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Cittadini, partiti, istituzioni e leggi elettorali

Relazione pronunciata al convegno
“La forma di governo tra riformismo elettorale e mutamento politicoistituzionale”
Giornata di studi sulle Riforme istituzionali
Torino, 17 novembre 2017
Campus Luigi Einaudi
Pubblicato in federalismi.it
RIVISTA DI DIRITTO PUBBLICO, COMPARATO, EUROPEO
ISSN 1826-3534  – Numero Speciale 1/2018

 

Cittadini, partiti, istituzioni e leggi elettorali

Questa relazione è, prima di tutto, ma non soprattutto, un esercizio di resistenza alle tentazioni. Per quanto tentato dal replicare alle moltissime ignoranze e alle gravissime scorrettezze manifestate(si) nel dibattito sulle leggi elettorali, le loro riforme e controriforme, mi limiterò, a fatica, ad alcune considerazioni. Procederò a evidenziare gli errori più grossolani alla luce della ingente letteratura politologica in materia, la quale dovrebbe, da un lato, già essere patrimonio dei politologi e, dall’altro, apparire lettura essenziale per riformatori, in special modo, per i giuristi che si avventurino su un terreno ampio, dissodato, politicamente di straordinaria importanza. Purtroppo, non è affatto così. Mi troverò spesso di fronte ad un dilemma classico: criticare gli autori degli errori più grossolani, citandoli per nome e cognome (il pessimo articolo di Passarelli merita davvero la citazione) (1) oppure stendere un fin troppo pietoso velo sul loro sonno più che trentennale (2) di letture mancate e mai recuperate? Procederò molto pragmaticamente. Adesso, back to basics, come direbbe Giuliano Amato.

La più semplice definizione di una legge/sistema elettorale è che costituisce un meccanismo per la traduzione di voti in seggi (3) . Naturalmente, nel corso del tempo abbiamo imparato che è indispensabile guardare a tutto quello che sta a monte del momento elettorale e a tutto quello che sta a valle del voto. Con qualche ritardo, tuttavia molto utilmente, alcuni politologi USA (4) sono anche giunti a teorizzare e in parte a esplorare, cosa che nel loro paese diventa di importanza decisiva a causa delle drammatiche manipolazioni del voto attraverso il gerrymandering (5) – furiosamente praticato dalle assemblee statali dominate dai Repubblicani -, la necessità di analizzare il contesto (6) . Sono pochi, in Italia, ad avere proceduto a questo tipo di analisi prima di proporre, formulare, giudicare e fare approvare le nuove leggi elettorali.

Quando, nel 1953, un relativamente riluttante De Gasperi mosse alla riforma della legge elettorale proporzionale prevedendo un premio di maggioranza (7) la proposta era quella di rendere più solida la coalizione parlamentare (e politica) centrista a fronte della sfida di una riemergente destra neo-fascista e l’auspicio era quello di costringere i comunisti ad abbandonare la loro rendita di opposizione per diventare alleato dei socialisti, essenziale, ma non in posizione dominante.

Dunque, senza sminuire l’elemento partigiano, ovvero il rafforzamento della coalizione già al governo, importanza superiore aveva l’obiettivo sistemico: andare verso una competizione bipolare anche se per qualche prevedibile periodo di tempo sbilanciata a favore dei centristi. Nelle menti e negli intenti dei promotori dei referendum elettorali (1991, 1993) la motivazione sistemica era nettamente prevalente. Per molti di loro (mi colloco fra questi) era sostanzialmente cruciale: costruire le condizioni elettorali di una democrazia, qui sono costretto allo slogan, peraltro vicinissimo alla realtà, maggioritaria, bipolare, dell’alternanza e, aggiungo, che attribuisse all’elettorato il potere decisivo di produrre l’alternanza, non di eleggere il governo (obiettivo impossibile e improponibile nelle democrazie parlamentari), ma di scegliere fra coalizioni che a quel governo si sarebbero candidate. Qui tralascio tutti gli errori storici, politici e di comparazione di coloro che ritengono che l’alternanza, ovvero la sostituzione totale di un partito o di una coalizione al governo ad opera di un partito o di una coalizione all’opposizione caratterizzi la maggioranza delle elezioni nelle democrazie non solo europee (8) , ma occidentali (9) . Non è affatto così. Né, d’altronde, è corretto sostenere che sempre e dovunque il verificarsi dell’alternanza costituisca il fenomeno caratterizzante le democrazie di migliore qualità. Anzi, gli elettori del Regno Unito nonché ovviamente gli studiosi e i commentatori si sono lamentati della “troppa” alternanza negli anni Sessanta e, in seguito, hanno assistito (e cooperato) a lunghi periodi di governi conservatori (dal 1979 al 1997, diciotto anni e quattro elezioni generali), e di governi laburisti (dal 1997 al 2010, tredici anni e tre elezioni generali). Tecnicamente, la molto ben governata Germania, in quasi settant’anni di vita della sua Repubblica, ha avuto una sola alternanza completa nel 1998: dal governo Democristiani-Liberali guidati da Helmut Kohl al governo Sociadelmocratici-Verdi guidato da Gerhard Schröder.

Adesso, possiamo dirlo con maggiore conoscenza di causa, i referendari cercavano una riforma elettorale palingenetica che conferisse agli elettori tanto il potere di scegliere il loro candidato al Parlamento (quindi, di ottenere una rappresentanza migliore) quanto quello di incidere sulla formazione del governo. Nel 1993 la traduzione parlamentare dell’esito del quesito referendario fu fedele e ottima per il Senato: tre quarti di eletti in collegi uninominali, un quarto recuperati con riparto proporzionale fra i migliori, perdenti, sì, ma senza dimenticare né sottovalutare che quei perdenti avevano fatto campagna elettorale, parlato con gli elettori, ascoltato le loro richieste e, soprattutto, ottenuto voti, spesso molti. È la traduzione del quesito referendario alla Camera che lasciò molto a desiderare e fornì molto materiale da criticare. La legge, il cui relatore fu l’allora deputato Popolare Sergio Mattarella, si prestò alla critica e allo sberleffo di Giovanni Sartori che la definì Mattarellum.

Fermarsi qui, al latinorum, considerandolo uno dei contributi intellettuali grazie al quale Sartori merita di essere ricordato e celebrato (com’è improvvidamente stato fatto al Convegno Annuale della Società Italiana di Scienza Politica tenutosi a Urbino dal 14 al 16 settembre 2017) è semplicemente scandaloso. Significa non sapere niente dei sistemi elettorali e quindi non essere in grado di capire le motivazioni dello sberleffo al Mattarellum. La legge elettorale per la Camera era, in effetti, alquanto mattocchia. Congegnata, grazie al recupero proporzionale su scheda a parte (con possibilità di voto disgiunto, risorsa nelle mani degli elettori, ma anche strumento nelle mani dei partiti) ed alla facoltà di candidarsi in un collegio uninominale e in tre schede proporzionali, con l’obiettivo non proprio nascosto di salvare quei capipartito che non avessero conquistato il seggio nei collegi uninominali, la legge dava ai capi dei partiti piccoli notevole potere di ricatto. Il messaggio era ovvio: “se non candidate alcuni dei nostri in collegi uninominali sicuri, i vostri candidati non avranno i nostri voti”. Diversa, invece, fu la tattica della desistenza stipulata nel 1996 fra l’Ulivo di Romano Prodi e Rifondazione Comunista di Fausto Bertinotti. In una ventina o poco più di collegi, Rifondazione si impegnò a non presentare candidature invitando i suoi elettori a votare per i candidati dell’Ulivo. A sua volta, l’Ulivo reciprocava in altrettanti collegi. La desistenza, unitamente alla mancata alleanza fra Lega e Berlusconi, consentì all’Ulivo di vincere fortunosamente le elezioni, ma, in seguito, permise a Bertinotti di porre fine all’esperienza del governo dell’Ulivo nell’ottobre 1998, cambiando in peggio la storia d’Italia. A questo “peggio”, in misura piccola, ma concreta, aveva dato il suo contributo la frammentazione dei partiti, chiedo scusa, dei partitini, agevolata e mantenuta proprio dai meccanismi della legge Mattarella.

Che si potesse fare peggio, anzi, molto peggio, lo dimostrarono nel 2005 i quattro “saggi di Lorenzago”: Roberto Calderoli (Lega), Francesco D’Onofrio (UDC), Domenica Nania (Alleanza Nazionale), Andrea Pastore (Forza Italia). Quella che Calderoli avrebbe poco tempo dopo definito una “porcata”, vale a dire il tentativo di scrivere una legge deliberatamente totalmente “partigiana” che, prima di tutto, andasse a svantaggio del centro-sinistra, poi avvantaggiasse il centro-destra e i capi dei partiti e che, per l’appunto, Sartori bollò spregiativamente con l’epiteto Porcellum, era una legge proporzionale. Aveva lunghe liste bloccate senza voto di preferenza. Consentiva candidature multiple addirittura in tutte le circoscrizioni, opportunità pienamente sfruttata da Berlusconi convinto, in parte probabilmente a ragione, che il suo essere capolista portava voti alla lista, e utilizzata in larga misura anche dagli altri capi dei partiti di centrodestra e di centro-sinistra (la cui opposizione alla legge in Parlamento non può essere considerata né durissima né memorabile). Conteneva un premio di maggioranza che mirava ad attribuire al partito/la coalizione vittoriosi alla Camera almeno 340 seggi, mentre al Senato i premi erano regione per regione, un problema per il centro-sinistra, debole nelle regioni grandi, più popolose, portatrici di un premio in seggi più consistente come la Lombardia, la Sicilia, il Veneto, talvolta anche la Campania.

Che la Corte costituzionale abbia lasciato passare tre elezioni politiche (2006, 2008, 2013) prima di dichiarare incostituzionali diversi punti della legge Calderoli attesta due punti. Il primo è sicuro, poi confermato dalla sentenza successiva sull’Italicum: la giurisprudenza della Corte Costituzionale in materia elettorale è, come mi ha detto un giudice costituzionale, “incerta” (sic!). Il secondo punto è che ai giuristi mancano le indispensabili competenze politologiche per valutare le conseguenze politiche delle leggi elettorali (10). Ancora oggi mi vanto di essere stato scelto più di trent’anni fa da due autorevoli Professori di Diritto Costituzionale (poi entrambi, Giuliano Amato e Augusto Barbera diventati giudici costituzionali, attualmente in carica) per scrivere il capitolo I sistemi elettorali nel loro Manuale di Diritto Pubblico (11) , aggiornato e ripubblicato per più di un decennio. Quanto all’Italicum, in pratica fu un Porcellinum. Qui ci metto del mio, sottolineando come fossero presenti tutte le componenti deprecabili del Porcellum in misura appena attenuata: le liste non erano più, dopo una lunga battaglia parlamentare, bloccate, ma i capilista sì con l’aggiunta successiva, a furor di popolo, del contentino di due preferenze purché per candidature di genere diverso. Le candidature multiple erano ancora possibili, ma “soltanto” in dieci circoscrizioni, non in tutte. Il premio di maggioranza rimaneva tale numericamente (non previsto per il Senato che Renzi e Boschi avevano reso non più elettivo salvo vederselo resuscitare sonoramente dal referendum costituzionale del 4 dicembre che bocciò tutte le loro malfatte riforme), ma poteva essere conseguito soltanto dal partito (divieto di formazione di coalizioni pre-elettorali) che avesse ottenuto il 40 per cento dei voti al primo turno (curiosamente proprio la percentuale raggiunta dal Partito Democratico nelle elezioni europee del maggio 2014) oppure dal partito (non le coalizioni poiché erano impediti gli apparentamenti, come pure è possibile nella legge per l’elezione dei sindaci) che vincesse il ballottaggio (12) fra i due più votati al primo turno.

Il ballottaggio è stato bocciato dalla Corte Costituzionale in mancanza della statuizione di una percentuale minima di voti per accedervi con il rischio di una gravissima distorsione della rappresentanza parlamentare. Infatti, nel frammentato sistema partitico italiano, non si può escludere che il partito vittorioso al ballottaggio avesse ottenuto fra il 20 e il 25 per cento dei voti e risultasse premiato con più del raddoppio dei suoi seggi pervenendo fino al 54 per cento. Qui è opportuno evidenziare che sia il Porcellum sia l’Italicum erano leggi elettorali proporzionali con premio di maggioranza. Quindi tutte le lamentele giornalistiche e politiche sul “ritorno alla proporzionale”, che, per Paolo Mieli e per alcuni politologi commentatori, costituirebbe il prodromo alla tragedia di Weimar in salsa italiana, mai contrastate dagli studiosi di scienza politica, erano assolutamente fuori luogo (senza contare che Weimar non crollò primariamente a causa della legge elettorale proporzionale). Vittoriosa con uno scarto minimo nel febbraio 2013, la coalizione Italia Bene Comune fra il Partito Democratico, Sinistra Ecologia e Libertà e i Socialisti Italiani con meno del 26 per cento dei voti, ottenne il 54 per cento dei seggi. Il premio fu, dunque, 28 per cento di seggi; il rimanente 72 per cento fu assegnato con ripartizione proporzionale. La legge che, nella più volta ripetuta frase di Renzi e Boschi, tutta l’Europa ci avrebbe invidiato e metà Europa avrebbe imitato, frase avallata dai costituzionalisti di riferimento del governo e del PD e nella sostanza in un numero imprecisato di articoli sul “Sole 24 Ore” dal politologo Roberto D’Alimonte della LUISS di Roma, non ha avuto modo di essere applicata. Dal punto di vista politico, meglio così. Il sistema politico italiano si è risparmiato non pochi inconvenienti di funzionamento del sistema e non pochi rischi di torsione autoritaria del partito vittorioso e del suo leader. Dal punto di vista politologico, invece, esprimo un rammarico. Infatti, il suo utilizzo, almeno una volta, avrebbe confermato in modo palese l’esistenza di gravi inadeguatezze sia per la rappresentanza politica sia per la governabilità (anche su questo, di più infra).

La cronaca dei tentativi furbeschi di elaborare e di fare approvare una legge che consentisse sia all’indolenzito (dalla batosta referendaria) Renzi sia al ringalluzzito Berlusconi di scegliere i loro parlamentari e, al tempo stesso, di svantaggiare il Movimento Cinque Stelle e di posizionarsi in maniera tale da pervenire, eventualmente, ad una coalizione governativa quasi centrista, non apporta elementi conoscitivi di nessun interesse tranne quello di ribadire che l’orizzonte dei sedicenti riformatori continuava ad essere ostinatamente “partigiano”. Né il potere degli elettori né il miglioramento del sistema politico trovavano posto nelle loro motivazioni anche se la parola governabilità era enfaticamente e ripetutamente pronunciata dai Democratici. In nessuno dei testi a me noti la governabilità si consegue attraverso l’elezione popolare diretta del governo (13). In nessun paese l’ingovernabilità è attribuibile/attribuita ai sistemi elettorali, neppure a quelli proporzionali, quanto, piuttosto a dinamiche sociali e culturali nonché, ovviamente, politiche, alle quali si possono dare risposte anche istituzionali che solo in minima parte passano attraverso le riforme elettorali (14). Nessun politologo ha mai sostenuto che la governabilità (15) crescerà riducendo la rappresentanza che è, invece, la tesi prevalente fra i politici italiani e i loro commentatori di riferimento. È una tesi sbagliata come, indirettamente, ma molto convincentemente, ha dimostrato Powell (16). Oserei affermare che quanto migliore è la rappresentanza elettorale, politica, parlamentare dei cittadini-elettori tanto più probabile è che si pervenga ad un buon governo, vale a dire ad un governo che voglia e riesca a tradurre le preferenze, gli interessi, le domande degli elettori in politiche pubbliche (17) .

Se la rappresentanza politica, che può essere tale esclusivamente se è elettiva (18), si esprime attraverso sistemi elettorali pessimi, le conseguenze negative su parlamento e governo saranno automatiche (19) . Coloro che, nominati e paracadutati in posizioni di vertice nelle liste bloccate e in collegi sicuri, sanno di potere contare sulla ricandidatura non si cureranno affatto di rispondere al loro elettorato (che, peraltro, molto raramente conoscono o possono identificare) e neppure, meno che mai, alla Nazione alla quale, secondo l’art. 67 della Costituzione dovrebbero offrire rappresentanza “senza vincolo di mandato” (su molti di questi aspetti si veda quanto affermato da Calamandrei in due pregevoli saggi degli anni Quaranta e Cinquanta del secolo scorso) (20). In questo modo si spezza il cruciale circuito dell’accountability. Viene meno l’insieme di comportamenti democratici virtuosi che mettono in relazione cittadini, rappresentanti e governanti (21). Nella legge elettorale a firma del deputato Ettore Rosato, capogruppo del Partito Democratico alla Camera dei deputati, non si trova nessuna preoccupazione per l’accountability, per la responsabilizzazione degli eletti in Parlamento a tutto scapito degli elettori e del loro potere ridotto ai minimissimi termini. Detto alto e forte che la legge Rosato non è affatto un ritorno alla proporzionale poiché duecentotrentadue deputati e centosedici senatori saranno eletti in collegi uninominali e trecentottantasei deputati e centonovantatre senatori nelle circoscrizioni proporzionali, piccole per i deputati, da due a quattro eletti per circoscrizione, e in circoscrizioni regionali, come impone la Costituzione, per il Senato, va subito aggiunto che combina in peggio l’elemento maggioritario con l’elemento proporzionale.

Per coloro che amano questi paragoni, la legge Rosato capovolge la legge Mattarella, ne sminuisce la competitività e la svirilizza a favore delle segreterie dei partiti. Poiché oltre alla candidatura nel collegio uninominale sono ammesse fino a cinque candidature nelle circoscrizioni proporzionali fin d’ora possiamo essere certi (assured), anche se in verità non ne sentivamo il bisogno, che nessuno dei dirigenti dei partiti e dei loro collaboratori più stretti perderà il seggio. Gravissimo è che, a fini puramente partigiani, vale a dire, per vincolare il voto al partito, la legge Rosato neghi la possibilità del voto disgiunto. Chi sceglie un candidato nel collegio uninominale automaticamente vota la coalizione che lo sostiene nella quale può trovarsi un partito sgradito a quello stesso elettore. Chi apprezza una coalizione e la vota, automaticamente e inevitabilmente dà sostegno al candidato uninominale che, forse, avrebbe preferito non sostenere. Il voto disgiunto insieme alle liste bloccate fa della legge elettorale Rosato un esemplare fra i più riprovevoli della riaffermazione di quel che rimane della partitocrazia/partitinocrazia italiana. È una legge che nessuno in Europa ci invidierà e nessuno penserà di imitare.

La legge Rosato è anche una legge poco promettente per la governabilità come, malamente, intesa dai loro fautori. Non può in nessun modo promettere la maggioranza assoluta di seggi per uno schieramento. Anzi, suggerisce che sarà difficile per tutti andare a comporre una coalizione di governo decente, in grado di durare. Qui, però, prendendo atto che, seppure molto obtorto collo, qualcuno si è finalmente accorto che le democrazie parlamentari nell’Unione Europea hanno governi di coalizione, mi affretto ad aggiungere che qualsiasi governo di coalizione composto da due/tre partiti (persino quattro e più raramente cinque, remember il pentapartito?) è più e meglio rappresentativo di un governo composto da un solo partito. Da non sottovalutare che i cittadini il cui partito si trova nella coalizione di governo si sentiranno logicamente più e meglio rappresentati dei cittadini i cui partiti sono esclusi dal governo.
Dopodiché molto dipenderà dalla qualità dei governanti, sperabilmente scelti anche fra i parlamentari più esperti e più capaci.

Una delle tentazioni, peraltro non impellente, alla quale non voglio cedere, è quella di procedere alla simulazione della distribuzione dei seggi nel Parlamento da eleggere nel 2018. Anzi, intendo mettere in guardia tutti dalle simulazioni per di più condotte dagli orfani di un padre malevolo come fu l’Italicum. Chi prevede un futuro politico-parlamentare oscuro e pericoloso sta facendo, non del tutto inconsapevolmente, affermazioni dal contenuto poco democratico. Quattro mesi di campagna elettorale passerebbero come acqua sul volto e sulle opinioni degli elettori. I candidati (questo può essere vero) e i leader dei partiti non sapranno trovare gli argomenti giusti e le parole appropriate per fare cambiare opzione di voto a percentuali significative di elettori. Non soltanto costoro avrebbero già deciso, ma non cambieranno idea neppure se i leader e i loro esperti/collaboratori commettessero errori clamorosi (22) . Sappiamo, invece, che una percentuale notevole di elettori decide, anche guardando alle coalizioni in lizza, nell’ultima settimana della campagna se non, addirittura, un giorno prima o il giorno stesso del voto. Certo, la legge Rosato offre pochissime opportunità agli elettori che chiamerò, in ossequio ad una classificazione che ha avuto qualche successo, “d’opinione” (23), a coloro che, per l’appunto, valutano le scelte in campo. I “sinceri democratici” debbono augurarsi che gli elettori d’opinione siano molti, intendano attivarsi e superino il disgusto recandosi alle urne e smentendo con la loro crocetta i simulatori senza fantasia e i politici senza vergogna. Purtroppo, una legge elettorale pessima non consentirà di avere un Parlamento buono a sostegno di un governo capace. Chi comprime la rappresentanza non può ottenere governabilità.

 

 

1 G. PASSARELLI, Electoral Laws and Elections in the Second Italian Republic. The 2013 Landmark (?), in Polis, n. 1/2014, pp. 107-122.
2 Più che trentennale poiché, lasciando da parte la legge truffa (1953) e, non tornando assurdamente alla legge Acerbo (1923), improponibile come termine di paragone, dibattito e riforme risalgono all’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso. Per una essenziale panoramica, si veda M. REGALIA, Electoral Systems, in E. JONES – G. PASQUINO (a cura di), The Oxford Handbook of Italian Politics, Oxford, OUP, 2015, pp. 132-143. La mia proposta, presentata in Commissione Bozzi il 4 luglio 1984 e ampiamente discussa per tutto il decennio, ora si trova in G. PASQUINO, Partiti, istituzioni, democrazie, Bologna, il Mulino, 2014, pp. 229-242.
3 S. ROKKAN, Citizens, Elections, Parties, Oslo, Universitetsforlaget, 1970.
4 M. HTUN – G.B. POWELL, Jr. (a cura di), Political Science, Electoral Rules, and Democratic Governance. Report of the Task Force on Electoral Rules and Democratic Governance, American Political Science Association, Washington, D.C., September 2013 (reperibile all’url: https://liberalarts.utexas.edu/government/_files/moserweb/APSATaskForce2013.pdf).
5 Il ritaglio truffaldino dei collegi elettorali è operazione che risale al governatore del Massachusetts Elbridge Gerry il quale la iniziò, con successo, nel 1812.
6 Il contesto, come messo in limpida evidenza cinquant’anni fa da Sartori, include i partiti e i sistemi di partito (G. SARTORI, Political Development and Political Engineering, in J.D. MONTGOMERY – A.O. HIRSCHMAN (a cura di), Public Policy, Cambridge (MA), HUP, 1968, pp. 261-298). Entrambi sono spariti dall’orizzonte culturale (sì, parola grossa) degli apprendisti riformatori italiani i quali, nel non necessariamente migliore dei casi, vedono solo l’orizzonte degli interessi del loro partito.
7 Il Ministro Maria Elena Boschi è arrivata ad affermare che i capilista bloccati sarebbero stati “i rappresentanti di collegio”. George Orwell direbbe che questo è uno splendido esempio di neolingua. Date le modalità con le quali è probabile che fossero selezionati e i comportamenti che si sarebbero attesi da loro, mi permetterei di suggerire che quei capilista erano a tutti gli effetti intesi come “commissari di partito” (del capo del partito).
8 M. VALBRUZZI, Government Alternation in Western Europe: A Comparative Exploration, tesi di dottorato, Firenze – Istituto Universitario Europeo, 2017.
9 G. PASQUINO – M. VALBRUZZI (a cura di), Il potere dell’alternanza. Teorie e ricerche sui cambi di governo, Bologna, BUP, 2011.
10 D.W. RAE, The Political Consequences of Electoral Laws, New Haven-Londra, Yale University Press, 1971.
11 G. AMATO – A. BARBERA (a cura di), Manuale di diritto pubblico, Bologna, il Mulino, 1984.
12 Di ballottaggio si deve parlare con precisione poiché è limitato a due concorrenti, competitors, non di secondo turno che spesso contempla la presenza anche di tre, addirittura quattro candidati.
13 G. PASQUINO, Sistemi politici comparati, Bologna, Bononia University Press, 2007; G. PASQUINO, Governments in European Politics, in J.J. MAGONE (a cura di), Routledge Handbook in European Politics, Londra, Routledge, 2015, pp. 295-310.
14 R. ROSE (a cura di), Challenge to Governance. Studies in Overloaded Polities, London, Sage Publications, 1980; M. CROZIER – S.P. HUNTINGTON – J. WATANUKI, La crisi della democrazia. Rapporto alla Commissione trilaterale, Milano, Franco Angeli, 1977.
15 La governabilità può essere secondo Sartori la conseguenza della stabilità del governo che consente e agevola la produzione di decisioni. Quanto le decisioni siano/saranno efficaci dipende soprattutto, ma non solo dalla competenza dei governanti.
16 G.B. POWELL. Jr., Elections as Instruments of Democracy, New Haven e Londra, Yale University Press, 2000.
17 O. MASSARI – PASQUINO (a cura di), Rappresentare e governare, Bologna, il Mulino, 1994.
18 Se gli eletti parlamentari temono che a sanzionare i loro comportamenti saranno, nell’ordine, il capo del partito, il capo della corrente di partito, il gruppo di pressione che ne ha imposto la presenza in lista e non gli elettori, è prevedibile che daranno “rappresentanza”, se tale si può definire (meglio obbedienza) ai capi e non agli elettori. Sul punto si veda: G. SARTORI, Elementi di teoria politica, Bologna, il Mulino, 1990, pp. 211-236.
19 G. PASQUINO, Cittadini senza scettro. Le riforme sbagliate, Milano, Egea-UniBocconi, 2015, pp. 71-91.
20 P. CALAMANDREI, Patologia della corruzione parlamentare, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2017.
21 G. PASQUINO, Accountability, Electoral, in B. BADIE – D. BERG SCHLOSSER – L. MORLINO (a cura di), International Encyclopedia of Political Science, Londra, Sage Publications, 2011, pp. 13-16.
22 Molti elementi utili a smentire ciascuna e tutte queste affermazioni si trovano in P. BELLUCCI-P. SEGATTI (a cura di), Votare in Italia: 1968-2008. Dall’appartenenza alla scelta, Bologna, il Mulino, 2010.
23 A. PARISI – G. PASQUINO, Relazioni partiti-elettori e tipi di voto, in A. PARISI – G. PASQUINO (a cura di), Continuità e mutamento elettorale in Italia. Le elezioni del 20 giugno 1976 e il sistema politico italiano, Bologna, il Mulino, 1977, pp. 215-249.

Rappresentanza politica? Another time, another place, another law

L’anno 2017 si è chiuso con una buona notizia. Molti parlamentari del Partito Democratico, ma persino il sottosegretario, già ministro, Maria Elena Boschi hanno (ri)scoperto la rappresentanza politica. La cattiva notizia è che fanno una grande confusione. La loro concezione della rappresentanza si traduce nell’occuparsi del “territorio”, dei piccoli imprenditori e, naturalmente, delle banche purché si trovino nel loro collegio elettorale. È un peccato che l’ex-ministro delle Riforme Istituzionali non abbia letto con la necessaria attenzione l’art. 67 della Costituzione italiana dove è scritto chiaramente che “ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione”, non un collegio elettorale, neanche il suo. Non posso, me ne sono già convinto, supporre e meno che mai pretendere che Maria Elena Boschi e troppi parlamentari del PD, che le hanno dato sostegno e che ne auspicano la ricandidatura, abbiano letto gli importanti scritti di Sartori sulla rappresentanza politica che è tale sempre e soltanto se è elettiva. Altrimenti si chiama delega o mandato. Che è un rapporto fra gli elettori e gli eletti i quali, non soltanto hanno fatto campagna elettorale per ottenere voti, ma per capire esigenze e preferenze degli elettori. Si sforzeranno poi di mantenersi responsabili rendendo conto a quegli elettori, non trafficando in influenze, ma spiegando che cosa hanno fatto, non fatto, fatto male e perché. Né la legge Calderoli né l’Italicum miravano a consentire che si stabilisse un rapporto di questo genere fra gli eletti, nominati dai capipartito e dai capicorrenti, e gli elettori che non avevano avuto modo di scegliere, ma erano stati costretti a ratificare. La legge Rosato ha pervicacemente riprodotto lo stesso meccanismo.

Alla domanda di Sartori, “quale sanzione temono di più i parlamentari, quella del partito, di gruppi esterni, degli elettori?”, la risposta Rosato-vigente è chiarissima: in testa di quella del partito, poi dei gruppi, da ultimo, molto distaccati, degli elettori. No, la Boschi non stava interloquendo su Banca Etruria perché si preoccupava degli interessi degli elettori del suo territorio. Avendo il dovere costituzionale di “rappresentare la nazione” non le era comunque concesso dalla Costituzione italiana, non dico di trovare, ma neppure di cercare una soluzione per la banca del suo giardino di casa a scapito, inevitabilmente, dei risparmiatori truffati in altri territori.
Oltre ad una riflessione sulla rappresentanza politica, quello che è avvenuto spinge a due altre considerazioni. La prima riguarda il conflitto d’interessi e l’inadeguatezza, già denunciata a suo tempo, ma non con abbastanza vigore, e scivolata nell’oblio, della legge Frattini che ne offre una regolamentazione fiacca e moscia, del tutto inadeguata, che non ha riguardato nessuno da quando è stata approvata. Che un governante sia in grado di favorire, grazie al suo status, prima ancora che al suo potere politico, i suoi interessi privati e quelli dei suoi familiari, è evidente. In qualche caso, però, non dovremmo neppure riferirci a una legge. Ci sono cose: incontri, telefonate, e-mail, richieste di informazioni in corso d’opera che, per quanto non sanzionabili in via giuridica, sono comunque inaccettabili e riprovevoli. C’è un’etica in politica: cose che, semplicemente, non si debbono fare.

La seconda considerazione attiene alla legge elettorale Rosato. Mentre il PD cerca il collegio nel quale la ricandidatura di Maria Elena Boschi farà meno danni al partito, è doveroso mettere in grande rilievo che grazie alla clausola che consente più candidature la Boschi non correrà nessun rischio di non (ri)elezione. Turlupinati saranno, anzitutto, gli elettori di Arezzo se la loro parlamentare non fosse ricandidata nel suo collegio naturale poiché non potranno esprimere la loro valutazione sul suo operato di rappresentante. Turlupinati saranno anche gli altri potenziali elettori del PD che dando il voto alla lista del loro partito automaticamente lo vedranno trasferito su una candidata che non gradiscono.

Siamo di fronte ad un caso eccezionale oppure è un caso da manuale? Certamente, eccezionale è stata la difesa spasmodica, persino ad opera del Presidente del Consiglio Gentiloni, il quale poteva scegliere un tranquillo silenzio, di un ex-ministro, già responsabile di una riforma costituzionale bocciata dal 60 per cento degli elettori. Da manuale, vale a dire tutte prevedibili e previste, sono, invece, le conseguenze della legge elettorale Rosato: quasi nullo il potere degli elettori, elezione assicurata per i dirigenti dei partiti. Questa legge elettorale, lamentano accorate tutte le vedove giornalistiche e politologiche del premio di maggioranza, non assicurerà la non meglio definita governabilità. Il problema vero è che soffoca anche la rappresentanza politica.

Pubblicato 8 gennaio 2018 su PARADOXAforum

Commemorazione di Giovanni Sartori all’Accademia dei Lincei 15dicembre 2017

Giovanni Sartori (Firenze 1924-Roma 2017) è stato uno dei 5-6 più importanti politologi del XX secolo. Nella mia breve commemorazione, aperta al pubblico, all’Accademia dei Lincei, venerdì 15 dicembre alle ore 15.30, metterò in rilievo il significato dei suoi libri sulla democrazia, sui sistemi di partito, sull’ingegneria costituzionale comparata e sottolineerò come la sua teoria politica serva ad illuminare fatti e misfatti dei cattivi riformatori italiani.

Troppi nomi nei simboli dei partiti

L’inserimento del nome di Grasso nel logo della lista “Liberi e Uguali” è una brutta idea. Non è convincente giustificarla con la necessità di “pubblicizzare” rapidamente con pochi mesi a disposizione l’appena nata piccola coalizione di sinistra. È stata subito criticata soprattutto dagli esponenti del Partito Democratico, che ne temono la sfida, ma per ragioni sbagliate: la politicizzazione della seconda carica dello Stato. Nella sua carica, nella conduzione dei lavori del Senato, il Presidente Piero Grasso è stato fin troppo imparziale e neutrale, ad esempio, nell’accettazione di qualche alquanto impropria richiesta di voti di fiducia da parte del governo Gentiloni (-Renzi). Nessuno, però, può negare al Presidente del Senato (e alla Presidente della Camera dei deputati) di fare politica fuori dalle aule parlamentari.

L’obiezione al nome di un leader politico nel logo di un partito, lista, schieramento ha motivazioni politiche e istituzionali che risalgono al politologo Giovanni Sartori, recentemente scomparso, e che mantengono tutta la loro validità. Da un lato, nomi di persone/leader che acquisiscono maggiore visibilità di quella dei loro rispettivi partiti contribuiscono a un fenomeno non proprio positivo: la personalizzazione della politica. Di partiti “personali/personalisti” in Italia ne abbiamo già fin troppi. Di leader che fanno campagna sulle loro qualità personali più che sulle idee loro e sui programmi dei loro partiti dovremmo giustamente diffidare. Non che le idee non camminino sulle gambe degli uomini e delle donne, ma, per l’appunto, bisognerebbe dare preminenza alle idee. Tuttavia, quello che più (mi) preoccupa del nome del leader nel logo di un partito è il messaggio che invia più o meno surrettiziamente all’elettorato, vale a dire che, se quel partito avrà molti voti il suo leader diventerà Presidente del Consiglio. Insomma, saremmo di fronte ad una situazione di elezione quasi diretta del capo del governo. Sbagliato: l’elezione c’è o non c’è. Nelle democrazie parlamentari non c’è.

Nelle democrazie parlamentari diventa capo del governo l’esponente di un partito che riesce a dimostrare di avere a suo sostegno una maggioranza. Né in Gran Bretagna, dove il nome del capo del partito si trova scritto esclusivamente sulla scheda elettorale del suo collegio uninominale (senza candidature multiple), né in Germania dove la signora Merkel è stata candidata al Bundestag, sia nella parte uninominale sia nella scheda proporzionale, ma potrebbe non tornare Cancelliera se non riesce a dare vita a una maggioranza assoluta richiesta per la sua investitura parlamentare, gli elettori votano direttamente il capo del governo. Sanno anche che quel capo di governo potrà essere sostituito/a per la sua inadeguatezza dai parlamentari che l’hanno eletto/a. È avvenuto dal 1945 a oggi diverse volte in Gran Bretagna, con la più recente sostituzione che ha posto la May a capo del governo. Una volta sola, attraverso il voto di sfiducia costruttivo (che i riformatori costituzionali italiani non hanno neppure voluto prendere in considerazione), ma molto importante, si è avuta la sostituzione in Germania: dal socialdemocratico Schmidt al democristiano Kohl. Invece, in Italia, troppi parlano in maniera molto sbagliata di governi non eletti dal popolo.

Quando in Italia avviene la sostituzione di un Presidente del Consiglio, soprattutto se da un non-politico, come fu Monti, non mancano coloro che affermano addirittura che la democrazia è sospesa. Per tornare a una sana democrazia parlamentare, il cui pregio maggiore è proprio quello di consentire in parlamento/dal parlamento la sostituzione di governanti, a cominciare dal Presidente del Consiglio, rivelatisi inadeguati, bisognerebbe evitare di ingannare gli elettori. Il governo sarà fatto in Parlamento. Se sarà fatto male, altri, non Grasso, saranno da biasimare, fermo restando che la maggiore responsabilità è della legge elettorale Rosato. Il resto sono furbizie da stigmatizzare.

Pubblicato AGL il 15 dicembre 2017

“Democrazia e ri-definizioni. La democratic theory di Giovanni Sartori trent’anni dopo”A cura di Gianfranco Pasquino

È uscito il fascicolo 03/2017 della “Rivista di Politica” diretta da Alessandro Campi

 

¿La ciencia politica perpetua el status quo?

La Feria internacional del libro y el Centro Universitario de Ciencia Sociales y Humanidades, a través de la División de Estudios Políticos y Sociales y del Departimento de Estudios Políticos y el Posgrado de Ciencia Política

organizaron el evento

¿La ciencia politica perpetua el status quo?

Charla privada con
Gianfranco Pasquino

Premiación del 1er Concurso Giovanni Sartori

 

Viernes 1 de diciembre 10.00 horas
Guadalajara
Auditorio Adalberto Navarro Sanchez
CUCSH – La Normal

Una delle nostre migliori giornate #4dicembre I meriti di quel voto #No

Domenica 4 dicembre 2016 è stata una bella giornata, una delle migliori per il sistema politico italiano e per la Costituzione. Il NO nel referendum costituzionale che il Presidente del Consiglio Matteo Renzi aveva trasformato in un plebiscito sulla sua persona ha impedito lo slittamento del sistema politico italiano in direzione populista. Ha anche bloccato per alcuni anni i ripetuti tentativi di strattonare la Costituzione verso due esiti: terribili semplificazioni istituzionali e riduzione del potere degli elettori, che pochissimo hanno a che vedere con il suo impianto e con i suoi obiettivi tuttora solidi e validi. La Costituzione ha dimostrato di sapere accompagnare molti cambiamenti, ma anche di resistere a qualsiasi tentativo di sfigurarla.

A un anno di distanza non dobbiamo né sottovalutare né dimenticare quelle che erano allora e rimangono pervicacemente le patetiche argomentazioni dei fautori del “sì”, renziani della prima ora e renziani saliti sul carro quando sembrava andare verso la vittoria decisiva. L’algoritmo del Centro Studi della Confindustria aveva previsto gravissime conseguenze economiche, nessuna delle quali si è prodotta. Anzi, semmai, dopo il NO, anche se non necessariamente a causa del NO, è cominciata una leggera ripresa dell’andamento dell’economia. A grappolo, il quotidiano della Confindustria aveva concesso tutto lo spazio possibile ai sostenitori del sì. Con mia non troppo grande sorpresa, politologi e storici della LUISS, l’Università della Confindustria, si erano schierati come un sol uomo (infatti, fra loro non c’era neanche una donna) a vantare le lodi delle riforme renzian-boschiane. Non riesco neppure a parlare di “tradimento dei chierici” perché sarebbe per loro troppo onore. D’altronde, le pagine di alcuni quotidiani nazionali erano ricolme di articoli di chierici e di aspiranti tali che argomentavano sottilmente che, come scrisse Michele Salvati, votare contro le riforme era votare contro l’interesse nazionale. Già allora notai che una frase del genere era pericolosamente vicina ad accusare i No di essere “nemici del popolo”. Altri chierici, per esempio, la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Bologna, decisero di non ospitare dibattiti. Tutti schierati per il sì, quei giuristi si trincerarono dietro una frase che contiene qualcosa di strabiliante e di inquietante: “all’università non si fa politica”. Comunque, difendere la Costituzione da riforme che la squilibrerebbero, che produrrebbero esiti peggiorativi, che aprirebbero la strada a confusioni nei rapporti fra cittadini e istituzioni e fra governo, Parlamento e Presidente della Repubblica, non è fare politica, ma è agire democratico. Per fortuna, a organizzare un dibattito pubblico (fra l’ex-Presidente della Camera, Luciano Violante, e il sottoscritto) ci pensò un’associazione di studenti, in larga misura di giurisprudenza, di sinistra per il “sì”. Quanto all’ex- Presidente della Camera, seguendo la strada aperta da alcuni cattivi maestri, s’impadronì e ripetutamente utilizzò l’espressione, inusitata in scienza politica e fra gli studiosi delle democrazie, “democrazia decidente”. A questo agognato esito avrebbero dovuto condurre, anzi, saremmo sicuramente pervenuti grazie a quelle modifiche costituzionali, anche se nessuna di loro riguardava, come pure sarebbe stato possibile, il luogo per eccellenza della decisione: il governo.

La sconfitta del “sì” non ha consentito il dibattito indispensabile, magari dopo qualche buona lettura (ad esempio, almeno un libro di Giovanni Sartori, Democrazia. Cosa è), riguardante quale democrazia parlamentare, oppure anche semi-presidenziale, è possibile e auspicabile costruire. I sostenitori del “sì” hanno preferito esibirsi su un altro versante, quello, inizialmente delineato da Paolo Mieli, del “ritorno alla proporzionale” e del conseguente “rischio Weimar” reso plausibile, quasi imminente dai “no”. È stato molto difficile convincere coloro che avevano dato il loro sostegno all’Italicum che quella legge elettorale così come la precedente legge Calderoli giustamente nota come Porcellum, era già una legge proporzionale, accompagnata o distorta da un premio di maggioranza. Due terzi proporzionale è anche la legge Rosato, che rappresenta quindi un ritorno addolcito, ma anche manipolato, alla proporzionale. “Decidente” sarebbe, dunque, una democrazia che si basa su un premio in seggi? Le vedove politologiche del premio e del ballottaggio, à la D’Alimonte, si sono esibite in spericolate comparazioni fra l’elezione del Presidente della Repubblica francese e il voto per eleggere un Parlamento oppure, à la Renzi, paragonando le percentuali del sì referendario, sicuramente non tutti voti suoi, con le percentuali di Macron, composte da voti praticamente tutti indirizzati a lui.

A un anno da quella bella giornata di dicembre, mentre il mio account twitter continua a registrare i lamenti dei sostenitori del sì per cui tutto quello che loro vorrebbero e non avviene (anche l’eliminazione della nazionale di calcio ad opera degli svedesi) è da attribuirsi alla vittoria del no, resta da constatare come la cultura politico-istituzionale dei chierici abbia imparato poco o nulla. Per fortuna non sono loro a fare funzionare un parlamento che sarebbe stato bislaccamente squilibrato.

Pubblicato il 4 dicembre 2017

 

“Política y Ciencia Política en el pensamento de Sartori” 27 de noviembre Ciudad de México

UNIVERSIDAD NACIONAL AUTÓNOMA DE MÉXICO

HOMANAJE PÓSTUMO
“LA CIENCIA POLÍTICA DE GIOVANNI SARTORI”

PALACIO DE MINERÍA
NOVIMBRE 27 Y 28, 2017

Lunes 27 de noviembre, 9: hrs
Ceremonia de inauguración

Conferencia Inaugural:
“Política y Ciencia Política en el pensamento de Sartori”

Gianfranco Pasquino
Universidad de Bolonia
Soledad Loaeza COLMEX
Moderador:
Raúl Contreras Bustamante
Director, Facultad de Derecho, UNAM

Il budino letale e puzzolente dei soliti cuochi #leggeElettorale #RosatellumBis

Inquinato, da tempo, con riferimenti a una governabilità che consisterebbe nel premiare con molti seggi un partito e a una rappresentanza politica che sarebbe delega totale ai capipartito e ai capi corrente, il dibattito sulla legge elettorale è culminato con l’affermazione di Sabino Cassese che “la prova del budino sta nel mangiarlo” e con la sua valutazione positiva del budino perché ha “armonizzato” le leggi elettorali per Camera e Senato. Lascio da parte che a qualcuno, me compreso, i budini non piacciono, ci sono comunque molte buone ragioni per evitare persino di assaggiarlo: quando conosciamo i cuochi e, sulla base di budini precedenti, non ci fidiamo; perché quel budino è fatto di ingredienti di bassissima qualità già usati nel passato; perché è maleodorante e rischia di avvelenare in maniera letale oppure lasciando durature conseguenze inabilitanti.

Il budino Rosatellum bis sintetizza tutte le ragioni che lo rendono pericoloso anche per la democrazia rappresentativa. No, persino a detta dei proponenti non garantirà la governabilità, ma le leggi elettorali, dappertutto e soprattutto nelle democrazie parlamentari debbono eleggere “bene” un Parlamento, mai un governo e mai “fabbricare” una maggioranza assoluta. La governabilità la può garantire esclusivamente una classe politica preparata, competente, selezionata anche dagli elettori. Se i parlamentari sono tutti nominati, dai capi dei rispettivi partiti nonché dai capicorrente (a mo’ d’esempio chiedo: rinuncerà Franceschini a nominare i suoi sostenitori? Farà a meno Orlando di imporre i suoi collaboratori e, per cambiare registro, ottenuta la sua personale clausola di salvaguardia-seggio, il mio ex-studente Denis Verdini abbandonerà alla deriva i “verdiniani”?) che tipo di rappresentanza di preferenze, di interessi, di ideali (sì, lo, nello slancio mi sono allargato) gli eletti saranno in grado di offrire? Il problema non si pone soltanto proprio per quegli eletti che, inevitabilmente, dovranno mostrare la loro gratitudine agli sponsor (incidentalmente, per quelli che paventano le conseguenze nefaste del voto di preferenza, davvero si può credere che le organizzazioni di interessi, le lobby non si preoccupino di fare inserire in quelle liste qualcuno sul quale faranno affidamento?), si pone anche per gli elettori. Da un lato, non sapranno chi è il/la loro rappresentante che, comunque, da loro non si farà vedere più di tanto il loro rientro in Parlamento non dipendendo in nessun modo da quegli elettori, ma dai capi: lo zen Renzi, l’avvocato Ghedini, Alfano e Lupi …, quegli eletti impiegheranno il loro tempo e le loro energie in altre attività, per esempio, nel vagabondare fra gruppi parlamentari seguendo l’acclamata prassi italiana del trasformismo. D’altronde, non essendo stato introdotto nella legge neppure un requisito minimo di residenza nel collegio nel quale si viene candidati (oops, paracadutati) e anche protetti, grazie alla possibilità delle multicandidature (fino a cinque), bisognerebbe costruirli ab ovo quei rapporti con l’elettorato: troppa fatica per nulla. Gli eletti potenti sapranno farsi ricandidare altrove. In questo modo, comprensibilmente, la legge non offre possibilità di rappresentanza politica, ma neppure di responsabilizzazione che, ad esempio, consentirebbe agli elettori che hanno trangugiato un budino andato male di chiederne conto ai parlamentari che hanno contribuito a metterlo sul mercato elettorale. Invece, chi non può sapere da chi è stato eletto non dovrà minimamente preoccuparsi di rendere conto dei suoi comportamenti, nel mio mantra: di quello che ha fatto, non ha fatto, fatto male. Peccato poiché raccontano alcuni studiosi della democrazia, persino italiani, come Giovanni Sartori, che l’interlocuzione e l’interazione fra candidati e elettori e poi fra i parlamentari e l’elettorato, non unicamente il “loro” (peraltro, sconosciuto): “ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione” (art. 67), stanno al cuore di una democrazia rappresentativa, la fanno pulsare e le danno energia.

Infine, molti studiosi e, per fortuna, anche molti uomini e donne in politica continuano a ritenere che le leggi elettorali debbano essere valutate anche con riferimento alla quantità di potere che consentono di esercitare ai cittadini elettori. Una crocetta su un simbolo che serve a eleggere un candidato e dare consenso a un partito o a una coalizione è proprio il minimo. Per rimanere nella logica di Rosato e di chi per lui “non si poteva fare meglio”, certo che si poteva fare meglio: con la possibilità del voto disgiunto previsto e ampiamente utilizzato in Germania oppure con il doppio turno nei collegi uninominali come per l’elezione dell’Assemblea nazionale in Francia. Buttate, voi senatori, l’Italian pudding nella raccolta indifferenziata. Non c’è nulla da riciclare.

Pubblicato il 14 ottobre 2017

Sartori e la rilevanza della scienza politica

NUOVA ANTOLOGIA Rivista di lettere, scienze ed arti
Serie trimestrale fondata da GIOVANNI SPADOLINI

In ricordo di Giovanni Sartori

Pubblicato in “Nuova Antologia”, aprile-giugno 2017, vol. 618, fasc 2282, pp. 253-260

Senza l’impegno sostenuto e possente di Giovanni Sartori, quasi sicuramente in Italia non esisterebbe la scienza politica. Altri importanti studiosi, Beniamino Andreatta, Norberto Bobbio, Gianfranco Miglio, Nicola Matteucci, hanno collaborato in varie forme e modalità con lui, anche per riformare le Facoltà di Scienze Politiche, ma l’impulso primo e possente, sostenuto e prolungato è venuto da lui. Sartori non era motivato soltanto dai suoi interessi di ricerca, in parte influenzati dalla conoscenza di quello che avveniva oltre Atlantico (in Europa, fino alla metà degli anni sessanta dello scorso secolo, di scienza politica ce n’era davvero pochina). Ebbe, credo, fin dall’inizio, due importanti obiettivi di lungo periodo: i) dare vita ad una cultura politica che sfidasse sia quella cattolico-democratica sia quella comunista, nessuna delle due incline ad uno studio scientifico della politica; ii) acquisire e diffondere un sapere scientifico applicativo. La scienza politica di Sartori non doveva piegarsi ad ambizioni personali e partitiche, ma doveva mirare ad essere applicabile. Doveva produrre elementi conoscitivi, generalizzazioni, teorie probabilistiche tali da trasformare la realtà politica e, al contempo, da essere a loro volta trasformati, affinati o abbandonati, a contatto con quella realtà. Abbiamo variamente esplorato i contributi scientifici e di intellettuale pubblico di Sartori nel volume che ho avuto l’onore di curare, La scienza politica di Giovanni Sartori, Il Mulino 2005.

Non è questo il luogo dove interrogarsi sull’evoluzione della scienza politica italiana, fra l’altro, con Sartori, tranne qualche frecciata, non ne abbiamo parlato praticamente mai, anche se è facile constatare che, con pochissime eccezioni, i politologi e le politologhe italiane non stanno percorrendo la strada indicata da Sartori. Le loro, spesso scarne, bibliografie fanno intendere che, da un lato, non hanno praticamente nessun interesse applicativo; dall’altro, sono caduti/e in uno dei maggiori difetti che Sartori imputa alla scienza politica americana degli ultimi venti/trent’anni: l’eccessiva specializzazione. L’altro difetto, eccessiva quantificazione, esiste, ma appartiene a pochi, forse poiché richiede competenze che raramente vengono insegnate nelle Facoltà italiane di Scienze Politiche (nessuna delle quali attualmente si chiama così). È certo e accertabile (nelle note e nelle bibliografie) che la grande maggioranza dei politologi italiani conosce poco e male, forse quasi per niente, la scienza politica di Sartori neppure quando frequenta le sue tematiche. Aggiungo che temo (è un eufemismo) che quei politologi rifiutino, più o meno consapevolmente, l’idea, l’invito, il precetto a fare scienza politica che abbia potenzialità applicative. Naturalmente, ma non dovrei avere bisogno di aggiungerlo, Sartori non si fece mai dettare dalle sue preferenze politiche le analisi scientifiche e neppure le indicazioni applicative. Quello che si può estrarre dalla sua molto ampia produzione scientifica è una limpida ed esplicita preferenza per una democrazia competitiva, fondata su regole e istituzioni, in grado di produrre elite politiche che fossero il meglio.

Come ho scritto più volte, Sartori non è l’autore di un solo libro variamente rielaborato nel corso del tempo. I suoi interessi di ricerca e di scrittura abbracciano l’intero campo della scienza politica. Anche se, spesso, il confronto con i suoi scritti inizia con il fondamentale libro Democrazia e definizioni (1957), a monte stanno non solo numerose dispense sul pensiero di alcuni filosofi Hegel, Marx, Kant e Croce, ma anche saggi importanti sulla rappresentanza politica e sulla struttura dello Stato. Non sono al corrente di paragoni fra il libro di Bobbio, Politica e cultura (1955) e quello di Sartori sulla democrazia, ma chiunque confronti quei libri, e sarebbe un esercizio fecondissimo, può vedere che, in modi e stili diversi, entrambi sfidano il pensiero e la prassi comunista. Sartori lo fa in maniera più scientifica, utilizzando le parole e costruendo i concetti secondo una impostazione che non abbandonerà mai. Sulla proprietà delle parole e sulla pulizia dei concetti insisterà sempre. Per diversi anni presiederà il Committee on Conceptual and Terminological Analysis la cui attività produsse un pregevole volume da lui curato: Social Science Concepts: A Systematic Analysis (1984). I suoi numerosi saggi in materia sono raccolti in Elementi di teoria politica, volume senza eguali più volte ristampato dal Mulino (la più recente nel 2016).

Un po’ dappertutto, ma in Italia più che altrove, è andato perso il gusto della chiarezza e precisione concettuale. Spesso dicevo a Sartori che non era proprio riuscito a vincerla quella sua meritoria battaglia concettuale e che, di conseguenza, la scienza politica vedeva ridotta la sua capacità di formulare generalizzazioni e teorie, “probabilistiche”, lui subito aggiungeva, dotate effettivamente sia di intersoggettività (chi non usa lo stesso linguaggio e concetti dal significato preciso e univoco non può, ovviamente, comunicare in maniera scientifica e convincente) sia di scientificità. D’altronde, gli ricordavo, lui stesso aveva espresso fin dal 1993 la sua crescente insoddisfazione nei confronti della scienza politica americana per quelli che definiva “eccessi”: di specializzazione e di quantificazione che la condanna(va)no all’irrilevanza e alla sterilità. In materia, di tanto in tanto, soprattutto quando mi invitano a tenere conferenze specifiche, riprendo in mano gli Elementi di teoria politica. Che si tratti di ideologia o di opinione pubblica, di costituzione o di sistemi elettorali, di liberalismo o di rappresentanza -sono tutte “voci” di quell’insuperabile volume–, ottengo sempre quel che desidero: una luce che rischiara il passato e illumina il cammino. E, non posso proprio trattenermi, una luce che disintegra la superficialità, l’approssimazione e le “post-verità” dei contemporanei.

Non si può pretendere, ma perché no?, che commentatori e giornalisti italiani conoscano la produzione scientifica di Sartori. Soprattutto se un libro fondamentale come Parties and party systems (Cambridge University Press I1976) è rimasto in inglese, ma lo abbiamo “festeggiato” nel volume da me curato Classico fra i classici. Parties and party systems quarant’anni dopo (Erga Edizioni 2016). Tuttavia, coloro che scrivono di riforme elettorali e costituzionali hanno il dovere di andare oltre le semplici/stiche notazioni di Sartori come inventore beffardo dei termini Mattarellum e Porcellum. Quello che più conta è il contenuto delle critiche di Sartori a quei due sistemi elettorali. Soprattutto se venisse fatto rivivere il Mattarellum, infatti, sarebbe necessario ridefinirlo in maniera da evitare gli inconvenienti denunciati da Sartori, in particolare quello di agevolare e perpetuare la frammentazione dei partiti. Il cruccio di Sartori quanto alla scarsa attenzione che i politici dedicarono alle sue critiche e proposte di riforma non era tanto derivante dal desiderio di intestarsi un qualche esito significativo quanto, piuttosto, dalla acuta consapevolezza che un sistema politico con persistenti problemi elettorali e istituzionali non potrà mai acquisire modalità soddisfacenti di funzionamento.

È opportuno ricordare, proprio mentre continua una più o meno sotterranea lotta per una legge elettorale che avvantaggi chi può e svantaggi gli oppositori, che Sartori non ragionò mai in questi termini particolaristici (è uno dei molti aspetti puntigliosamente ed efficacemente segnalati nell’articolo di Domenico Fisichella, L’importanza delle leggi elettorali, nel fascicolo La Repubblica di Sartori della rivista “Paradoxa”, Gennaio/Marzo 2014, pp. 77-94) . Tenendo ferma la sua prospettiva comparata (brillantemente espressa proprio con riferimento alle riforme elettorali e costituzionali nel volume più volte aggiornato e ristampato Ingegneria costituzionale comparata, Il Mulino, 2004, 5a ed.), assolutamente estranea a coloro che raccontavano (già esistevano le “narrazioni”) la favola dell’anomalia italiana, addirittura “positiva”, Sartori, da un lato, criticava quello che non si doveva fare, dall’altro, indicava soluzioni, alla fine giungendo all’argomentata prospettazione del regime semi-presidenziale della Quinta Repubblica francese accompagnato dalla legge elettorale a doppio turno in collegi uninominali (soluzione che, per quel che conto, condivido ampiamente). Aggiungo che, per evitare che qualche partito/lista si trovasse/considerasse svantaggiato a priori dalla clausola percentuale per l’accesso al secondo turno, Sartori suggerì di consentire la possibilità di accesso in ciascun collegio uninominale ai primi quattro candidati. Una soluzione che è, al tempo stesso, ingegnosa e non inficia tutti gli ottimi elementi già contenuti nel doppio turno di collegio: opportunità dispensate agli elettori, informazioni producibili e disponibili a candidati e partiti, spinta alla formazione di coalizioni che si candidano a governare, “punizioni” di coloro che non cercano e non trovano alleati.

Nel confusissimo e, qualche volta, dai più furbi, manipolatissimo dibattito italiano sulle riforme elettorali, Sartori è passato alla storia come colui che ha coniato i termini Mattarellum e Porcellum. E sia. Tuttavia, persino quei termini meriterebbero di essere esplorati nelle loro origini scientifiche poiché, in effetti, dietro le due espressioni sarcastiche che bolla(va)no due leggi elettorali assolutamente riprovevoli sta un’analisi scientifica che è meritevole di essere recuperata. L’opposizione di Sartori al Mattarellum era fondata sulla consapevolezza comparata che, invece, di ridurre o, quantomeno, contenere la frammentazione partitica, quella legge elettorale la premiava, se non addirittura incoraggiava. Le minoranze geograficamente concentrate, che erano sfuggite alle lenti degli studiosi dei sistemi elettorali, sono in grado di inceppare l’eventuale bipartitismo (il caso italiano potendo al massimo, peraltro, aspirare al bipolarismo, inteso come competizione fra coalizioni che si candidano al governo che, comunque, sarebbe resa molto più difficile dall’esistenza di un terzo attore, minoranza, che si dichiari non coalizzabile). L’esito e la fondatezza della critica, che era anche una previsione, sono sotto gli occhi di chi sa vedere. Da allievo di Sartori credo di potermi permettere di aggiungere che non avrebbe accettato la semplice reviviscenza del Mattarellum se non vi fossero inserite opportune modifiche. Poiché a tutti i riformatori che non accettano le minestre che passa il convento, anzi, la conventicola, dei politici giunge regolarmente la richiesta imperiosa di avanzare (contro)proposte, è facile recuperare nella produzione di Sartori in materia di ingegneria elettorale la controproposta: doppio turno alla francese in collegi uninominali con una importante e interessantissima variante per l’accesso al secondo turno [al secondo turno che non è, non può e non deve essere definito ballottaggio. Infatti, al secondo turno per le elezioni legislative francesi possono, sottolineo la facoltà e non l’obbligo né l’automaticità, passare più di due candidati, in all’incirca tre quarti dei collegi avviene proprio così, mentre il ballottaggio è tale quando si svolge fra due soli candidati, come nel caso delle elezioni presidenziali, con conseguenze molto diverse sugli orientamenti e sui comportamenti di voto]. Invece di fissare una clausola percentuale per l’accesso al secondo turno, tempo fa Sartori suggerì, molto più semplicemente, che fosse consentito ai primi quattro candidati di (decidere di) passare al secondo turno cosicché, di volta in volta, laddove esistono candidati popolari, efficaci nel fare campagna elettorale, ritenuti rappresentativi, si darebbe loro e ai loro partiti l’opportunità, la chance di competere, se lo vorranno, con candidati di partiti generalmente più forti.

Sartori sarebbe, meglio era, esterrefatto nel sentire che l’esistenza di tre poli (presumibilmente, lo spappolato centro-destra, il PD e il Movimento Cinque Stelle) obbliga a formulare una legge elettorale di un qualche imprecisato tipo. Naturalmente, è, in linea di massima, vero che i partiti tenteranno in tutti i modi di ottenere una legge elettorale che dia loro qualche vantaggio ovvero che, almeno a prima vista, non produca svantaggi (ma i politici miopi hanno enormi probabilità di sbagliare). Però, la cospicua letteratura sui sistemi elettorale si concentra su un altro ben più importante fenomeno. Ci sono molti studiosi che si sono ripetutamente interrogati sull’influenza dei sistemi elettorali sui sistemi di partito. Si sono fatti, a partire da Maurice Duverger, molte domande e si sono dati altrettante risposte. Lo ha fatto anche Sartori, rivisitando e, in parte significativa, correggendo Duverger. È sicuro che Sartori direbbe di guardare alla solidità dei partiti e del sistema partitico italiano prima di sostenere quale sistema elettorale sarebbe più appropriato per l’Italia. Sono altrettanto convinto che esprimerebbe la sua documentata preferenza per un sistema elettorale “costrittivo” tale da scongiurare e impedire la (ulteriore) frammentazione del sistema dei partiti e da incentivare la formazione di coalizioni. Infine, affermerebbe alto, forte e sferzante che in qualsiasi direzione si voglia andare bisogna prestare la massima attenzione alla comparazione: come hanno funzionato altrove le leggi elettorali in riferimento e in corrispondenza con quali sistemi di partito. Al test comparato non bisogna chiamare i giuristi, neppure quelli della Corte Costituzionale, poiché non hanno conoscenze sufficienti sul funzionamento dei sistemi politici. Meno che mai sanno come funzionano concretamente i partiti e come si comportano gli elettori a seconda dei sistemi elettorali con i quali esprimono il loro voto [mi limito alla più classica delle distinzioni: voto sincero e voto strategico].

Rischio Weimar: è questo lo spettro che si aggira, non in Europa, ma nelle redazioni dei giornali e nei salotti di “Repubblica”, pardon: delle case benestanti della Repubblica. Da non crederci, ma Sartori si è esattamente occupato della Repubblica di Weimar dal punto di vista del suo sistema partitico: il primo caso di pluralismo polarizzato. Multipartitismo estremo, due opposizioni anti-sistema, i comunisti di osservanza stalinista e i nazionalsocialisti tra i quali intercorreva una grande, incolmabile, distanza ideologica, impossibilità di alternanza, tentativo delle estreme di svuotare il centro che a Weimar era costituito dai socialdemocratici. Tralascio qui il contesto internazionale straordinariamente diverso dall’attuale. Neppure all’osservatore meno preparato e più distratto possono sfuggire le differenze qualitative fra il sistema partitico di Weimar e quello dell’Italia contemporanea. È certamente possibile considerare il Movimento Cinque Stelle un attore anti-sistema, vale a dire, nella terminologia di Sartori, un attore che, se potesse, cambierebbe il sistema. Tuttavia, la transizione dalla vigente, ma traballante, democrazia rappresentativa alla democrazia diretta (alla cui “piattaforma”, peraltro, Jean-Jacques Rousseau non concederebbe affatto l’uso del suo nome) non si configurerebbe come il crollo del regime nelle modalità e nelle conseguenze della tragedia di Weimar. Al proposito, fermo restando che, anche per costruire una (difficile) democrazia diretta è indispensabile conoscere la democrazia rappresentativa, che non sembra proprio essere il patrimonio culturale delle Cinque Stelle, i preoccupati profeti della Weimar prossima ventura in salsa italiana dovrebbero interrogarsi sulla rappresentanza politica (che per essere tale non può non basarsi sull’assenza del vincolo di mandato) e sulle leggi elettorali che la garantiscono nel migliore dei modi possibili. Ovviamente, mai, con le liste bloccate e difficilmente con i capilista bloccati.

Di un autore si può leggere e, più o meno dottamente, interpretare un testo alla volta. Da quando ho cominciato a leggere Sartori, ho sentito, molto più che per altri autori, per esempio, limitandomi a coloro che Sartori cita come amici di una vita: Marty Lipset, Juan Linz, Stein Rokkan, Mattei Dogan, Hans Daalder, S.N. Eisenstadt, e soprattutto ai due per i quali esprime il suo maggiore apprezzamento scientifico: Gabriel A. Almond e Robert A. Dahl, due necessità. La prima è quella di seguire il percorso attraverso il quale Sartori era giunto alla stesura dei suoi libri. Che cosa c’era prima di lui? Qual era lo stato delle conoscenze? Che cosa aveva letto e utilizzato (e molto eventualmente che cosa aveva trascurato)? Insomma, quanta e quanto grande era la sua originalità? Da un lato, questa ricerca si è presentata molto facile poiché Sartori aveva, come scrisse lui stesso per chi voleva fare opera scientifica, “la sua bibliografia” in ordine, vale a dire, aveva effettivamente letto e preso in considerazione tutto quanto scritto prima di lui sul tema che stava affrontando.

Dall’altro, invece, l’esito della ricerca era straordinariamente complicato: non era possibile, se mi si consente la frase che segue, leggere tutte le sue letture. Tuttavia, era sufficiente prendere in considerazione i testi dei predecessori più importanti per rendersi immediatamente conto che Sartori era andato oltre le loro teorizzazioni. Così per quello che riguarda la teoria competitiva della democrazia di Schumpeter, fatta sua, ma integrata e completata con l’elemento cruciale, derivato da Carl J. Friedrich, delle “reazioni previste”. Gli uomini politici desiderano essere rieletti. Pertanto, vinta una elezione tenteranno di mantenersi in sintonia con il loro elettorato e costantemente di rimettersi in quelle condizioni stabilendo una relazione di rappresentanza e di accountability, proprio quello che ) non riescono a cogliere e a capire i frettolosi lettori e critici della teoria di Schumpeter, i cosiddetti partecipazionisti (debitamente criticati in The Theory of Democracy Revisited). Di recente, la parola e la sfida sono passate ai “deliberazionisti”, ma i loro esiti non mi appaiono ancora soddisfacenti e confortanti. Così, addirittura molto di più, per quello che riguarda i sistemi di partito e la loro classificazione. Ho già accennato alla vera insuperata innovazione: contare i partiti che contano (di conseguenza, formulare ed esplicitare i criteri della rilevanza), mentre tutte le analisi e classificazioni precedenti si erano limitate e non avevano saputo andare oltre il semplice, ma talvolta decisamente fuorviante, criterio numerico. Infine, nulla di quanto si trova in Ingegneria costituzionale comparata può essere compreso fino in fondo e, quindi, adeguatamente utilizzato da chi non conosce, al tempo stesso, le riflessioni di Sartori sulla Costituzione (e sul liberalismo come tecnica di separazione dei poteri e di freni e contrappesi) e, per l’appunto, la classificazione e l’impatto dei sistemi di partiti su Parlamenti e governi. Mi pare che i “conoscitori” siano davvero pochi, come ha rivelato anche la campagna del “Sì” per il referendum costituzionale del 4 dicembre 2016.

La seconda necessità discende inesorabile dal complesso delle innovazioni che Sartori ha introdotto nei tre campi della sua ricerca e produzione scientifica. Sartori è davvero uno scienziato della politica a tutto tondo. Democrazia, partiti, istituzioni si tengono insieme. Fanno sistema. Debbono essere analizzati sempre in prospettiva comparata. Poi, potremo dedicarci anche ad altre tematiche, ad altri fenomeni, ad aspetti specifici di ciascuna, ma neanche coloro che riescono a vedere una pluralità di alberi sapranno fare passi avanti fino a vedere la foresta, ovvero, ricorrendo ad una frase che considero particolarmente suggestiva e efficace, saranno in grado di salire sulle spalle di quel gigante della scienza politica che è stato Sartori. Quel gigante aveva un cattivo carattere, ma il suo lascito scientifico e culturale è enorme. Per quel che mi riguarda, quell’imponente lascito del quale, nei miei limiti ho già ampiamente goduto, è più che sufficiente a farmi dimenticare i non pochi scontri nei quali ho regolarmente perduto e a consentirmi di essere riconoscente per tutto quello che, grazie a lui, ho imparato e per la strada che ho potuto fare.