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Il proporzionale non fermerà la Lega #intervista @LaVeritaWeb

AUTOREVOLE Gianfranco Pasquino è docente alla Johns Hopkins school of advanced international studies

 

Intervista raccolta da Alessandro Rico per La Verità

Gianfranco Pasquino è uno dei più noti e stimati professori di scienza politica italiani. È stato tre volte senatore per Sinistra indipendente.

Professore, lei ha criticato la riforma per il taglio dei parlamentari. Perché? Che difetti ci vede?

Quelli che ci vedono gli stessi riformatori, che infatti dicono di voler approvare dei correttivi. Solo che non sanno quali.

Be’, li hanno indicati.

Tutte cose a caso: regolamenti, sfiducia costruttiva, nuova legge elettorale… Non si fanno le riforme dicendo “poi le riformeremo”.

Il principio di rappresentanza ne esce inficiato?

Quello era già stato inficiato dal Porcellum, dalla Legge Rosato e dall’abortito Italicum. E certamente non è stato difeso dall’attuale legge elettorale.

Si riferisce all’abolizione delle preferenze?

Esatto. Gli elettori dovevano scegliere candidati nominati e per di più paracadutati. Questi problemi resteranno se non tornano le preferenze o se non si prevedono collegi uninominali.

Faccio l’avvocato del diavolo. Negli altri Paesi, in rapporto alla popolazione, i deputati sono meno che in Italia.

Be’, si faccia pagare dal diavolo, perché non è vero.

No?

In Germania sono più di 600 i parlamentari nel Bundestag, ma ce ne sono anche 69 nel Bundesrat, che rappresentano davvero i Länder. Il principio di rappresentanza non è affatto intaccato.

E negli Stati Uniti?

Gli Stati Uniti sono una repubblica presidenziale, dove dunque gli elettori votano il presidente. E ci sono 50 Stati con altrettanti governatori e due Camere, tutti eletti.

Sì, ma il Congresso ha 535 deputati totali, per una popolazione di oltre 300 milioni di abitanti.

Però i rappresentanti sono tutti eletti in collegi uninominali. Che sono un altro modo per recuperare il principio di rappresentanza. Allora li diano anche a noi.

Luciano Violante ha rilevato che la riforma italiana creerebbe collegi di 300.000 elettori per un singolo senatore, con enormi aggravi di costi per le campagne elettorali e il rischio che la politica finisca preda delle lobby dei finanziatori.

I senatori americani vengono eletti sulla base di collegi ben più grandi e, naturalmente, le lobby hanno il loro peso. Violante ha ragione a evidenziare questo pericolo. Avrebbe fatto bene a scoprirlo anche prima, quando sosteneva le riforme del governo Renzi.

A proposito di renziani: Roberto Giachetti è uno di quelli che ha votato la riforma e poi ha annunciato l’avvio della campagna referendaria per abrogarla. Siamo così prigionieri dell’antipolitica che dobbiamo inventarci certe circonvoluzioni?

Su Giachetti non commento.

No?

Giachetti e le sue giravolte si commentano da sé.

Ah ecco…

È chiaro che questa riforma ha un alto contenuto antiparlamentare, mascherato da slogan tipo “tagliamo le poltrone”. Il punto è che l’antiparlamentarismo storicamente ha la tendenza a erodere la democrazia.

Vede questo rischio?

Sì, ma d’altronde l’erosione è cominciata da tempo. Quando i grillini dicevano “uno vale uno”… Un parlamentare non vale un cittadino: vale ovviamente molto di più.

Vale di più?

Certo, perché ha il compito di fare le leggi che regolano i comportamenti dei cittadini.

E della ventata giovanilista che pensa? Si parla di voto ai sedicenni. Così non perdiamo quella saggezza antica, che nelle istituzioni prevedeva una sorta di «freno» generazionale?

Chi ha parlato di voto ai sedicenni non avrà fatto tutti questi ragionamenti. Voleva soltanto un attimo di visibilità.

È tutto più prosaico, insomma.

Il voto ai sedicenni lo si dà se si stabilisce che la maggiore età comincia a 16 anni. Altrimenti sarebbe una riforma scombinata.

Quindi lei è contrario?

Qualcuno dice: facciamo votare i giovani perché se no saranno governati dai vecchi, che si ostinano a non morire. Benissimo: ma allora a scuola insegniamola davvero, l’educazione civica. Insegniamola davvero, la storia, non solo fino alla seconda guerra mondiale. Insegniamo che la Costituzione è un documento storico-politico e non solo un insieme di norme.

Citava la repubblica presidenziale. Visto che, alla debolezza del sistema politico e partitico, in questi anni è corrisposto un rafforzamento della figura del capo dello Stato, non sarebbe meglio se potessimo eleggerlo direttamente?

Senza cambiarne i poteri? In Austria il capo dello Stato viene eletto direttamente, ma per certi versi ha poteri persino più limitati del nostro.

Andiamo per ordine. Lei è per l’elezione diretta?

Si può anche fare.

E per quanto riguarda i poteri?

Basta la chiarezza. Bisogna dire se si vuol fare il presidenzialismo all’americana o il semipresidenzialismo alla francese….

Qual è il modello migliore?

Io da anni mi esprimo in favore del semipresidenzialismo alla francese, che prevede anche la figura del primo ministro. Ma sono a favore pure del sistema elettorale francese e contrario al proporzionale, che frammenterebbe il Parlamento, mentre il maggioritario con doppio turno e clausola di accesso al secondo turno incentiverebbe anche la creazione di coalizioni.

La controindicazione: ritrovarsi un presidente di un partito e un premier di un altro.

La coabitazione non mi preoccupa. In Portogallo hanno un primo ministro socialista e un capo dello Stato di centrodestra, ma non ci sono guasti.

I partiti di maggioranza vogliono il proporzionale per neutralizzare il 30% della Lega.

Il 30% della Lega resta il 30% pure nel proporzionale.

Nella prima Repubblica, il Pci, con il 30%, non ha mai governato.

Perché non trovava alleati. La Lega ce li ha. Anzi, sono loro che corrono affannati verso il Carroccio. Per cui, se l’obiettivo del proporzionale è marginalizzare la Lega, è una battaglia persa.

Dice?

Sì. Ma in realtà loro non vogliono il proporzionale.

Che vogliono?

Il proporzionale con qualche premietto. Vogliono pasticciare. Di proporzionali ne esistono diverse varianti. Andrea Orlando ha proposto il modello spagnolo.

Non va bene?

Il punto è che lì inevitabilmente si sono creati due enormi collegi elettorali: Madrid e Barcellona. Da noi sarebbero Roma, Milano e forse Napoli.

Collegi troppo grandi?

Il proporzionale funziona se ci sono collegi medio-piccoli, che non eleggano più di dieci deputati. E se non ci sono giochetti, tipo il recupero dei resti.

E la soglia di sbarramento?

In collegi del genere sarebbe automatica una soglia a circa il 9%. Senza pasticci.

Che pensa di un partito di governo, il M5s, che demanda le decisioni più controverse a una piattaforma Web?

È un segno dei tempi. Ne prendo atto. Credo che gli stessi parlamentari ormai si siano resi conto che qualcosa lì non funziona.

Malumori, defezioni alla festa di partito, onorevoli in fuga…

D’altro canto, non è che altrove il panorama sia migliore.

A che allude?

A un partito personale com’è Forza Italia. A un partito leaderistico, come quello di Giorgia Meloni. A un Capitano della Lega che ha accentrato su di sé poteri enormi, provocando una crisi di governo senza consultare nessuno. Per cui non me la sento di dare addosso solo ai 5 stelle.

Il Pd è percepito come il partito dell’establishment. Governando con il M5s si rifarà una verginità?

In politica le verginità non si ricostruiscono. Il Pd non sa nemmeno che cos’è. Chi ha deciso la svolta giallorossa? C’è stata una discussione aperta? La classe dirigente sa qual’è la sua cultura politica?

Qual è quella di Renzi?

La sua arroganza personale, la sua presunzione, la superficialità, il desiderio di magnificare sé stesso. Però Renzi s’è ritagliato una bella nicchia e ora ha un potere di ricatto sul governo. A lui sì che serve il proporzionale.

Terrebbe in scacco il sistema.

Ma se è vero quello che le ho appena detto sullo sbarramento “naturale”, lui al 9% non ci arriva.

Per giustificare la svolta, invece, Luigi Di Maio aveva parlato di partito postideologico. C’è qualcosa di profondo lì, sul piano della cultura politica? O è trasformismo?

È voglia di restare dove si è arrivati faticosamente. Di ideologia i 5 stelle non sanno nulla. Prendono posizione e la mantengono fin quando sono sulla cresta dell’onda. Sono dei surfisti della politica.

Legge così il loro voto al Parlamento Ue contro la commissione d’inchiesta sulle ingerenze russe, che citava il caso Savoini?

Questa me l’ero persa. La commissione d’inchiesta è passata?

No. E i grillini sono stati decisivi. Hanno votato come il Carroccio.

Mi pare molto grave. Vede? Evidentemente si tengono aperta la porta dell’alleanza con la Lega.

Professore, le devo fare una domanda da un milione.

Le do l’Iban?

Ah ah ah. Era un modo di dire.

Sentiamo.

La globalizzazione ha lasciato dietro di sé ampi strati di malcontento. Gli Stati nazionali sono inadeguati alle grandi sfide geopolitiche. Si rafforzano imperi regionali di carattere autoritario. Dove va questo nostro mondo?

La globalizzazione è un vento fluttuante. Ha accresciuto le diseguaglianze, ma ha pure consentito la democratizzazione e ha ridotto la povertà nel Terzo mondo. Le risposte date al problema delle diseguaglianze sono diverse e ciascuna può funzionare a suo modo.

A cosa pensa?

Ad Australia e Canada. In Australia hanno imposto l’“anglosassismo”. In Canada c’è il multiculturalismo. Una cosa è certa: la globalizzazione dobbiamo imparare a governarla.

Pubblicato il 14 ottobre 2019 su La Verità

Bricolage di regole e istituzioni #HuffPostItalia Sulla legge elettorale proviamo a seguire inglesi e francesi

“… forse è il caso di riflettere più a fondo sull’alternativa fra quale proporzionale e quale maggioritario senza scegliere quello che costa meno

Non so come, dopo avere per tre volte approvato la riduzione del numero dei parlamentari, voterà la Lega. Mi chiedo con quale motivazione approveranno quella riduzione i parlamentari del Partito Democratico che, per tre volte, hanno votato contro. Non potrà essere la motivazione qualunquistica addotta dalle Cinque Stelle: il risparmio di 500 milioni di Euro che, comunque, comincerà soltanto dopo la prossima elezione del Parlamento, 2023? Rimango in attesa di capire quali saranno i freni e contrappesi da introdurre nelle procedure e nelle regole del parlamento e, immagino, dei governi venturi: frenare che cosa? Fare da contrappeso a cos’altro? Si tratta di freni e contrappesi che, già attualmente, in Italia non sarebbero utili? Il contrappeso indispensabile, sostengono i riformatori riduttori di parlamentari, è la proporzionale. Bisognerà, dunque, eliminare la componente maggioritaria della comunque pessima a prescindere (candidature multiple, liste bloccate et al.) Legge Rosato.

Introdurre la proporzionale per “salvare” i partiti piccoli, quanto piccoli?, non mi pare una motivazione particolarmente convincente, meno che mai in chiave di “contrappeso”. Lo sarebbe se i contrappesisti fossero disposti a sostenere che la presenza in parlamento dei tribuni (quelli derivanti dal fantomatico “diritto di tribuna”) servisse soprattutto a rendere difficile e complicata la formazione dei governi, tutti costretti ad essere di coalizione multipartitica, quindi, esposti a frequenti e costanti conflitti interni e poi a fare i conti con un Parlamento frammentato nel quale piccoli drappelli di parlamentari contratterebbero i loro voti. Fermo restando, adesso dovrebbero già saperlo tutti, che “la” proporzionale non esiste, ma esistono numerose varianti di rappresentanza proporzionale: soglie di accesso al Parlamento, dimensioni delle circoscrizioni, premi di maggioranza, le buonanime del Porcellum e di quell’aborto dell’Italicum erano leggi proporzionali furbescamente manipolate e corrette, quale proporzionale? Forse, un giorno si riprenderà a discutere di una legge elettorale che offra davvero potere agli elettori e che migliori la rappresentanza. Questi sono i criteri con i quali valutare la qualità della legge elettorale e giungere a effettivi freni e contrappesi.

Laddove il parlamentare sa che deve rispondere certo al partito (ma ci sono ancora partiti oppure esistono solo strutture sostanzialmente personalistiche e lideristiche?) che lo ha candidato e del quale condivide la linea politica e, parola grossa, la cultura politica, ma, forse soprattutto, agli elettori che lo hanno ascoltato e poi lo hanno votato, saremo in grado di migliorare la rappresentanza politica. Anche le leggi elettorali maggioritarie, sia di tipo inglese sia di tipo francese, offrono rappresentanza politica, che non è mai soltanto questione di numeri, ma è questione di volontà e capacità dei rappresentanti di apprendere e tradurre preferenze in comportamenti, non soltanto di voto. Avete mai sentito dire dagli elettori “non mi sento governato” e “vorrei più governo”? Certamente, li avete sentiti, giustamente lamentarsi di “non essere rappresentati”: “li eleggiamo, se ne vanno a Roma, si dimenticano di noi” (per forza, sono stati/e paracadutati/e, in quel collegio non risiedono, se sono “forti” nel partito la prossima volta verranno paracadutati/e altrove).

Gli eletti nei collegi uninominali inglesi e francesi non si sforzano di dare rappresentanza a tutto il collegio, al maggiore numero di quegli elettori? Una rappresentanza di questo tipo è il prodromo della governabilità, non un suo freno. Si configura anche come contrappeso al governo. In attesa che votino, estemporaneamente chiamati in causa — saranno loro i nuovi freni e gli originali contrappesi?, i sedicenni (quelli nati nel 2013 riusciranno, se passerà il presidenzialismo alla Salvini/Meloni, a eleggere il Presidente della Repubblica nel 2029), nessuno dei quali è stato esposto a qualche forma di educazione civica, forse è il caso di riflettere più a fondo sull’alternativa fra quale proporzionale e quale maggioritario senza scegliere quello che costa meno.

Pubblicato il 3 ottobre 2019 su huffingtonpost.it

The never ending game. A proposito dell’ennesimo dibattito, o presunto tale, su una “nuova” legge elettorale

Tornare alla proporzionale? Vantare improbabili meriti maggioritari? Di che cosa si sta parlando? Facciamo il punto nella solita confusione derivata sostanzialmente dall’assenza di conoscenze minime in materia elettorale. Qualche volta mi piacerebbe sentire dalla persino troppo viva voce di molti dei protagonisti quale libro oppure anche soltanto quale articolo hanno letto sui sistemi elettorali. La vigente legge Rosato è per due terzi proporzionale e per un terzo maggioritaria. Dunque, non è che il “ritorno” alla proporzionale cambierebbe in maniera significativa la distribuzione dei seggi, se non per quei burloni di studiosi che hanno incautamente scritto di “effetti maggioritari” di quella legge. A scanso di equivoci, è utile ricordare che l’Italicum era una legge elettorale sostanzialmente proporzionale con un premio in seggi proprio, la ratio era la stessa, come la legge Calderoli (meglio nota come Porcellum), con liste bloccate, vale a dire senza possibilità di scegliere il candidato/a preferita/o. In Italia non abbiamo mai avuto una legge elettorale effettivamente maggioritaria, ma la legge Mattarella (il cd. Mattarellum) – esito, lo ricordo e lo sottolineo, di un quesito referendario voluto e votato dai cittadini – ci è andata piuttosto vicino: tre quarti dei seggi (non delle poltrone) attribuiti con sistema maggioritario in collegi uninominali, un quarto recuperati con sistema proporzionale completato da una soglia di sbarramento del 4%.

Davvero proporzionale fu la legge elettorale italiana con la quale si votò dal 1946 al 1992 compreso. Non provocò sconquassi, niente a che vedere con la, oggi temutissima, soprattutto da chi non ne conosce la storia, Repubblica di Weimar. “La” proporzionale italiana non produsse neppure la proliferazione dei partiti, il cui numero nel corso del tempo rimase abitualmente più vicino a sette che a noveAd ogni modo, “tornare alla proporzionale” è una frase praticamente senza senso poiché di varianti dei sistemi elettorali proporzionali ne esistono molte, delle quali quella caratterizzata dall’aggiunta di un premio di maggioranza è quasi sicuramente la peggiore, mentre la proporzionale migliore è e rimane quella tedesca.

La logica di una legge elettorale proporzionale con premio di maggioranza comunque sia attribuito è molto diversa da quelli dei sistemi maggioritari. Tuttavia, anche in questo caso, affermare, più o meno solennemente, la preferenza per un sistema maggioritario significa poco o niente poiché i due sistemi maggioritari attualmente esistenti, quello inglese e quello francese, sono molto significativamente diversi da una pluralità di prospettive. L’unico elemento, importante, meglio decisivo e dirimente, che condividono, è il collegio uninominale dove vince un solo candidato e tutti i suoi concorrenti perdono e non possono essere ripescati. Quando nei vari commenti leggo, inevitabilmente increspando le sopracciglia, che Prodi e Veltroni si dichiarano a favore del maggioritario, mi chiedo: quale maggioritario, inglese o francese? Rimango in attesa della risposta, magari argomentata con riferimento agli obiettivi che i sedicenti maggioritari desiderano perseguire, per esempio, più potere per gli elettori, migliore rappresentanza politica collegio per collegio, maggiore trasparenza nella formazione di coalizioni che si candidano a governare, persino, qualsiasi cosa voglia significare (accetto suggerimenti) governabilità. Al catalogo aggiungerei ambiziosamente: “ristrutturare partiti e sistema dei partiti”.

Però, non mi chiedo mai se le leggi elettorali maggioritarie servono ad eleggere direttamente i governi. Da nessuna parte è così, ed è meglio che sia così. Chiederei a tutti coloro che entrano nel dibattito, ma soprattutto ai parlamentari e ai dirigenti dei partiti, di essere molto precisi nell’indicazione e nelle motivazioni del sistema elettorale che vorrebbero formulare e utilizzare per eleggere i prossimi 400 deputati e 200 senatori.

Pubblicato il 13 settembre 2019 su rivistailmulino.it

La rivista di un tempo che fu #Mondoperaio

Pubblicato in “Mondoperaio”, dicembre 2018 (pp. 39-42)

Quando un partito smette di elaborare idee, la sua funzione complessiva praticamente si esaurisce. A riprova, i partiti-non partiti italiani contemporanei, da qualche tempo privi di qualsiasi elaborazione culturale, si aggrappano a brandelli di potere, a Fondazioni e a oscure piattaforme soltanto per stare a galla. Non dipende solo dal fatto che nessun non-partito può permettersi una (non)scuola di partito. È che i protagonisti della scena politico-parlamentare italiana non hanno nessuna cultura politica, nessuna idea politica guida da trasmettere. Non faccio eccezione neanche per il Movimento Cinque Stelle poiché nessuna delle loro esperienze Meet up e altro ha il compito di formare una cultura politica. Forse, ma è un suggerimento al limite dell’oltraggio, invece di affidarsi alla Piattaforma Rousseau, potrebbero leggere sia Rousseau sia qualche altro illuminista. Questa breve digressione è necessaria per affermare un principio fondativo. Le idee vanno elaborate con riferimento alla visione della società che si desidera costruire, per negazione e per affermazione, ma anche nello scontro politico, nella orgogliosa rivendicazione di identità e di autonomia. Nella Repubblica italiana le riviste in qualche modo, con poche eccezioni, collegate ai partiti, sono state il luogo preminente di elaborazione politica. Senza dubbio “Mondoperaio” ha occupato, seppur con alti e bassi, un posto di rilievo fra le riviste di cultura politica. La sua storia e la sua incidenza non possono essere ridotte unicamente al conflitto con i comunisti, dotati di un considerevole apparato di strumenti di comunicazione politica. Mi limito a segnalare il settimanale “Rinascita” e il trimestrale “Critica marxista”, più tardi anche “Democrazia e diritto”. Quando sia il PSI sia “Mondoperaio” si “arrotolarono” intorno a Craxi, ho iniziato a collaborare su loro richiesta con notevole frequenza tanto a “Rinascita” quanto a “Democrazia e diritto”. Quando Covatta me lo chiederà potrei persino scrivere qualche nota comparata. La storia di “Mondoperaio” è anche quella di un partito che era convinto che gli intellettuali dovessero avere spazio di elaborazione e di intervento e che sapeva ascoltarli e, entro (in)certi limiti valorizzarli. L’elaborazione e la valorizzazione non poterono più continuare quando Craxi recuperò Proudhon (si noti che ho evitato il verbo riesumare), con il quale non era sicuramente possibile andare verso il rinnovamento del socialismo. Infatti, da nessuna parte in Europa, tantomeno in Francia, si guardò a Proudhon (per una discussione approfondita di quel recupero, delle sue motivazioni e delle sue conseguenze utilissimo è il volume curato da Giovanni Scirocco, Il vangelo socialista. Rinnovare la cultura del socialismo italiano, Torino, Nino Aragno Editore, 2018, che riporta il testo di Craxi e il carteggio fra un socialista milanese Virgilio Dagnino e Luciano Pellicani).

Non è banale iniziare sottolineando che certamente e inevitabilmente il contrasto con le idee comuniste e con le prassi del PCI, non riducibile esclusivamente alla giusta e doverosa, quanto difficile, ricerca da parte del PSI di maggiore spazio politico, fu frequente e rilevante sulle pagine di ”Mondoperaio”. Tuttavia, soprattutto, sotto la direzione di Federico Coen, nei difficili anni settanta, quando il PSI toccò il punto più basso del suo consenso elettorale e della sua presenza culturale, fu “Mondoperaio” a tentare e sostenere un’ambiziosa operazione di rilancio e di formulazione di una moderna culturale politica. Giusto fu ingaggiare quello che Amato e Cafagna definirono Duello a sinistra: socialisti e comunisti nei lunghi anni ‘settanta (Bologna, Il Mulino, 1982). Giusta, ma forse non sufficiente, fu l’attenzione ai socialisti spagnoli, portoghesi e del PASOK: l’ascesa del socialismo mediterraneo conteneva insegnamenti che non abbiamo sfruttato adeguatamente. Giusto fu anche prendere ispirazione da François Mitterrand che si era proposto di erodere il consenso del Partito comunista francese (non solo filo-sovietico, ma sostanzialmente ancora stalinista), al tempo stesso, però, cercando di ampliare l’area complessiva della sinistra. Troppi, invece, pensarono, alcuni anche sulle pagine di “Mondoperaio”, che sarebbe stato sufficiente, sottovalutandone l’enorme difficoltà e la grande improbabilità, un travaso di elettori dal PCI, “esploso” quantitativamente grazie alla sua proposta di compromesso storico della quale per qualche tempo era rimasto prigioniero, per poi entrare in grande confusione strategica orientato a una mai meglio definita “alternativa democratica” (forse, percependosi, autocriticamente, ma ci vorrebbe uno psicanalista lacaniano, sì come alternativa, ma non proprio/non del tutto “democratica”?).

Perdere voti, come successe per tutti gli anni ottanta, non sarebbe bastato al PCI per cambiare linea. Aveva, naturalmente, ragione Norberto Bobbio, e doppiamente. Primo, bisognava dialogare con i comunisti e persuaderli a “socialdemocratizzarsi” (Quale socialismo? Discussione di un’alternativa, Torino, Einaudi, 1976), ma neppure Bobbio andò a fondo su questa auspicabile trasformazione, anteponendole la davvero complessa formazione di un partito unico dei lavoratori. Secondo, era indispensabile ripensare la sinistra. Qui si colloca un mio personale “coming out”. Dall’inizio degli anni settanta mi trovavo proprio lì: fra il PSI di De Martino, e il PCI di Berlinguer per due ragioni. Ero, prima ragione, analiticamente e politicamente convinto che bisognasse costruire una alternativa alla DC attraverso un’alleanza fra PSI e PCI entrambi trasformati. Seconda ragione, pensavo che, sfidato e portato sul piano dell’alternativa, il PCI sarebbe stato costretto a abbandonare la sua linea pro-sovietica diventando un plausibile partito di governo. Nel 1976 e 1979 fui molto lieto quando il PCI candidò e fece eleggere Altiero Spinelli al Parlamento Europeo, ma non bastava. Lo dirò meglio, ma anche più ingenuamente: ero schierato sulla frontiera dell’scelta di sinistra. Quella frontiera si poté allora, per cinque–sei anni, difendere e fare avanzare con qualche prospettiva, seppur non grande, di successo scrivendo, dialogando, polemizzando, elaborando idee sulle pagine di “Mondoperaio”. Senza nessun pentimento da allora sono stato un compagno di strada, promiscuo, disposto a fare tutta la strada necessaria in compagnia di coloro che volessero e operassero per l’alternativa. Oggi, la strada appare tutta in salita, qualcuno è giunto alla conclusione che in cima non c’è neppure più l’alternativa. Sostengo, l’ho letto da qualche parte (probabilmente nelle pregevoli memorie di Sisifo) che quello che conta è il viaggio, ovviamente fatto in buona compagnia. In quegli anni, la compagnia dei collaboratori di “Mondoperaio” era probabilmente la migliore trovabile in Italia. Poi si è dispersa e alcuni hanno preso una strada che non potevo percorrere se volevo, e lo volevo, restare fedele alla mia certa idea di “alternativa di sinistra”.

Furono numerosi gli articoli pubblicati su “Mondoperaio” intesi a cogliere l’essenza della sinistra vincente di Mitterrand: plurale, federata, con forte presenza sul territorio, dotato di una cultura politica moderna, capace di attrarre e di valorizzare un non piccolo mondo intellettuale e di grands commis. Anche il sistema istituzionale della Quinta Repubblica francese, semi-presidenzialismo e legge elettorale a doppio turno contribuì significativamente al successo di Mitterrand (“le istituzioni della Quinta Repubblica non sono state fatte per me, ma me ne servirò”–cito a memoria la sua dichiarazione subito dopo la prima elezione alla Presidenza nel 1981). Alla Francia guardò l’allora già molto autorevole collaboratore della rivista Giuliano Amato, com’è facile notare rileggendo il suo libro: Una Repubblica riformare (Bologna, Il Mulino, 1980). Vi fece riferimento esplicito anche Giuseppe Tamburrano, Perché solo in Italia no (Roma-Bari, Laterza, 1983). Per quanto non sempre con la precisione necessaria –infatti, tuttora, non sono pochi coloro che accomunano, sbagliando alla grande, il presidenzialismo USA al semipresidenzialismo francese e non sanno cogliere le grandi opportunità politiche, non solo elettorali, del doppio turno in collegi uninominali, i socialisti e “Mondoperaio” posero la questione istituzionale al centro del dibattito. Sottolineo qui la centralità del doppio turno in collegi uninominali (nulla a che vedere con l’Italicum) nel consentire, anzi , imporre a socialisti e comunisti francesi di giungere ad accordi al primo o, molto più frequentemente, al secondo, turno, ma aggiungo che, come congegnato in Francia, il doppio turno per le elezioni parlamentari offre grandi opportunità ai (candidati dei) partiti non estremi, garantendo anche un ruolo insostituibile, quindi da premiare ai (candidati dei) partiti estremi disposti a formare coalizioni. Purtroppo, l’azione dei parlamentari socialisti nella Commissione per le riforme istituzionali (novembre 1983-febbraio 1985) presieduta da Aldo Bozzi, non andò affatto in direzione “francese”.

Le parole di oggi, ancorché alquanto appannate, democrazia maggioritaria, bipolare, alternanza, hanno radici in quel dibattito, in quegli anni, sulle pagine di quella rivista. Il compromesso storico non aveva nulla a che vedere con la prospettiva che sarebbe poi stata, non proprio felicemente, definita “compiuta” (quasi per definizione le democrazie non sono mai “compiute”, ma sempre in progress). Negava la prospettiva dell’alternanza, serviva, forse, a entrambi i potenziali contraenti, PCI e DC, per mantenere le loro rendite d’opposizione e di posizione piuttosto che per affrontare il loro rinnovamento, di persone e di idee. Non avrebbe mai condotto l’Italia nell’ambito delle democrazie dell’Europa occidentale e meno che mai nel solco delle socialdemocrazie. Nient’affatto auspicato, ma anzi spesso violentemente contrastato, l’esito socialdemocratico era il più temuto dai comunisti che ripetevano il loro mantra: le socialdemocrazie non hanno cambiato il capitalismo, le socialdemocrazie sono in crisi, le socialdemocrazie sono superate. Se ben ricordo, però, né il percorso né l’esito socialdemocratico furono difesi con molto vigore da tutti sulle pagine di “Mondoperaio”. Non pochi collaboratori avevano e mostrarono riserve, a mio modo di vedere, allora e oggi, non nobili e sbagliate. È troppo facile ironizzare adesso sui comunisti che odiavano le socialdemocrazie e che hanno, prima, dato vita al Partito Democratico, poi sono diventati renziani, sostenendo riforme costituzionali che nulla avevano in comune con il progetto, per quanto vago, della Grande Riforma, ma è doveroso ricordarlo e farlo. Certo, diventato Presidente del Consiglio Bettino Craxi non sostenne più la sua idea del cambiamento della forma di governo (e anche il “Mondoperaio” di quella fase l’abbandonò). Qualsiasi alleanza di governo con la DC, temporanea e di lungo respiro, contraddiceva alla radice tutte le ipotesi di cambiamento costituzionale, istituzionale, elettorale. Bastò un solo referendum su una piccola clausola della legge elettorale proporzionale, vale a dire, la preferenza unica, per mandare gambe all’aria tutto il sistema dei partiti che aveva costruito e accompagnato la storia della Repubblica (dei partiti. Evoluzione e crisi di un sistema politico: 1945-1966, titolo di un fortunato libro di Pietro Scoppola, Bologna, Il Mulino, 1991, scoperta tardiva della partitocrazia quando declinava il potere democristiano che di quella partitocrazia era stato il perno determinante) e aprire un percorso di cambiamenti quasi esclusivamente elettorali, con poche e molto discutibili, comunque, inadeguate riforme istituzionali che non hanno nulla a che vedere con la Grande Riforma, pure suscettibili di interpretazioni e di attuazioni molto diverse.

Non è questo, adesso, il luogo per procedere ad approfondimenti e precisazioni sul tema generale “quale Costituzione” anche perché non ho affatto voglia di rincorrere tutti i molto loquaci e verbosi opportunisti, vale a dire coloro che hanno cambiato idea a seconda delle opportunità. Due riflessioni sono, però, indispensabili proprio alla luce di quanto “Mondoperaio” ha fatto e ha prospettato. La prima riflessione riguarda la persistenza delle problematiche di allora che, in condizioni attualmente molto più difficili, continuano a richiedere soluzioni. Lascerò da parte la questione dell’alternanza poiché, da un lato, di alternanze ne abbiamo avute molte, nessuna da manuale, vale a dire con una coalizione di governo che dura tutta la legislatura e viene sostituita da una coalizione diversa che per tutta la legislatura ha svolto il ruolo dell’opposizione. Incidentalmente, alternanze di questo tipo sono molto rare anche nelle altre democrazie occidentali. Per le necessarie informazioni mi permetto di rimandare ai saggi contenuti in G. Pasquino e M. Valbruzzi, a cura di, Il potere dell’alternanza. Teorie e ricerche sui cambi di governo, Bologna, Bononia University Press, 2011). Dall’altro lato, mi corre l’obbligo scientifico di sottolineare che, per esempio, Sartori non ha mai ritenuto, e lo ha scritto e ripetuto, che l’alternanza abbia virtù taumaturgiche tali da sanare i vizi dei partiti, dei loro dirigenti, dei governanti. Operare soltanto sulle condizioni dell’alternanza non migliora affatto il funzionamento del sistema politico. Non vorrei, però, che i lettori si buttassero al polo opposto e pensassero che una maggioranza di governo artificialmente gonfiata da un premio, più o meno cospicuo, di seggi, sia la soluzione auspicabile e produca automaticamente la cosiddetta “governabilità” a scapito della rappresentanza. Al contrario, meno rappresentanza non equivale affatto a più e migliore governabilità.

La seconda riflessione è a più vasto raggio. La mia interpretazione di quanto ha fatto “Mondoperaio”, specialmente quando fu diretto da Federico Coen, è quella di un tentativo forte di ridefinire, trasformare, modernizzare la cultura politica della sinistra, in particolare, sfidando i comunisti che la loro cultura politica non stavano affatto rinnovando, neppure con gli apporti di Gramsci (che fra i suoi pur grandi meriti non può sicuramente vantare quello di essere un teorico della democrazia né bipolare né compiuta ). Questa operazione, importante, degna di attenzione e di una valutazione complessivamente positiva, non è riuscita. Pertanto, rimane all’ordine del giorno. Invece, è successo che tutte le culture politiche italiane, a partire da quelle, la liberale, la cattolico-democratica, l’azionista, la socialista e la comunista, sono sostanzialmente scomparse (ho intitolato La scomparsa delle culture politiche in Italia, un fascicolo della rivista “Paradoxa”, Ottobre-Dicembre 2015,nella quale si trovano, fra gli altri, articoli di Giuliano Amato e Achille Occhetto, i quali non sorprendentemente solo in parte concordano con me).

Molte delle esigenze di allora, in particolare, da un lato, la costruzione di una democrazia decente, che non ha bisogno di altri aggettivi, dall’altro, la formazione di un partito di sinistra, permangono in condizioni molto più difficili. Quel partito di sinistra non è mai stato il Partito Democratico dal quale i socialisti si sono tenuti e sono stati tenuti lontani, quasi che il meglio delle culture riformiste del paese (nello slogan ripetuto fino alla noia dai Democratici e mai tradottosi in una qualsiasi cultura politica già largamente assente nell’Ulivo) potesse affermarsi escludendo proprio la cultura socialista (e qui, credo, che sarebbe opportuno rileggere la storia delle riforme del centro-sinistra), a sua volta, forse il meglio, gioco con le parole, non con la sostanza, delle culture politiche riformiste italiane. Naturalmente, mi si potrebbe obiettare che non sappiamo più neppure che cosa voglia dire sinistra. Dissento e sostengo che è tuttora possibile e fecondo definire sinistra lo schieramento che, da un lato, con riferimento a Bobbio, si batte a favore dell’eguaglianza o, se si preferisce, per ridurre, contenere, infine eliminare almeno le diseguaglianze di opportunità, dall’altro, protegge e promuove i diritti, quelli veramente tali, non le rivendicazioni, civili, politici e sociali. Vedo non poche coincidenze con le argomentazioni, pure non sistematiche, contenute negli articoli di “Mondoperaio” di quei tempi. Quello che, invece, non vedo è chi si stia attualmente impegnando su questo terreno. Addirittura temo che, prima di pensare alla formulazione di una cultura politica sia necessario creare una cultura di fondo, fatta di conoscenze e di interpretazioni della storia d’Itali e d’Europa (sì, lo so che ci sono anche la globalizzazione e il capitalismo, suvvia). C’è molto da fare (e quasi niente per cominciare).

I vedovi del sì non capiscono il consenso dei giallo-verdi

Dal 5 marzo 2018 mattina, incessantemente, molti politici del PD e i giornalisti del Foglio, professoroni (sic) abbacinati da Renzi, dopo essersi invaghiti di Craxi e di Berlusconi, giornaliste embedded, continuano ad attribuire ai sostenitori del NO la colpa della nascita e dell’esistenza del governo giallo-verde. Chiedono ai professoroni del “no”, ma dovrebbero estendere il loro invito almeno anche ai partigiani “cattivi”, di riconoscere che hanno aperto la strada a quel governo e che, adesso, se ne stanno a guardare senza sbottare a ogni (più o meno presunta e presumibile) violazione della Costituzione –anche se finora proprio non ve ne sono state. Affermare, insieme a Casaleggio, che il Parlamento potrebbe un giorno risultare inutile, non è, peraltro, la stessa cosa di fare del Senato un dopolavoro per consiglieri regionali (come voleva la riforma Renzi-Boschi). Cattivi perdenti, “quelli del ‘sì”, non soltanto non si chiedono dove hanno sbagliato, che sarebbe il minimo, ma persistono in alcune argomentazioni logorissime, senza nessun fondamento minimamente scientifico. Secondo loro, mi riferisco in particolare all’articolo di Angelo Panebianco, Quei puristi (scomparsi) della Carta (“Corriere della Sera”, 3 novembre, pp. 1 e 28), i sostenitori del “no” non criticherebbero abbastanza, anzi, per niente, Grillo e Casaleggio (della Lega e di Salvini l’articolo non parla). Di più, sarebbero ancora prigionieri del “complesso del tiranno” ragione per la quale non avrebbero voluto il rafforzamento dei poteri del governo. Non c’era nulla nella riforma Renzi-Boschi che, attraverso un limpido intervento sulla Costituzione, rafforzasse i poteri del governo. Eppure sarebbe bastato il voto di sfiducia costruttivo alla tedesca oppure anche alla spagnola, ma i sedicenti riformatori d’antan e i loro molti commentatori amici non lo presero in nessuna considerazione. Oggi, peraltro, si vede con chiarezza quali sono i fattori che rendono forte un governo, persino, quando è di coalizione. Ricordo che la legge elettorale Italicum era stata formulata proibendo la formazione di coalizioni con l’intento di dare vita al governo di un solo partito premiato (gonfiato) da un cospicuo premio di seggi a tutto scapito della rappresentanza parlamentare. Non soltanto il governo Cinque Stelle-Lega ha a suo fondamento la maggioranza assoluta in entrambi i rami del Parlamento, ma non si sente in alcun modo ostacolato nelle decisioni che prende, nei decreti che produce, nella sua concreta attività di governo. Con vezzo italiano, proprio non solo dei complottisti e degli incompetenti, denuncia l’ esistenza dei poteri forti, delle tecnostrutture e, naturalmente, dei burocrati di Bruxelles ogniqualvolta incontra resistenze alle sue politiche, ma, almeno finora, non attribuisce le responsabilità alla Costituzione italiana. Anzi, a oggi le uniche proposte ventilate dalle Cinque Stelle stanno tutte nel solco di quanto i partecipanti alla Commissione Letta per le riforme istituzionali avevano variamente ventilato: riduzione bilanciata del numero dei parlamentari e potenziamento dell’istituto referendario. Non si vede, dunque, perché i sostenitori del “no” dovrebbero lanciarsi a capofitto in una campagna ostruzionistica. A riforme eventualmente approvate dal Parlamento si vedrà. Qualcuno potrebbe, invece, volere chiedere alle Cinque Stelle (la Lega non sembra interessata alla tematica) una profonda revisione della legge elettorale Rosato, anzi, per usare un termine caro alla parte politica di Rosato, una vera e propria rottamazione. Tornando al governo in carica le prefiche del “sì” potrebbero anche interrogarsi sulle ragioni che ne mantengono elevato il consenso in tutto il paese e chiedersi se non sarebbe meglio destinare il troppo tempo che impiegano a criticare chi ha vinto il referendum per formulare una strategia politica alternativa e farla viaggiare su quel che rimane dei partiti oggi all’opposizione.

Pubblicato il 6 novembre 2018

Ecco come funziona una legge elettorale con il doppio turno

Non si può parlare di doppio turno di collegio e di doppio turno di lista come se fossero quasi intercambiabili. L’intervento di Gianfranco Pasquino

Non si deve permettere neppure ai più acrobatici interpreti dei sistemi elettorali di scrivere, à la D’Alimonte, di doppio turno indifferentemente, che sia di collegio (uninominale) oppure fra partiti/coalizioni come quello previsto nell’Italicum. Faccio, non completamente, grazia ai lettori sottolineando, per l’ennesima, ma non ultima, volta che da nessuna parte al mondo esiste un meccanismo come quello del defunto, da non compiangere e meno che mai resuscitare, Italicum.

I sistemi elettorali servono a tradurre voti in seggi per dare vita a un Parlamento, non, da nessuna parte, tantomeno nelle democrazie parlamentari, a un governo. Il doppio turno francese applicato in collegi uninominali elegge i parlamentari. Al primo turno, giova ripeterlo e sottolinearlo, gli elettori votano in maniera prevalentemente sincera, vale a dire, per il/la candidato/a preferito/a che riuscirà a passare al secondo turno soltanto qualora riesca a superare una certa soglia percentuale (in Francia, attualmente, il 12,5 per cento degli aventi diritto). Pur nella consapevolezza che il suo preferito non supererà la soglia, l’elettore decide di votarlo per rafforzarne il potenziale di contrattazione al secondo turno. Quei suoi voti, una volta contati, potrebbero essere decisivi per fare vincere il seggio a un altro candidato di un partito con il quale è possibile, da un lato, contrattare i voti in un altro collegio, dall’altro, eventualmente, formare una coalizione di governo. Al secondo turno, che è sbagliato definire ballottaggio poiché nella grande maggioranza dei collegi vi saranno più di due candidati, alcuni elettori avranno la possibilità di votare il loro candidato preferito, altri finiranno per scegliere il candidato meno sgradito. Fra il primo e il secondo turno, tutti gli elettori avranno avuto l’opportunità di acquisire un numero aggiuntivo di informazioni politicamente rilevanti prodotte e diffuse dai candidati, dai partiti, dai mass media.

Invece, il doppio turno previsto dall’Italicum avrebbe dovuto svolgersi fra due partiti e/o coalizioni (il significato di “lista” non fu mai furbescamente precisato). Dunque, era sostanzialmente un ballottaggio. In maniera molto accondiscendente e supponente, i suoi laudatores riconoscevano che il premio attribuito al vincitore, anche qualora fosse stato soltanto del 15 per cento, distorceva la rappresentanza politica a favore di quella che, impropriamente, chiamavano governabilità. Certo, quel premio avrebbe dato modo allo schieramento maggioritario di godere di una confortevole maggioranza assoluta in Parlamento. Che questa fosse governabilità, se quella maggioranza non avesse poi avuto la capacità di prendere decisioni e di farle applicare, è evidentemente tutto da dimostrare.

Ad ogni buon conto, rimane la differenza verticale fra il doppio turno di collegio e il doppio turno Italico. Il primo serve a eleggere i parlamentari, il secondo a dare vita a un governo. Sono, palesemente, incomparabili e, altrettanto palesemente, non sono affatto intercambiabili. In particolare, il doppio turno Italico incide sulla forma di governo fuoriuscendo dalla democrazia parlamentare ed entrando in terra incognita.

Al di là delle preferenze personali, meglio se sorrette dalle conoscenze scientifiche, le differenze fra i due doppi turni sono profonde. Chiunque le cancelli sta manipolando, più o meno consapevolmente, a spese di tutti, il dibattito pubblico e non dà nessun contributo alla formulazione di una legge elettorale migliore, non è difficile, della pessima Legge Rosato.

Pubblicato il 2 maggio 2018 su Formiche.net

Renzi non è Macron. Ecco perché

Il leader del Pd non guarda oltre il suo ombelico e la sua miopia non fa bene al Paese. Lo scrive il politologo Pasquino per Formiche.net

Non mi pare davvero una grande pensata quella di Renzi che lancia un governo costituente come alternativa a un governo che, anche a causa della sua ostinazione, non riesce a nascere. Ha dimostrato di non avere ancora capito che le sue riforme costituzionali bocciate dal referendum erano pasticciate e pessime. Non avrebbero migliorato il funzionamento del sistema politico. Non contenevano nulla che potenziasse davvero il governo. Continua a confondere il ballottaggio del suo Italicum, fra due partiti o, con estensione indebita, fra due coalizioni, per eleggere il parlamento, con il ballottaggio francese, fra due candidati, per eleggere il Presidente della Repubblica. No, Renzi non è affatto Macron né per competenza né per esperienza né per coraggio.

La proposta di governo costituente, dal quale, però, almeno Boschi e Rosato nonché Renzi stesso dovranno stare molto lontani, è soltanto un modo, da un lato, di tornare in pista venendo fuori dall’angolo nel quale, spinto dagli elettori, si è rintanato; dall’altro, è un escamotage per guadagnare tempo per sfiancare Di Maio e per andare verso un Nazareno-bis, certamente non, dal momento che né lui né i suoi parlamentari nominati (ai senatori ha ricordato che li controlla) hanno un’idea, per ricostruire il Partito Democratico dall’opposizione, un partito che non è neppure più l'”amalgama mal riuscito” di cui disse, sprezzante, D’Alema. Semplicemente, non è un amalgama.

Come, poi, si possa passare un paio d’anni a disegnare riforme costituzionali con un governo apposito senza affrontare quantomeno i tre/quattro problemi più importanti e urgenti dell’Italia: avere un ruolo in Europa, rilanciare crescita e occupazione, affrontare l’immigrazione, riformare le riforme mal fatte (mercato del lavoro, scuola, amministrazione pubblica) è un mistero inglorioso. Che Renzi voglia bloccare il PD prima di farlo scivolare verso il PdR? Lo sappiamo tutti: non ci sono più i partiti di una volta e, neppure, naturalmente, i leader di una volta. Quei partiti e quei leader sapevano ragionare, progettare, agire con responsabilità nazionale, verso il paese. I contemporanei, soprattutto Renzi, guardano con occhi miopi il loro ombelico, che è bruttino assai.

Pubblicato il 30 aprile 2018

Revenants, a volte ritornano… senza aver imparato dai loro errori

Revenants, vale a dire, quelli che … tornano a casa, incattiviti, senza avere imparato niente. Anzi, ripetono se stessi e i loro errori che hanno prodotto la sonora sconfitta di pasticciate riforme costituzionali senza capo né coda. Che non riguardavano, per insipienza e tracotanza, il governo. Dunque, anche se fossero malauguratamente resuscitate non risolverebbero la situazione, non creata, ma facilitata dalla legge Rosato. I problemi politici si affrontano con la costruzione intelligente delle condizioni del possibile, non con trucchi e premi.

 

Contro la politica degli analfabeti

Nella sua brillante introduzione alla Antologia di scienza politica da lui curata e pubblicata dal Mulino nel 1970, Sartori affermava senza mezzi termini che la cultura politica italiana soffriva di “analfabetismo politologico”. I suoi bersagli erano chiari: democristiani e comunisti, e lo sarebbero rimasti fino alla loro ingloriosa scomparsa. I democristiani irritavano Sartori per la loro accertata incapacità di andare oltre una cultura giuridica alquanto formalistica e per l’incomprensione dei meccanismi della politica, a cominciare, già allora, dai sistemi elettorali. Ai comunisti rimproverava, nella sua veste non soltanto di politologo, ma di liberale, l’uso della teoria marxista, per quanto ridefinita da Gramsci, inadeguata alla comprensione di tematiche come la Costituzione e lo Stato. Soprattutto, però, la critica che valeva per entrambi riguardava in particolare il cattivo uso dei concetti e la manipolazione talvolta persino inconsapevole che ne facevano gli intellettuali di entrambi i partiti. Soltanto molto tempo dopo mi sono reso conto che fin dalla metà degli anni cinquanta, in chiave e con obiettivi parzialmente diversi, sia Bobbio (Politica e cultura, Einaudi 1955) sia Sartori (Democrazia e definizioni, Il Mulino 1957), avevano sfidato frontalmente la cultura politica “catto e comunista”. Bobbio continuò a farlo apertamente e esplicitamente fino all’ultimo. Destra e sinistra, (Donzelli 2004) ne è una chiara testimonianza. Sartori intraprese un lungo percorso di ricerca nel quale il caso italiano rimaneva un caso e poco più. Anzi, Sartori affermò ripetutamente, anche in polemica con il provincialismo di troppi studiosi, che parlavano dell’Italia DC-PCI come di un’anomalia positiva, che chi conosce un solo sistema politico non conosce neppure quel sistema. Non scrisse mai un libro dedicato a una tematica sostanzialmente italiana anche se divenne un critico severissimo e agguerritissimo di tutte le riforme elettorali e istituzionali italiane che, uomini (e donne) privi di cultura politologica e politica, hanno fatto e rifatto con pessimi esiti. I suoi libri sulla democrazia e sui sistemi di partito restano monumenti della scienza politica della seconda metà del secolo scorso e sono letture imprescindibili, ma Sartori teneva moltissimo a due volumi più recenti e più mirati: Ingegneria costituzionale comparata (Il Mulino, più edizioni, da ultimo 2004) e Homo videns (Laterza 2000).

Ogniqualvolta, specialmente nei pungentissimi editoriali per il “Corriere della Sera” (variamente raccolti Mala tempora, Laterza 2004 e Il sultanato, Laterza 2009) analizzava un qualche fenomeno politico, Sartori metteva grande cura nell’applicare in maniera ovviamente molto concisa il suo metodo comparato e le conoscenze acquisite. La domanda di fondo alla quale rispondeva era sempre quella relativa alle conseguenze prevedibili di interventi, mutamenti, trasformazioni nel sistema, nei partiti, nella leadership, nelle leggi elettorali. Spiegazioni e/o teorie probabilistiche erano i ferri del suo mestiere: “se cambiano le condizioni a, b, e c allora è probabile che cambino le conseguenze x, y, z”. Certo, discutere con chi di volta in volta produceva spiegazioni ad hoc, spesso tanto particolaristiche quanto fragili, era un esercizio che spesso lo irritava e che volgeva sul beffardo, sulla presa in giro.

Spariti i suoi interlocutori democristiani e comunisti i quali, almeno, avevano letto qualche libro e talvolta s’interrogavano effettivamente su riforme e conseguenze, persino sul metodo con il quale analizzare il sistema politico italiano e i suoi partiti, Sartori si trovò costretto a fare i conti con analisti e politici improvvisati. Il liberale che era in lui colse immediatamente l’incongruenza di una rivoluzione liberale di cui, dopo la caduta del Muro di Berlino, avrebbe dovuto farsi portatore e interprete un imprenditore duopolista (nell’importantissimo settore della comunicazione, in particolare televisiva), un imprenditore che (af)fondava la sua politica in un gigantesco conflitto di interessi. Perché mai questo accanimento contro Berlusconi, si chiesero molti commentatori, visto che l’allora Cavaliere aveva “salvato” l’Italia dai comunisti e dai post-comunisti? Eppure, la risposta di Sartori era semplice, lineare, inoppugnabile: liberalismo c’è quando potere economico e potere politico sono e, nella misura del possibile, rimangono nettamente separati. In una democrazia liberale al potere economico non si può consentire di conquistare il potere politico. Il conflitto d’interessi è una ferita permanente nel corpo di quella democrazia. Sartori era tanto più credibile in questa denuncia poiché si era per tempo schierato contro la partitocrazia ovvero quella situazione nella quale il potere politico, più precisamente dei partiti, si annetteva pezzi di potere economico, sociale, culturale.

Il liberalismo di Sartori si rafforzava e raffinava grazie alla sua scienza politica, ad esempio, ricordando che le democrazie liberali sono tali quando garantiscono effettiva rappresentanza politica agli elettori. Dai buoni sistemi elettorali viene buona rappresentanza che esige nella maniera più assoluta l’assenza di qualsiasi vincolo di mandato. Fin dal 1963 Sartori aveva sollevato il quesito se i parlamentari si sentissero maggiormente responsabili nei confronti dei dirigenti di partito, dei gruppi d’interesse, degli elettori? La risposta è, naturalmente, empirica, ma la proposta di Sartori è chiara: bisogna disegnare sistemi elettorali che consentano ai parlamentari di essere effettivamente e essenzialmente responsabili nei confronti degli elettori. A Sartori è stato risparmiato l’obbrobrio tanto dell’Italicum (non ho dubbi che avrebbe fatto notare che i premi di maggioranza Italicum-style c’entrano con la buona rappresentanza come i cavoli a merenda) quanto, ancor più, della Legge Rosato. Ma ha avuto il tempo di bollare la Legge Calderoli con l’epiteto Porcellum. Non gli attribuisco niente che non si possa trovare nei suoi scritti se aggiungo che sarebbe inorridito ad ascoltare fior fiore (sic) di riformatori e di commentatori, neanche analfabeti di ritorno, perché mai alfabetizzati, sostenere la necessità di un’apposita legge elettorale in un sistema partitico diventato tripolare. Tanto per cominciare avrebbe sostenuto che prima di contare i poli si contano i partiti (quindi, il sistema partitico italiano è multipartitico), poi se ne valuta lo stato di consolidamento, davvero molto limitato, infine che alcuni sistemi elettorali forti hanno effetti restrittivi sui partiti e sui sistemi di partiti. Le leggi elettorali si scelgono per dare vita al sistema di partiti preferito, che non è la stessa cosa di favorire o svantaggiare qualsivoglia partito.

Alla morte di Bobbio, il necrologio scritto da Sartori sulla “Rivista Italiana di Scienza Politica” (aprile 2004), intitolato Norberto Bobbio e la scienza politica in Italia, si concludeva con le seguenti parole: “Bobbio è stato per tutti gli studiosi un modello di come si deve scrivere, insegnare, e anche partecipare alla vita pubblica. … Norberto Bobbio è stato, e resta, il più bravo di tutti noi”. Credo di potermi permettere sia di condividere queste parole sia di aggiungere nel primo anniversario della sua morte che Sartori è senza nessun dubbio stato “il più bravo di tutti noi”, ma anche uno dei migliori scienziati politici degli ultimi cinquant’anni.

Pubblicato il 3 aprile 2018

Alle urne con quel che passa il convento #ElezioniPolitiche2018

Quello che ha passato il convento, anzi le conventicole partitiche e movimentiste, nella campagna elettorale, non è stato granché e, tuttavia, dal punto di vista delle offerte di programmi e di persone, è stato abbastanza variegato, più di un passato che molti hanno dimenticato o non vissuto. Abbiamo rivisto un po’ di usato, nient’affatto sicuro, ma ripetitivo e costantemente mendace (Berlusconi); abbiamo ascoltato molte promesse che non potranno essere mantenute, talvolta condite con persistente, incomprimibile arroganza; abbiamo notato pochissimo nuovo che avanza con passo di gambero (il Movimento Cinque Stelle); abbiamo sentito una sgradevole insistita richiesta di voto utile (Renzi). Difficile dire se tutto questo è risultato attraente per l’elettorato. Neppure il malposto paragone con le elezioni del 1948 che si svolsero in condizioni irripetibili: in piena guerra fredda e con una vera competizione bipolare per il governo del paese, può essere mobilitante.

Gli italiani che conosciamo sanno che il loro voto è sempre utile sia quando premia un partito o un candidato sia quando intende punire candidati e partiti (e molti la punizione se la meritano, eccome). Sanno che il loro voto serve anche a esprimere chi sono, con quali amici si rapportano, che società e che politica desidererebbero. Sono consapevoli che non otterranno tutto questo, ma saranno contenti di averci provato, di avere rinsaldato i loro legami con chi ha votato in maniera simile, di essersi riconquistato il diritto di criticare che cosa i politici, i parlamentari, i partiti, i governi faranno, non faranno, faranno male. Gli elettori italiani sanno che non hanno praticamente nessuna influenza diretta sulla formazione del governo, e se ne dolgono. Non servirà a nulla ascoltare e/o leggere le parole di un pur autorevole professore, anche emerito, di scienza politica, che spiega loro che nelle democrazie parlamentari i governi si fanno, si disfanno, si rifanno in Parlamento.

Gli elettori che andranno a votare vorrebbero che almeno fosse detto loro con chiarezza e senza sicumera per quali ragioni nascono quei governi e come formulano il programma della coalizione che dovrà impegnarsi a sostenerlo e ad attuarlo. Certo, quel professore di scienza politica continuerà imperterrito a sostenere, perché lo ha letto nella Costituzione (il cui impianto lui a contribuito a salvare con un rotondissimo NO al referendum), che il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio e, su proposta di questi, i ministri. Tuttavia, i partiti non fanno nessuno sbrego alla Costituzione quando mettono “in campo”, i nomi dei loro candidati alla carica sia di capo del governo sia di ministro. È un’indicazione aggiuntiva che può servire all’elettorato a farsi un’idea di che cosa ci si può aspettare da quel partito poiché da tempo sappiamo che le idee camminano sulle gambe degli uomini e delle donne (abbiano ricevuto o no endorsement più o meno autorevoli). Un po’ di chiarezza su chi attuerà concretamente un programma concordato fra più protagonisti e su quali saranno le priorità è certamente utile.

Non viviamo nel migliore dei mondi, ma neanche nel peggiore. Quando avremo contato il numero dei seggi conquistati dai partiti e dalle coalizioni avremo la certezza che alcune delle ipotesi accanitamente e noiosamente discusse non sono numericamente praticabili. Il centro-destra non avrà ottenuto la maggioranza assoluta di seggi e non sarà in grado da solo di conseguire il voto di fiducia. La somma dei seggi del Partito Democratico più quelli di Forza Italia non supererà l’indispensabile soglia del 50 per cento: addio alle non sufficientemente larghe intese. Forse, nonostante la generosità di Berlusconi non ci saranno abbastanza parlamentari già insoddisfatti al momento del loro ingresso a Montecitorio e Palazzo Madama per “puntellare” in cambio di qualche carica una coalizione che contenga Berlusconi e tutto o parte del suo centro-destra.

Evitando gli ormai stucchevoli piagnistei sul referendum perduto e sull’Italicum caduto e le critiche, pur doverose, alla pessima legge Rosato (che, però, avrà probabilmente salvato il seggio del suo relatore,di un’indispensabile sottosegretaria, dell’ex-Presidente della Commissione Banche e della new entry Piero Fassino), smettendo di pettinare le bambole e rimboccandosi le maniche ai parlamentari spetterà il compito di dare vita ad un governo, di scopo, per l’appunto lo scopo di governare una società frammentata, corporativa, egoista, ma talvolta anche capace di impennate di innovazione, di impegno, purché chi si pone alla guida sia competente e, soprattutto, credibile. Con un po’ di fortuna e molta virtù, si può fare. The best is yet to come.

Pubblicato il 3 marzo 2018