Il partito degli astensionisti non esiste. Non è mai presente sulle schede elettorali. Non riesce a tradurre i molti voti che ottiene neppure in una manciatina di seggi. Nel prossimo parlamento italiano, come in tutti i parlamenti delle democrazie contemporanee, non ci sarà nessun rappresentante del partito degli astensionisti e, dopo avere versato qualche lacrima da coccodrillo, gli eletti passeranno al business as usual (traduzione: farsi i fatti loro). Quel sistema politico continuerà a funzionare più o meno come prima, salvo cambiamenti che non saranno certamente quelli voluti dall’inesistente partito degli astensionisti e neppure dai sottogruppi di quel partito, le “correnti” degli astensionisti. Anche se è vero che persino i partiti esistenti sono spesso attraversati da non poche e non marginali differenze di opinioni, gli astensionisti non fanno partito poiché le loro motivazioni, calde (rabbia, rifiuto) o fredde (apatia, disinteresse) hanno un solo punto di convergenza: non andare alle urne. Ciascuno degli astensionisti ha sue proprie motivazioni sulle quali non cerca il consenso degli altri. Potrà farsene un vanto: “non voto oramai da più di vent’anni”; sbandierare orgogliosamente che “nessuno si merita il mio voto”; tentare di usarle come un’arma: ” vi delegittimo tutti/delegittimo il sistema”; oppure dolersene: “purtroppo, non mi offrono alternative accettabili”; e rattristarsene: “ero fuori Italia per lavoro, per studio, per una vacanza prenotata da tempo”; ” non riesco più fisicamente ad andare alle urne”, oppure ancora rivelando il suo isolamento sociale e geografico: “nessuno mi viene a chiedere il voto” ; “non ho più parenti, amici e colleghi con i quali parlavamo di politica e ci convincevamo reciprocamente ad andare a votare”. Questa pluralità di motivazioni, che non chiamerò “accozzaglia”, coglie probabilmente tutto l’arco delle giustificazioni possibili. Mette in evidenza quanto sia superficiale, sicuramente fuorviante, sempre inutile parlare del partito degli astensionisti.
Oltre che dalle loro motivazioni, gli astensionisti sono divisi anche per istruzione e reddito, età e genere. Insomma, il non voto è ancora più problematico del voto. Eppure, come rivela la bella analisi di Dario Tuorto, L’attimo fuggente. Giovani e voto in Italia, tra continuità e cambiamento (Il Mulino 2018), sappiamo molto sugli astensionisti italiani, su chi sono, su come sono cambiati nel corso del tempo, su quali novità sono emerse. Alcuni elementi sono comuni a un po’ tutte le democrazie contemporanee. In generale, le persone con livello di istruzione medio-alto e con un reddito buono votano di più delle persone meno istruite e con basso reddito, in lavori precari o disoccupati. I non-votanti rivelano minore interesse per la politica, hanno poche informazioni politiche e non si sentono dotati di efficacia politica, ovvero pensano di non riuscire a influenzare le scelte politiche. Nel passato, non solo in Italia, gli uomini votavano di più delle donne, forse anche perché possedevano in misura maggiore interesse, informazione, convinzione di contare. Oggi, questo è l’elemento di maggiore novità, più visibile in Italia che altrove, sono le donne delle fasce d’età fra i 18 e i 30 anni a votare di più (o ad astenersi meno) dei loro coetanei uomini. Fra le varie ragioni, potrebbe essere così perché quelle giovani donne hanno interesse, informazione politica e voglia di partecipazione che derivano dal provare sulla propria pelle persistenti discriminazioni di opportunità, di reddito, di condizioni di vita.
Le variabili personali hanno grande peso nello spingere verso il voto oppure l’astensione, ma contano moltissimo anche le variabili strutturali che attengono al sistema politico. Lasciando da parte l’obbligatorietà del voto, in Italia abolita nel 1993, ma ancora vigente, ad esempio, in Australia e in Belgio, le due variabili più importanti sembrano essere quelle relative ai partiti e ai sistemi di partito e alla competitività delle elezioni. Non c’è dubbio che, un po’ dappertutto, il declino dei partiti è accompagnato dalla diminuzione della partecipazione elettorale e viceversa. Dove e quando i partiti non hanno più la volontà/capacità di andare a cercare gli elettori, di convincerli e, letteralmente, di portarli alle urne, l’astensionismo trova un terreno fertile. Se i partiti non offrono chiare e importanti alternative di programmi e di persone, molti elettori penseranno che non vale la pena andare alle urne. Vinca l’uno o l’altro le loro condizioni di vita e quelle dei loro figli non cambieranno in meglio e neppure in peggio. In elezioni poco competitive, quindi, il tasso di partecipazione sarà piuttosto basso, qualche volta, come nelle elezioni per il Congresso degli USA nella maggioranza dei collegi sarà molto al disotto del 50 per cento. Esistono molti casi del genere anche in Europa. L’allarme dovrebbe riguardare non tanto la bassa partecipazione elettorale, soprattutto se abituale, quanto, piuttosto l’eventuale crollo, come, ad esempio, avvenuto in Gran Bretagna: dal 71 per cento del 1997 al 59 del 2001. Talvolta ci si dovrebbe allarmare anche quando ci fosse un’impennata di partecipazione elettorale prodotta probabilmente da un leader populista nel contesto del declino dei partiti tradizionali.
Alla ricerca di una spiegazione “elegante e parsimoniosa” dell’astensionismo negli USA, due politologi americani Lyn Ragsdale e Jerrold G. Rusk (The American Nonvoter, Oxford University Press 2017), hanno individuato una variabile che, da sola, sembra offrire una spiegazione ad ampio raggio e molto convincente. In particolare nelle elezioni presidenziali USA il tasso di partecipazione elettorale è aumentato o diminuito a seconda della natura della competizione. Se e quando le previsioni indicano la alta probabilità di vittoria di un candidato, la partecipazione rimane relativamente bassa. Quando, invece, le previsioni segnalano che l’elezione è fortemente competitiva e l’esito nient’affatto scontato allora la partecipazione elettorale è cresciuta in maniera significativa. In estrema sintesi, l’analisi storica- comparata dal 1920 al 2012 di Ragsdale e Rusk conduce ad affermare che l’incertezza sull’esito riduce considerevolmente le percentuali di astensionisti e porta alle urne molti elettori che credono di avere l’opportunità di determinare l’esito voluto o di scongiurare quello sgradito. Nel contesto italiano delle elezioni di marzo, il cui esito è, anche a causa di una pessima legge elettorale, solo parzialmente scontato (nessuna maggioranza assoluta per nessuno dei tre maggiori contendenti), chi sa se l’incertezza motiverà almeno altrettanti elettori del 2013 (75 per cento) ad andare alle urne oppure se la tendenza all’astensionismo, seppure lenta e limitata, continuerà? Chi non voterà, comunque, non conterà.
Pubblicato La Lettura Il Corriere della Sera 25 febbraio 2018