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QUEL CHE MANCA ALLE DEMOCRAZIE @rivistailmulino
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La qualità dei cittadini influenza in maniera decisiva la qualità della democrazia rendendo minimi e insignificanti gli eventuali possibili deficit comportamentali e facendo funzionare al meglio le strutture, a cominciare da quelle partitiche, e le istituzioni di rappresentanza e di governo. Tuttavia, in alcune condizioni e situazioni è possibile che questi stessi cittadini di “alta qualità” e di alto livello si trasformino da elemento positivo, asset, a elemento, non necessariamente negativo, ma problematico. E’ probabile che i cittadini con alto livello di istruzione, che spesso si accompagna ad un’occupazione prestigiosa e ottimamente retribuita, si convincano che per loro è più che sufficiente scegliere volta per volta se come e quanto partecipare. Pensino di avere risorse personali tali da respingere eventuali interferenze della politica sulle loro attività e da, se necessario, influenzare come desiderano le scelte politiche. Le azioni individuali dei cittadini definibili come “post-materialisti” indeboliscono le strutture di rappresentanza collettiva, come, principalmente, i partiti, e aprono la strada alla comparsa di diseguaglianze non soltanto politiche, ma soprattutto socio-economiche. I possessori di voci “post-materialiste” sono in grado di farle sentire più alte e più forti nella assegnazione e nella distribuzione delle opportunità e dei beni. Queste considerazioni valgono sia per la democrazia rappresentativa sia per la democrazia diretta. E’ un errore grave pensare che la democrazia diretta sia più facile da praticare e che, quindi, si adatti meglio a cittadini che dispongono di meno informazioni politiche, di una cultura politica embrionale. Forse, al contrario, la democrazia diretta, se intende esercitarsi su tutte le decisioni, ha assoluta necessità di fare affidamento su una cittadinanza preparata, in grado di rispondere in tempi brevi a domande spesso molto delicate. I rappresentanti sono in grado di semplificare la vita degli elettori. Referendum, iniziative legislative popolari, eventuali revoche degli eletti, richiedono ai cittadini acquisizione di conoscenze e esercizio intenso e frequente di partecipazione. Non è fuori luogo immaginare che molti deficit farebbero/faranno irruzione nelle forme e modalità di democrazia diretta. Alcuni li abbiamo già visti in non poche consultazioni eseguite dal Movimento 5 Stelle.
La democrazia è certamente “potere del popolo” e il popolo esercita il suo potere periodicamente nello scegliere la leadership del sistema politico e nel sostituirla senza spargimento di sangue. Nella democrazia ideale la leadership rappresenta il meglio della cittadinanza (Sartori, The Theory of Democracy Revisited, vol. I, pp. 163-171). I migliori governano salvo essere sconfitti e rimpiazzati da coloro che si dimostrano migliori di loro. Da qualche tempo, un po’ ovunque, non soltanto in Europa, si sente acutamente che esiste un deficit di leader, ovvero che mancano leader paragonabili per qualità a quelli degli anni Cinquanta-Ottanta del XX secolo. Nella letteratura non ho finora trovato tentativi convincenti di spiegazione di un fenomeno indubbiamente di grande importanza e portata. Dunque, azzardo. Le leadership di cui sentiamo la mancanza sono state tutte leadership di partito, espressione di un partito e della competizione fra partiti, formate nei partiti attraverso processi di rinnovamento intergenerazionale. A loro volta, ciascuno dei partiti, proprio a causa della competizione, cercava di selezionare i migliori. La “rottamazione” dei peggiori, sulla base di giudizio di merito e non di età, era una logica conseguenza, non una strategia o un vanto di chi delle sue superiori qualità non aveva ancora dato prove. Il declino dei partiti, della loro capacità di reclutamento, del loro appeal sociale e politico, ha condotto un po’ dappertutto, ma soprattutto in Europa, alla scarsità di uomini e donne ambiziose disposte a cimentarsi con la politica.
Pur attribuendo grande importanza alle leggi elettorali nello stimolare la competizione politica, anche, nei collegi uninominali, fra candidature, e a mantenerla nel tempo (com’è noto non è questa la situazione italiana dalla Legge Calderoli alla Legge Rosato, entrambe deliberatamente coniate per non avere nessuna competizione fra persone), credo che la mancanza di leadership politiche all’altezza derivi anche da fattori sociali. Lascio da parte la davvero stantia polemica contro il “complesso del tiranno”, secondo il quale gli italiani nutrirebbero tuttora sospetti e timori nei confronti dell’emergere di leadership energiche e incisive, spiegazione inadeguata anche perché non è in grado di rendere conto di quello che è avvenuto nelle altre democrazie europee. Mi pare che una spiegazione più convincente sia che i cittadini post-materialisti scelgono di impegnarsi e di cercare soddisfazione e autorealizzazione in special modo in ambiti diversi e lontani dalla politica. Motivarli all’impegno politico richiederebbe una ristrutturazione della sfera politica che non è in corso da nessuna parte.
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L’articolo completo è pubblicato sul “Mulino” n. 3/18, pp. 375-391
IL VICOLO CIECO LE ELEZIONI DEL 4 MARZO 2018 #Bologna #21maggio @librerieCoop #ilVicoloCiecoTour @Ist_Cattaneo
Librerie.coop Zanichelli, piazza Galvani, 1/H
lunedì 21 maggio 2018 alle ore 18
Presentazione del libro
IL VICOLO CIECO
LE ELEZIONI DEL 4 MARZO 2018
dell’Istituto Carlo Cattaneo
(il Mulino)Intervengono Gianfranco Pasquino e Paolo Pombeni
Con la presenza dei curatori
Marco Valbruzzi e Rinaldo Vignati
Modera Olivio RomaniniEsistono due tipi di elezioni: quelle «ordinarie», che registrano il presente, e quelle «straordinarie», che segnano una frattura tra il mondo di ieri e il mondo di domani. Il voto del 4 marzo si inserisce pienamente nella seconda categoria. Per cogliere la portata «radicale» del cambiamento innescato da questo voto non giovano però interpretazioni affrettate né reazioni «a caldo». Mettendo a frutto una pluridecennale esperienza maturata nel campo degli studi politico-elettorali, l’Istituto Carlo Cattaneo offre con questo volume un’analisi del voto ancora una volta rigorosa e articolata. Sono così approfonditi temi quali l’offerta politica, le risposte degli elettori e il ruolo del sistema elettorale. Ad arricchire la disamina, sono proposte alcune riflessioni che si interrogano sulle cause che hanno condotto la politica italiana nel «vicolo cieco» in cui è precipitata e sulle possibili vie d’uscita

Contro la politica degli analfabeti
Nella sua brillante introduzione alla Antologia di scienza politica da lui curata e pubblicata dal Mulino nel 1970, Sartori affermava senza mezzi termini che la cultura politica italiana soffriva di “analfabetismo politologico”. I suoi bersagli erano chiari: democristiani e comunisti, e lo sarebbero rimasti fino alla loro ingloriosa scomparsa. I democristiani irritavano Sartori per la loro accertata incapacità di andare oltre una cultura giuridica alquanto formalistica e per l’incomprensione dei meccanismi della politica, a cominciare, già allora, dai sistemi elettorali. Ai comunisti rimproverava, nella sua veste non soltanto di politologo, ma di liberale, l’uso della teoria marxista, per quanto ridefinita da Gramsci, inadeguata alla comprensione di tematiche come la Costituzione e lo Stato. Soprattutto, però, la critica che valeva per entrambi riguardava in particolare il cattivo uso dei concetti e la manipolazione talvolta persino inconsapevole che ne facevano gli intellettuali di entrambi i partiti. Soltanto molto tempo dopo mi sono reso conto che fin dalla metà degli anni cinquanta, in chiave e con obiettivi parzialmente diversi, sia Bobbio (Politica e cultura, Einaudi 1955) sia Sartori (Democrazia e definizioni, Il Mulino 1957), avevano sfidato frontalmente la cultura politica “catto e comunista”. Bobbio continuò a farlo apertamente e esplicitamente fino all’ultimo. Destra e sinistra, (Donzelli 2004) ne è una chiara testimonianza. Sartori intraprese un lungo percorso di ricerca nel quale il caso italiano rimaneva un caso e poco più. Anzi, Sartori affermò ripetutamente, anche in polemica con il provincialismo di troppi studiosi, che parlavano dell’Italia DC-PCI come di un’anomalia positiva, che chi conosce un solo sistema politico non conosce neppure quel sistema. Non scrisse mai un libro dedicato a una tematica sostanzialmente italiana anche se divenne un critico severissimo e agguerritissimo di tutte le riforme elettorali e istituzionali italiane che, uomini (e donne) privi di cultura politologica e politica, hanno fatto e rifatto con pessimi esiti. I suoi libri sulla democrazia e sui sistemi di partito restano monumenti della scienza politica della seconda metà del secolo scorso e sono letture imprescindibili, ma Sartori teneva moltissimo a due volumi più recenti e più mirati: Ingegneria costituzionale comparata (Il Mulino, più edizioni, da ultimo 2004) e Homo videns (Laterza 2000).
Ogniqualvolta, specialmente nei pungentissimi editoriali per il “Corriere della Sera” (variamente raccolti Mala tempora, Laterza 2004 e Il sultanato, Laterza 2009) analizzava un qualche fenomeno politico, Sartori metteva grande cura nell’applicare in maniera ovviamente molto concisa il suo metodo comparato e le conoscenze acquisite. La domanda di fondo alla quale rispondeva era sempre quella relativa alle conseguenze prevedibili di interventi, mutamenti, trasformazioni nel sistema, nei partiti, nella leadership, nelle leggi elettorali. Spiegazioni e/o teorie probabilistiche erano i ferri del suo mestiere: “se cambiano le condizioni a, b, e c allora è probabile che cambino le conseguenze x, y, z”. Certo, discutere con chi di volta in volta produceva spiegazioni ad hoc, spesso tanto particolaristiche quanto fragili, era un esercizio che spesso lo irritava e che volgeva sul beffardo, sulla presa in giro.
Spariti i suoi interlocutori democristiani e comunisti i quali, almeno, avevano letto qualche libro e talvolta s’interrogavano effettivamente su riforme e conseguenze, persino sul metodo con il quale analizzare il sistema politico italiano e i suoi partiti, Sartori si trovò costretto a fare i conti con analisti e politici improvvisati. Il liberale che era in lui colse immediatamente l’incongruenza di una rivoluzione liberale di cui, dopo la caduta del Muro di Berlino, avrebbe dovuto farsi portatore e interprete un imprenditore duopolista (nell’importantissimo settore della comunicazione, in particolare televisiva), un imprenditore che (af)fondava la sua politica in un gigantesco conflitto di interessi. Perché mai questo accanimento contro Berlusconi, si chiesero molti commentatori, visto che l’allora Cavaliere aveva “salvato” l’Italia dai comunisti e dai post-comunisti? Eppure, la risposta di Sartori era semplice, lineare, inoppugnabile: liberalismo c’è quando potere economico e potere politico sono e, nella misura del possibile, rimangono nettamente separati. In una democrazia liberale al potere economico non si può consentire di conquistare il potere politico. Il conflitto d’interessi è una ferita permanente nel corpo di quella democrazia. Sartori era tanto più credibile in questa denuncia poiché si era per tempo schierato contro la partitocrazia ovvero quella situazione nella quale il potere politico, più precisamente dei partiti, si annetteva pezzi di potere economico, sociale, culturale.
Il liberalismo di Sartori si rafforzava e raffinava grazie alla sua scienza politica, ad esempio, ricordando che le democrazie liberali sono tali quando garantiscono effettiva rappresentanza politica agli elettori. Dai buoni sistemi elettorali viene buona rappresentanza che esige nella maniera più assoluta l’assenza di qualsiasi vincolo di mandato. Fin dal 1963 Sartori aveva sollevato il quesito se i parlamentari si sentissero maggiormente responsabili nei confronti dei dirigenti di partito, dei gruppi d’interesse, degli elettori? La risposta è, naturalmente, empirica, ma la proposta di Sartori è chiara: bisogna disegnare sistemi elettorali che consentano ai parlamentari di essere effettivamente e essenzialmente responsabili nei confronti degli elettori. A Sartori è stato risparmiato l’obbrobrio tanto dell’Italicum (non ho dubbi che avrebbe fatto notare che i premi di maggioranza Italicum-style c’entrano con la buona rappresentanza come i cavoli a merenda) quanto, ancor più, della Legge Rosato. Ma ha avuto il tempo di bollare la Legge Calderoli con l’epiteto Porcellum. Non gli attribuisco niente che non si possa trovare nei suoi scritti se aggiungo che sarebbe inorridito ad ascoltare fior fiore (sic) di riformatori e di commentatori, neanche analfabeti di ritorno, perché mai alfabetizzati, sostenere la necessità di un’apposita legge elettorale in un sistema partitico diventato tripolare. Tanto per cominciare avrebbe sostenuto che prima di contare i poli si contano i partiti (quindi, il sistema partitico italiano è multipartitico), poi se ne valuta lo stato di consolidamento, davvero molto limitato, infine che alcuni sistemi elettorali forti hanno effetti restrittivi sui partiti e sui sistemi di partiti. Le leggi elettorali si scelgono per dare vita al sistema di partiti preferito, che non è la stessa cosa di favorire o svantaggiare qualsivoglia partito.
Alla morte di Bobbio, il necrologio scritto da Sartori sulla “Rivista Italiana di Scienza Politica” (aprile 2004), intitolato Norberto Bobbio e la scienza politica in Italia, si concludeva con le seguenti parole: “Bobbio è stato per tutti gli studiosi un modello di come si deve scrivere, insegnare, e anche partecipare alla vita pubblica. … Norberto Bobbio è stato, e resta, il più bravo di tutti noi”. Credo di potermi permettere sia di condividere queste parole sia di aggiungere nel primo anniversario della sua morte che Sartori è senza nessun dubbio stato “il più bravo di tutti noi”, ma anche uno dei migliori scienziati politici degli ultimi cinquant’anni.
Pubblicato il 3 aprile 2018
PIETRO INGRAO, MEMORIA Il dubbio, gli interrogativi, la complessità
Pubblicato in
PRESENTE E FUTURO DEL LAVORO UMANO n.8 2018 viaBorgogna3
All’inizio degli anni ottanta mi capitarono due eventi molto fortunati (e fortunosi). Dopo avere letto il mio libro Crisi dei partiti e governabilità (Il Mulino 1980), Pietro Ingrao volle conoscermi. Facemmo una lunga chiacchierata sulla politica, sui partiti, sulle istituzioni e la loro eventuale riforma. Venni da lui invitato a partecipare alle attività del Centro per la Riforma dello Stato e a scrivere sulla rivista “Democrazia e Diritto”. Onorato e gratificato accettai subito (poi partecipai attivamente e scrissi molto). Nel 1983 la mia candidatura al Senato come Indipendente di Sinistra sponsorizzata dal gruppo dirigente del Partito Comunista dell’Emilia-Romagna fu sostenuta in sede nazionale anche da Pietro Ingrao. Nelle frequenti riunioni del Centro, alle quali mi era facile partecipare nei giorni in cui ero a Roma per il Senato, ebbi modo di stabilire con lui un rapporto di stima e collaborazione, soprattutto sulla tematica “bollente” di quei tempi (sic) le riforme istituzionali e la legge elettorale. Nel dicembre 1985 Ingrao venne a Torino a discutere con Norberto Bobbio del mio libro Restituire lo scettro al principe. Proposte di riforma istituzionale (Laterza 1985). Qualche tempo dopo mi chiese di dargli qualche indicazione per presentare un emendamento alle tesi del Congresso del PCI di Firenze nel 1986 (cosa che feci con molto piacere). Quell’emendamento ottenne il 20 per cento dei voti che Ingrao, abituato ad una posizione minoritaria nel partito, ritenne un buon successo, legittimazione di una battaglia che proseguì. Continuando nei nostri scambi di idee e in varie conversazioni approfittai per chiedergli di scrivere la presentazione a un libro a cui rimango molto affezionato: Una certa idea di sinistra (Feltrinelli 19879. Accettò volentieri e prontamente. Il libro fu presentato a Roma in una sala, se ben ricordo, della Camera dei Deputati da lui e da Giuliano Amato (appena uscito dal gravoso compito di Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, cioè di Craxi).
Qui si intreccia il filo del discorso che intendo condurre sul suo libro postumo, Memoria, Roma, Ediesse, 2017. Lo farò con riferimento a tre elementi: il dubbio, gli interrogativi, la complessità. Notoriamente, Bobbio ha molto spesso sostenuto quanto sia difficile, se non, addirittura, sbagliato, avere delle certezze. Gli intellettuali non possono permettersi le certezze, meno che mai nelle faccende politiche (Il dubbio e la scelta. Intellettuali e potere nella società contemporanea, La Nuova Italia Scientifica 1993). Debbono avere e sollevare dubbi, il primo passo di qualsiasi ricerca e anche di qualsiasi analisi dei comportamenti e delle scelte dei detentori del potere politico. Meno chiaro è se Bobbio creda o no che all’uomo politico spetti avere e inculcare certezze nei suoi sostenitori, negli elettori, nella sua azione poiché il dubbio rischia di essere paralizzante. Certo, invece, è che Bobbio crede che l’etica debba avere uno spazio nella politica. DaI canto suo, Ingrao non ha mai fatto mistero di avere e nutrire molti dubbi. Anzi, spesso, se n’è fatto un vanto, personale e comparato, vale a dire nei confronti di politici e di analisti troppo sicuri di sé, incapaci di cogliere la problematicità della realtà di qualunque tipo e degli eventi, superficiali, faciloni, approssimativi. Non mi sorprende, quindi, che Ingrao rivendichi la sua ostinata pratica dubitante (Memoria, p. 115) e neppure che negli “indimenticabili” anni cinquanta non abbia trovato nessun sostegno nel partito.
Mi sorprende moltissimo, invece, che non abbia applicato la sua “pratica dubitante” a quello che non solo per me fu l’avvenimento spartiacque di quegli anni: la repressione armata della ribellione ungherese, effettuata per di più dopo che a tutti coloro che volevano leggere era diventato noto il Rapporto di Chruscev sui “crimini di Stalin e gli errori fatali legati al ‘culto della personalità”. Certo, la categoria era “sommaria” (Memoria, p. 102), ma non ricordo, in quel tempo e non vedo nei capitoli di questo libro un suo superamento ad opera di altre categorie formulate dai comunisti italiani e, neppure, dagli intellettuali, non furono pochi, lieti di definirsi “ingraiani”. Né mi pare sufficiente la frase interrogativa dello stesso Ingrao: “Non dice qualcosa il fatto che lo stalinismo sia caduto dall’interno?” Vuole forse Ingrao comunicarci che il comunismo, anche quello costruito da Stalin, conteneva al suo interno fattori di autocorrezione, autoriforma? Il capitolo sul crollo del comunismo, intitolato Sgretolamento, non offre nessun elemento esplicativo. All’uopo, non posso fare a meno di appoggiarmi a Bobbio, anche lui abile a sollevare interrogativo, ma, per lo più altrettanto abile a formulare una o più risposte. In questo caso specifico, la risposta di Bobbio, che apparve nel libro Quale socialismo? (Einaudi 1976), ha anche il pregio della parsimonia. L’inesistenza nel marxismo di una teoria dello Stato ha aperto la strada al culto della personalità e allo stalinismo. Il rischio delle degenerazioni rimane aperto. Purtroppo, nei saggi e nelle riflessioni contenute in Memoria Bobbio non è un interlocutore di Ingrao.
Credo di non forzare troppo il significato e il campo di applicazione del dubbio (variamente esplorato negli scritti e nelle interviste nel fascicolo della rivista dell’AREL intitolato Dubbio, 2/2016) e specificamente di quello di Ingrao (che sta alla base del libro di R. Vicaretti, La certezza del dubbio, Imprimatur 2015) se lo estendo al dissenso. In molte circostanze, il dissenso deriva dal dubbio che la valutazione di una situazione, la decisione presa, l’azione iniziata non siano le più appropriate e le migliori nelle condizioni date. Il partito nuovo, vale a dire il Partito Comunista di Togliatti, non era certamente il luogo più disponibile all’accoglimento del dissenso e alla sua pratica. In verità, non lo era neppure mai stato il partito “vecchio”! “Per me la costruzione collegiale di una linea politica esigeva in radice la libertà e la pubblicità, direi, la normalità del dissenso”. Nel PCI la normalità riguardava piuttosto il consenso che talvolta, purtroppo, fu conformismo. Più che dalla difficoltà di esprimere il dissenso (da parte di altri poiché certamente lui non era disposto a tacere), Ingrao era preoccupato dalle conseguenze del non-dissenso. “La questione del dissenso finiva per soprastare e cancellare tutto il discorso sulla proposta sociale” (Memoria, p. 120). In questo caso, la proposta riguardava come affrontare complessivamente il Sessantotto: movimento studentesco, autonomia del sindacato e sua qualità di soggetto politico. Il femminismo sarebbe giunto qualche tempo dopo. Pur sensibile alla ampia problematica sollevata dalle donne, qui Ingrao non ne parla.
Resisto alla tentazione di un excursus nel pensiero (liberal-)democratico per il quale è imprescindibile la discussione di Giovanni Sartori (The Theory of Democracy Revisited, Chatham House1987, vol. 1, pp. 86-) concernente la formazione del consenso e del dissenso nell’ambito del conflitto regolato -qualcuno aggiungerebbe lo scetticismo, il dubbio, per l’appunto, sulla bontà dei detentori del potere politico e dei loro comportamenti– che costituiscono il sale della competizione e del pluralismo. Trovo, però, opportuno sottolineare che Ingrao spinge il suo dubbio e il suo dissenso fino a fare quella che lui stesso definisce qui una “battaglia di frazione”. Non volle, però, chiamarla in questo modo quando effettivamente la iniziò nel famosissimo XI congresso del PCI a Roma nel 1966: “non lo dissi alla tribuna del congresso perché, subito, la discussione politica si sarebbe mutata in una secca questione di disciplina” (Memoria, pp. 119-120). Pochissimi anni dopo, in effetti, quella che lo stesso Ingrao definì un’azione “con caratteri frazionistici”, ovvero quanto veniva dicendo e facendo il gruppo del Manifesto, venne trasformata in una secchissima, durissima, senza appello “questione di disciplina”. La “lotta politica contro le posizioni sbagliate e i metodi seguiti dai compagni del Manifesto” (sono le parole del discorso di Ingrao al Comitato Centrale del PCI il 15 ottobre 1969) sboccò quasi — qui lascio un piccolo spazio al mio proprio flebile, dubbio, inevitabilmente nella loro radiazione poco più di un mese dopo. Nessuno dei capitoli della Memoria è dedicato da Ingrao a quello che fu un momento drammatico nella vita del PCI e, immagino, sua personale. I “compagni”, Lucio Magri, Aldo Natoli, Luigi Pintor (e le compagne Luciana Castellina e Rossana Rossanda) non fanno la loro comparsa nel libro, se non, in maniera molto limitata e per altre ragioni diverse da quello che fu, a mio parere, molto più che un semplice episodio di frazionismo, che, dopo il deflusso dei 101 firmatari della lettera di dissenso nel 1956, costituì un fenomeno di enorme importanza e impatto. È sufficiente, ma utile, ricordare che dopo il 1956 non nacque nulla alla sinistra del PCI, mentre dopo il 1969 l’effervescenza fu grande e si tradusse nella formazione di alcuni organismi politici e partitici. Proprio con riferimento a quello che l’Unione Sovietica e il PCUS stavano facendo e nei cui confronti Ingrao aveva da tempo maturato una critica senza scampo, ma, soprattutto, valutando le posizioni del gruppo del Manifesto anche riguardo alle politiche sovietiche, il dubbio, in verità, molto più di un dubbio avrebbe dovuto essere l’atteggiamento logico e consequenziale di Ingrao.
Non saprei dire se i molti interrogativi che Ingrao solleva siano il prodotto della sua inquietudine piuttosto che della sua ricerca di qualcosa che sta oltre, dell’approfondimento della sua analisi della situazione oppure della ricerca di conferma della giustezza delle posizioni da lui maturate. In occasione della discussione di Una certa idea della sinistra, Giuliano Amato mi mise in guardia suggerendomi di vedere nei molti interrogativi sollevati da Ingrao nella sua presentazione, oltre all’interesse suscitato dal mio libro, anche il modo personale di Ingrao di indicare la sua non condivisione, il suo dissenso, la sua differente prospettiva. Mi limito a una citazione lunga poiché contiene il non tanto nascosto suggerimento di Ingrao che bisogna continuare a cercare e non limitarsi a quanto avevo scritto. “Come si determina l’identità di questo attore politico capace di attingere la dimensione del progetto, e di realizzare uno spostamento nella visione sistemica del rapporto fra mercato e Stato, fra capitalismo e democrazia? Come possiamo e dobbiamo pensare il processo, attraverso cui nel ‘progetto’ riformatore si articolano e si intrecciano aggregazioni di interessi e riferimenti a valori? Quali valori, e definiti, come tali, da che cosa? Legittimati e selezionati, come? Da un patrimonio storico, come e dove depositato? O assunti da quali tavole?” (Una certa idea della sinistra, p. XIII). Ingrao intendeva mettere in discussione proprio la mia concezione (e applicazione) della scienza politica chiedendo dove si forma questo sapere: “se al di fuori e al di sopra delle classi e dei ceti o dei gruppi fluenti nella società, o in quali rapporti con essi: e in caso di rapporti con essi, in ragione di quali motivazioni? E se in ragione di opzioni sociali o di valori, come e perché assunti?” (ibidem, pp. XIII-XIV). La risposta, anzi, le molte risposte che avrei desiderato allora e che, indubbiamente, continuano ad essere necessarie, non sono ancora venute, neppure, in seguito, da Ingrao. Forse, sono domande per nessuna delle quali esiste una risposta, un’unica e univoca risposta. Esistono solo approssimazioni, riflessioni e, debbo proprio scriverlo, suggestioni. Tuttavia, scavando nei capitoli del libro, si scopre sia qual è l’ostacolo alla risposta sia qualcosa che è più di un abbozzo di risposta. L’ostacolo è dato dalla complessità variamente definita; l’abbozzo nasce dall’incontro, più o meno conciliabile, fra privato e pubblico (da Ingrao, vedremo, non esplorate in tutte le loro declinazioni).
La risposta possibile, come ho detto, appena abbozzata, si trova nella dilatazione della politica. Non resisto alla tentazione di sottolineare che per Marx il comunismo realizzato avrebbe condotto “dal governo degli uomini sugli uomini [e sulle donne delle quali il non femminista Marx neppure si cura]” “all’amministrazione delle cose” facendo sparire la politica. Per Ingrao la politica sarà vivissima. La dilatazione della politica è stata il prodotto (peraltro, come è oggi evidente, reversibile) della strategia togliattiana del PCI. Anche se segnata “da un noioso, ossessivo spirito ‘pedagogico’ … si è dilatato l’esperire politico fra le grandi masse escluse” (Memoria, p. 77). Quella “dilatazione della politica”, ribadisce Ingrao,”strideva sgradevolmente con la legnosa, rigida struttura gerarchica del Partito comunista”… Eppure anche dentro quella strettoia … si praticarono e si allargarono sentieri di partecipazione all’agire politico. Coinvolgimenti che ruppero barriere” (Memoria, p. 79). In pagine stracolme di punti interrogativi, Ingrao argomenta anche che per le molte forme di partecipazione politica è divenuta necessaria “una trama di regolazione generale: garantita da chi, se non da un potere politico riconosciuto e affermato, addirittura con un connotato di costrizione, di forza?” (p. 179). La spinta alla liberazione del lavoro subalterno “sta attingendo a nuovi livelli e forme sovranazionali che, lungi dal cancellare il momento ‘pubblico’ (e la sua capacità di normare e di costringere), lo sta dilatando” (p. 182) cosicché, conclude Ingrao, “dobbiamo allora mescolare di più le sfere della vita e del produrre, se vogliamo fare i conti con queste complicazioni e oscurità” (p. 184).
La complessità secondo Ingrao si è affacciata in più momenti del dopoguerra. Già “gli scritti gramsciani evocavano i complicati passaggi, le articolazioni, le ‘transizioni’ attraverso cui poteva maturare un mutamento di fase, e anche le nicchie, le specificità nazionali in cui realizzare i sistemi di alleanze, il blocco storico con cui fare avanzare gradualmente il potere della nuova classe” (Memoria, p. 75). Quanto distante ci appare questa “complessità”(si pensi soltanto a “blocco storico”) e quanto inadeguata a comprendere quella che, senza in nessuno modo aderire alla visione complessiva, ma tutt’altro che complessa, del sociologo polacco Zygmunt Bauman, recentemente scomparso, chiamerò “liquida”! In seguito, Ingrao specificherà in maniera più convincente che il “cammino della ‘modernità'” riguarda “l’intrico e l’articolazione delle differenze, delle specificità inassorbibili che alimentano la complicazione delle relazioni sociali e degli strumenti della politica” (Memoria, pp. 172-173).
Mi sono variamente cimentato con il tema (ad esempio, nel volume La complessità della politica, Laterza 1985) e sento l’obbligo di dichiarare che mi ritrovo poco nell’analisi di Ingrao che ha ispirato seguaci meno attrezzati di lui ed è poi rimasta senza seguito. Perché? Da un lato, Ingrao delinea il tema della complessità quasi travolgendo il confine fra privato e pubblico, ma gli eventi dopo il Sessantotto quel confine lo hanno, in una varietà di forme e di modalità, ristabilito oppure reso scavalcabile in avanti e all’indietro: flussi e riflussi, shifting involvements, su cui ha scritto pagine memorabili Albert O. Hirshmann (Felicità privata e felicità pubblica, Il Mulino 1984). Dall’altro, in quasi tutti gli ambiti, forse più che altrove nell’ambito politico, si sono fatti strada (non scriverò mai si sono “affermati”) i terribili semplificatori, coloro che cercano soluzioni alla complessità non nello studio, nella sperimentazione, nella rappresentanza della pluralità di posizioni, di preferenze, di scelte, ma nel ricorso alla spada (che era quella di Alessandro Magno) che spezza il nodo di Gordio oppure nella “narrazione” personalistica di una storia che non conoscono e nella prospettazione di un futuro per la cui costruzione non hanno le conoscenze di base, minime.
Non concluderò scrivendo che negli ultimi anni della sua vita Ingrao si “rifugiò” nella poesia quasi prendendo atto della sua sconfitta in politica. La poesia unitamente al cinema aveva costituito uno dei suoi grandi interessi. Vi si dedicò con notevole successo. Al dubbio, agli interrogativi, alla complessità della politica, la poesia contrappone la verità, le risposte, l’essenzialità. Non a tutti è consentito di tenerle insieme. Pietro Ingrao ci ha provato con l’impegno che è stato uno dei tratti più importanti del suo carattere, della sua vita.
Due libri sul #M5S: storia, struttura e sociologia politica di un movimento “pigliatutti”
Paolo Ceri e Francesca Veltri,
Il Movimento nella Rete. Storia e struttura del Movimento 5 Stelle,
Rosenberg&Sellier
Piergiorgio Corbetta
(a cura di),
M5s. Come cambia il partito di Grillo,
Il Mulino
Il Movimento Cinque Stelle ha, giustamente, attirato un’attenzione enorme da parte dei mass media e degli studiosi, italiani e stranieri. Ho letto molto in materia. Ho trovato cose buone e meno buone; cose originali e cose ripetitive; cose utili e cose inutili alla comprensione del Movimento; cose che mirano alla oggettività e cose che si (s)qualificano per la faziosità (quando sono gli studiosi ad essere faziosi, si mostrano “sottilmente” tali). Credo che il problema più importante non sia quello di classificare il Movimento in categorie a noi note, ma di comprenderne le origini, di collocarlo nel sistema politico e nella società italiana, di valutarne l’impatto e, nella misura del possibile, che potrebbe anche non essere scarsa, prevederne il futuro. In buona parte, questo è il lavoro svolto da Paolo Ceri e Francesca Veltri. Dirò un po’ pomposamente che il Movimento Cinque Stelle è un pezzo consistente dell’autobiografia della Repubblica italiana post- 1945 (preparata da qualche embrione precedente). Trova certamente un prodromo nel Fronte dell’Uomo Qualunque fondato nel 1944 dal commediografo e giornalista Guglielmo Giannini, durato meno di un decennio. Si alimenta non soltanto di critica della politica, ma di vera e propria antipolitica, a lungo nascosta e tenuta sotto controllo dai partiti italiani, soprattutto quelli di massa la cui scomparsa ha aperto la diga. È antipolitica non tanto colpire tutti i privilegi dei politici, tutte le loro sregolatezze senza genio nella gestione del potere e, nel nepotismo, tutti i loro scandali e i salvataggi reciproci dei coinvolti nel malgoverno e nel malaffare quanto pensare e agire come se la politica, in particolare, il ricoprire cariche elettive, fosse un’attività che chiunque, in qualsiasi luogo o in qualsiasi momento, possa svolgere. Insomma, sulla scia di un poco conosciuto Karl Marx, i “cittadini” delle Cinque Stelle vorrebbero credere e farci credere che possiamo fare a meno del “governo degli uomini sugli uomini” poiché con il loro ingresso in politica e in Parlamento, nonché nei governi locali, siamo quasi arrivati allo stadio della “amministrazione delle cose”. Poi, resuscitando Lenin, il bilancio dello Stato e degli enti locali non soltanto diventerà leggibile dalle cuoche, ma lo stileranno loro stesse. Sarà, finalmente un bilancio partecipato, “cucinato” attraverso il web da tutti gli aderenti in maniera assolutamente democratica: uno vale uno.
Prima di riflettere su questo punto, eguaglianza “sostanziale”?, approfondirlo e valutarlo, è opportuno sottolineare che, secondo non pochi studiosi e commentatori politici, il Movimento Cinque Stelle si caratterizza per essere soprattutto e anzitutto populista molto più che, semplicemente (e rozzamente) antipolitico. È Piergiorgio Corbetta che dà voce a questa interpretazione populista che contiene non pochi elementi convincenti. Ho due obiezioni e un suggerimento di tipo previsionale. La prima obiezione è che da qualche tempo un po’ dappertutto si eccede nel qualificare come populista tutto quello: stile, messaggio, contenuti, persone, che non ci piace e che vorremmo non esistesse e sparisse. Invece, bisognerebbe abituarsi a dare per scontato che nelle democrazie, in tutte le democrazie c’è sempre quella che chiamo una “striscia di populismo”. Le democrazie senza popolo sono una contraddizione in termini. Le democrazie con associazioni intermedie deboli e esitanti e con istituzioni di rappresentanza e di governo mal funzionanti aprono praterie all’ingresso dei populisti. È facilmente accertabile che dal momento del meritato crollo dei partiti tradizionali nel 1994 e dell’intero sistema partitico ad oggi l’Italia si trova in condizioni di grande vulnerabilità rispetto al populismo. La seconda obiezione all’uso del populismo classico come categoria interpretativa del Movimento Cinque Stelle va ricondotta a due specificità: da un lato, il fatto che di leader ce ne sono due, il fondatore, Beppe Grillo, e colui che chiamerei il gestore, ieri GianRoberto Casaleggio, oggi il figlio Davide; dall’altro, l’importanza della rete, del Web, mai così tanto cruciale nei rapporti fra il leader e i followers (qui, mi rifaccio al linguaggio dei “social”), laddove il populismo classico, ma anche quello più recente, di Berlusconi e di Bossi, mette l’accento sulla persona fisica del leader, sulla sua carne e le sue ossa, sull’uso evidente del corpo. Il suggerimento di tipo previsionale è che, fermo restando che il populismo si manifesta in corso d’opera, fino ad oggi tutti i movimenti populisti hanno mostrato un problema letale comune: non sopravvivono alla scomparsa del leader-fondatore. Da ultimo, questo è il caso, drammatico per le sue conseguenze sulla vita della popolazione del Venezuela, di Hugo Chavez il cui successore, Nicolàs Maduro, dimostra quotidianamente di non avere praticamente nessuna delle qualità che resero Chavez un populista esemplare (sic).
I due libri qui recensiti hanno taglio e intenti diversi. Ceri e Veltri sono interessati, come recita correttamente il sottotitolo, alla storia e alla struttura del Movimento 5 Stelle. I collaboratori del libro curato da Corbetta offrono, invece, complessivamente quella che chiamerei la sociologia politica del Movimento: presenza nelle istituzioni (Rinaldo Vignati); andamento elettorale (Pasquale Colloca e Andrea Marangoni); basi sociali (Andrea Pedrazzani e Luca Pinto); l’elettorato (Luca Comodo e Mattia Forni); i cambiamenti nell’organizzazione (Gianluca Passarelli, Filippo Tronconi e Dario Tuorto); le modalità di comunicazione (Lorenzo Mosca e Cristian Vaccari). Non potendo sintetizzare nessuno degli articoli, operazione comunque difficilissima per il recensore e diseducativa per il lettore, mi limiterò a pescare nell’ampio e utile materiale messo a nostra disposizione quello che ritengo più rilevante per la comprensione del Movimento, quello che non si trova nei mass media e che, al contrario, gli operatori dei mass media dovrebbero conoscere, ricordare, utilizzare per non farsi sorprendere tutte le volte dagli avvenimenti che riguardano il Movimento.
Primo elemento molto importante: non siamo di fronte ad un’insorgenza subitanea che potrà essere facilmente assorbita. Le Cinque Stelle non sono un movimento flash che, nato ieri, morirà domani. Dieci anni di vita suggeriscono che la spinta propulsiva non si è affatto esaurita. Anzi, si è trasformata in crescita, in espansione, in radicamento. Secondo elemento: stando così le cose, mi sarebbe piaciuta una pluralità di approfondimenti, soprattutto da parte del sociologo Paolo Ceri (che giustamente si riferisce a due grandi classici: Robert Merton e C. Wright Mills), relativi alle possibilità e alle modalità di istituzionalizzazione del Movimento Cinque Stelle. Insieme alla sua co-autrice, Ceri preferisce condurci ad uno sbocco peraltro annunciato indirettamente già a p. 13: “le promesse mancate della democrazia diretta” (che è il titolo delle conclusioni) finiranno per condurre ad un nuovo “dispotismo”? Terzo elemento: curiosamente sia Ceri e Veltri sia Corbetta sembrano credere che il disvelamento del grande inganno “(non) democratico” delle Cinque Stelle espressosi al suo meglio nella frase di Grillo “fidatevi di me” (affermazione populista quant’altre mai) che sceglieva il candidato sindaco perdente per Genova, farà sgonfiare il Movimento, gli toglierà il vento dalle vele. Ho due obiezioni a queste aspettative. La prima la mutuo da Giovanni Sartori che sosteneva e continuerebbe a sostenere (anche se né Grillo né i suoi parlamentari riscuotevano il suo apprezzamento) che quello che conta nella competizione politico-elettorale non è la democrazia interna. Semmai è la democrazia/ticità nella competizione fra partiti.
Il partito è uno strumento che si organizza per conseguire obiettivi. Fintantoché li consegue nessuno metterà in discussione quanto avviene al suo interno né la scelta delle candidature né l’individuazione e accentuazione degli obiettivi programmatici né, tantomeno, la leadership. Il successo si autoalimenta. Le richieste di democrazia faranno la loro insorgenza a fronte di gravi fallimenti, non di piccole battute d’arresto. La seconda obiezione è che il Movimento non è nato su una spinta democraticista, ma, come ho già accennato, su una spinta antipolitica. Quindi, incontrerà delle difficoltà quando, per l’appunto, il vento dell’antipolitica si trasformerà in pochi lievi refoli. L’avvenimento in Italia appare alquanto improbabile (questo è davvero un understatement!). Gli attacchi basati sulla carenza di democrazia interna e sulla manipolazione lasciano il tempo che trovano anche perché i portatori di quegli attacchi non sono, per così dire, impeccabili, al di sopra di ogni sospetto. Affermare, come fa Corbetta, con molti buoni motivi, che il Movimento esprime “una visione in aperta contraddizione con la concezione liberale della democrazia” (p. 270) suscita subito l’interrogativo su chi sarebbero in Italia i portatori di una “concezione liberale della democrazia”, in rigoroso ordine alfabetico: Berlusconi, Bossi, Meloni, Renzi, Salvini, Verdini?
Insomma, è utile e importante sapere che il Movimento è diventato sociologicamente pigliatutti, vale a dire tutti gli elettori che può con una leggera prevalenza di quelli che altrimenti sceglierebbero le sinistre. Ha forti tratti populisti. Dovrà presto vedersela con le sue contraddizioni quanto ai rapporti ambigui intessuti con i mass media. Tuttavia, fintantoché la politica italiana sarà praticata da una maggioranza di carrieristi/e senza scrupoli e senza etica, da sedicenti riformatori che perseguono fini particolaristici e corporativi, da uomini e donne che galleggiano nei loro conflitti di interessi, da incompetenti che non sanno fare funzionare né le assemblee rappresentative né le compagini di governo, all’incirca il 30 per cento di coloro che vanno a votare continueranno a sostenere il Movimento Cinque Stelle. Pour cause.
Recensione pubblicata il 1 marzo 2018 su CasadellaCultura.it
Le donne frenano la fuga dalle urne @La_Lettura @Corriere #vivalaLettura
Il partito degli astensionisti non esiste. Non è mai presente sulle schede elettorali. Non riesce a tradurre i molti voti che ottiene neppure in una manciatina di seggi. Nel prossimo parlamento italiano, come in tutti i parlamenti delle democrazie contemporanee, non ci sarà nessun rappresentante del partito degli astensionisti e, dopo avere versato qualche lacrima da coccodrillo, gli eletti passeranno al business as usual (traduzione: farsi i fatti loro). Quel sistema politico continuerà a funzionare più o meno come prima, salvo cambiamenti che non saranno certamente quelli voluti dall’inesistente partito degli astensionisti e neppure dai sottogruppi di quel partito, le “correnti” degli astensionisti. Anche se è vero che persino i partiti esistenti sono spesso attraversati da non poche e non marginali differenze di opinioni, gli astensionisti non fanno partito poiché le loro motivazioni, calde (rabbia, rifiuto) o fredde (apatia, disinteresse) hanno un solo punto di convergenza: non andare alle urne. Ciascuno degli astensionisti ha sue proprie motivazioni sulle quali non cerca il consenso degli altri. Potrà farsene un vanto: “non voto oramai da più di vent’anni”; sbandierare orgogliosamente che “nessuno si merita il mio voto”; tentare di usarle come un’arma: ” vi delegittimo tutti/delegittimo il sistema”; oppure dolersene: “purtroppo, non mi offrono alternative accettabili”; e rattristarsene: “ero fuori Italia per lavoro, per studio, per una vacanza prenotata da tempo”; ” non riesco più fisicamente ad andare alle urne”, oppure ancora rivelando il suo isolamento sociale e geografico: “nessuno mi viene a chiedere il voto” ; “non ho più parenti, amici e colleghi con i quali parlavamo di politica e ci convincevamo reciprocamente ad andare a votare”. Questa pluralità di motivazioni, che non chiamerò “accozzaglia”, coglie probabilmente tutto l’arco delle giustificazioni possibili. Mette in evidenza quanto sia superficiale, sicuramente fuorviante, sempre inutile parlare del partito degli astensionisti.
Oltre che dalle loro motivazioni, gli astensionisti sono divisi anche per istruzione e reddito, età e genere. Insomma, il non voto è ancora più problematico del voto. Eppure, come rivela la bella analisi di Dario Tuorto, L’attimo fuggente. Giovani e voto in Italia, tra continuità e cambiamento (Il Mulino 2018), sappiamo molto sugli astensionisti italiani, su chi sono, su come sono cambiati nel corso del tempo, su quali novità sono emerse. Alcuni elementi sono comuni a un po’ tutte le democrazie contemporanee. In generale, le persone con livello di istruzione medio-alto e con un reddito buono votano di più delle persone meno istruite e con basso reddito, in lavori precari o disoccupati. I non-votanti rivelano minore interesse per la politica, hanno poche informazioni politiche e non si sentono dotati di efficacia politica, ovvero pensano di non riuscire a influenzare le scelte politiche. Nel passato, non solo in Italia, gli uomini votavano di più delle donne, forse anche perché possedevano in misura maggiore interesse, informazione, convinzione di contare. Oggi, questo è l’elemento di maggiore novità, più visibile in Italia che altrove, sono le donne delle fasce d’età fra i 18 e i 30 anni a votare di più (o ad astenersi meno) dei loro coetanei uomini. Fra le varie ragioni, potrebbe essere così perché quelle giovani donne hanno interesse, informazione politica e voglia di partecipazione che derivano dal provare sulla propria pelle persistenti discriminazioni di opportunità, di reddito, di condizioni di vita.
Le variabili personali hanno grande peso nello spingere verso il voto oppure l’astensione, ma contano moltissimo anche le variabili strutturali che attengono al sistema politico. Lasciando da parte l’obbligatorietà del voto, in Italia abolita nel 1993, ma ancora vigente, ad esempio, in Australia e in Belgio, le due variabili più importanti sembrano essere quelle relative ai partiti e ai sistemi di partito e alla competitività delle elezioni. Non c’è dubbio che, un po’ dappertutto, il declino dei partiti è accompagnato dalla diminuzione della partecipazione elettorale e viceversa. Dove e quando i partiti non hanno più la volontà/capacità di andare a cercare gli elettori, di convincerli e, letteralmente, di portarli alle urne, l’astensionismo trova un terreno fertile. Se i partiti non offrono chiare e importanti alternative di programmi e di persone, molti elettori penseranno che non vale la pena andare alle urne. Vinca l’uno o l’altro le loro condizioni di vita e quelle dei loro figli non cambieranno in meglio e neppure in peggio. In elezioni poco competitive, quindi, il tasso di partecipazione sarà piuttosto basso, qualche volta, come nelle elezioni per il Congresso degli USA nella maggioranza dei collegi sarà molto al disotto del 50 per cento. Esistono molti casi del genere anche in Europa. L’allarme dovrebbe riguardare non tanto la bassa partecipazione elettorale, soprattutto se abituale, quanto, piuttosto l’eventuale crollo, come, ad esempio, avvenuto in Gran Bretagna: dal 71 per cento del 1997 al 59 del 2001. Talvolta ci si dovrebbe allarmare anche quando ci fosse un’impennata di partecipazione elettorale prodotta probabilmente da un leader populista nel contesto del declino dei partiti tradizionali.
Alla ricerca di una spiegazione “elegante e parsimoniosa” dell’astensionismo negli USA, due politologi americani Lyn Ragsdale e Jerrold G. Rusk (The American Nonvoter, Oxford University Press 2017), hanno individuato una variabile che, da sola, sembra offrire una spiegazione ad ampio raggio e molto convincente. In particolare nelle elezioni presidenziali USA il tasso di partecipazione elettorale è aumentato o diminuito a seconda della natura della competizione. Se e quando le previsioni indicano la alta probabilità di vittoria di un candidato, la partecipazione rimane relativamente bassa. Quando, invece, le previsioni segnalano che l’elezione è fortemente competitiva e l’esito nient’affatto scontato allora la partecipazione elettorale è cresciuta in maniera significativa. In estrema sintesi, l’analisi storica- comparata dal 1920 al 2012 di Ragsdale e Rusk conduce ad affermare che l’incertezza sull’esito riduce considerevolmente le percentuali di astensionisti e porta alle urne molti elettori che credono di avere l’opportunità di determinare l’esito voluto o di scongiurare quello sgradito. Nel contesto italiano delle elezioni di marzo, il cui esito è, anche a causa di una pessima legge elettorale, solo parzialmente scontato (nessuna maggioranza assoluta per nessuno dei tre maggiori contendenti), chi sa se l’incertezza motiverà almeno altrettanti elettori del 2013 (75 per cento) ad andare alle urne oppure se la tendenza all’astensionismo, seppure lenta e limitata, continuerà? Chi non voterà, comunque, non conterà.
Pubblicato La Lettura Il Corriere della Sera 25 febbraio 2018
La legittimità democratica si può perdere
In seguito alla più recente ondata di democratizzazione seguita al crollo dei regimi comunisti non soltanto nei paesi dell’Europa centro-orientale, le democrazie che, pure imperfette, sono, al tempo stesso, elettorali e costituzionali, vale a dire che rispettano i diritti dei loro cittadini, ammontano a poco più di una trentina. A loro si aggiungono all’incirca una quarantina di democrazie elettorali nelle quali i diritti dei cittadini sono poco protetti e ancora meno promossi. La Turchia fa parte di questa seconda categoria, la cui transizione a democrazie costituzionali appare molto complicata. Con riferimento agli avvenimenti in corso in Turchia, è opportuno segnalare che le democrazie elettorali possono retrocedere allo stadio di non-democrazie, di regimi autoritari più o meno blandi, più o meno repressivi.
Da Norberto Bobbio ho imparato che la legittimità a governare può derivare da due modalità: ex titulo e quoad exercitium. Il titolo può essere l’ereditarietà, la nomina ad opera della persona o dell’organismo ai quali è riconosciuto il diritto di effettuarla, i procedimenti elettorali. La legittimità può anche essere acquisita da chi, pur non avendo all’inizio ottenuto il titolo a governare secondo criteri accettabili, dimostri di volere e di sapere governare in maniera tale, con scrupolo, correttezza, equità, a favore del sistema e di tutti, da guadagnarsela. Nelle democrazie elettorali, il titolo a governare è la vittoria conseguita attraverso procedure eque. In qualche, rarissimo, regime autoritario, il leader sostiene di avere acquisito il titolo a governare poiché agisce a favore del popolo, lo rappresenta e opera per il suo benessere. In generale, è lecito dubitarne fino a convincente prova contraria e purché sia garantita la libertà degli oppositori di sfidare i governanti.
Sulla scia del tentato e mancato golpe in Turchia, dopo una breve, non necessariamente preoccupante, esitazione sia i capi dei governi degli Stati-membri dell’Unione Europea sia il Presidente degli Stati Uniti hanno condannato il golpe e ribadito la legittimità del governo del partito di Erdogan. Giusto così. La mobilitazione dei muezzin e dei sostenitori del partito di Erdogan ha fatto il resto contro il golpe, ma, come ha scritto giustamente Luigi Ferrarella (Corriere 18 luglio, p. 31) quella mobilitazione dice qualcosa sulla popolarità di Erdogan, non molto sulla democraticità del suo stile di governo. Anzi, le reazioni successive del governo turco e le dichiarazioni di Erdogan sollevano il quesito se la loro legittimità democratica non meriti di essere messa in discussione.
Gli arresti di massa, presumibilmente, senza mandato e le modalità di detenzione, trasmesse al mondo attraverso ai social, nel non tanto sottile intento di insegnare qualcosa a molti, le estromissioni di migliaia di magistrati dai loro tribunali, i licenziamenti di migliaia di dipendenti pubblici, fintantoché non siano confermate come, immagino, dovrebbero, dalla magistratura, sono tutti comportamenti deplorevoli, probabilmente persino in violazione della legislazione turca vigente. Pertanto, è del tutto lecito sollevare il quesito se Erdogan e il suo governo non stiano perdendo la legittimità a governare quoad exercitium, ovvero a causa delle modalità con le quali esercitano il potere. L’eventuale re-introduzione della pena di morte, “suggerita” dal Presidente al Parlamento, al quale spetta deliberarla, dovrà essere valutata con riferimento ai criteri per la sua applicazione, ma, comunque, blocca, fintantoché durerà, qualsiasi procedura di adesione all’Unione Europea (al momento, non certo una delle preoccupazioni principali di Erdogan).
Senza accondiscendenza e senza ipocrisia, proprio perché gli Stati-membri dell’Unione Europea sono consapevoli di quanto importante politicamente, militarmente, socialmente sia la Turchia, il messaggio sul rispetto dei diritti delle persone deve essere inviato a Erdogan senza indugio. I comportamenti delle organizzazioni da lui guidate e controllate rischiano di diventare rapidamente tali da fargli perdere ai nostri occhi qualsiasi legittimità effettiva a governare il suo paese.
Pubblicato il 27 luglio 2016
Riforme: un’altra narrazione
Naturalmente, i tempi nuovi richiedono, sostengono molti, nuove narrazioni. Richiedono anche nuovi narratori. Forse li abbiamo già trovati. Qualcuno ritiene che é sufficiente che la narrazione sia nuova e che i narratori siano giovani affinché si ottenga un salto di qualità. Altri, invece, pensano che nessun salto di qualità potrà essere effettuato se non si produce una analisi seria e approfondita delle nuove narrazioni, se non si va ad un contraddittorio franco e duro. Qui mi scapperebbe di aggiungere, ma sarebbe un appunto da “vecchia” narrazione, al fine di pervenire ad “una piú elevata sintesi”. Come non scritto. Naturalmente, “contraddittorio” significa confronto sulle idee e sulle proposte contenute nelle nuove narrazioni. Non consiste in nessun modo nella derisione personale con la quale si travolgono gli eventuali interlocutori, magari approfittando delle proprie posizioni di potere politico. Ciò detto, in questo breve articolo, mi eserciterò soltanto nell’analisi della narrazione istituzionale variamente e succintamente pronunciata dal presidente del Consiglio alla quale hanno finora fatto da eco tutti i suoi collaboratori senza eccezione alcuna.
Naturalmente non è vero che negli ultimi trent’anni di riforme non ne siano state fatte. Anche tralasciando la legge sulla Presidenza del Consiglio nel 1988, nello stesso anno giunse a compimento la sostanziale abolizione del voto segreto voluta da Bettino Craxi. Tre anni dopo, anche contro il famoso invito di Craxi ad andare al mare, il 62,5 per cento degli elettori italiani preferì andare a votare nel referendum sulla preferenza unica. Nel 1990 era già stata approvata una legge innovativa, per quanto priva di interventi sul sistema elettorale, sul riordino delle autonomie locali. Nel 1993, superata l’incerta giurisprudenza della Corte Costituzionale in materia elettorale, gli italiani furono in grado di dare una spallata consapevole e decisiva alla legge elettorale proporzionale e, nella stessa tornata, abolirono il finanziamento statale dei partiti e tre ministeri: Agricoltura, Partecipazioni Statali, Turismo e Spettacolo. Per evitare un referendum che avrebbe cambiato in senso fortemente maggioritario la legge per l’elezione dei comuni e delle province, nello stesso anno il parlamento approvò la tuttora vigente legge in materia che ha dato ottima prova di sé. Nel 2001 il centro-sinistra formulò cambiamenti significativi, nei rapporti Stato/enti locali, Titolo V, giungendo fino, così si vantarono quei legislatori, “ai limiti del federalismo” (quello allora alla moda). Poi, per consolarsi delle elezioni perdute, ma stabilendo un brutto precedente, il centro-sinistra sottopose la sua riforma costituzionale a referendum, vincendolo, nell’ottobre 2001. Nel 2005, il centro-destra fece approvare dai suoi parlamentari sia la legge elettorale nota come Porcellum sia un’ambiziosa riforma della Costituzione: 56 articoli su 138. Anche se smantellato dalla Corte costituzionale, il Porcellum è ancora con noi, mentre in un referendum tenutosi su sua richiesta nel giugno 2006, il centro-sinistra fece bocciare dall’elettorato l’intera, pasticciata, riforma costituzionale del centro-destra. Nessun rimprovero, nessun rimpianto, nessuna autocritica.
Dunque, seppure controverse e scoordinate, molte riforme sono state fatte e approvate dal 1988 ad oggi. É stupefacente come i mass media non siano stati in grado oppure non abbiano voluto controbattere con dati durissimi le affermazioni propagandistiche del presidente del Consiglio, del suo ministro per le Riforme Istituzionali, dei suoi costituzionalisti (ma anche di qualche improvvisato politologo) di riferimento che si presentano come i riformatori venuti dal nulla.
Oltre alle riforme costituzionali e istituzionali, da circa quindici anni a questa parte, seppur faticosamente, nel centro-sinistra, nella pratica ante litteram prima, poi, quello che più conta, nello Statuto del Partito democratico, è stata introdotta una riforma molto importante, fra l’altro, decisiva per la stessa carriera politica di Matteo Renzi: le elezioni primarie. Non è il caso di andare alla ricerca dei diritti di primogenitura (ma poiché carta canta, anche la carta della rivista “il Mulino”), l’esercizio è facilmente fattibile. É sufficiente sfogliare l’indice degli articoli pubblicati negli anni novanta. Certamente, fra i fautori delle primarie non troveremo i costituzionalisti dell’attuale presidente del Consiglio. Non troveremo i professoroni. Non troveremo neppure i “gufi”. Troveremo, invece, coloro, pochissimi, che hanno sempre creduto e scritto che nessuna riforma, neanche la più tranchante, delle istituzioni, è in grado di produrre, da sola, un miglior funzionamento del sistema politico se non riesce a trasformare i partiti politici che, per quanto indeboliti, ma meno di quel che si crede, rimangono centrali. Chi sottovaluta l’importanza delle primarie e dei rapporti “istituzioni-partiti” è destinato a fare riforme brutte che avranno cattive conseguenze.
Naturalmente, non è vero che, se andasse in porto, la riforma del Senato porrebbe fine al bicameralismo perfetto. Infatti, il bicameralismo italiano, se le parole hanno un senso, e in politica sarebbe sempre opportuno che lo avessero, non è mai stato perfetto (aggettivo che si riferisce al funzionamento). É sempre stato indifferenziato e paritario, aggettivi che si riferiscono alle strutture e ai poteri. Non è neppure vero che la lentezza del processo legislativo in Italia sia attribuibile all’esistenza di due Camere. Infatti, come ripetutamente evidenziano i presidenti di Camera e Senato, sbagliando ripetutamente, poiché considerano il numero delle leggi approvate il segnale che il parlamento fa le leggi, mentre le leggi le fa il governo spesso saltando il parlamento con la decretazione e umiliandolo con i voti di fiducia, entrambe le Camere sono sempre state molto operose. Anno dopo anno, un po’ meno di recente, fanno (meglio approvano) molte leggi, all’incirca quattro volte di più di Westminster, la madre di tutti i Parlamenti, abbondantemente due volte di più di Bundestag e Bundesrat tedeschi e dell’Assemblea Nazionale e del Senato della Quinta Repubblica francese, tutti parlamenti bicamerali “imperfetti”, ovvero differenziati. Pertanto, né la quantità né la velocità della produzione legislativa costituiscono criteri convincenti a giustificazione della riforma del Senato per porre fine ad un bicameralismo che perfetto non è mai stato, ma che non ha in quasi nessun caso e modo costituito l’intralcio principale o predominante all’azione del governo. Gli stessi commentatori che hanno, non proprio sobriamente, applaudito la riduzione del Senato a Camera delle regioni, hanno sempre pappagallescamente argomentato che il problema del modello di governo parlamentare all’italiana consiste nei pochi poteri a disposizione del presidente del Consiglio. Pare alquanto difficile sostenere che ridimensionando i poteri del Senato, fin quasi all’azzeramento sulle leggi del governo e sulla possibilità di chiamare il governo e i suoi ministri a rendere conto del fatto, del non fatto e del malfatto, automaticamente il presidente del Consiglio italiano ne uscirà con potere istituzionale e politico rafforzato.
Naturalmente, nelle democrazie parlamentari, “forti” risultano essere i capi di governo, uomini e donne che sono espressione di un partito grande, coeso, rappresentativo di più ceti sociali, che hanno esperienze di governo e che guidano una coalizione programmatica. Curiosamente, negli stessi giorni dell’epica battaglia di Palazzo Madama, battuto alla Camera dei deputati, il governo Renzi annunciava che avrebbe recuperato al Senato. No comment. Al momento, è soltanto possibile affermare che la riforma del Senato squilibra la democrazia parlamentare italiana. Non è una deriva autoritaria. Più italianamente, è la deriva di chi procede perseguendo tornaconti di immagine e di pubblicità di breve periodo poiché la sua incultura istituzionale non gli consente neppure di intravedere il lungo periodo.
Naturalmente, “non esiste proprio” che la disciplina di partito possa essere imposta sulle riforme costituzionali. Il solo pensiero è aberrante. Sentirlo dire e ripetere dai collaboratori di Renzi senza che nessuno dei commentatori e dei giornalisti rilevi l’aberrazione è più che sconfortante. Primo, la disciplina di partito può essere richiesta ai parlamentari esclusivamente sulle materie inserite nel programma che il loro partito ha sottoposto agli elettori, sul quale ha ottenuto voti grazie ai quali quei parlamentari sono stati eletti, soprattutto quando esistono le liste bloccate. Il discorso potrebbe essere leggermente diverso se i parlamentari fossero stati eletti in collegi uninominali. In questo caso, alcuni approfondimenti e altre precisazioni sarebbero necessarie. Toccherebbe a quei parlamentari formularli anche come informazione da mettere a disposizione degli elettori, sicuramente interessati ed esigenti, dei loro collegi. La disciplina di partito può anche essere richiesta sul programma di governo concordato con gli indispensabili alleati, in particolare se i gruppi parlamentari sono stati coinvolti, come dovrebbero, nella definizione del programma di governo. Su altre, imprevedibili materie, ad esempio, le emergenze, ovvero problemi che sorgono improvvisamente e che necessitano una soluzione rapida, quella disciplina di partito non può essere richiesta, ma deve essere conquistata con consultazioni e anche con votazioni chiare e trasparenti.
Sulle modifiche costituzionali e sulle votazioni che riguardano persone, i parlamentari hanno la facoltà, se lo desiderano, di richiamarsi all’assenza di vincolo di mandato (art. 67). Tuttavia, il loro voto difforme da quello dei parlamentari del loro partito non può essere giustificato soltanto con il richiamo alla “coscienza”. Troppo facile e, qualche volta, persino assolutamente ipocrita. Soprattutto un voto di coscienza non argomentato non comunica le indispensabili informazioni del parlamentare dissenziente agli altri parlamentari, al suo partito, agli elettori, all’opinione pubblica. Il voto di coscienza deve essere argomentato con riferimento alla “scienza”. In base alle conoscenze loro disponibili, ad esempio, relative al possesso da parte di un leader autoritario di armi di distruzione di massa, tutti i parlamentari sono sicuramente legittimati a negare il loro voto al governo di cui fa parte il loro partito. Quanto alle votazioni che riguardano persone -dall’autorizzazione all’arresto dei colleghi inquisiti all’elezione del presidente della Repubblica e dei giudici costituzionali -, nessun parlamentare deve mai essere messo né trovarsi nella condizione di “scambiare” apertamente il suo voto con l’arrestando o con l’eligendo e neppure di temere che il suo voto possa essere ritorto contro di lui, i candidati ad alcune cariche di rilievo essendo notoriamente uomini già abbastanza potenti e, spesso, provatamente vendicativi.
Naturalmente, non è vero che non conosciamo la sera delle elezioni chi ha vinto, Peraltro, dovrebbe interessarci sapere anche chi ha perso, quanto e perché. Lo abbiamo sempre saputo giá con la legge elettorale proporzionale utilizzata nella prima lunga fase della Repubblica italiana. Abbiamo continuato a saperlo con il Mattarellum (1994, 1996, 2001). Non abbiamo avuto dubbi, tranne il maldestro tentativo berlusconiano di riconteggio dei voti nel 2006, con il Porcellum. Con qualsiasi legge elettorale si sa chi ha vinto appena finito di contare i voti. Però, in nessuna democrazia parlamentare è sufficiente sapere chi ha vinto, numeri (di voti e di seggi) alla mano. In tutti i sistemi multipartitici delle democrazie parlamentari è giusto attendere che siano i dirigenti di partito a decidere, magari con riferimento a quanto detto durante la campagna elettorale e agli eventuali precedenti, chi farà parte della coalizione di governo e a chi andranno le cariche ministeriali, compresa anche la più elevata. Per fare un solo esempio, non c’è stata neppure una elezione in Germania (la Gran Bretagna é un caso fin troppo facile) nella quale non si sia saputo la sera della chiusura delle urne chi aveva vinto. Senza nessuno scandalo, per due volte la vincitrice, Angela Merkel, ha saggiamente costruito governi di Grande Coalizione (2005-2009; 2013–). Supponendo che esista un sistema elettorale dal quale esca sempre un velocissimo vincitore, questo non proprio miracoloso fatto cambierebbe la qualità della politica, dei partiti, del governo? Condurrebbe alla tanto agognata, ma mai precisamente specificata, governabilità?
Naturalmente, tutti vogliono la governabilità. Pochi sanno definirla. Pochi conoscono le condizioni alle quali acquisirla, mantenerla, esercitarla. Dal Presidente del Consiglio in carica, Matteo Renzi, non abbiamo finora avuto indicazioni precise, ma, forse, sì. Sarà la legge elettorale chiamata Italicum che, grazie al suo premio di maggioranza, assicurerà la governabilità. Quindi, la governabilità è la conseguenza oppure il prodotto di una maggioranza assoluta creata artificialmente dalla legge elettorale che, nelle parole del presidente della Repubblica, riportate senza rilievo da alcuni quotidiani, ma mai discusse, contiene clausole che debbono sicuramente essere sottoposte a “verifiche di costituzionalità”. Facendo un opportuno passo indietro, poiché né la voglia di riforme né quella di governabilità sono nate poche mesi fa, tra la metà degli anni settanta e la fine degli anni ottanta vi fu un intenso, importante, persino appassionato dibattito politologico e sociologico sulla governabilità e, soprattutto, sulla sua crisi. Il cuore del problema era: “come debbono comportarsi i governi democratici e le loro istituzioni per fare fronte alle domande, molte e nuove, espresse dalle loro società mobilitate, esigenti, post-materialiste?” Alla crisi di “sovraccarico” si prospettarono due risposte: scoraggiare le domande oppure accrescere la capacità delle istituzioni. Esistono molte modalità di scoraggiamento, a cominciare dall’indifferenza a continuare con il palleggiamento di responsabilità fra le autorità e le istituzioni a finire con lo scarico di responsabilità, ad esempio, sull’Unione europea e sulla Troika. Esistono soluzioni anche al più delicato compito e complesso compito di accrescere la capacità delle istituzioni. A quei tempi, qualcuno rilevò anche che, nei sistemi politici non soltanto europei nei quali un partito di sinistra al governo riusciva a convincere sindacati e organizzazioni imprenditoriali a entrare in rapporti di collaborazione e a concordare le politiche, la crisi di governabilità era di limitato impatto e trovava (trovò) soluzioni praticabili.
Accordi di non breve periodo fra governi, partiti, associazioni sindacali e organizzazioni imprenditoriali, che tecnicamente si chiamano “neo-corporativismo”, vanno contro tutte le indicazioni e i suggerimenti che certi “autorevoli” editorialisti danno da anni a tutti i governanti italiani di turno (un po’ meno a Berlusconi) intesi a porre fine a qualsiasi forma di concertazione e a “spezzare le reni” ai gruppi di interesse dei più vari tipi, senza nessuna distinzione. In seguito, si sostenne che la governabilità dipende dalla stabilità degli esecutivi e che, di conseguenza, le leggi elettorali che insediano maggioranze assolute sono la (semplicistica, illusoria, é sufficiente leggere la storia inglese degli anni sessanta e settanta) soluzione: stabilità governativa eguale governabilità. Qualcuno aggiunse che la stabilità governativa è soltanto una premessa per l’esercizio dell’efficacia decisionale, magari in maniera molto veloce. In attesa di qualche criterio per valutare l’impatto e la qualità delle decisioni, anche in materia costituzionale, ci si può fermare, piuttosto perplessi, qui.
Naturalmente, i referendum costituzionali non li chiedono i governi. Eppure questo è l’annuncio ripetuto, prima e dopo la riformetta del Senato, dal ministro Maria Elena Boschi e dal presidente del Consiglio. Entrambi, davvero generosamente, hanno aggiunto la paradossale concessione che il governo farà deliberatamente mancare nella seconda lettura la maggioranza dei due terzi (maggioranza che, comunque, al Senato, se la sognano) per consentire ovvero, addirittura, per chiedere lui stesso un referendum popolare sulle riforme costituzionali. I referendum chiesti dai governi hanno un nome chiarissimo. Sono plebisciti. Restano tali anche quando i referendum costituzionali li chiese de Gaulle che, da leader carismatico quale sicuramente fu, voleva proprio un plebiscito sulla sua persona. Quando gli fu negato, guarda caso proprio sulla riforma del Senato nel 1969, sdegnosamente, ma in maniera impeccabilmente responsabile, se ne andò a Colombey-les deux églises a completare quell’eccezionale documento letterario che sono le sue memorie. Secondo l’art. 138, i referendum costituzionali possono essere chiesti da un quinto dei parlamentari di una o dell’altra Camera oppure da cinque consigli regionali o da 500 mila elettori.
Naturalmente, non Renzi, capo del governo, ma Renzi segretario del Partito democratico ha la facoltà di invitare (obbligare, magari, no) i suoi parlamentari, le maggioranze consiliari in cinque regioni, gli iscritti e i simpatizzanti del Partito democratico a chiedere il referendum. Tuttavia, la striscia plebiscitaria si vedrebbe comunque. Purtroppo, il centro-sinistra, popolato da “quelli che… la Costituzione più bella del mondo”, fecero, come ho rilevato sopra, questa superflua e brutta torsione referendaria nel 2001, creando un precedente. Non è, però, il caso di insistere nella proposta di un’operazione che spetta, se lo vorranno, alle minoranze, e che sarebbe costosa in termini di denaro, di tempo e di energie. Anzi, il governo deve essere fortemente scoraggiato a esercitarsi in inutili prove di forza. Impieghi piuttosto le sue e le nostre risorse in modi più produttivi.
Naturalmente, chi conosce le Costituzioni sa che sono state costruite in maniera sistemica, vale a dire che, soprattutto le migliori, hanno tenuto conto dei rapporti e delle interazioni che si stabiliscono fra le istituzioni e che conducono a una varietà di esiti. In un certo senso, i limiti al potere di una istituzione sono posti dal potere di un’altra istituzione. Tecnicamente, spesso se ne parla come di checks and balances, freni e contrappesi. Se ad un’istituzione si danno poteri significativi strappandoli ad un’altra istituzione allora bisognerà trovare contrappesi altrove. Talvolta ci si trova anche in situazioni di inter-institutional accountability, vale a dire che ciascuna istituzione ha responsabilità che deve osservare nei confronti delle altre, e viceversa. La prendo alla larga per farla facile. Se il rapporto “governo-parlamento” viene squilibrato togliendo molto, quasi tutto il potere che il Senato ha nei confronti del governo e abolendo la responsabilizzazione del governo nei confronti del Senato, allora nella rimanente Camera dei deputati sarà opportuno che l’opposizione parlamentare acquisisca maggiori poteri di ispezione e di controllo sul governo. Tuttavia, non si tratta soltanto di questo come rivela una valutazione congiunta, seria e comprensiva del progetto di riforma elettorale. Tralascio le giravolte compiute dal premier a partire dalla presentazione in gennaio di addirittura tre progetti diversi di legge elettorale per approdare ad un testo che non rifletteva nessuno dei tre (e che, in seguito, è variamente cambiato). Tralascio anche il frequente e ripetuto riferimento alla formula sindaco d’Italia, ma almeno un commento deve essere fatto. In qualsiasi salsa, “sindaco d’Italia” significa mutamento della forma di governo dell’Italia: da democrazia parlamentare a democrazia presidenziale, per di piú priva dei freni e contrappesi dei presidenzialismi migliori e irrigidita nei rapporti fra il sindaco/capo di governo e il Consiglio-Camera dei deputati. A prescindere che non esiste nulla di simile altrove, non c’é nessuna garanzia che quanto funziona a livello locale riesca automaticamente funzionare a livello nazionale. Al contrario.
Per quel che riguarda l’Italicum nella sua versione approvata alla Camera dei deputati, mi limito, per il momento, alle osservazioni che, proprio perché sono le piú semplici, dovrebbero fare ripensare tutta la legge. Primo, se la Corte costituzionale “condanna” le liste bloccate perché impediscono all’elettore di esercitare il suo diritto di scelta fra i candidati al parlamento perché mai liste corte, ma ugualmente bloccate, sarebbero accettabili? Criticamente, rilevo che la Corte si fa davvero delle illusioni se ritiene accettabili liste “nelle quali il numero dei candidati da eleggere sia talmente esiguo da garantire l’effettiva conoscibilità degli stessi e con essa l’effettività della scelta e la libertà del voto”. Attendiamo, comunque, di sapere quanto esiguo debba essere quel numero. Non dobbiamo attendere per sapere che sicuramente ci saranno in quelle liste “corte” numerosi imboscati.
Nel giugno 1991, gli elettori approvarono contro l’esplicita opposizione di quasi tutti i dirigenti di partito il quesito sulla preferenza unica. Naturalmente, è possibile sostenere che quegli elettori volevano molto di più. Il minimo comun denominatore era allora e rimane oggi non nessuna preferenza, ma una sola. Un solo voto di preferenza non può essere scambiato (e moltiplicato) da cordate di candidati che si strutturano in correnti o che trattano con gruppi esterni. Una sola preferenza significa che gli elettori hanno un po’ di potere che, per quanto poco, è meglio di niente. Chi risponde a queste obiezioni che personalmente preferisce i collegi uninominali al voto di preferenza può, naturalmente, attivarsi per cambiare tutto l’impianto della legge. Altrimenti, voti per la “concessione” di una preferenza che toglie dalle mani dei dirigenti la nomina dei parlamentari. Con quella preferenza l’Italia entrerà nel club delle democrazie parlamentari europee, ventitré delle quali (su ventotto) hanno qualche modalità di voto di preferenza. Seconda osservazione, se la Corte dice che il premio di maggioranza va attribuito stabilendo in anticipo una soglia minima, quella soglia va determinata percentualmente e la sua entità argomentata in maniera convincente affinché, torno al cuore dei sistemi elettorali, conferisca effettivo potere al voto degli elettori. Esiste un solo modo per accrescere il potere degli elettori: stabilire che, a prescindere dalle percentuali ottenute, si procederà comunque al ballottaggio fra i due partiti e le due coalizioni più votate consentendo, come già si fa nel caso di ballottaggio fra candidati sindaco, l’apparentamento fra liste. Rimarrebbe, lo so benissimo, il rischio che il premio (se fisso) attribuito a un partito da solo non sia sufficiente affinché quel partito o coalizione riesca a raggiungere la maggioranza assoluta alla Camera. Tant pis o tanto meglio se questo è deciso dall’elettorato. Fra le clausole, si potrebbe anche aggiungere che, in caso di suo dissolvimento, la coalizione premiata perderà i seggi aggiuntivi che saranno redistribuiti proporzionalmente.
Mi rendo conto che sto entrando in dettagli tecnici, quelli dove si annida, soddisfatto, compiaciuto e competente il diavolo e, temporaneamente, mi fermo. Il punto vero, comparso improvvisamente alle non sistemiche menti dei riformatori elettorali, é che il premio in seggi avrà effetti anche sull’elezione ad opera del parlamento di molte cariche, a partire dai giudici costituzionali (con il rischio di dare vita ad una Corte palesemente di parte), ma soprattutto sull’elezione del presidente della Repubblica. Non mi arrampicherò sugli specchi dove i riformatori stanno cercando di trovare altri Grandi Elettori che evitino alla “premiata” maggioranza elettorale di diventare allegramente maggioranza presidenziale (spero, con la salvaguardia del voto segreto…). Credo che la soluzione possibile sia quella ventilata da coloro che pongono il quorum dei due terzi per le prime tre votazioni, andate a vuoto le quali si passerebbe ad un ballottaggio fra i due candidati piú votati affidato a tutto l’elettorato italiano. Poiché credo nella capacità degli uomini e delle donne di apprendere e di tenere conto dei requisiti della carica che occupano, con questa modalità ci sarebbero molte buone probabilità che l’eletto/a si comporterebbe da rappresentante “dell’unità nazionale”. A prescindere dalla soluzione,quello che appare chiaramente é come sia imperativo tenere conto degli effetti sistemici di qualsiasi riforma, mentre nella loro sregolatezza senza genio i riformatori non hanno inizialmente avuto neppure la minima consapevolezza del problema complessivo.
Al supermercato delle istituzioni, delle regole, dei meccanismi è disponibile un po’ di tutto, ma chi vuole riformare una Costituzione, deve sapere che non è dal supermercato che otterrà quello di cui ha bisogno, ma dalla elaborazione di un progetto sistemico. Oserei dire dai progetti sistemici formulati da architetti o ingegneri costituzionali e non solo. Opportunamente consultato, qualche politologo (purtroppo, non tutti) consiglierebbe di guardare in chiave comparata appunto ai sistemi politici, che non sono soltanto Costituzioni, che hanno dimostrato di funzionare in maniera (più che) soddisfacente. Guardare al mondo animale: ai porcelli, ai canguri, ai gufi, pur tenendo conto delle differenze, non conduce all’altezza della sfida.
Alla fine di questa, pur sintetica, panoramica in quanto ognuno dei punti che ho sollevato ha dietro di sé un’ampia letteratura scientifica nonché numerosi casi di pratiche concrete, mi permetto di concludere con due considerazioni generali. La prima é che la cultura costituzionale del paese, in special modo dei politici, degli operatori dei media e dell’opinione pubblica appare tuttora tristemente non aggiornata. Sconta anche un incredibilmente elevato livello di servilismo e di conformismo che la rendono palesemente inadeguata a contrastare sia le sparate sia gli invasivi tweet della propaganda del governo e dei suoi quartieri. Seconda considerazione, senza procedere a opportune analisi comparate, che sono lo strumento per controllare ipotesi, generalizzazioni e aspettative, qualsiasi riforma rischia di non conseguire gli esiti promessi e sperati. Rimane molto spazio per miglioramenti, ma, naturalmente, anche per peggioramenti.
Pubblicato in il Mulino, 5/2014, pp. 738/748, ora in Cittadini senza scettro. Le riforme sbagliate, Egea-Unibocconi, 2015 pp. 137/151
A Gianfranco Pasquino il Life Achievement Award dal Conference Group of Italian Politics and Society
Gianfranco Pasquino ha ricevuto il Life Achievement Award (premio alla carriera) dal Conference Group of Italian Politics and Society, l’associazione di coloro che, in Italia e nel mondo, studiano la politica e la società italiana.
CONGRIPS is the Conference Group on Italian Politics and Society. CONGRIPS was formally initiated on September 2, 1975, at the American Political Science Association (APSA) convention in San Francisco, California. Norman Kogan of the University of Connecticut spearheaded the effort which, in the first year, garnered 117 members. The original purpose of the organization was to encourage and support academic research and writing on current and past Italian political issues and practices. That charter was expanded in 1986 to include Italian social issues, hence the name change that year to the Conference on Italian Politics & Society ( CONGRIPS ). During its first year, CONGRIP also adopted a Constitution and Bylaws .
Virtually from its inception, CONGRIPS has been involved in a variety of activities intended to further the study of Italian politics. The organization has annually sponsored Italian-focused panels at APSA conventions and at many meetings of several other groups including: the International Political Science Association (IPSA), the Midwest Political Science Association (MPSA), the U.K.’s Political Studies Association (PSA) and the Council for European Studies (Europeanists). It has organized workshops, some of which have attracted funding from the National Science Foundation and Italy’s Consiglio Nazionale delle Ricerche. CONGRIPS has also sponsored conferences and roundtable discussions in conjunction with other groups such as the Societa’ Italiana di Scienza Politica, Stato e Mercato and the Rockefeller Foundation.In 1987, CONGRIPS facilitated the publication of Italian Politics: A Review in collaboration with the Istituto Carlo Cattaneo. The first volume’s editors included Robert Leonardi, Raffaella Nanetti and Piergiorgio Corbetta. Since then, Italian Politics has been published yearly, both in English (by Berghahn Books) and in Italian (by Il Mulino). The organization’s other major publishing effort has, of course, been its bi-annual update: The Conference Group on Italian Politics & Society Newsletter. Numbering over seventy issues, the Newsletter provides announcements, articles, book reviews and reports of the program chair.One of the strengths of CONGRIPS has been its ability to attract a core academic circle dedicated to research and writing on Italian politics and society. Consistency and hard work have also characterized those responsible for putting together the Newsletter, whether they are part of our current or past executive .
In addition to the NSF funding mentioned above, CONGRIPS has also received grants and other forms of support from the Faculty of Arts of McGill University, Montreal, Quebec, Canada (1987-90); from Dickinson College, Carlisle, Pennsylvania, USA (1990-95); and from the Fondazione Agnelli, Italy (1990-92). Funds from the latter have, in part, been used for annual prizes to encourage exemplary writing in the field. Since 2006 CONGRIPS awards every other year a Lifetime Achievement Award and, on alternate years, a Best Dissertation Award in the field of Italian politics and society also in a comparative perspective. CONGRIPS enjoys the participation of members from numerous countries across Europe and North America. Future goals for the organization include
RELIGIONI FORTI E FONDAMENTALISMI. Intervista postuma a Gabriel A. Almond

Gabriel A. Almond ((1911-2002) è stato uno dei più importanti scienziati politici americani del XX secolo. Addottoratosi a Chicago, ha insegnato a Yale e Princeton e concluso la sua carriera alla Stanford University. Si è occupato con studi fondamentali dello sviluppo politico e della cultura politica. I suoi contributi più significativi sono raccolti nel volume Cultura civica e sviluppo politico (Bologna, Il Mulino, 2005) a cura di Gianfranco Pasquino che lo ha “intervistato” appositamente per la Casa della Cultura.
Professor Almond, l’ultimo suo libro, Religioni forti. L’avanzata dei fondamentalismi sulla scena mondiale (Bologna, Il Mulino, 2006), sintesi di una ampia ricerca in sette volumi con R. Scott Appleby e Emmanuel Sivan, pure rimasto poco noto in Italia, mantiene una straordinaria attualità. La domanda, però, è: perché lei si è accorto così tardi della rilevanza politica della religione?
R. Ha ragione, prof. Pasquino, siamo stati davvero poco attenti ai fenomeni religiosi. Non posso neppure cavarmela dicendo che da questa parte dell’Atlantico siamo talmente laici da neppure prendere in considerazione la religione. Il paradosso, invece, è che proprio noi americani, bis o tris nipoti dei dissidenti religiosi, continuiamo ad essere un paese nel quale la religione è sempre stata visibile e importante. Anch’io sono un ebreo credente. Forse il nostro silenzio sulla religione è stato un modo per esorcizzarla. Poi, purtroppo, hanno fatto irruzione sulla scena politica USA gli evangelici. Allora, abbiamo capito, tardivamente, che non soltanto non avevamo esorcizzato un bel niente, ma che dovevamo preoccuparci. Dovevamo cercare di capire, senza nessun cedimento paternalistico, che i movimenti antimoderni di ispirazione religiosa sono un tentativo, pericoloso e disperato, ma non per questo da non criticare, di reazione alla secolarizzazione e alla globalizzazione.
D. Immagino che lei abbia letto il famoso libro di Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo (Milano, Rizzoli, 1992). Persino Fukuyama elude del tutto il ruolo politico della religione. Le liberal-democrazie hanno debellato i comunismi reali, soprattutto la loro ideologia, una vera e propria ideologia totalitaria. Non resterebbe loro che realizzarsi. Nel 1991 Fukuyama, studioso colto e originale, non intravede affatto la durissima sfida del fondamentalismo, o dovrei dire dei “fondamentalismi”, alle liberal-democrazie.
R. Certamente, lei deve usare il plurale. Con Appleby e Sivan non abbiamo dubbi. Tutte le grandi religioni, monoteistiche (il cristianesimo, nelle sue varianti cattolica e protestanti, l’ebraismo e l’islam) e non (l’induismo), manifestano propensioni più o meno forti verso il fondamentalismo, vale a dire che mirano a plasmare la vita delle comunità secondo i precetti religiosi derivanti dall’interpretazione dei loro sacri testi e a imporli anche con la forza a chiunque si trovi in quelle comunità. Dentro ciascuna e tutte le confessioni monoteistiche si annidano grandi, qualche volta irresistibili, spinte al fondamentalismo.
D. Ho un’altra considerazione problematica relativa alle vostre generalizzazioni. Riguarda la carica di violenza che esprime il fondamentalismo islamico e che lo differenzia enormemente dagli altri fondamentalismi. Come mai?
R. Abbiamo scritto che la carica di violenza sprigionata dal fondamentalismo islamico dipende dalla volontà di un ceto religioso ampio e diffuso di mantenere il controllo sui fedeli proprio quando i processi di secolarizzazione e di globalizzazione investono i paesi dove l’Islam è l’unica religione che è possibile professare apertamente. Dipende anche dall’uso della religione come instrumentum regni che ne fanno alcune monarchie, come quella, in particolare, dell’Arabia Saudita. Infine, dipende dal fatto che Machiavelli non è ancora arrivato nel Medio-Oriente.
D. Questa è un’osservazione che lei, prof. Almond, deve motivare per noi che siamo indegni successori del fiorentino il quale, è opportuno ricordarlo, apre la strada alla autonomia della politica e del suo studio in maniera scientifica. Fra gli italiani e non solo circolano a piede libero e disinvolto commentatori e intellettuali che, invece di leggere e studiare Machiavelli, preferiscono esercitarsi in una distinzione che non pare possibile provare: quella fra l’Islam buono e l’Islam cattivo (meglio, forse, fra due letture, davvero egualmente plausibili?, del Corano).
R. Intendo dire che, pur essendo vero che tutte le religioni monoteistiche vogliono imporsi al potere politico e che, ad esempio, anche i cattolici fanno qualche volta davvero fatica (mi hanno parlato di un certo Card. Ruini) a ricordarsi di “dare a Dio quel che è di Dio e a Cesare quel che è di Cesare“, nell’Islam questa distinzione e il relativo precetto proprio non esistono. Dio, ovvero le Supreme Guide Spirituali, come in Iran, controllano Cesare e gli dettano che cosa deve fare. Non esiste nessuna separazione fra la religione e la politica. In questo senso, la cultura politica, espressione davvero impegnativa, dell’Islam si è fermata a prima di Machiavelli. Solo dove, seppure fra tensioni e conflitti, gli islamici accettano la separazione e l’autonomia della politica, come, ad esempio, in Indonesia e in Turchia (ma qui vedo problemi emergenti più precisamente sotto forma di uso politico della religione), è possibile costruire una democrazia. Non sono un sostenitore di società multiculturali nelle quali molti pensano di acconsentire all’esistenza di regole religiose, giuridiche (la sharia, magari casereccia), culturali, sociali che contraddicono i diritti universali delle donne e degli uomini. Sono, però, molto favorevole (e Tocqueville mi darebbe ragione) a società multi religiose. Una volta che le molte credenze religiose capiscono che non possono vicendevolmente distruggersi si metteranno d’accordo sui limiti della loro azione sulla sfera pubblica. Temo che sarà un processo lungo e tormentato, ma, se posso dire così, ho ‘fede’ nella sua realizzazione.
Pubblicato il 12 dicembre 2015






