proposte dipende in maniera significativa dalla loro provenienza, vale a dire se chi le fa ha un passato di impegni presi e rispettati, adempiuti, e dalla loro per qualità. Le proposte debbono anche, per tornare alla frase di apertura, avere di mira il miglioramento di tutta l’Unione Europea, contribuendo alla sua stabilità, alla sua crescita, ad una sua unificazione più stretta. Quest’ultimo, più ambizioso obiettivo certo non può essere il progetto dei sovranisti tranne di quelli che si stanno pentendo, pensando se e come fare outing nel momento più difficile e delicato ovvero nel corso della già iniziata campagna per l’elezione del Parlamento europeo.

    Le opposizioni italiane avrebbero l’opportunità di sfruttare la contingenza favorevole impegnandosi a chiarificare per gli elettori da raggiungere e conquistare quanto alcune proposte, condivisione e azione, contribuendo al buon funzionamento dell’Unione Europeo produrrebbero ricadute positive e rapide sui singoli. Sappiamo, però, che, a causa di molte sue insuperate ambiguità, il Movimento Cinque Stelle non è in grado di dare un contributo efficace a questa strategia. Giusto allora mettere in evidenza l’inconcludenza e la farraginosità della strategia governativa (e delle affermazioni, prese di distanza minimali di Forza Italia), ma impossibile non vedere la trave nell’occhio di una parte delle opposizioni. Una buona politica accetta la sfida e nella campagna elettorale darà il massimo per spiegare agli italiani che quel che vuole fare per l’Unione Europea, anche in termini di proposte operative, e come e quanto servirà a migliorare le condizioni di vita di tutti. Nel passato, spesso è stato proprio così.  

Pubblicato il 12 dicembre 2023 su Domani

Tra errori e pochi soldi. La nuova destra sembra vecchia @DomaniGiornale Meloni e il governo del nuovo che non avanza

Quali sono le priorità del governo Meloni? Avremo, forse, la risposta, almeno un abbozzo, nella Legge Finanziaria? Quel che si è intravisto finora è un misto che può essere utile alla leader di Fratelli d’Italia, ma che complessivamente non produce conseguenze positive per il paese. Meloni volteggia sorridente e apprezzata, anche perché le aspettative le erano contrarie, sulla scena internazionale. Sicura atlantista, vedremo se anche sulle spese militari, Meloni tiene bassissimo il suo sovranismo, ma sta lavorando per farlo crescere numericamente e politicamente con le elezioni per il Parlamento europeo. Le difficoltà, che paiono molto più grandi di quanto i governanti siano disposti ad ammettere, stanno specialmente nell’attuazione del PNRR. Suggeriscono, però, che alcuni nodi europei stanno venendo al pettine. Quei nodi hanno radici italiane.

Nei governi di coalizione alcune differenze programmatiche sono fisiologiche. Sono anche funzionali alla raccolta dei voti che provengono da una società segmentata e frammentata, di difficile ricomposizione come dovrebbero avere imparato i teorici del campo largo. Altre differenze, invece, si traducono in comportamenti concorrenziali patologici che la leader sembra avere scelto di affrontare flessibilmente: silenzio prolungato; spostamento dell’attenzione su altre tematiche; conciliazione, ricordando agli alleati che al governo sono arrivati grazie a lei e che, se vogliono starci e tornarci, non devono prendersi troppe libertà e fare balzi né in avanti né di fianco. Finora la strategia meloniana ha funzionato anche grazie al mediocre avventurismo mediocre di Salvini e allo stato di convalescenza di Forza Italia (per la quale neppure un buon, al momento imprevedibile, risultato alle elezioni europee sarà taumaturgico).

   Con impegno puntiglioso Meloni cerca anche di colpire l’avversario principale. Si appropria, svuotandola, della tematica “salario minimo” per evitare che diventi un successo del Partito Democratico (e dei Cinque Stelle). Mira con determinazione a colpire il grande serbatoio di consenso elettorale e politico del PD che si chiama (Emilia-)Romagna. L’operazione ristoro e ripresa viene centellinata (dispiace che vi si presti anche il Gen. Figliolo). Avrà un rilancio e un’impennata quando si avvicineranno le elezioni regionali. La Finanziaria non è interamente un altro discorso perché il PIL emiliano-romagnolo e le sue propaggini contano, eccome. Almeno quanto i mal di pancia del Ministro Giorgetti al quale è cosa buona e giusta augurare una rapida guarigione anche se nei rumors che circondano l’elaborazione del Documento più importante per l’economia e la società della nazione finora non si individuano eventuali suoi apporti specifici.

    Sembra che il governo Meloni si muova ancora, in parte inconsapevolmente in parte per malposta furbizia (favorire alcuni ceti di riferimento) in parte per incapacità, nel solco di molti governi delle cosiddette Prima e Seconda Repubblica. Sembrerebbe che in ordine sparso alcuni esponenti di Fratelli d’Italia preferiscano far vedere, con affermazioni talvolta risibili, che sono i primi della classe contro il politically correct platealmente e esageratamente praticato da alcuni settori della sinistra politica e intellettuale. Ma nessuna critica di destra delinea una visione alternativa se alla pars destruens non accompagna subito la costruzione del nuovo (e francamente, con riguardo, nessuno di quegli intellettuali si è ancora dimostrato all’altezza). Neppure in ordine sparso, però, governanti, parlamentari, consulenti del centro-destra hanno finora saputo dare un segno concreto del nuovo che vorrebbero fare nascere e avanzare cosicché nell’interregno si producono degenerazioni e fenomeni morbosi.

Pubblicato il 6 settembre 2023 su Domani

Manovra senza progetto. Il governo non sa ancora che paese vuole costruire @DomaniGiornale

La Finanziaria è sempre un banco di prova, per qualsiasi governo e governanti, per i partiti della coalizione, per l’opposizione(i). Non basta cercare di cavarsela con qualche aggettivo preoccupato, come quelli, ad esempio, “complicato”, giustamente usati dal preoccupatissimo Ministro dell’Economia Giorgetti. I soldi sono pochi? Lo dicono sempre (quasi) tutti. Ecco, allora, venuto il tempo delle scelte, quello che piace a Giorgia Meloni che potrà/potrebbe lasciare il segno del paese che vuole. Opportuno è che cominci subito. Si è visto chi vuole colpire, a cominciare dai percettori del reddito di cittadinanza e dai banchieri, categoria mai amata. Meno, molto meno si sta vedendo l’idea del paese che vorrebbe. Certamente, consentire ad alcune categorie relativamente piccole, assolutamente corporative, come i balneari e i tassisti, di continuare a sfruttare i loro privilegi, le loro rendite di posizione, non è il migliore dei segnali per un paese che voglia mettersi a correre. Non si vedono le grandi direttrici, una delle quali dovrebbe sicuramente essere la sanità, l’altra quasi altrettanto sicuramente, il complesso sistema dell’istruzione. Riforme profonde in entrambi i casi richiedono tempi lunghi, che è proprio la ragione per la quale sarebbe imperativo cominciare qui e subito.

   Gli alleati della Meloni, non sembrano avere un loro progetto di finanziaria, vale a dire una visione centrata su elementi originali e innovativi che caratterizzino il tipo di rappresentanza politica che esprimono e al quale mirano. Comme d’habitude, Salvini, protettore dei balneari e oppositore di qualsiasi intervento che alzi l’età pensionabile, è costantemente alla ricerca di una tematica che gli dia visibilità e accesso a qualche categoria particolaristica. Oggi, in questo, sembra psicologicamente frenato da Giorgetti che non apprezzerebbe. Per voce di Tajani, Forza Italia sottolinea la necessità di un diverso prelievo dalle banche, ma non riesce a evidenziare altre tematiche che siano qualificanti e dirompenti. Ne sapremo di più quando il documento sarà disponibile e leggibile anche nei particolari nei quali, insieme al già noto diavolo, si incuneano le lobby e gli amici degli amici, forti in ricatti imprecisabili, qualche volta anche portatori di voti a qualche parlamentare accuratamente (auto)selezionato.

   Al proposito, il problema italiano di fondo è la frammentazione/segmentazione, tutt’altro che solo geografica, della società italiana che si trasferisce nei partiti e nelle loro correnti, meno sembrerebbe in Fratelli d’Italia. Per le opposizioni l’attuale è la fase dello stare a guardare e cercare i punti deboli del documento che verrà. Da Filippo Cavazzuti, professore di Scienza delle Finanze e senatore della Sinistra Indipendente, credo di avere imparato due cose. La prima è la più difficile. L’opposizione, almeno quella che si ritiene più rappresentativa e più preparata, dovrebbe concentrare i suoi sforzi, certamente ambiziosissimi, nella preparazione di un contro documento contenente almeno le linee portanti di una Finanziaria alternativa. La seconda è meno difficile, ma richiede disciplina, autocontrollo, coordinamento. Rinunciare a quella che Cavazzuti criticava come la “cultura dell’emendamento”, vale a dire la presentazione di una miriade di emendamenti particolaristici, di bandiera, omaggi, improbabilmente coronati da successo, a associazioni di riferimento dei più vari tipi: sociali, culturali, professionali. Anche se fra loro non d’accordo su alcuni aspetti, le opposizioni dovrebbero, sulla falsariga del reddito minimo, concentrarsi sulla stesura di non più di tre o quattro grandi emendamenti sulle tematiche più significative per comunicare agli elettori dove stanno e cosa farebbero una volta al governo. Al momento, non vedo nulla di questo.

Pubblicato il 30 agosto 2023 su Domani

Ma la destra di oggi non è la sua #Berlusconi Formiche 193 #Rivista @formichenews

Su un punto non può esserci nessun disaccordo: Berlusconi ha “sdoganato” l’allora Movimento Sociale Italiano con la famosa frase pronunciata all’inaugurazione di un suo supermercato a Casalecchio, Bologna nel novembre 1993: “se fossi un elettore di Roma voterei Fini”. E il giorno dopo “la Repubblica” di Scalfari titolò: Il Cavaliere nero. Poi, seguì la decisione più importante, quella in occasione delle fatidiche elezioni politiche del marzo 1994 di costruire una duplice coalizione. Nei collegi uninominali del Nord Forza Italia si alleava con la Lega di Bossi: Polo della Libertà; nei collegi del centro-Sud l’alleanza, Polo del Buongoverno, Forza Italia la fece con il MSI diventato Alleanza Nazionale, grazie all’intelligenza politica del suo leader Gianfranco Fini consigliato da Domenico Fisichella. Di tanto in tanto Berlusconi sottolineava che era lui farsi garante degli ex-missini postfascisti e, in effetti, l’egemonia politica sulla coalizione dei tre partiti ai quali poi si aggiunsero molti democristiani di destra e alcuni socialisti fu sempre sua. Fu per l’appunto une egemonia sostanzialmente politica, di numeri e di potere. Berlusconi aveva bisogno di quei voti e sapeva ricompensarli con seggi parlamentari e cariche ministeriali, generosamente. In cambio, ovviamente e giustamente, pretendeva disciplina e sostegno, anche ammirazione, e non critiche e prese di distanze. Avesse o no ragione Fini era irrilevante, ma il suo dissenso frantumava il patto mai formalmente esplicitato, sempre sostanzialmente praticato.

   L’egemonia politica di Berlusconi sui suoi alleati non fu mai tradotta anche in egemonia culturale. In verità, il berlusconismo, impasto di elementi antipolitici, di modelli televisivi di costume e di vita, di libertà come elusione delle regole, era, e rimane, più che un progetto, la conseguenza della visione di Berlusconi contrapposta a quel che parte della sinistra riteneva doveroso e praticava senza peraltro sapere più teorizzare. La destra non riceveva quindi nessuno stimolo, nessuna indicazione, nessun incoraggiamento all’ammodernamento della sua cultura post-fascista. Sminuire il significato del 25 aprile senza sostituirlo con una elaborazione storica, politica, sociale per l’Italia di fine secolo e oltre, era/fu un’operazione di corto respiro per conquistare qualche voto, qualche pancia, non qualche mente. La destra ne traeva limitati vantaggi, ma cambiava nel profondo dove Fini cercò di lavorare, ma, infine, perse e venne espulso, escluso.

I quattro aggettivi “inventati” da Berlusconi per definire la cultura politica di Forza Italia: liberale, cristiana, garantista, europeista, sono tutti discutibili e, al tempo stesso, sostanzialmente estranei alla destra italiana come l’abbiamo conosciuta. Delineano sicuramente una cultura politica moderna, non conservatrice, esistente in qualche schieramento e partito delle democrazie occidentali, ma che non abita affatto in Italia. Qualche spezzone di quella cultura politica ha fatto capolino in Forza Italia attraverso il reclutamento di alcuni parlamentari e la loro non lunga parabola. Nessuno di quegli elementi ha neppure lambito la destra che oggi si riconosce e esprime in Fratelli d’Italia e nella loro leader. Conservatrice (e riformista), non interessata all’esibizione di un popolarismo neppure di facciata, incline all’imposizione dell’ordine piuttosto che delle “garanzie”, non europeista, ma sovranista, la destra italiana non è per nulla debitrice in termini culturali ai valori enunciati, ma poco praticati e quasi nulla predicati da Berlusconi e dai suoi collaboratori fra i quali da tempo non figurano più gli elaboratori di idee. L’unico lascito per la destra che può essere attribuito a Berlusconi è quello che la loro partecipazione al governo non implicava danni e conseguenze negative che lui non avrebbe tollerato. Senza allarmismi va rilevato che nella configurazione del governo Meloni non esiste più quel contrappeso che Forza d’Italia di Berlusconi era in grado di garantire.

Formiche 193, luglio 2023, pp. 72-73

Quella discesa in campo sulle macerie della Repubblica @DomaniGiornale

Tra la fine del 1993 e l’inizio del 1994, Silvio Berlusconi ha cambiato la politica italiana in maniera irreversibile. Sfruttando le opportunità aperte dal crollo del sistema dei partiti e dall’inchiesta Mani Pulite, e utilizzando al meglio le sue competenze e conoscenze, Berlusconi ha effettuato un’irruzione immediatamente vittoriosa sulla scena politica italiana come non era mai riuscito a nessun partito europeo nel secondo dopoguerra. Il non improponibile paragone con il Generale de Gaulle deve tenere conto che associazioni golliste erano a lungo state operative prime del 1958. Vale anche per dichiarare subito che Berlusconi non riuscì nella impresa della Grande Riforma che, invece, de Gaulle, più e meglio preparato, tradusse molto brillantemente nella Quinta Repubblica francese.

   Il Movimento Politico “Forza Italia” è stato il primo partito personale e personalizzato. Totalmente dipendente dalle risorse del suo fondatore, per qualche tempo, Forza Italia poté utilizzare il carisma di Silvio Berlusconi. Da Max Weber abbiamo imparato che Berlusconi scese in campo nel momento giusto, in una situazione di ansietà collettiva, con numerosi ceti italiani rimasti privi di rappresentanza politica per la scomparsa dei loro logori referenti partitici, e assolutamente impauriti dalla prospettiva di una vittoria delle sinistre, cioè, lo dirò, berlusconianamente, dei comunisti, degli ex-comunisti, dei post-comunisti. A questi ceti Berlusconi ricordò di avere avuto successo in tutti i settori nei quali si era cimentato: edilizia, televisione, calcio, e che non esisteva nessuna ragione per la quale non avrebbe dovuto avere successo anche in politica. D’altronde, lui era “l’unto del Signore”. La prova del carisma consiste nell’effettuare miracoli. Sicuramente, la vittoria elettorale del marzo 1994, conquistata a due mesi dalla nascita di Forza Italia, costituì un vero e proprio miracolo politico. Fu anche la conseguenza di un altro cambiamento molto significativo: lo “sdoganamento”, come si scrisse con terminologia che rimane brutta, da lui effettuato del Movimento Sociale Italiano. La legittimazione dell’estrema destra neo-fascista e il suo coinvolgimento nel governo del paese sono elementi di cui i vertici del gruppo dirigente dell’allora MSI, poi promossi a molte cariche, ancora godono. Tecnicamente, con modalità diverse, i due partiti anti-sistema della prima fase della Repubblica italiana, furono costretti a trasformarsi più o meno profondamente, con maggiore o minore successo.

Fin da subito, anche in questo approfittando della situazione completamente nuova prodotta dalla Legge elettorale Mattarella, Berlusconi comprese i vincoli e le opportunità che quella legge imponeva e comportava. Non fu lui a inventare il bipolarismo, ma la sua capacità/necessità di costruire coalizioni che si candidavano al governo obbligò gli esponenti del centro-sinistra a fare altrettanto, a costruire l’altro polo. Un misto di sopravvalutazione del proprio rimanente consenso e di sottovalutazione delle nuove clausole elettorali portò gli ex-democristiani a non cercare alleanze prima del voto e agevolò decisivamente la vittoria del Polo della Libertà e del Polo del Buongoverno.

   Quella vittoria fu dovuta, in parte molto consistente, non in maniera assoluta, come sostennero consolatoriamente troppi esponenti del centro-sinistra alla televisione che, pure, ovviamente, ebbe un ruolo. Nel dibattito con Achille Occhetto, convinto del prevalere delle sue competenze politiche, Berlusconi emerse sostanzialmente vittorioso proprio perché seppe usare il “mezzo” meglio del suo oppositore. Altri strumenti Berlusconi introdusse innovativamente nelle campagne elettorali e nella politica italiana: il ricorso periodico e sistematico ai sondaggi, ma, soprattutto, l’uso di focus groups per capire meglio le preferenze di specifici settori dell’elettorato, a cominciare dalle casalinghe e dai ceti medi e le “partite IVA”. Il partito personale diventò in questo modo anche, come alcuni politologi avevano per tempo previsto, un partito elettorale-professionale che si dotava di tutti gli strumenti disponibili per il marketing, non soltanto politico e li utilizzava con maestria. Partiti che non avevano saputo rinnovare e aggiornare le loro fatiscenti ideologie non potevano trovare elettori abbastanza sensibili alle loro pretese di fare politica con valori. Tanti erano stati plasmati dai programmi dell’entertainment berlusconiano penetrato in profondità nella (in)cultura di massa.

La straordinariamente efficace forma di comunicazione della discesa in campo dell’imprenditore di successo con una video-cassetta è stata in seguito oggetto di imitazione, ma non di non altrettanta incidenza. Addirittura, l’incipit berlusconiano “L’Italia è il paese che amo” si trova replicato quasi verbatim nel Manifesto dei Valori del Partito Democratico nel 2007: “Noi, democratici, amiamo l’Italia”. Questa solenne affermazione contiene evidentemente elementi nazionalistici facilmente traducibili in slogan come “Prima gli Italiani” che nessun uomo politico repubblicano aveva mai fatto suoi prima del 1994. Tentare la combinazione di un sano patriottismo con un europeismo virtuoso non fu mai un obiettivo prioritario per Berlusconi. Anzi, la decrescita del grado di appoggio e di approvazione delle istituzioni europee fra gli elettori italiani comincia proprio con Berlusconi, dal suo euroscetticismo e dalle sue critiche all’Europa rea di fare valere regole comuni agli Stati-membri. Oggi che Forza Italia è europeista, sono Meloni e Salvini con i loro elettorati a essere beneficiati da quegli atteggiamenti e comportamenti di tempo fa. 

   La persona di Berlusconi ha a lungo incarnato il conflitto di interessi che intercorre fra i molti interessi privati dell’imprenditore e le decisioni pubbliche che deve prendere l’uomo di governo. Qui non interessa tanto la blandissima regolamentazione introdotta dalle legge Frattini quanto il rapporto fra il conflitto di interessi e la tanto sbandierata e spesso rimpianta rivoluzione liberale che molti commentatori del Corriere della Sera sostennero essere un obiettivo, forse il massimo, perseguito da Berlusconi. Come un duopolista, nel settore della comunicazione televisiva, proprietario di grandi aziende potesse “liberalizzare” il sistema economico italiano è un mistero non glorioso che non c’è bisogno di rivelare. D’altronde, i pochi parlamentari definibili come liberali che Berlusconi fece eleggere in Parlamento non furono rondini che annunciassero l’avvento di una primavera di bellezza nel sistema sociale, economico e politico italiano.    Da ultimo, aspetto totalmente trascurato dai commentatori e dagli studiosi, Berlusconi fu per necessità, ma anche per scelta, l’inventore dei governi che non chiamo tecnici, ma “non-politici”. Nessuna elezione trasforma un imprenditore in un politico, né Berlusconi, giustamente, accettò mai questa qualifica. Il primo governo formato da Berlusconi è una compagine nella quale i non-politici si stagliano sui pochi politici per di più non collocati nei ministeri più importanti. Non provenivano dal mondo della politica Antonio Martino Ministro degli Esteri, Giulio Tremonti alle Finanze, Lamberto Dini al Tesoro, Cesare Previti alla Difesa, Stefano Podestà all’Università e Istruzione, Domenico Fisichella ai Beni Culturali e Giuliano Urbani alla Funzione Pubblica. Nessuno di loro aveva mai avuto prima d’allora cariche politiche. In qualche modo, tutti i governi non politici che seguirono da Dini a Monti e a Draghi sono debitori alla filosofia “non politica” che stava a fondamento del primo governo Berlusconi: la società civile ne sa molto più dei politici “di professione”. Questa filosofia politica ha avuto enorme successo, come dimostra la polemica anti-Casta alimentata, forse non del tutto deliberatamente dal Corriere della Sera, e cavalcata da molti giornalisti. Qui, sta l’ultimo lascito berlusconiano nella politica italiana: incomprimibili tratti di populismo secondo i quali chi ha i voti ha acquisito il diritto di comandare travolgendo la separazione dei poteri e l’autonomia del Parlamento e del sistema giudiziario.

Pubblicato il 13 giugno 2023 su Domani

Garibaldi ha scritto un sms a Pasquino. Ecco cosa dice @formichenews

In tutti i governi di coalizione le tensioni sono fisiologiche. Ma alleati e competitor dovrebbero cominciare a preoccuparsi delle elezioni europee della primavera del 2024, e degli appoggi più o meno sovranisti che Meloni sta già trovando… Il commento di Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza politica

La notizia è che, letti i giornali sul suo Black Berry, Giuseppe Garibaldi mi ha mandato un sms assicurandomi che l’Italia è già stata fatta e che non saranno né Calderoli né Ronzulli a disfarla. Ha aggiunto che nutre qualche timore in più sui comportamenti dei balneari e dei distributori. Più che europeista molto ante litteram, anzi globalista di sinistra, ma non ditelo al Ministro Sangiuliano, l’eroe dei due mondi sostiene anche che i bastoni fra le ruote del governo Meloni non sono soltanto quelli messi da alcuni forzitalioti in cerca di sopravvivenza e da Salvini in cerca di se stesso prima del Papeete, ma quelli che si trovano in proposte elettoralistiche imbarazzanti sulle quali adesso bisogna che il governo Meloni faccia marcia indietro. Lo ho scritto con grande nettezza Emanuele Felice (Come si evolverà la destra di governo, in “Domani” 15 gennaio 2023). Da italiano che ne ha viste tante, rimanendo con la schiena diritta e rifiutando di farsi ingabbiare nello spoils system, Garibaldi afferma che in tutti i governi di coalizione le tensioni sono fisiologiche. L’opposizione fa il suo mestiere a esagerarne l’importanza, ma la sorpresina è che, denunciando i nervosismi degli alleati, la Presidente del Consiglio un po’ li mette alla berlina un po’ li disinnesca. Questa strategia funzionerà poiché né Forza Italia né la Lega sanno dove andare.

   Ciò detto, poiché da Caprera si riesce a vedere molto lontano, all’orizzonte si stagliano due momenti della verità. Il primo è costituito dalle riforme costituzionali; il secondo dalle elezioni per l’Europarlamento. Combinare l’autonomia differenziata con il semi-presidenzialismo finora indefinito non sarà un giochino da ragazzi poco esperti. Spiegare ad una parte almeno degli elettori patrioti che approfondire i solchi, non quelli tracciati dall’aratro, del regionalismo, rafforza la Patria, richiederà più di qualche conferenza stampa a reti unificate. Quanto al semi-presidenzialismo, l’unica certezza è che gli oppositori stanno dimostrando di non sapere cosa contrapporvi se non allarmismi e formule inesistenti e sbagliate: Sindaco d’Italia o Premierato, di recente diventato flessibile, ma sempre immaginario. Poi toccherà all’elettorato nel quale sicuramente Meloni sembra fare molta più breccia di qualunque competitor.

   Alleati e competitor dovrebbero altresì cominciare a preoccuparsi delle elezioni europee della primavera del 2024 e degli appoggi più o meno sovranisti che Meloni sta già trovando. Una coalizione fra Popolari arrendevoli e Conservatori arrembanti sembra destinata, sulla base di loro varie avanzate elettorali nazionali, ad avere successo. Però, disfare l’Europa, ovvero ridimensionare  le aree di collaborazione, non soltanto non servirà a fare né l’Italia né gli italiani, ma avrà contraccolpi pesanti sull’economia. Allora, davvero, finirà per tutti la pacchia.

Pubblicato il 15 gennaio 2023 su Formiche.net

Calenda – Meloni, un incontro che non si doveva fare

L’incontro chiesto dal sen. Calenda, capo del partito Azione, e gentilmente concesso dalla Presidente del Consiglio Meloni si presta a molte considerazioni di metodo e di merito non tutte positive. Se l’oggetto era sostanzialmente la Legge di Bilancio e le eventuali correzioni, allora la sede non doveva essere Palazzo Chigi, ma il Parlamento. In una democrazia parlamentare qualsiasi confronto e qualsiasi accordo, ma anche i contrasti e le prese di distanza debbono avvenire in Parlamento. La sovranità del popolo, Meloni dovrebbe saperlo, si esprime attraverso i suoi rappresentanti in Parlamento. Inoltre, in Parlamento la discussione è aperta a tutti, visibile e gli accordi/disaccordi sono destinati ad essere trasparenti. In questo modo, il “popolo”, la nazione vengono informati, imparano, saranno in grado di valutare quanto proposto, eventualmente accettato dal governo e dalla sua maggioranza e, presumibilmente spesso, respinto con quali motivazioni. In Parlamento si dipana la conversazione politica che è il sale della democrazia.

   Dunque, Calenda e Meloni hanno scelto il metodo sbagliato che, in qualche modo, è destinato a destare legittimi sospetti sulla disponibilità di Calenda a sostenere alcune scelte di Meloni e sulla disponibilità di Meloni a reciprocare con cosa non so. Cronisti dei lavori parlamentari sapranno raccontarci di scambi più o meno sorprendenti. Andranno quegli scambi a migliorare la Legge di Bilancio? Se i miglioramenti sono conformi sia alle politiche volute dalla Presidente del Consiglio sia agli interessi di Calenda che, in teoria, dovrebbe essere (stare?) all’opposizione, sarà indispensabile valutare i costi di quegli accordi per il Bilancio dello Stato ovvero per le tasche, vado sul politichese, degli italiani.

   Calenda accusa le opposizioni del PD e del Movimento 5 Stelle di preconcetti e di rigidità che le renderanno sterili e non porteranno nulla di buono a coloro, persone e imprese, che le hanno votate. Non si vede il fondamento di questa accusa che potrà essere verificata soltanto sugli emendamenti che verranno introdotti in Parlamento e sulle argomentazioni dalle quali saranno accompagnati e sostenuti. Molto spesso Meloni ha rivendicato la novità dell’esistenza di “una maggioranza chiara, un programma comune e un mandato popolare”. Il suo incontro con Calenda segnala la possibilità che nella maggioranza esistano tensioni oscure che sono particolarmente sentite da Forza Italia, che non tutti gli elementi programmatici sono davvero condivisi, e allora, forse, supplirà Calenda, e che il mandato popolare ottenuto dal centro-destra possa essere ritoccato grazie a qualche apporto centrista. Insomma, da un lato, ai propri fini di visibilità e forse anche di egocentrismo, e, dall’altro, con l’obiettivo di avere una carta in più da giocare nei momenti di possibile difficoltà, rispettivamente Calenda e Meloni finiscono per favorire il ritorno di una politica di confusione nei ruoli e nelle responsabilità. Un ritorno che preferiremmo non vedere.      

Pubblicato GEDI il 1° dicembre 2022

Le inadeguatezze politiche e identitarie delle opposizioni @DomaniGiornale

Come reagire di fronte alle politiche del governo di destra-centro? (In)comprensibilmente, le opposizioni stanno già dando immediata prova della loro inadeguatezza. Il governo Meloni prosegue in alcune scelte preannunciate dal governo Draghi, ad esempio, il reintegro del personale sanitario NoVax (pochi medici molti infermieri e collaboratori vari), le opposizioni si esercitano sulla critica invece di portare elementi e dati a sostegno di una politica di maggiore cautela. Il governo mette in cima alle sue priorità l’ordine pubblico (gestione e conclusione senza violenza del rave party di Modena), le opposizioni spostano, anche giustamente, l’attenzione sulla marcia di Predappio da loro poco o nulla contrastata nel passato. Il governo Meloni emana decreti, le opposizioni con la coda di paglia non denunciano la decretazione d’urgenza su tematiche sulle quali è lecito chiedere il passaggio parlamentare e sfidare la compattezza della maggioranza. Non so se possono spingermi fino a ricordare a mio rischio e pericolo al Presidente Mattarella che i decreti debbono essere omogenei come materia e che l’omogeneità non può essere data dall’urgenza, peraltro dubbia e talvolta procurata ad arte. Le opposizioni che denunciano le politiche “identitarie” pensano, forse, che l’elettorato di Fratelli d’Italia e della Lega (l’identità di Forza Italia mi è sfuggita da tempo) non apprezzi esattamente gli elementi che fanno di quei due partiti qualcosa di molto lontano e molto diverso dal PD, soprattutto, ma anche, nell’ordine, dal Movimento di Conte e dalle Azioni (proto: al plurale!) di Calenda e di Renzi? E che siano proprio le pallide/issime identità delle opposizioni, a cominciare da quella del Partito Democratico, uno dei loro problemi, quasi il principale? In effetti, il problema principale delle opposizioni è che continuano nella loro campagna elettorale permanente stando nel loro recinto ovvero cercando strapparsi reciprocamente qualche spazio e qualche voto a futura memoria, criticandosi, invece di individuare i punti di contatto e di collaborazione possibile e facendo leva su di loro.   

Nelle sue diverse uscite pubbliche, la Presidente Meloni ha richiamato la sua maggioranza alla “compattezza e alla lealtà”. I numeri delle varie votazioni finora avvenute la hanno sicuramente confortata. Forse ha anche sorriso (cosa che agli arcigni oppositori, alcuni dei quali assolutamente privi di sense of humour non riesce proprio) di fronte all’attivismo in parte folkloristico in parte patetico di Salvini che corre sempre a dichiarare per primo. Il body language di Giorgia Meloni rivela una quasi assoluta sicurezza di essere in controllo della sua maggioranza. Vero: non è “ricattabile”. Vale la pena di perdere tempo e fiato per tentare di spingerla all’indietro in un passato che non fa fatica a dichiara che non le appartiene? Si guadagnano voti e si incrina la maggioranza con il richiamo di una storia che probabilmente la maggioranza degli italiani non conosce a sufficienza e certo reputa meno inquietante del prezzo del gas e del costo del carrello della spesa? No, il governo Meloni non cadrà e non cambierà linea leggendo i tweet di Letta, Conte e Calenda e neanche quelli del manovriero Renzi. In una democrazia parlamentare una opposizione intelligente sposta la battaglia nelle Commissioni e nelle aule del Parlamento. Si attrezza per il controllo di quello che il governo fa, non fa (sic), fa male e per la controproposta che farà ossessivamente circolare sui mass media grazie ai suoi intellettuali da talk show e nelle circoscrizioni elettorali grazie ai suoi molti parlamentari paracadutati/e.

Pubblicato il 2 novembre 2022 su Domani

Il neo Presidente La Russa ha ringraziato apertamente i senatori della minoranza che lo hanno votato.  Vicepresidenze delle Camere e delle Commissioni ci diranno poi chi erano i destinatari di quei ringraziamenti

I ringraziamenti espliciti, quasi plateali rivolti dal neo-eletto Presidente del Senato Ignazio La Russa ai senatori/senatrici che non fanno parte della maggioranza per averlo votato mandano due segnali politicamente molto significativi. Da un lato, comunicano a quei senatori/senatrici che sono benvenuti e che, quando ci sarà l’occasione, saranno adeguatamente ricompensati. Che i loro voti, palesi e segreti, continueranno ad essere più che bene accetti. In estrema sintesi, dietro l’angolo è nata quella che potremmo definire una maggioranza eventuale. Dall’altro, le parole del Presidente La Russa fanno sapere a Berlusconi, che ha imposto la scheda bianca/astensione ai parlamentari di Forza Italia, che i “buchi” da lui/loro lasciati possono essere riempiti rapidamente e in maniera abbondante con appoggi esterni. In un modo da non sottovalutare, i ringraziamenti di La Russa indeboliscono grandemente il potere di ricatto che Berlusconi strenuamente tentava di utilizzare sulla formazione del governo Meloni con la richiesta di un Ministero importante per la sua fedelissima (parola non mia di cui confesso non capire fino in fondo il significato) Licia Ronzulli.

   Per quel che riguarda il centro-destra, il resto, vale a dire altre trame, vantaggi, reazioni, altri ricatti, altre convergenze più o meno inaspettate, lo si vedrà quando (e se) e con quanti voti verrà eletto il Presidente della Camera, che dovrebbe essere un deputato della Lega. Chi siano i senatori/senatrici che più o meno generosamente hanno deciso l’elezione di La Russa precisamente non lo sappiamo. Tuttavia, potremo avere qualche elemento conoscitivo e esplicativo in più, forse persino decisivo, quando verranno eletti gli uffici di Presidenza della Camera e del Senato.

   Partito Democratico e Movimento 5 Stelle, in quanto rappresentanti i due gruppi più numerosi non hanno nessuna intenzione di cedere le vicepresidenze a Azione. Dunque, se il voto segreto premiasse un candidato/a espressione dell’area Calenda-Renzi diventerà fin troppo facile sostenere che si è prodotto uno scambio. La moralità non è il terreno su cui si fonda la politica né in Italia né, in maniera minore, altrove. Molte altre cariche istituzionali sono disponibili a cominciare dalle prestigiose e potenti Presidenze delle Commissioni. Altri scambi sono possibili e probabili dai quali, però, le opposizioni in ordine sparso risulteranno inevitabilmente e imprevedibilmente indebolite.

Al tempo stesso, però, l’imminente governo del centro-destra avrà al suo interno una componente (Forza Italia) amaramente insoddisfatta, non convinta, a meno di avere ottenuto molto nella formazione del governo, dell’obbligo politico di agire in maniera disciplinata e solidale. Poiché sono note anche le mire di Salvini per un Ministero, gli Interni, per il quale la Presidente del Consiglio in pectore ha già fatto sapere di preferire un’altra, non specificata, personalità, se ne può concludere che sul governo Meloni già si addensano non pochi pesanti nuvoloni.

Pubblicato AGL il 14 ottobre 2022

Come fare un buongoverno con il venerabile Manuale Cencelli

Il silenzio di Giorgia Meloni e il suo attendismo sul discutere i nomi dei ministri prossimi venturi sono una buona strategia, raccomandabile anche ai troppi commentatori di lungo corso che si stanno esibendo in poco originali critiche al famoso/famigerato Manuale Cencelli. Per valutare e eventualmente per criticare, meglio tornare ai principi fondamentali sui quali si costruiscono i governi di coalizione. Ai partiti che ne fanno parte viene attribuito un certo numero di ministeri con riferimento ai voti che hanno ottenuto, ma anche al peso e all’importanza dei Ministeri che, sottolineo, il Manuale Cencelli indicava con accurata precisione. Su questo piano, è evidente che Fratelli d’Italia avrà, oltre alla carica di Presidente del Consiglio, anche almeno altre tre o quattro Ministeri importanti. Un ministero importante ciascuno spetterà alla Lega e a Forza Italia. Quali ministeri dipende da valutazioni politiche molto complesse. Farò pochi, ma rivelatori, esempi. Il primo riguarda l’Europa.

   Per mandare un segnale non troppo sovranista, Meloni potrebbe nominare Ministro degli Esteri un esponente di Forza Italia che è il partito europeista della sua coalizione. I contrappesi potrebbero essere i due sottosegretari e, eventualmente, un esponente di Fratelli d’Italia a Ministro dei Rapporti con l’Europa. Sappiamo noi e sa Meloni che sull’europeismo fortissima è la vigilanza del Presidente della Repubblica che l’ha già clamorosamente esercitata (e che l’anticiperebbe anche in maniera confidenziale per telefono!) All’Economia e alla Transizione ecologica dovranno certamente andare due persone di riconosciuta competenza. Meloni è tutt’altro che incline a fare affidamento su ministri “tecnici”, ma in questo caso potrebbe essere costretta a fare una eccezione o due a meno che ricorra a qualcuno non parlamentare che ha già ricoperto la carica di Ministro. Lei stessa molto critica del reddito di cittadinanza vorrà nominare al Lavoro qualcuno che ne attui una profonda revisione. Infine, se le è giunta la preoccupazione di alcuni ambienti esteri sulla inclinazione dei sovranisti ungheresi e polacchi a controllare (manipolare) la magistratura e le università, quei ministri dovranno essere al disopra di ogni sospetto, ma i nomi che al momento circolano, proposti anche dalla Lega, proprio non lo sono.

   Il Manuale Cencelli prevedeva giustamente di includere nell’assegnazione delle cariche anche le Presidenza di Camera e Senato. È possibile sostenere che almeno una di quelle cariche vada, come segno di distensione, a un esponente dell’opposizione che, però, a causa delle sue divisioni e conflittualità, è legittimo pensare non sarebbe in grado di farne un uso benefico per il buon funzionamento delle istituzioni. Combinare competenza e esperienza per un partito che per la prima volta si affaccia al governo della Nazione (della Patria) non sarà facile. Mi rimane un interrogativo, mai preso in considerazione dal Manuale Cencelli: la donna Meloni si orienterà anche verso la parità di genere? 

Pubblicato AGL il 30 settembre 2022