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Come stare nella lunga notte dell’Afghanistan

Anche se ho sempre nutrito dei dubbi sul fatto che noi occidentali “avessimo” l’Afghanistan, adesso è sicuro che l’abbiamo “perso”. Inutile è dare tutta la colpa a Biden. Nei vent’anni di presenza, occupazione mi pare parola eccessiva, si sono succeduti quattro Presidenti USA e Biden ha ereditato una situazione fortemente compromessa. Le lamentazioni sui suoi errori e sulle inadeguatezze culturali e politiche degli occidentali continueranno. Come sono finora state impostate, mi pare che non porteranno a grandi miglioramenti strategici. Meglio, più importante, più politico e, nella misura del possibile, più “etico” concentrarsi su quello che si può e si deve fare adesso. Tatticamente. Naturalmente, la priorità assoluta è salvare le vite di coloro che hanno lavorato per gli occidentali come interpreti, guide, operatori nei vari servizi, ospedali e scuole, centri culturali, che gli occidentali avevano costruito. Su quelle attività si fondava la speranza di dare vita a una società civile afghana in grado di ottenere ordine sociale e sviluppo economico e, soprattutto, culturale.

   Nella loro prima conferenza stampa i talebani hanno affermato che rispetteranno il ruolo delle donne, ma hanno ribadito che applicheranno la sharia che quel ruolo lo vede tremendamente totalmente definito in termini repressivi. Da lontano, possiamo affermare che alle donne afghane debbono essere riconosciuti e preservati i diritti che la presenza occidentale aveva consentito loro di acquisire: avere un lavoro, andare a scuola, muoversi e vestirsi liberamente. Nell’Occidente l’abbiamo imparato un po’ dappertutto, anche se non del tutto: la qualità della vita di tutti si misura sul tasso di partecipazione delle donne alla vita sociale, culturale, economica e, non da ultimo, politico di ciascun paese. Salvare le donne in pericolo è cosa essenziale, ma decisivo è che gli occidentali si adoperino in qualsiasi modo utile ad aiutare le donne afghane a non perdere quanto faticosamente conquistato in un ventennio.

   Concretamente, questo significa che tutti i paesi occidentali, a partire dall’Italia, debbono tenere aperte le loro ambasciate e consolati, luoghi di rifugio e di sostegno. Debbono fare funzionare le scuole che avevano istituito o contribuito a creare al tempo stesso che mantengono gli impegni in tutte le strutture ospedaliere. Debbono continuare a operare in tutte le attività portate avanti dalle cooperative che garantiscono lavoro ad un numero considerevole di donne e uomini afghani. Ciascuna e tutte queste attività sono pericolose e quindi richiederanno la presenza di personale addestrato anche all’uso delle armi. Gli occidentali hanno il dovere di restare in Afghanistan ovviamente negoziando la loro presenza con le autorità talebane, chiarendo compiti e limiti loro propri, ma anche chiedendo agli afghani il rispetto delle vite. La nottata sarà molto buia e certamente lunga, ma una vita degna di essere vissuta non può che essere costruita con pazienza e con la convinzione nei valori di libertà e di eguaglianza. Ricominciamo da lì.

Pubblicato AGL il 19 agosto 2021

Durigon, duro e impuro

Il deputato della Lega Claudio Durigon è Sottosegretario all’Economia nel governo Draghi. Una volta decisa l’assegnazione dei ministeri, i sottosegretari sono nominati dal Consiglio dei Ministri. Le proposte vengono dai partiti che compongono la coalizione di governo. Qualche approfondimento e modifica possono essere richiesti, ma i veti sono rarissimi. Definito l’uomo forte della Lega nel Lazio, Durigon è nato a Latina da famiglia di origini venete. Sta occupando le pagine dei giornali d’agosto con la sua proposta di eliminare i nomi di Falcone e Borsellino dal Parco comunale di Latina sostituendoli con quello di Arnaldo Mussolini, fratello del Duce. Alla sua rude maniera Durigon persegue obiettivi personalistici e politici che, però, rivelano qualcosa sul paese reale.

Per quel che riguarda la sua persona, l’obiettivo lo ha già sicuramente conseguito. La visibilità e la risonanza che voleva nel suo ambiente di riferimento: i fascio-leghisti di Latina e del Lazio, sono aumentate. Politicamente, l’obiettivo, condiviso e apprezzato dai suoi superiori, a cominciare da Salvini, è più ambizioso: contenere e frenare l’avanzata impetuosa dei Fratelli d’Italia e, se possibile, ridimensionarla. Il terreno è quello giusto poiché di voti che si travasano a Latina e nel Lazio ce ne sono molti, il momento anche poiché si sta andando verso importanti elezioni amministrative a cominciare da Roma. A ottobre i numeri canteranno. Nel frattempo, però, ha fatto la sua comparsa un problema istituzionale che richiede una riflessione storica, entrambi terreni sui quali Durigon non appare particolarmente preparato.

Può un sottosegretario della Repubblica suggerire abbastanza rozzamente che un fascista è preferibile a due giudici antimafia di enorme e meritato prestigio? Quel sottosegretario si è dimenticato di avere giurato sulla Costituzione italiana che è anche il prodotto dell’antifascismo? Durigon ritiene che la Repubblicana italiana debba onorare i fascisti a preferenza di coloro che combatterono e morirono per debellare il cancro della mafia? Può darsi che Durigon si sbagli e che i nostalgici del fascismo da attrarre con uno specchietto per le allodole, l’intitolazione di un parco, siano molto meno di quelli che lui spera, rimane, però, aperta la riflessione storica.

A più di settant’anni dalla sconfitta del fascismo, una parte almeno degli italiani continua a ritenere che c’era qualcosa di buono e, temo, una parte tutt’altro che marginale di zona grigia rimane disinteressata e indifferente rispetto a qualsiasi manipolazione della storia. La soluzione più elegante sarebbe che Durigon si dimettesse su richiesta, tipo moral suasion, di Salvini. La soluzione più rapida è che Draghi tolga tutte le deleghe a Durigon, sfiduciandolo. Altrimenti non resta che la sfiducia votata in Parlamento magari con un dibattito serio che chiarisca ancora una volta perché con il fascismo, i suoi simboli, i suoi protagonisti, i conti sono chiusi. Purché non ci sia una prossima volta.

Pubblicato AGL il 14 agosto 2021

Meglio passare con il verde #greenpass

Dappertutto nel mondo il Covid ha imposto limitazioni alle libertà personali. Quelle limitazioni sono state giustificate e sono giustificabili per evitare l’espansione del virus e, quindi, tutelare la salute della cittadinanza tutta. Le strategie adottate sono state molto differenti da paese a paese e ad oggi non è ancora possibile dire se una specifica strategia, aperturista o rigorista, abbia funzionato particolarmente bene. Tutti o quasi concordano su un punto importantissimo: le vaccinazioni riducono notevolmente il rischio di contagi, dunque, debbono essere ampliate al massimo per mettere in salvo tutta la popolazione. Da nessuna parte, però, è stato sostenuto e imposto l’obbligo di vaccinazione. La discussione attuale, non soltanto in Italia, verte sulla necessità/utilità di un documento, definito green pass, che certificando il compimento del ciclo vaccinale, serva per avere accesso a stadi e teatri, cinema e concerti, treni e aerei, tutti i luoghi chiusi nei quali si incontrino grandi gruppi di persone. In maniera più o meno esplicita e intensa, il green pass è stato criticato in Italia, in particolare da Giorgia Meloni che vi vede una violazione intollerabile e anticostituzionale delle libertà personali.

Anticostituzionale la limitazione delle libertà certamente non è. Al contrario, è prevista negli articoli 16 e 17 della Costituzione per motivi di sanità, di sicurezza e di incolumità. Deve essere stabilita per legge e, preferibilmente, durare per un periodo di tempo limitato, meglio se predeterminato. In Francia il green pass è stato deciso dal Presidente. In molti stati europei il green pass è il documento che deve essere presentato da coloro, non solo turisti, che vogliano entrare nel paese. D’altronde una cosa è certa: il virus non conosce frontiere e le sue varianti viaggiano in maniera pericolosissima. Probabilmente, la presentazione pubblica del green pass non è stata la migliore possibile. Invece di accettare che venga descritto dagli oppositori come quasi la premessa dell’affermarsi di uno Stato totalitario che controlla la nostra vita (finché dura…) e penetra nella nostra privacy, meglio sarebbe stato se le autorità avessero chiarito i termini della soluzione. Avere o non avere il green pass dipende dalla libera scelta delle persone, dei singoli. Nessuno è obbligato a fare le due vaccinazioni che immunizzano, ma chi vuole andare a teatro e alla partita di basket, al cinema e in altro luogo pubblico, deve sapere che il green pass è il biglietto d’ingresso richiesto. Dunque, non c’è costrizione, ma un’alternativa limpidamente posta fra andare ovunque se in possesso di green pass e essere, per propria scelta, impossibilitati a frequentare alcuni luoghi pubblici. Non possiamo aspettarci che i no vax siano disponibili a cogliere questa cruciale differenza, ma dagli altri italiani, europei, cittadini del mondo è giusto pretendere che sappiano che la scelta è nelle loro mani, a loro protezione e per protezione di tutti.

Pubblicato AGL il 23 luglio 2021

Divisi profondamente #leggeZan

La prima domanda è: il disegno di legge sull’omofobia che ha come primo firmatario il deputato del PD Alessandro Zan è una buona legge? La seconda domanda è: se ha qualche articolo che può essere migliorato, rispetto al testo approvato alla Camera, quelle modifiche rischiano di rinviarlo sine die? È questo l’obiettivo di chi, da ultimo il capo di Italia Viva, Matteo Renzi, si propone con le sue critiche? Vedremo poi se e in quali emendamenti si tradurranno. La terza domanda è: esistono al Senato i numeri per procedere rapidamente alla sua approvazione definitiva? Negli ultimi giorni, l’attenzione è stata tutta concentrata sulle dichiarazioni di Matteo Renzi che ha annunciato di volere tre modifiche importanti a partire dalla molto discussa e complessa “identità di genere”. I voti dei senatori di Italia Viva possono essere cruciali a partire dal 12 luglio quando il disegno di legge Zan approderà in aula.

   Ė un dato di fatto che Renzi persegue insistentemente l’obiettivo di ottenere visibilità per il suo piccolo partito inchiodato al 2 per cento circa nelle intenzioni di voto degli italiani. Inoltre, mira a dimostrare quanto conta in questo Parlamento, quanto può essere determinante in alcune situazioni. Il disegno di legge Zan è di iniziativa parlamentare. Quindi non coinvolge il governo e un esito negativo non destabilizzerà Draghi. Poiché, però, il ddl porta il nome di un deputato del Partito Democratico, il segretario del PD Enrico Letta ha l’obbligo politico di difenderlo e condurlo a conclusione positiva. Ė molto probabile che ci saranno alcuni rischiosi voti segreti. Quindi, Letta non può e non deve stare “sereno”. Renzi punta anche a indebolirlo. E Letta ha l’impegno di trovare i voti necessari.

   Qualcuno ancora rimprovera al PD di non avere portato al voto, per timore di perdere, il disegno di legge sullo ius soli che mirava a dare la cittadinanza ai figli dei migranti nati in Italia. Da allora, non se n’é fatto nulla. Se non fossero in gioco brutti elementi, da un lato, personali, visibilità e ripicche, dall’altro, ideologici, con il centro-destra che non ha neppure criticato la legge contro gli omosessuali approvata dal governo Orbán, sarebbe forse possibile tentare un accordo. PD e Cinque Stelle potrebbero accettare poche modifiche, mirate e condivise, a condizione che i proponenti, a cominciare da Italia Viva e, forse, Forza Italia e Salvini, garantissero la fulminea approvazione definitiva del testo che dovrà tornare alla Camera. Non so chi ha queste capacità di mediazione e non vedo chi voglia impegnarsi in questo tentativo. Purtroppo, nel Parlamento italiano, ma anche nella società italiana, in occasione di problemi che riguardano la sfera più intima delle persone, come per esempio, la facoltà di scegliere come e quando morire, appaiono divisioni tristissime. Lunga sembra la strada per giungere alla maturità indispensabile per garantire la diversità delle opinioni e la libertà delle scelte. 

Pubblicato AGL il 8 luglio 2021

Dietro i civici, le sorprese

Succede un po’ di tutto nella ricerca spasmodica delle candidature alla carica di sindaco nelle maggiori città italiane. C’è Sala, il sindaco uscente di Milano, che incoraggia a suo sostegno la proliferazione di liste e listine, specchietti per le allodole, mentre il centro-destra oscilla tra la ricerca di un civico e la promozione di un politico. Ė davvero curioso come lo schieramento di centro-destra, in ordine casuale: Forza Italia, Lega, Fratelli d’Italia, che tutti i sondaggi danno oramai da molti messi maggioritario nel paese e destinato a vincere le elezioni e quindi a governare, desideri porre ai vertici delle città personalità non politiche. Sta mandando all’elettorato un messaggio confuso e contraddittorio: “dimenticate i politici, meglio la società civile” che, però, il PD non può sfruttare avendo già scelto un non-politico per Napoli, affidandosi a Beppe Sala a Milano, neppure lui un politico, e dando il peggio di sé a Bologna. Il Partito Democratico ne ha già fatte di tutti i colori, pretendendo il sindaco di imporre il suo successore, esitando il partito a promuovere le primarie quando gli assessori in corsa erano tre, trovandosi sfidato da Isabella Conti, sindaco di successo nel non piccolo comune di San Lazzaro, ma esponente di Italia Viva. Stanno per entrare in campo i probiviri e si preparano, forse, anche gli avvocati.

   A Bologna è questione di potere, quel potere diffuso che il PD non vuole neppure vedere scalfito. Altrove, invece, quel che sta succedendo è un brutto segnale non per vagamente “la politica”, ma per i politici e i loro veicoli che non hanno neppure il coraggio di chiamare partiti. Quei veicoli non sono strutture che reclutino iscritti, li facciano diventare militanti, li selezionino per le cariche elettive, promuovendo i migliori che hanno maturato esperienze e acquisito competenze. Sono mezzi di trasporto per il/la leader. Talvolta il PD deve soddisfare le esigenze di carriera dei suoi dirigenti, come avverrà a Roma e forse anche a Bologna, ma nel centro-destra da Meloni a Salvini evidentemente non si fidano della capacità dei loro esponenti a livello locale. Non saprebbero vincere. Dunque, bisogna andare a scovare il mitico candidato “civico” che porti la sua più o meno grande popolarità acquisita nel suo settore specifico, che abbia visibilità mediatica, che nella campagna elettorale faccia notizia e rumore, magari addirittura con qualche gaffe non micidiale.

   Poi, la situazione sarà più dura se vincesse poiché governare Torino, Milano, Napoli e soprattutto Roma non è mai né una passeggiata né un pic-nic. Qui, però, si colloca il retropensiero dei dirigenti del centro-destra. Il loro candidato civico risultato vittorioso dovrà inevitabilmente fare riferimento ai consiglieri comunali delle liste che l’hanno sostenuto. Lì Fratelli d’Italia, Lega e, in misura minore, Forza Italia hanno piazzato le loro donne e uomini in carriera. Certo, aiuteranno il sindaco/a, ma lo condizioneranno notevolmente. Dietro la candidatura civica stanno i dirigenti politici. Meglio saperlo.

Pubblicato AGL 11 giugno 2021

L’Assemblea costituente dei migliori

Da qualche tempo, numerose sono le lamentele sulla bassa qualità della classe dirigente italiana, in particolare, della classe politica. Naturalmente, ciascuno dei critici, a sua volta, membro della classe dirigente, esclude se stesso e la maggioranza dei suoi colleghi dalle critiche. Proprio la presenza di Mario Draghi al vertice del governo certifica e accentua l’inesistenza di una classe politica adeguata. Non è sempre stato così. Anzi, una riflessione sui componenti dell’Assemblea costituente offre la possibilità di capire come si possa reclutare una buona classe politica capace di rappresentare al meglio un paese.

   In totale i Costituenti furono 556 dei quali soltanto 21 donne: 9 della Democrazia cristiana, 9 del Partito comunista, 2 del Partito socialista e 1 dell’Uomo qualunque. Anche se non è giusto sostenere che erano tutti uomini e donne di partito, qualifica che sarebbe subito stata respinta dai 30 rappresentanti del Fronte dell’Uomo Qualunque, i Costituenti erano stati selezionati dai dirigenti dei rispettivi partiti e del Fronte e eletti anche, forse, soprattutto, in quanto rappresentanti di quelle liste. Dunque, vi si trovavano dirigenti di partito: Alcide De Gasperi, Lelio Basso, Pietro Nenni, Palmiro Togliatti, Ugo La Malfa, che avrebbero avuto una lunga carriera politica. C’erano molti che avevano combattuto il fascismo, finendo in carcere anche per diversi anni, come Vittorio Foa e Umberto Terracini poi presidente dell’Assemblea Costituente. Altri avevano avuto un ruolo importante nella Resistenza: Ferruccio Parri, Antonio Giolitti, Luigi Longo. Alcuni erano stati esuli come Leo Valiani in Francia e diversi comunisti in Unione Sovietica.

   Le biografiche politiche dei Costituenti segnalano anche che un certo numero di loro, fra i quali Meuccio Ruini, presidente della Commissione dei 75 incaricata di redigere il testo costituzionale, era stato eletto in Parlamento per alcuni anni prima dell’avvento del fascismo. La componente della Democrazia cristiana era molto variegata. Accanto ai professorini, Fanfani, Lazzati, Dossetti, Moro, alcuni dei quali provenienti dalla Federazione Universitaria Cattolici Italiani, si trovarono esponenti delle professioni, avvocati e banchieri, persino alcuni notabili locali, cioè persone note e apprezzate nelle loro comunità. Poiché bisognava scrivere una Costituzione democratica, tutti i partiti decisero di fare eleggere nelle loro fila autorevoli professori capaci di dare un apporto scientifico altrimenti non disponibile: Piero Calamandrei per il piccolo Partito d’Azione, oltre ai professorini Costantino Mortati indipendente nella Democrazia Cristiana, Concetto Marchesi per il Partito Comunista, Francesco De Martino per il PSI, Tomaso Perassi per il Partito repubblicano.

   Non socialmente rappresentativi, per estrazione sociale, titolo di studio, esperienze di vita, i Costituenti sono un esempio difficilmente imitabile di come si crea una classe politica. Nient’affatto specchio della società italiana, offrirono la migliore rappresentanza politica possibile: indicarono una strada e delinearono come intraprenderla.

Pubblicato AGL il 3 giugno 2021

Eleggere o rieleggere, questo è il problema? #Mattarella @Quirinale

“Sono vecchio. Tra otto mesi potrò riposarmi”. Questa impegnativa dichiarazione è stata fatta dal Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in un discorso ai bambini di una scuola romana affinché intendano non soltanto i loro genitori, ma anche il variegato mondo politico a cominciare dai parlamentari. Dirò subito che Mattarella si è giustamente messo sulla scia di Napolitano che qualche tempo prima della fine del suo mandato aveva detto che, sia per ragioni d’età sia per non creare un precedente, non era disponibile alla rielezione. Poi, Napolitano fu costretto dagli eventi, vale a dire dalla palese incapacità dei parlamentari di convergere su un nome alternativo, ad accettare un secondo mandato da lui subito definito a termine, un termine che lui stesso avrebbe stabilito. Ė possibile che Mattarella abbia il timore che i parlamentari si stiano già “incartando” nelle loro ambizioni e operazioni di potere. Quindi, il suo è un avvertimento, ma è altrettanto possibile che accetterebbe un secondo mandato ugualmente limitato, qualora, per esempio, qualcuno lo convincesse che lui rimanendo al Quirinale per un anno e mezzo circa, Draghi porterebbe a termine la legislatura.

   Infatti, da un lato, ci sono coloro che desiderano eleggere Draghi al Quirinale, per il suo prestigio, per la sua statura europea e anche per meriti, quello che ha fatto come Presidente del Consiglio. Dall’altro, ci sono, però anche quelli che vorrebbero eleggere Draghi per avere elezioni subito poiché non sarà facile trovare un altro capo di governo in questo Parlamento. Per non interrompere l’azione di Draghi e trovarsi con una crisi al buio in una fase complicata, Mattarella potrebbe accettare una rielezione a termine. Tuttavia, preferisco interpretare la sua dichiarazione un avvertimento: “Cominciate subito a pensare al mio successore (anche donna) e preparatevi”. Mattarella ha anche sottolineato, punto che sembra trascurato nei primi commenti, che la Costituzione italiana delinea e sancisce il pluralismo degli organi decisionali. Non bisogna esagerare nell’attribuire alla Presidenza poteri che, invece, i Costituenti seppero assegnare a Parlamento e governo, alla Corte Costituzionale e alle autonomie locali.

   Il messaggio è indirizzato tanto ai difensori della democrazia parlamentare: “fatela funzionare come si deve con chiara ripartizione di compiti e poteri”, quanto ai presidenzialisti: “oggi non potete chiedere al Presidente della Repubblica italiana un ruolo dominante”. Al momento della sua elezione, Mattarella disse che il Presidente è un arbitro. Poi, forse inevitabilmente, si è trovato a giocare in prima persona entro un perimetro flessibile. Chi renderà eccessivamente travagliata e conflittuale l’elezione del prossimo Presidente in maniera più o meno consapevole opera a favore di coloro che sosterranno che, a fronte di oscure manovre in Parlamento, è giunta l’ora che il Presidente, già dotato di molti poteri consistenti, sia eletto dal popolo. Non è questa la preferenza di Mattarella.

Pubblicato AGL il 20 maggio 2021

Ravvedimenti mai pervenuti, pene da scontare

Gli uomini e le donne arrestati in Francia sono tutti stati processati e condannati dal sistema giudiziario italiano per reati di sangue e di banda armata molti anni fa. Fuggiti senza espiare la pena, erano tutti felicemente latitanti. I processi italiani durati spesso un lungo periodo di tempo, ma svoltisi con tutte le garanzie per gli imputati ne avevano accertato le gravi responsabilità. In una pluralità di modi, quegli uomini e quelle donne negli anni settanta e ottanta del secolo scorso aggredirono lo Stato italiano e la nostra democrazia per distruggere entrambi. Quell’aggressione si tradusse spesso nell’uccisione di magistrati, poliziotti, giornalisti, professori, tutti “colpevoli” di rappresentare e di servire lo Stato italiano e la sua democrazia. Nessuno degli arrestati ha mai collaborato con la giustizia né voluto fornire informazioni. Fra di loro non ci sono pentiti e, comunque, oggi qualsiasi pentimento sarebbe tardivo, interpretabile come un tentativo di ottenere una riduzione della pena. Invece, bisogna che quegli uomini e quelle donne siano estradati in Italia per servire la pena loro comminata in maniera definitiva. Debbono espiare. Non importa che sono persone anziane (sessantenni e settantenni), per le quale qualcuno invoca clemenza anche con la motivazione che sarebbero persone oramai diverse. Se ne esistono le condizioni, spetterà ai magistrati stabilire caso per caso se sono “cambiate”, non solo per età, e come e dove sconteranno la pena.

Nessuna clemenza, ma applicazione della pena con intelligenza è quanto può essere, e quasi sicuramente sarà, fatto. Non è sufficiente riferirsi al solo passare degli anni per considerare che quei terroristi siano altre persone e quindi non più tenute a pagare il prezzo dei loro crimini. Senza loro dichiarazioni in materia è davvero assurdo ritenere che si siano ravveduti. Al contrario, nessuno di loro ha mai denunciato/riconosciuto come criminosi i loro comportamenti, al massimo dichiarando di avere commesso “errori” nelle condizioni date, nella loro scelta del tempo della lotta armata. Nessuno di loro ha mai dichiarato alle famiglie delle vittime la sua contrizione per avere deliberatamente e consapevolmente sparato e ucciso. Il reato rimarrebbe ugualmente, ma almeno farebbe la sua comparsa un minimo di umanità e di ravvedimento. Poiché in un quadro accertato di violenza e morte esistono ancora punti oscuri, quei terroristi sono forse in grado di chiarirli e dovrebbero farlo. Uno Stato acquisisce e mantiene autorevolezza quando protegge la vita di tutti i suoi cittadini e punisce coloro che attentano all’ordine democratico e alla legalità. In condizioni difficilissime, lo Stato italiano non è caduto allora in violazioni autoritarie. Adesso, non deve cedere a lusinghe permissive. Tutti dobbiamo alle famiglie delle vittime che la legge sia applicata con fermezza. Il resto sono chiacchiere più o meno consapevoli e interessate, da respingere. L’estradizione faccia il suo corso rapidamente.

Pubblicato AGL il 30 aprile 2021

Ripresa, resilienza e fiducia #RecoveryPlan #PNRR

Piano di ripresa e resilienza è quanto il governo Draghi ha stilato per ottenere gli ingenti fondi messi a disposizione all’Italia dall’Unione Europea. Sono 191 miliardi e mezzo di Euro più 30 miliardi aggiunti dallo Stato italiano. Presentando, finalmente, “in zona Cesarini”, il documento di 330 pagine ai parlamentari che l’hanno ricevuto soltanto domenica alle 14.30, Draghi ha chiarito con sobrietà e precisione per quali interventi, con quali obiettivi e come quei fondi saranno indirizzati e utilizzati. Ha anche generosamente riconosciuto al governo del suo predecessore, Giuseppe Conte, di avere fatto gran parte del lavoro sul quale si basa il documento che diventerà definitivo dopo il dibattito e l’approvazione parlamentare. I diversi settori ai quali destinare i fondi sono sostanzialmente interconnessi. In estrema sintesi, la transizione non più rinviabile ad una economia verde richiede conoscenze specifiche e quindi acquisizione di nuove competenze. In una (in)certa misura queste competenze saranno meglio ottenute e poste all’opera attraverso tutti i processi possibili di digitalizzazione e costantemente monitorati e revisionati. Pertanto, sarà indispensabile investire in maniera molto ampia nei settori dell’istruzione, della formazione e aggiornamento professionale, e della ricerca. Soltanto nuove efficienti infrastrutture miglioreranno l’economia e la vita del paese. Una giustizia con tempi rapidi è indispensabile e contribuisce alla ripresa non scoraggiando gli operatori economici che in Italia vorrebbero investire. La burocrazia, sia soprattutto a livello nazionale sia a livello regionale, ha un ruolo importantissimo nell’attuazione delle riforme. Dunque, deve essere rapidamente riformata e messa alla prova.

Draghi non si è limitato a presentare in maniera molto convincente tutti i progetti del Piano di Ripresa e di Resilienza. Ne ha evidenziato gli obiettivi civili e sociali. In sostanza, quei progetti serviranno a ridisegnare l’Italia. Daranno opportunità ai giovani, favoriranno le famiglie, ridimensioneranno fino a farlo scomparire il divario, economico e sociale, fra uomini e donne. Poiché il 40 per cento di quei fondi andranno in investimenti al Sud, dovranno ridurre le differenze Nord e Sud non soltanto perché la crescita del Sud è utile al rilancio del paese, ma perché la coesione territoriale è importante in sé. Pone rimedio a gravi squilibri passati, recenti, attuali.

Pur conscio della gravità dell’occasione, Draghi ha lasciato trasparire un po’ di autoironia, ma soprattutto ha voluto concludere con parole di grande (no, non scriverò “eccessiva”) fiducia negli italiani. Sono parole che è opportuno citare per esteso: “Sono certo che l’onestà, l’intelligenza, il gusto del futuro prevarranno sulla corruzione, la stupidità, gli interessi costituiti. Questa certezza non è sconsiderato ottimismo, ma fiducia negli Italiani, nel mio popolo, nella nostra capacità di lavorare insieme quando l’emergenza ci chiama alla solidarietà, alla responsabilità”. Personalmente, non mi resta che plaudire e sperare che Draghi abbia ragione.

Pubblicato AGL il 27 aprile 2021

Non è solo una sedia quello che manca all’Unione Europea

Quel video con due uomini bianchi che si appropriano delle due sedie disponibili nell’ampia sala e con una donna che, molto perplessa, si accomoda su un sofà, rivela molte verità. C’è il maschilismo palesemente esibito dal presidente turco Erdogan oppure, se preferite, dal suo cerimoniale, ma da lui evidentemente approvato. C’è un maschilismo subliminale, appena mascherato dall’imbarazzo, del Presidente del Consiglio Europeo, il belga Charles Michel, non pronto a porvi rimedio. Benvenute sono le sue tardive scuse: “immagine disastrosa”, nella speranza che non ci sia una prossima volta. C’è, però, soprattutto, l’aperta manifestazione del potere politico di Erdogan inteso a dimostrare che decide lui come rapportarsi all’Unione Europea, quell’Unione Europea che ne critica senza abbastanza convinzione i molti tratti di autoritarismo. Erdogan ha fatto vedere che lui ha la scimitarra dalla parte del manico. A due giorni dall’evento tutti, meno il Presidente turco, cercano di fornire interpretazioni più o meno diplomatizzate, abborracciate. Tutti meno uno.

   Nella sua conferenza stampa, il Presidente del Consiglio Mario Draghi non ha avuto dubbi: Erdogan è un dittatore. Condivido la valutazione di Draghi, ma le autorità europee hanno subito preso qualche distanza dalla frase di Draghi poiché debbono fare i conti con due debolezze strutturali. La prima è che hanno bisogno di Erdogan per affrontare il problema degli intensi e incessanti processi di migrazione dal Medio-Oriente, in particolare dalla Siria. L’UE ricompensa lautamente Erdogan per la sua “accoglienza”, per il suo ruolo di cuscinetto. Non avendo finora saputo elaborare una politica comune e adattabile a fronte di una emigrazione gonfiata da guerre in corso, l’Unione si affida a un dittatore esoso. La seconda ragione delle difficoltà dell’Unione è che non sa come fare rispettare fino in fondo tutti gli elementi dello stato di diritto, della rule of law, neppure al suo interno, come dimostrano le incertezze nei confronti delle palesi violazioni da parte dei capi di governo ungherese e polacco (di recenti omaggiati da Salvini).

   Non impeccabile, non senza macchia, non coesa, l’Unione Europea non può neppure essere senza paura. Draghi l’ha richiamata alla dura realtà, ma come trattare con i dittatori è un problema per il quale le democrazie e i loro governi non hanno mai trovato una soluzione condivisa. I principi morali sono di difficile e spesso costosa applicazione. Al proposito, c’è un altro inconveniente. Nonostante l’esistenza di un Alto Rappresentante per gli Affari Esteri e la politica di sicurezza, gli Stati-membri dell’Unione continuano ad andare in ordine sparso. Questo rende possibile ai dittatori dotati di qualche preziosa risorsa di fare il gioco sporco. Un’Unione più solida e convinta sarebbe non soltanto in grado di dare una risposta più dura a Erdogan, ma anche a acquisire un ruolo internazionale più incisivo e più fruttuoso. Non sono affatto sicuro che il pure grave episodio della sedia negata riesca a spingere in quel senso.    

Pubblicato AGL il 10 aprile 2021