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Garibaldi ha scritto un sms a Pasquino. Ecco cosa dice @formichenews

In tutti i governi di coalizione le tensioni sono fisiologiche. Ma alleati e competitor dovrebbero cominciare a preoccuparsi delle elezioni europee della primavera del 2024, e degli appoggi più o meno sovranisti che Meloni sta già trovando… Il commento di Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza politica

La notizia è che, letti i giornali sul suo Black Berry, Giuseppe Garibaldi mi ha mandato un sms assicurandomi che l’Italia è già stata fatta e che non saranno né Calderoli né Ronzulli a disfarla. Ha aggiunto che nutre qualche timore in più sui comportamenti dei balneari e dei distributori. Più che europeista molto ante litteram, anzi globalista di sinistra, ma non ditelo al Ministro Sangiuliano, l’eroe dei due mondi sostiene anche che i bastoni fra le ruote del governo Meloni non sono soltanto quelli messi da alcuni forzitalioti in cerca di sopravvivenza e da Salvini in cerca di se stesso prima del Papeete, ma quelli che si trovano in proposte elettoralistiche imbarazzanti sulle quali adesso bisogna che il governo Meloni faccia marcia indietro. Lo ho scritto con grande nettezza Emanuele Felice (Come si evolverà la destra di governo, in “Domani” 15 gennaio 2023). Da italiano che ne ha viste tante, rimanendo con la schiena diritta e rifiutando di farsi ingabbiare nello spoils system, Garibaldi afferma che in tutti i governi di coalizione le tensioni sono fisiologiche. L’opposizione fa il suo mestiere a esagerarne l’importanza, ma la sorpresina è che, denunciando i nervosismi degli alleati, la Presidente del Consiglio un po’ li mette alla berlina un po’ li disinnesca. Questa strategia funzionerà poiché né Forza Italia né la Lega sanno dove andare.

   Ciò detto, poiché da Caprera si riesce a vedere molto lontano, all’orizzonte si stagliano due momenti della verità. Il primo è costituito dalle riforme costituzionali; il secondo dalle elezioni per l’Europarlamento. Combinare l’autonomia differenziata con il semi-presidenzialismo finora indefinito non sarà un giochino da ragazzi poco esperti. Spiegare ad una parte almeno degli elettori patrioti che approfondire i solchi, non quelli tracciati dall’aratro, del regionalismo, rafforza la Patria, richiederà più di qualche conferenza stampa a reti unificate. Quanto al semi-presidenzialismo, l’unica certezza è che gli oppositori stanno dimostrando di non sapere cosa contrapporvi se non allarmismi e formule inesistenti e sbagliate: Sindaco d’Italia o Premierato, di recente diventato flessibile, ma sempre immaginario. Poi toccherà all’elettorato nel quale sicuramente Meloni sembra fare molta più breccia di qualunque competitor.

   Alleati e competitor dovrebbero altresì cominciare a preoccuparsi delle elezioni europee della primavera del 2024 e degli appoggi più o meno sovranisti che Meloni sta già trovando. Una coalizione fra Popolari arrendevoli e Conservatori arrembanti sembra destinata, sulla base di loro varie avanzate elettorali nazionali, ad avere successo. Però, disfare l’Europa, ovvero ridimensionare  le aree di collaborazione, non soltanto non servirà a fare né l’Italia né gli italiani, ma avrà contraccolpi pesanti sull’economia. Allora, davvero, finirà per tutti la pacchia.

Pubblicato il 15 gennaio 2023 su Formiche.net

Calenda – Meloni, un incontro che non si doveva fare

L’incontro chiesto dal sen. Calenda, capo del partito Azione, e gentilmente concesso dalla Presidente del Consiglio Meloni si presta a molte considerazioni di metodo e di merito non tutte positive. Se l’oggetto era sostanzialmente la Legge di Bilancio e le eventuali correzioni, allora la sede non doveva essere Palazzo Chigi, ma il Parlamento. In una democrazia parlamentare qualsiasi confronto e qualsiasi accordo, ma anche i contrasti e le prese di distanza debbono avvenire in Parlamento. La sovranità del popolo, Meloni dovrebbe saperlo, si esprime attraverso i suoi rappresentanti in Parlamento. Inoltre, in Parlamento la discussione è aperta a tutti, visibile e gli accordi/disaccordi sono destinati ad essere trasparenti. In questo modo, il “popolo”, la nazione vengono informati, imparano, saranno in grado di valutare quanto proposto, eventualmente accettato dal governo e dalla sua maggioranza e, presumibilmente spesso, respinto con quali motivazioni. In Parlamento si dipana la conversazione politica che è il sale della democrazia.

   Dunque, Calenda e Meloni hanno scelto il metodo sbagliato che, in qualche modo, è destinato a destare legittimi sospetti sulla disponibilità di Calenda a sostenere alcune scelte di Meloni e sulla disponibilità di Meloni a reciprocare con cosa non so. Cronisti dei lavori parlamentari sapranno raccontarci di scambi più o meno sorprendenti. Andranno quegli scambi a migliorare la Legge di Bilancio? Se i miglioramenti sono conformi sia alle politiche volute dalla Presidente del Consiglio sia agli interessi di Calenda che, in teoria, dovrebbe essere (stare?) all’opposizione, sarà indispensabile valutare i costi di quegli accordi per il Bilancio dello Stato ovvero per le tasche, vado sul politichese, degli italiani.

   Calenda accusa le opposizioni del PD e del Movimento 5 Stelle di preconcetti e di rigidità che le renderanno sterili e non porteranno nulla di buono a coloro, persone e imprese, che le hanno votate. Non si vede il fondamento di questa accusa che potrà essere verificata soltanto sugli emendamenti che verranno introdotti in Parlamento e sulle argomentazioni dalle quali saranno accompagnati e sostenuti. Molto spesso Meloni ha rivendicato la novità dell’esistenza di “una maggioranza chiara, un programma comune e un mandato popolare”. Il suo incontro con Calenda segnala la possibilità che nella maggioranza esistano tensioni oscure che sono particolarmente sentite da Forza Italia, che non tutti gli elementi programmatici sono davvero condivisi, e allora, forse, supplirà Calenda, e che il mandato popolare ottenuto dal centro-destra possa essere ritoccato grazie a qualche apporto centrista. Insomma, da un lato, ai propri fini di visibilità e forse anche di egocentrismo, e, dall’altro, con l’obiettivo di avere una carta in più da giocare nei momenti di possibile difficoltà, rispettivamente Calenda e Meloni finiscono per favorire il ritorno di una politica di confusione nei ruoli e nelle responsabilità. Un ritorno che preferiremmo non vedere.      

Pubblicato GEDI il 1° dicembre 2022

Le inadeguatezze politiche e identitarie delle opposizioni @DomaniGiornale

Come reagire di fronte alle politiche del governo di destra-centro? (In)comprensibilmente, le opposizioni stanno già dando immediata prova della loro inadeguatezza. Il governo Meloni prosegue in alcune scelte preannunciate dal governo Draghi, ad esempio, il reintegro del personale sanitario NoVax (pochi medici molti infermieri e collaboratori vari), le opposizioni si esercitano sulla critica invece di portare elementi e dati a sostegno di una politica di maggiore cautela. Il governo mette in cima alle sue priorità l’ordine pubblico (gestione e conclusione senza violenza del rave party di Modena), le opposizioni spostano, anche giustamente, l’attenzione sulla marcia di Predappio da loro poco o nulla contrastata nel passato. Il governo Meloni emana decreti, le opposizioni con la coda di paglia non denunciano la decretazione d’urgenza su tematiche sulle quali è lecito chiedere il passaggio parlamentare e sfidare la compattezza della maggioranza. Non so se possono spingermi fino a ricordare a mio rischio e pericolo al Presidente Mattarella che i decreti debbono essere omogenei come materia e che l’omogeneità non può essere data dall’urgenza, peraltro dubbia e talvolta procurata ad arte. Le opposizioni che denunciano le politiche “identitarie” pensano, forse, che l’elettorato di Fratelli d’Italia e della Lega (l’identità di Forza Italia mi è sfuggita da tempo) non apprezzi esattamente gli elementi che fanno di quei due partiti qualcosa di molto lontano e molto diverso dal PD, soprattutto, ma anche, nell’ordine, dal Movimento di Conte e dalle Azioni (proto: al plurale!) di Calenda e di Renzi? E che siano proprio le pallide/issime identità delle opposizioni, a cominciare da quella del Partito Democratico, uno dei loro problemi, quasi il principale? In effetti, il problema principale delle opposizioni è che continuano nella loro campagna elettorale permanente stando nel loro recinto ovvero cercando strapparsi reciprocamente qualche spazio e qualche voto a futura memoria, criticandosi, invece di individuare i punti di contatto e di collaborazione possibile e facendo leva su di loro.   

Nelle sue diverse uscite pubbliche, la Presidente Meloni ha richiamato la sua maggioranza alla “compattezza e alla lealtà”. I numeri delle varie votazioni finora avvenute la hanno sicuramente confortata. Forse ha anche sorriso (cosa che agli arcigni oppositori, alcuni dei quali assolutamente privi di sense of humour non riesce proprio) di fronte all’attivismo in parte folkloristico in parte patetico di Salvini che corre sempre a dichiarare per primo. Il body language di Giorgia Meloni rivela una quasi assoluta sicurezza di essere in controllo della sua maggioranza. Vero: non è “ricattabile”. Vale la pena di perdere tempo e fiato per tentare di spingerla all’indietro in un passato che non fa fatica a dichiara che non le appartiene? Si guadagnano voti e si incrina la maggioranza con il richiamo di una storia che probabilmente la maggioranza degli italiani non conosce a sufficienza e certo reputa meno inquietante del prezzo del gas e del costo del carrello della spesa? No, il governo Meloni non cadrà e non cambierà linea leggendo i tweet di Letta, Conte e Calenda e neanche quelli del manovriero Renzi. In una democrazia parlamentare una opposizione intelligente sposta la battaglia nelle Commissioni e nelle aule del Parlamento. Si attrezza per il controllo di quello che il governo fa, non fa (sic), fa male e per la controproposta che farà ossessivamente circolare sui mass media grazie ai suoi intellettuali da talk show e nelle circoscrizioni elettorali grazie ai suoi molti parlamentari paracadutati/e.

Pubblicato il 2 novembre 2022 su Domani

Il neo Presidente La Russa ha ringraziato apertamente i senatori della minoranza che lo hanno votato.  Vicepresidenze delle Camere e delle Commissioni ci diranno poi chi erano i destinatari di quei ringraziamenti

I ringraziamenti espliciti, quasi plateali rivolti dal neo-eletto Presidente del Senato Ignazio La Russa ai senatori/senatrici che non fanno parte della maggioranza per averlo votato mandano due segnali politicamente molto significativi. Da un lato, comunicano a quei senatori/senatrici che sono benvenuti e che, quando ci sarà l’occasione, saranno adeguatamente ricompensati. Che i loro voti, palesi e segreti, continueranno ad essere più che bene accetti. In estrema sintesi, dietro l’angolo è nata quella che potremmo definire una maggioranza eventuale. Dall’altro, le parole del Presidente La Russa fanno sapere a Berlusconi, che ha imposto la scheda bianca/astensione ai parlamentari di Forza Italia, che i “buchi” da lui/loro lasciati possono essere riempiti rapidamente e in maniera abbondante con appoggi esterni. In un modo da non sottovalutare, i ringraziamenti di La Russa indeboliscono grandemente il potere di ricatto che Berlusconi strenuamente tentava di utilizzare sulla formazione del governo Meloni con la richiesta di un Ministero importante per la sua fedelissima (parola non mia di cui confesso non capire fino in fondo il significato) Licia Ronzulli.

   Per quel che riguarda il centro-destra, il resto, vale a dire altre trame, vantaggi, reazioni, altri ricatti, altre convergenze più o meno inaspettate, lo si vedrà quando (e se) e con quanti voti verrà eletto il Presidente della Camera, che dovrebbe essere un deputato della Lega. Chi siano i senatori/senatrici che più o meno generosamente hanno deciso l’elezione di La Russa precisamente non lo sappiamo. Tuttavia, potremo avere qualche elemento conoscitivo e esplicativo in più, forse persino decisivo, quando verranno eletti gli uffici di Presidenza della Camera e del Senato.

   Partito Democratico e Movimento 5 Stelle, in quanto rappresentanti i due gruppi più numerosi non hanno nessuna intenzione di cedere le vicepresidenze a Azione. Dunque, se il voto segreto premiasse un candidato/a espressione dell’area Calenda-Renzi diventerà fin troppo facile sostenere che si è prodotto uno scambio. La moralità non è il terreno su cui si fonda la politica né in Italia né, in maniera minore, altrove. Molte altre cariche istituzionali sono disponibili a cominciare dalle prestigiose e potenti Presidenze delle Commissioni. Altri scambi sono possibili e probabili dai quali, però, le opposizioni in ordine sparso risulteranno inevitabilmente e imprevedibilmente indebolite.

Al tempo stesso, però, l’imminente governo del centro-destra avrà al suo interno una componente (Forza Italia) amaramente insoddisfatta, non convinta, a meno di avere ottenuto molto nella formazione del governo, dell’obbligo politico di agire in maniera disciplinata e solidale. Poiché sono note anche le mire di Salvini per un Ministero, gli Interni, per il quale la Presidente del Consiglio in pectore ha già fatto sapere di preferire un’altra, non specificata, personalità, se ne può concludere che sul governo Meloni già si addensano non pochi pesanti nuvoloni.

Pubblicato AGL il 14 ottobre 2022

Come fare un buongoverno con il venerabile Manuale Cencelli

Il silenzio di Giorgia Meloni e il suo attendismo sul discutere i nomi dei ministri prossimi venturi sono una buona strategia, raccomandabile anche ai troppi commentatori di lungo corso che si stanno esibendo in poco originali critiche al famoso/famigerato Manuale Cencelli. Per valutare e eventualmente per criticare, meglio tornare ai principi fondamentali sui quali si costruiscono i governi di coalizione. Ai partiti che ne fanno parte viene attribuito un certo numero di ministeri con riferimento ai voti che hanno ottenuto, ma anche al peso e all’importanza dei Ministeri che, sottolineo, il Manuale Cencelli indicava con accurata precisione. Su questo piano, è evidente che Fratelli d’Italia avrà, oltre alla carica di Presidente del Consiglio, anche almeno altre tre o quattro Ministeri importanti. Un ministero importante ciascuno spetterà alla Lega e a Forza Italia. Quali ministeri dipende da valutazioni politiche molto complesse. Farò pochi, ma rivelatori, esempi. Il primo riguarda l’Europa.

   Per mandare un segnale non troppo sovranista, Meloni potrebbe nominare Ministro degli Esteri un esponente di Forza Italia che è il partito europeista della sua coalizione. I contrappesi potrebbero essere i due sottosegretari e, eventualmente, un esponente di Fratelli d’Italia a Ministro dei Rapporti con l’Europa. Sappiamo noi e sa Meloni che sull’europeismo fortissima è la vigilanza del Presidente della Repubblica che l’ha già clamorosamente esercitata (e che l’anticiperebbe anche in maniera confidenziale per telefono!) All’Economia e alla Transizione ecologica dovranno certamente andare due persone di riconosciuta competenza. Meloni è tutt’altro che incline a fare affidamento su ministri “tecnici”, ma in questo caso potrebbe essere costretta a fare una eccezione o due a meno che ricorra a qualcuno non parlamentare che ha già ricoperto la carica di Ministro. Lei stessa molto critica del reddito di cittadinanza vorrà nominare al Lavoro qualcuno che ne attui una profonda revisione. Infine, se le è giunta la preoccupazione di alcuni ambienti esteri sulla inclinazione dei sovranisti ungheresi e polacchi a controllare (manipolare) la magistratura e le università, quei ministri dovranno essere al disopra di ogni sospetto, ma i nomi che al momento circolano, proposti anche dalla Lega, proprio non lo sono.

   Il Manuale Cencelli prevedeva giustamente di includere nell’assegnazione delle cariche anche le Presidenza di Camera e Senato. È possibile sostenere che almeno una di quelle cariche vada, come segno di distensione, a un esponente dell’opposizione che, però, a causa delle sue divisioni e conflittualità, è legittimo pensare non sarebbe in grado di farne un uso benefico per il buon funzionamento delle istituzioni. Combinare competenza e esperienza per un partito che per la prima volta si affaccia al governo della Nazione (della Patria) non sarà facile. Mi rimane un interrogativo, mai preso in considerazione dal Manuale Cencelli: la donna Meloni si orienterà anche verso la parità di genere? 

Pubblicato AGL il 30 settembre 2022

Meloni vince, ma il rischio è la Lega debole. Parla Pasquino #intervista @formichenews

Ma quale rischio democratico, spiega il prof. Pasquino a Formiche.net, il problema principale per Giorgia Meloni sarà una Lega sotto il 10% che potrebbe scalpitare per far sentire la sua voce. Il Pd? Altro che occhi di tigre, piuttosto piedi di elefante…

Intervista raccolta da Simona Sotgiu

I numeri non sono ancora definitivi, ma non sono incoraggianti. L’affluenza per queste elezioni politiche è di circa 10 punti percentuali in calo rispetto alle politiche del 2018, attestandosi su poco più del 64%. Al di là dell’astensione, il cui dato non fa certo sorridere, è ormai chiara la vittoria del centrodestra a trazione meloniana sul centrosinistra guidato da Enrico Letta.

Formiche.net ha chiesto un commento al professore emerito di scienza politica e accademico dei Lincei Gianfranco Pasquino.

Professore, cosa dice il calo dell’affluenza?

La crescita dell’astensione è fisiologica, cresce da anni, e certamente non riflette quanto, per molti di noi, queste elezioni siano importanti. Il risultato del voto quindi non riflette il senso che tanti cittadini hanno dato a questo voto. Però dice anche che dare per scontato che gli elettori vadano a votare non paga, che immaginare che un candidato forte possa trascinare l’elettorato storico è un ragionamento ormai sbagliato anzi, forse anche controproducente.

Chi premia l’astensione?

L’astensione non premia nessuno e non punisce nessuno, però se pensiamo al partito che storicamente è riuscito a mobilitare di più sicuramente possiamo dire che a rimetterci di più è il Partito democratico. I candidati e le candidate non hanno lavorato abbastanza per portare gli elettori al voto, e l’astensione lo dimostra. Altro che occhi di tigre, direi piuttosto zampe di elefante!

Professore, con la destra al governo c’è davvero il rischio democratico?

Non ho mai condiviso l’idea di far crescere la percezione del rischio per far rifluire gli elettori al voto, e certamente non c’è un rischio democratico all’orizzonte. Ho due timori, comunque, molto concreti con un centrodestra a trazione Meloni al governo.

Iniziamo dal primo…

Il primo timore riguarda la confusione nel centrodestra. Forza Italia con percentuali molto basse rischia di non essere un contrappeso sufficiente rispetto a Fratelli d’Italia molto forte. Una Lega al di sotto delle aspettative, poi, è una mina vagante: per farsi notare farà la voce grossa, e questo sarà un problema per la tenuta unitaria del centrodestra.

Il secondo?

Il secondo riguarda l’approccio che Giorgia Meloni sceglierà di avere con l’Europa. Se farà la sovranista e si porrà con un muro contro muro con l’Ue per l’Italia sarà un problema, e non piccolo.

Pubblicato il 25 settembre 2022 su Formiche.net

Partiti sgangherati e antipolitica Ma chi non vota non è ascoltato #intervista @GiornaleVicenza

«Molti sabati pomeriggio di quel dolce autunno del 1974 a Harvard li passammo a giocare al pallone nel campetto dietro casa. Mario Draghi era spesso con noi, ma certo, giocatore piuttosto lento e poco grintoso, non era il più dotato in quello sport». Ci sono chicche come questa e aneddoti spassosi in “Tra scienza e politica. Un’autobiografia”, il libro di Gianfranco Pasquino edito da Utet e presentato a Pordenonelegge. Un’autobiografia, per un politologo, può sembrare qualcosa di ardito. Ma chi conosce Pasquino, professore emerito di scienza politica all’Università di Bologna, socio dell’Accademia dei Lincei, non si stupisce: la sua storia è un crocevia di incontri e conoscenze che vale la pena trasmettere, non fosse altro che per aver avuto come maestri sia Norberto Bobbio sia Giovanni Sartori.

Professor Pasquino, il Draghi calciatore non era il migliore, ma da premier com’è stato?

Non era il miglior calciatore e non puntava nemmeno ad esserlo (sorride). Ma da premier è stato molto bravo. Altro che “tecnico”… Da giovane non sembrava così interessato alla politica, ma ha dimostrato di aver imparato molto e molto in fretta.

Ora Draghi è stato fatto cadere e si va al voto. Cosa c’è in gioco in queste elezioni?

Quello che davvero entra in gioco è come stare in Europa, è la vera posta. Sappiamo che il Pd è un partito europeista, come +Europa, e che le persone che vengono da quell’area sono affidabili sul tema. Non sappiamo quali sono le persone affidabili nello schieramento di centrodestra, con poche eccezioni. Però sappiamo che sostanzialmente Giorgia Meloni è una sovranista e Salvini forse ancora di più. È difficile che si facciano controllare dai pochi europeisti di Forza Italia: Berlusconi ha detto cose importanti, ma gli altri alleati avranno almeno il doppio del suo consenso.

Perché teme il sovranismo?

Sovranismo vuol dire cercare di riprendere delle competenze che abbiamo affidato consapevolmente all’Europa. Non abbiamo ceduto la sovranità, l’abbiamo condivisa con altri Stati, e loro con noi. Tornare indietro vuol dire avere meno possibilità di incidere sulle decisioni. Alcune cose non potremmo deciderle mai.

Ritiene che la nuova dicotomia politica sia europeismo-sovranismo, più di destra-sinistra?

Non lo dico io: è stato Altiero Spinelli, nel Manifesto di Ventotene, 1941. Spinelli vedeva le cose molto in anticipo rispetto agli altri. D’altronde i singoli Stati europei sulla scena mondiale non conterebbero nulla: la soluzione è dentro l’Europa, altrimenti non possiamo competere né con la Russia né con la Cina e nemmeno con gli Stati Uniti, anche se bisognerebbe avere un rapporto decente con gli Usa.

Come si inserisce la guerra in Ucraina in questa analisi?

Nella guerra in Ucraina c’è uno stato autoritario che ha aggredito una democrazia. E noi non possiamo non stare con la democrazia. Se quello stato autoritario riesce a ottenere ciò che vuole, è in grado di ripeterlo con altri stati vicini. Non a caso Lituania, Estonia e la stessa Polonia sono preoccupatissimi. La Polonia conosce bene i russi e sa che ha bisogno della Nato e dell’Europa.

In Ucraina è in gioco anche la nostra libertà?

Lì si combatte sia per salvare l’Ucraina sia per salvare le prospettive dell’Europa. E un’eventuale sconfitta di Putin potrebbe aprire le porte a una democratizzazione della Russia: sarebbe un passaggio epocale.

A chi sostiene che le responsabilità della guerra siano anche dell’Occidente come risponde?

Non credo che sia vero. Ma tutto è cambiato quando la Russia ha usato le armi. La Costituzione dice che le guerre difensive sono accettabili, le guerre offensive mai.

L’Italia va al voto con una legge elettorale che toglie ogni potere all’elettore. L’hanno voluta tutti i partiti…

L’ha voluta Renzi e l’ha fatta fare a Rosato. Ma l’hanno accettata tutti perché fa comodo ai dirigenti di partito: si ritagliano il loro seggio, si candidano in 5 luoghi diversi, piazzano i seguaci. Aspettare che riformino una legge che dà loro un potere mai così grande è irrealistico. A noi non resta che tracciare una crocetta su qualcosa.

Come sta la democrazia italiana?

Godiamo di libertà: i diritti civili esistono, i diritti politici anche, i diritti sociali sono variegati. Il funzionamento delle istituzioni invece dipende da una variabile: i partiti. Una democrazia buona ha partiti buoni; una democrazia che ha partiti sgangherati, che sono costruzioni personalistiche, che ci sono e non ci sono, inevitabilmente è di bassa qualità. E non possiamo salvarci dicendo “anche altrove”, perché non è vero: i partiti tedeschi e spagnoli sono meglio organizzati, quelli portoghesi e quelli scandinavi pure.

Una democrazia senza partiti non esiste, lei lo insegna.

Una via d’uscita potrebbe essere il presidenzialismo, ma io sono preoccupato di una cosa: chi e come controlla quel potere? Ciò che manca, comunque, è il fatto che i politici predichino il senso civico, che pagare le tasse magari non è bello ma bisogna farlo; che osservare le leggi e respingere la corruzione è cruciale per vivere insieme. Mancano i grandi predicatori politici, tolti Mattarella e in certa misura Draghi.

Vale la pena comunque votare?

Sì, ma non perché “se non voti la politica si occupa comunque di te”. È il contrario: se non voti la politica non si occupa di ciò che ti sta a cuore.

L’affluenza rischia di essere bassa: colpa dei partiti? Dei cittadini? O dei media?

C’è chi dice “non voto perché non voglio” e li capisco, ma chi non vota non conta; e chi dice “non voto perché nessuno me lo ha chiesto”, ed è un problema dei partiti che non hanno motivato l’elettore. E poi gli italiani continuano ad avere questa idea che la politica sia qualcosa di non particolarmente pulito…

Non è così?

Sono alcuni politici a non esserlo. La politica è quello che facciamo insieme: sono tutte cose che devono essere predicate, ma oggi ciascuno pensa al suo tornaconto.

La sinistra ha perso il rapporto con il popolo?

Non sono sicuro che ci sia il popolo, ma so che la sinistra non ha più la capacità di essere presente in alcuni luoghi: se fosse nelle fabbriche sarebbe meglio, se avesse un rapporto vero con i sindacati, se i sindacati facessero davvero una politica progressista…

E il problema della destra qual è?

Il primo è che le destre non sono coese, stanno insieme per vincere ma poi avranno difficoltà a governare. Poi hanno pulsioni populiste, punitive, e poca accettazione dell’autonomia delle donne. E non sono abbastanza europeiste.

Che cosa pensa del voto del Parlamento europeo che condanna l’Ungheria di Orbàn?

Semplicemente Orbàn sta violando le regole della democrazia. Non esistono le “democrazie elettorali”: quando lei reprime le opposizioni, quelle non hanno abbastanza spazio nella campagna elettorale; se espelle una libera università come quella di Soros, lei incide sulla possibilità che circolino le informazioni. Tecnicamente non è già più una democrazia. Non si possono controllare i giudici.

Perché secondo lei FdI e Lega hanno votato per salvare Orbàn? Cioè è possibile smarcare un legittimo sovranismo da questi aspetti che toccano democrazia e stato di diritto?

Secondo me dovevano astenersi. Invece per convenienza loro, per mantenere buoni rapporti con Orbàn, non lo hanno fatto. Per me è un errore. Ma poi mi chiedo: è un errore anche per gli elettori di Meloni? Non lo so.

Il populismo è il linguaggio di quest’epoca. Però la legislatura più populista della storia si è chiusa con Draghi premier, che è l’opposto. Bizzarro, no?

È bizzarro, sì. Ma qui c’è stata un’insorgenza populista. Fino al 2013 non c’era. Ma come è arrivata può scomparire. Resta però un tratto di questo Paese: un atteggiamento di anti-politica e anti-parlamentarismo che può essere controllato solo da partiti in grado di fare politiche decenti. L’esito del voto del 25 settembre è scontato? Non lo è mai. Molti elettori decidono per chi votare nelle ultime 48 ore. Può sempre accadere qualcosa che fa cambiare idea.

Draghi ha detto “no”. Ci crede che non farà più il premier?

Sì(lunga pausa). Aveva investito molto nel Paese, essere sbalzato così è stato pesante: è molto deluso, credo anche incazzato.

Intervista raccolta da Marco Scorzato pubblicata su Il Giornale di Vicenza 22 Settembre 2022

Liste calate dall’alto? Non vale per tutti i partiti #intervista @ilriformista

Il politologo: «Cassese dice che le forze politiche sono diventate oligarchie? Sbagliato generalizzare. Realtà come il Pd hanno scelto i candidati anche in base a competenze importanti. Giudicherà chi vota» Intervista raccolta da Umberto De Giovannangeli

Tra gli scienziati della politica italiani, Gianfranco Pasquino è tra i più accreditati. Professore emerito di Scienza politica nell’Università di Bologna, dal 2005 socio dell’Accademia dei Lincei. Tra le sue numerose pubblicazioni, ricordiamo la più recente: Tra scienza e politica. Una autobiografia (Utet, 2002).

“Il modo in cui si sono formate le liste è un’ulteriore dimostrazione del carattere oligarchico del nostro sistema politico”. Così Sabino Cassese in una intervista a questo giornale. Lei come la vede?

Le liste vengono formate in maniera molto diversa da partito a partito. Non sono in grado di generalizzare e non vado alla ricerca di modalità democratiche, modalità oligarchiche etc. Parlerei piuttosto di modalità funzionali. Ciascun partito decide cos’è meglio per la sua organizzazione, per i suoi militanti che poi dovranno fare anche un po’ di campagna elettorale, per i candidati che deve scegliere. Non possiamo dire che il Partito democratico abbia scelto i suoi candidati allo stesso modo con il quale li ha scelti Giorgia Meloni per Fratelli d’Italia. E sappiamo da tempo immemorabile che i candidati di Forza Italia vengono scelti da Silvio Berlusconi e abbiamo visto che i 5Stelle utilizzano anche le cosiddette “parlamentarie”. Di tanto in tanto il Pd fa anche delle primarie che purtroppo i commentatori sbeffeggiano, sbagliando.

Perché, professor Pasquino?

Perché se condotto con metodi decenti, rappresenta un metodo democratico. Quindi non generalizzo, le scelte dei candidati sono state fatte in un certo modo e sono in grado di criticare di volta in volta le modalità e le scelte effettive. Mi chiedo, ad esempio, che senso ha paracadutare Elisabetta Casellati in Basilicata quando era eletta e ambita in Veneto, mentre al suo posto c’è Anna Maria Bernini che notoriamente è una bolognese. Naturalmente ho molto da dire sul fatto che Piero Fassino va a fare il parlamentare del Veneto dopo aver fatto il parlamentare del collegio di Modena e Sassuolo. Questo riguarda anche la forza del candidato. Fassino è un uomo molto forte nel suo partito e sceglie dove andare. Nel caso della Casellati, Berlusconi e Tajani preferiscono candidarla in Basilicata. Però non si può generalizzare. Possiamo dire che il metodo comunque non ci convince, dopodiché affidiamo il resto agli elettori. Saranno loro a valutare se sono buoni candidati oppure no, se fanno campagna elettorale, se rappresentano il territorio, se non sanno solo ascoltare ma come dico io anche interloquire con i loro elettori, oppure se è semplicemente un’operazione nel segno di rieleggetemi e buona fortuna.

Nel dibattito aperto da Il Riformista, Sergio Fabbrini, altro autorevole scienziato della politica e dei sistemi istituzionali, ha sostenuto: “Gli eletti sono diventati degli imprenditori di se stessi e quindi si comportano sulla base dei vantaggi immediati che possono conquistare nel mercato politico”. Concorda ?

No, anche se ne apprezzo il rigore e la nettezza. Non sono d’accordo perché, di nuovo, occorre differenziare tra i vari partiti. Nel Partito democratico ci sono le carriere. Persone che hanno iniziato a fare politica prima che ci fosse il Partito democratico e che proseguono nella loro carriera. Non sono degli “imprenditori di se stessi”, come li definisce Fabbrini. Secondo me sono semplicemente dei professionisti, qualche volta anche perché hanno acquisito delle competenze vere. Per non restare nel vago. Non si può fare a meno di uno come Franceschini, perché è bravo, ha delle competenze. Ed è sbagliato respingere la candidatura di Casini, perché anche lui è bravo e ha delle competenze. Siamo di fronte a professionisti, a semi professionisti e come una volta mi disse Domenico Fisichella a “gentleman in politics”. Naturalmente si riferiva a se stesso, cioè a persone che hanno una biografia professionale tale da permettere loro di fare un po’ di politica e poi tornare alla loro professione senza nessuna preoccupazione. Questo vale per il Partito democratico come anche, sul versante opposto, per Fratelli d’Italia, perché è l’unico altro partito rimasto vivo. Il Msi era un partito organizzato sul territorio. E non vale invece in altri casi. Come quello di Forza Italia Ha ragione Berlusconi: i suoi candidati vengono effettivamente dalla società civile. Di errato c’è semmai il verbo. I candidati non “vengono” dalla società civile, è lui che li ha “prelevati” dalla società civile ed è lui che li “ricaccia” nella società civile quando non gli servono più. Nessuna generalizzazione è possibile, insisto su questo, ma analizzare caso per caso, e sul singolo caso costruire una spiegazione, soprattutto quando certe scelte suscitano polemiche non sempre pretestuose.

Venendo ai “campi” che si fronteggiano. Cosa teme di più del destra-centro: la leadership Meloni?

Io temo l’inesperienza di una parte non marginale di quella classe dirigente. Temo l’eccessiva gioiosità per aver vinto le elezioni, e l’incapacità di capire che cosa vuole l’Europa da noi. E soprattutto temo gesti eclatanti volti a dimostrare che quello a cui daranno vita è un Governo “nuovo”, che siamo entrati in un’era “nuova”. Tutto questo temo. E ne temo l’insieme. E che Giorgia Meloni si lasci trascinare dall’entusiasmo. Mi è rimasta negli occhi, e in parte anche nelle orecchie, la sua performance al congresso di Vox. Non vorrei mai più vedere una Giorgia Meloni così. Certo è che se lei va in Europa con quella grinta la cacciano subito via.

Passando al centrosinistra. Cosa resta del “campo largo” su cui aveva puntato Enrico Letta?

Purtroppo questi politici non hanno studiato la scienza politica. Ne sono proprio digiuni e non sanno proprio di cosa parlano. Non mi riferisco solo alla legge elettorale, di cui non sanno nulla se non tutelare i propri interessi. Davvero non sanno di cosa parlano. “Campo largo” non c’era proprio bisogno di dirlo. Perché se uno avesse acquisito i rudimenti, non dico di più, della scienza politica, saprebbe che in politica si fanno le coalizioni. Questo è il principio dominante. In tutti i sistemi politico si fanno coalizioni. Persino in Gran Bretagna, dal 2010 al 2015 c’è stata una coalizione tra conservatori e liberali. Hanno addirittura stilato le regole della coalizione. Macchè “campo largo”, parliamo di coalizioni. E le coalizioni – c’è una letteratura splendida in proposito – si fanno fra partiti che sono vicini, geograficamente vicini, ideologicamente compatibili, programmaticamente in grado di convergere su quelle che ritengono essere le priorità del Paese. Letta ci ha provato ma evidentemente non conosce la teoria delle coalizioni. Dopodiché ha fatto del suo meglio, anche perché ha dovuto fare i conti con individui che sono molto ambiziosi, ingiustificatamente ambiziosi, immeritatamente ambiziosi, che hanno, come ho avuto modo di dire e scrivere, il loro ego in perenne erezione. Con quella gente è difficile trattare. Chi riesce a fare meglio le coalizioni meglio riesce ad ottenere il consenso. Giuliano Urbani, che è uno scienziato della politica, disse a suo tempo a Berlusconi “fai due coalizioni: una che si chiama Polo del buongoverno e l’altra Polo delle libertà. E in questo modo riesci a mettere insieme sia gli ex missini sia la Lega”. Questo è quello che è successo nel ’94. È il prodotto delle competenze politiche del professore di Scienza politica Giuliano Urbani. Mi lasci aggiungere un consiglio che non vuol essere “professorale”: si dovrebbe sempre chiedere a chi parla/ scrive di tematiche istituzionali-elettorali quali libri/articoli scientifici abbia letto, quali sono gli autori a sostegno delle sue analisi e valutazioni. Per non alimentare una confusione già così diffusa e grande sarebbe cosa alquanto opportuna fare pulizia terminologica per riportare il dibattito sui binari solidi e rigorosi della Scienza politica.

In Italia c’è ancora chi sostiene che si vince occupando il centro.

La Scienza politica racconta un’altra storia…

Quale?

Il centro è un luogo geografico. Non sappiamo quanti elettori stanno al centro, ma soprattutto sappiamo che vi sono elettori che stanno all’estrema sinistra e all’estrema destra. Non possiamo perderli. Dobbiamo andarli a cercare. Sapendo, innanzitutto, che dobbiamo motivare gli elettori a venirci a votare. In Italia vincerebbero alla grande le elezioni coloro che sapessero motivare gli astensionisti, quantomeno trovando la chiave per raggiungerne alcuni settori. Non c’è un “partito degli astensionisti”. Anche qui, evitiamo dannose, oltreché erronee, generalizzazioni. Quegli astensionisti non sappiamo di dove sono, se sono di centro, di destra, di sinistra. C’è di tutto, coprono l’intero arco politico. Si tratta di andare a cercare gli elettori su tematiche specifiche. La scienza politica indica che ci sono tematiche valoriali che sono politiche: le famose issues. Devi trovare la issue giusta e devi sapere anche quali sono i valori condivisi di quegli elettori che cerchi. Quel valore condiviso potrebbe essere, per esempio, molto semplicemente la democrazia in Europa, o qualcos’altro, magari di segno opposto. Ad esempio, manteniamo un alto livello di diseguaglianze perché noi elettori siamo bravi e quindi riusciremmo a trarne profitto. Operazioni che richiedono intelligenza politica a cui abbinare la capacità di un politico di stare sul territorio. Come può Fassino mobilitare gli elettori del Veneto che non l’hanno visto mai se non in televisione? Casini mobilita gli elettori bolognesi perché qui ci abita da quando è nato, perché ha fatto campagna elettorale, perché è notissimo. Ed è per questo che lui è un valore aggiunto.

Pubblicato il 27 agosto 2022 su Il Riformista

La rivoluzione della minestra riscaldata da Meloni @DomaniGiornale

Mettersi avanti con il lavoro può sempre essere utile. No, non facendo i nomi dei ministri, come vorrebbe Salvini, con grave interferenze nelle prerogative del Presidente della Repubblica, ma mettendo in pole position alcune personalità di qualche (non voglio esagerare) autorevolezza forse non del tutto appassita. Risponde ad una strategia di Giorgia Meloni il pacchetto di mischia di ultrasettantacinquenni candidati al Parlamento: Carlo Nordio, già procuratore aggiunto a Venezia, poi votato come Presidente della Repubblica, Marcello Pera, già presidente del Senato, Giulio Tremonti, a lungo Ministro dell’Economia, e Giulio Terzi di Sant’Agata ambasciatore e Ministro degli Affari Esteri (2011-2013). Facile trovare la collocazione di Tremonti e di Terzi. Dando per scontato che naturalmente Nordio sarebbe unicamente predestinato al Ministero della Giustizia, non si può dimenticare che quel posto era stato ambito anche da Pera. Con riferimento al passato appoggio dato con entusiasmo alle riforme costituzionali renziane, a Pera si potrebbe assegnare il Ministero delle Riforme Istituzionali che, con la proposta di (semi-)presidenzialismo, diventerà alquanto importante.

 Attraverso il reclutamento di queste personalità, due provenienti da Forza Italia e uno da Lista Civica, Giorgia Meloni manda due importanti segnali: uno positivo, l’altro, almeno in partenza, problematico. Il segnale positivo è duplice: l’apertura di Fratelli d’Italia alle competenze necessarie a governare e la disponibilità di quei competenti, la cui non modesta ambizione è sufficientemente (sic) nota, ad accettare la candidatura e quel che potrebbe seguirne. Il segnale problematico riguarda il partito Fratelli d’Italia. Non troppo implicitamente Meloni lascia percepire di avere preso atto che la mai messa alla prova classe dirigente di Fratelli d’Italia non sarebbe da sola adeguata a esprimere governanti di qualità. Deve rivolgersi altrove. Lo sfaldamento di Forza Italia, tutt’altro che terminato, libera energie. Però, il fatto è che quelle sono le energie di uomini del passato, rappresentanti di un periodo non particolarmente gioioso e di governi che nessuno ricorda con nostalgia. Le loro minestre non potranno che essere riscaldate. Peggio sarebbe se venissero cucinate all’insegna della rivalsa, di quello che, molti anni fa né Tremonti né Pera né tantomeno Nordio riuscirono a fare. Quanto abbiamo sentito dalla loro (redi)viva voce non sembra tenere conto delle molto mutate condizioni nazionali e internazionali. Non appare né promettente né orientato al futuro. Detto che le candidature parlamentari degli altri partiti a cominciare da quelle avallate dal competitor principale, Enrico Letta, non sono strabilianti, sorge spontaneo il suggerimento: provaci ancora Giorgia.

Pubblicato il 24 agosto 2022 su Domani

Il nuovo bipolarismo senza più programmi @DomaniGiornale

Molto ipocritamente Silvio Berlusconi, che ha sempre impostato, e talvolta persino vinto, le campagne elettorali sul suo nome e sulla sua persona fisica: “il corpo del leader”, afferma di non appassionarsi alla ricerca della candidatura del centro-destra a Palazzo Chigi. Lui sta lavorando al programma, sapendo che non è affatto facile produrre altre proposte mirabolanti come quelle del lontano Contratto con gli italiani del 2001 (e trovare un conduttore televisivo accomodante come Bruno Vespa che gli offrì tutta la sceneggiatura possibile). Tuttavia, il milione di alberi (trascurando che nel Piano di Ripresa e di Resilienza ne sono già previsti sei milioni) e i 1000 Euro al mese di pensione minima per tutte le nostre nonne e mamme è già un bel programma. No, Berlusconi non scrive programmi. “Spara” priorità incontrollabili. Forse gli italiani, a giudicare dai sondaggi che danno Forza Italia in netta flessione, gli hanno preso le misure. Non pochi, importanti parlamentari lo hanno lasciato, “tradito” sostiene lui con poca classe.

   Giorgia Meloni teme giustamente che Berlusconi e Salvini si siano già messi d’accordo per tradire l’impegno che chi prende più voti andrà a Palazzo Chigi. Nel bene, la coerenza politica della leader di Fratelli d’Italia, all’opposizione, e programmatica, atlantista più sovranista che europeista, è fuori dubbio. Lei, la sua figura è il programma, facile da capire, facile da votare anche se il fantasma del fascismo eterno non può essere esorcizzato. Meloni si giova anche del ruolo di reale contendente opportunisticamente attribuitole dal segretario del Partito Democratico Enrico Letta che spera in questo modo in un lungo e alto sussulto antifascista che riempia il suo “campo”, largo e aperto, ma tuttora non sufficientemente frequentato.

   Neppure nel centro-sinistra i programmi stanno al centro della proposta per attrarre e convincere l’elettorato. Calenda tenta di egemonizzare il centro intorno alla sua persona che agita in maniera frenetica. Mette dodici punti nero su bianco, ma sostanzialmente sono una revisione di quanto stava facendo e progettando il Presidente del Consiglio Mario Draghi. Dulcis neanche troppo in fundo, Calenda afferma che Letta non può essere il candidato per Palazzo Chigi. Verrà stanato e candidato l’irreprensibile Mario Draghi. D’altronde chi meglio di lui, se non è stanco, come in maniera poco elegante ha sostenuto Berlusconi per giustificarne la mancata fiducia, potrà aggiornare e attuare la sua agenda? Meloni verso Letta; non-draghiani verso draghianissimi: come è bello, anche no, il nuovo bipolarismo italiano (alle vongole avrebbe certamente aggiunto Ennio Flaiano). Comunque, sia chiaro che se lo meritano molti italiani, soprattutto quelli del #iononvoto.

Pubblicato il 27 luglio 2022 su Domani