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Retroscenisti allo sbaraglio @rivistailmulino
Da qualche tempo, anche per riempire il vuoto della politica antagonistica all’italiana, è in corso una battaglia epocale fra retroscenisti e quirinalisti nella quale si inseriscono non brillantemente alcuni “politologi” di strada”, cioè che passano di lì quasi per caso. L’argomento, sicuramente avvincente per tutti coloro che stanno reclusi in casa, è quanto durerà il governo Conte? Agguerritissimi, i retroscenisti, assecondati da alcuni politologi di riferimento, non si pongono neppure il problema del “se” (durerà), ma solo quello del “quanto” durerà. Peraltro, la stessa domanda già l’avevano posta il giorno dopo la fiducia. Avvistati nei pressi del Colle e riconosciuti nonostante la mascherina d’ordinanza, i molto più ponderati quirinalisti, che, per lo più, hanno come fonte le veline del Quirinale, sembrano alquanto più cauti.
Un governo c’è. Lo si sostituisce, a norma di Costituzione, solo se perde la maggioranza a suo sostegno (la verifica deve venire da un voto parlamentare) oppure se entra in una grave crisi di operatività. Dal Quirinale “filtra” per l’ennesima volta la solidissima posizione che i numeri sono la premessa per l’esistenza e la sopravvivenza di un governo, ma l’immobilismo decisionale di quel governo è una buona ragione per pensare alla sua sostituzione. Buona in tempi normali, ma non sufficiente in tempi emergenziali se all’orizzonte vicino non si vede già ready made un governo diverso e migliore.
I retroscenisti hanno quasi pronto un governo diverso, lo chiamano “unità nazionale”, ma soprattutto si stanno già esercitando a fare una serie di nomi che sono i soliti, Draghi in testa. I retroscenisti vorrebbero sostituire non soltanto il capo del governo, il Conte appannato, ma anche il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri, il quale, pure, è uno dei pochi ministri italiani noti e apprezzati nell’ambito dell’Unione europea. Sullo sfondo, poi, i più abili e fantasiosi fra loro, che sanno guardare non solo retro, ma anche avanti, mettono in circolazione nomi presidenziabili per il fatidico gennaio 2022. Ed è così che si comprendono le agitazioni dello ancien statista Pierferdy Casini, inopinatamente assurto a risorsa della Repubblica.
Quirinalisti e retroscenisti fanno il loro lavoro in maniera apprezzabile? Non mi pare. Per lo più, i secondi contribuiscono in misura molto maggiore dei primi al restringimento della già scarsissima fiducia degli italiani nella politica e nei partiti. Al toto nomi raramente si accompagna anche una riflessione e individuazione delle politiche diverse che sarebbero presumibilmente attuate dai nuovi arrivati. Le comparazioni, fra il prossimo presidente del Consiglio e i precedenti a lui in qualche modo assimilabili - Ciampi, Dini, Monti – vengono fatte in maniera assolutamente disinvolta e superficialissima, senza tenere conto dei contesti, fra i quali anche le aspettative dei partner europei e dei protagonisti tutti: presidenti della Repubblica, partiti, coalizioni di governo.
Cambiare governo nelle democrazie parlamentari è sempre possibile. Questi cambiamenti, effettuati in Parlamento, cosiddetti ribaltoni più o meno totali (di un totale cambio di maggioranza l’Italia non ha nessun esempio), segnalano il pregio della flessibilità di contro alla rigidità delle repubbliche presidenziali che, eletto un Presidente, se lo debbono tenere a meno di un colpo di Stato. Anche se possibili i ribaltoni sono auspicabili? a quali condizioni e con quali conseguenze? La storia più che centennale delle democrazie parlamentari non offre neanche un caso di un cambio significativo di governo durante un’emergenza (ad esempio, nel periodo 2008-2009, peraltro un’emergenza di gran lunga meno grave della pandemia). Persino i governi di unità nazionale sono rarissimi. Attualmente nelle democrazie occidentali non esiste nessun governo di unità nazionale. In Germania, c’è, per decisione dei leader dei due maggiori partiti (confermata da consultazioni fra gli iscritti), un governo definito molto impropriamente Grande coalizione, mentre è un normale governo di coalizione fra Cdu/Csu e Spd che ha 398 seggi e deve fare i conti con opposizioni che ne hanno 310. Sia chiaro che la solidarietà nazionale italiana 1976-1978 non si tradusse in nessun governo di unità nazionale.
Di solito per giustificare l’esigenza di un governo di unità nazionale si fa riferimento a quello emblematico guidato da Winston Churchill in Gran Bretagna dal 1940 al 1945. Churchill era il capo del partito che aveva ottenuto la maggioranza assoluta dei seggi alla Camera dei Comuni. Aprì a laburisti e liberali, nessuno dei quali chiese mai, neppure nelle ore più buie (darkest) di sostituirlo con un leader conservatore più gradito. Neanche dalla sempre irriverente stampa britannica furono avanzate richieste di sostituzione di Churchill, ricorrendo a più o meno fasulle argomentazioni (retroscena?) che il re Giorgio VI aveva altre preferenze: un noto banchiere, un professore di Oxbridge, un Lord suo compagno di caccia alle volpi. Vinta la guerra, Churchill subito perse le elezioni. I laburisti ottennero la maggioranza assoluta dei seggi e diedero vita ad un governo fortemente riformista.
Come potrebbero i governi stabili delle altre democrazie europee fidarsi degli impegni presi da un capo di governo che i retroscenisti italiani danno per moribondo, sostituibile (solo lui o anche la sua maggioranza? tutta o in parte?) e, comunque, considerato incapace di affrontare i problemi socioeconomici prodotti dalla pandemia e di approntarne soluzioni praticabili? Venerdì 17 aprile la votazione di un importante documento concernente gli aiuti economici ha visto gli europarlamentari italiani dividersi variamente, un caso di “distanziamento politico-elettorale” non certo, come si dice, una “prova tecnica” di governo di unità nazionale, ma con fratture più profonde nel centrodestra. Allo stato, i retroscenisti, nessuno dei quali può vantare successi previsionali significativi (per esempio, la nascita del Conte 2), non apportano nessun elemento utile a una migliore conoscenza della politica. Credo anche che i quirinalisti potrebbero svolgere un ruolo più efficace se smentissero le azzardate interpretazioni dei retroscenisti (anche di quelli che scrivono sullo stesso quotidiano) e se sottolineassero che, da tempo e finora, tutte le dichiarazioni e le mosse del presidente della Repubblica hanno un sicuro accertabile fondamento nella Costituzione. È e sarà lui, che rappresenta l’unità nazionale, a decidere se, quanto e fintantoché il governo è stabile e operativo.
Pubblicato il 20 aprile 2020 su rivistailmulino.it
Ripensare il finanziamento della politica @rivistailmulino fascicolo 1/20
Articolo pubblicato su “il Mulino”, 1/20, n. 507, pp. 45-52
Contro il finanziamento pubblico di questi partiti è il titolo di un mio articolo che “il Mulino” riuscì fulmineamente a pubblicare (vol. XXIII, marzo/aprile, pp. 233-255) prima che la legge n. 195 del 2 maggio 1974, primo firmatario il capogruppo della Democrazia cristiana alla Camera dei Deputati Flaminio Piccoli, concordata con tutti gli altri partiti ad eccezione del Partito Liberale Italiano (che in seguito ne tentò, senza successo, l’abrogazione per via referendaria) fosse licenziata rapidissimamente dal Parlamento bicamerale (a riprova che la volontà politica dei “legislatori” è sempre in grado di prevalere sull’assetto strutturale anche del bicameralismo paritario italiano). Naturalmente, non fui l’unico critico. L’analisi di poco successiva che apprezzai maggiormente fu quella di Ernesto Bettinelli (La legge sul finanziamento pubblico dei partiti, in “Il Politico”, vol. 39, n. 4, Dicembre 1974, pp. 640-661). Eravamo e, credo, siamo rimasti sulla stessa lunghezza d’onda e, poiché l’argomento è il peso del denaro in politica, aggiungerò che la convergenza di opinioni, non a vanvera, ma informate, riguardò anche il conflitto d’interessi (do you remember?)
La posizione che argomentai allora era che fosse sbagliato e persino dannoso per i partiti e per la competizione democratica finanziare le strutture e i loro apparati invece delle attività essenziali in un regime democratico: propaganda e strumenti per la diffusione di idee e proposte per continuare a offrire una pluralità di scelte effettive (non di, più o meno appassionate e appassionanti, testimonianze) non soltanto al momento del voto, ma nel corso del tempo. Quei partiti italiani riuscirono a sfuggire per qualche tempo al giudizio del popolo (sic) salvati dalle allora zone rosse, Emilia-Romagna in testa, nel referendum dell’11 giugno 1978 promosso dai radicali. Il 43,6 per cento degli elettori (me, ovviamente, compreso) si pronunciò per il “sì” all’abrogazione. Quel che più conta, proprio grazie ai fondi pubblici, quei partiti ebbero modo di evitare qualsiasi riforma della loro organizzazione e dei loro comportamenti. Quanto all’organizzazione, non mi riferisco alla necessità/indispensabilità di introdurre modalità democratiche nel loro funzionamento (su cui ho scritto di recente: La democrazia nei partiti (degli altri), in “il Mulino”, vol. LXVIII, Novembre/Dicembre 2019, pp. 908-915). Considero, piuttosto, la volontà di aprirsi davvero ad una società che cambiava e della quale quei partiti, resi ancora più autoreferenziali dai soldi pubblici, pensarono, invece, di non avere bisogno né di studiarla né di “incontrarla”. La legge 195/1974 fu, da un lato, il compimento e l’epitome della partitocrazia italiana, dall’altro, una confortevole rete di sicurezza.
La crisi arrivò qualche tempo dopo sulla scia di Mani Pulite, intesa, per la parte che ci interessa qui, come la sconvolgente scoperta, ad opera degli elettori poiché i politici “non potevano non sapere”, che neppure il notevole flusso di denaro pubblico bastava ai partiti e ai loro dirigenti che vi aggiunsero abbondanti tangenti, mazzette, bustarelle e altro costruendo una sostanzialmente onnicomprensiva cappa di corruzione sistemica. Con il 90.3 per cento di sì, il 18 aprile 1993 l’elettorato si espresse per l’abolizione totale della legge (ne scrissi l’epitaffio subito dopo: Referendum: l’analisi del voto, in “Mondoperaio”, anno 31, n. 7-8, pp. 18-24). È quasi impossibile, meriterebbe un articolo specifico, seguire poi tutti i tentativi, spesso nel cuore della notte, effettuati dai partiti per continuare per continuare ad avvalersi, più o meno di straforo, di somme tutt’altro che limitate fino all’abolizione definitiva (sic) addirittura dei rimborsi elettorali sancita per decreto dal governo Letta nel 2014.
Che cosa rimane? Rimangono finanziamenti tutt’altro che irrisori per l’attività dei gruppi parlamentari assegnati in base alla loro consistenza numerica. A questo proposito, chi volesse davvero rendere difficile, eliminare mi pare impossibile, il fenomeno del trasformismo, potrebbe avanzare la proposta che i parlamentari che lasciano il gruppo al quale hanno aderito al momento della loro elezione non portano con sé quanto spetta al loro gruppo. Questo punto è significativo. Lo ripeterò più avanti. Rimane il 2 per mille che i contribuenti possono destinare al partito che preferiscono. Rimangono le cosiddette erogazioni liberali dei cittadini che le possono detrarre fino alla cifra di 30 mila Euro. Direi che, complessivamente, i partiti riescono comunque ad acquisire una cifra non marginale per svolgere attività politiche non solo di routine. Dovremmo, dunque, preoccuparci della presunta miseria di fondi nella quale i partiti italiani, anche grazie alla loro fattiva collaborazione, sono caduti?
Certamente, non è neppure da prendere in considerazione l’ipotesi che la loro miseria di idee derivi dalla carenza di denaro. Forse, è più vero il contrario. Peraltro, alcune Fondazioni legate a dirigenti di partito, ma sarebbe opportuna una ricognizione approfondita, sono in condizione di raccogliere e ricevere fondi appositi e di produrre attività visibili, non soltanto di propaganda, ma anche di ricerca, in qualche modo utili alla politica. Anche se è possibile ritenere e sostenere che la cattiva qualità della politica italiana non dipende dalla carenza di fondi, non possiamo non porci il problema del rapporto fra i soldi e la politica in Italia, oggi. Ieri, Craxi lo disse a chiarissime lettere nel suo discorso alla Camera dei Deputati, i soldi “andavano” un po’ a tutti i partiti (sento, però, che dovremmo procedere a opportune differenze sia quantitative sia nelle modalità con le quali quei soldi si “muovevano” e dove effettivamente finivano) anche se da quasi vent’anni esisteva il finanziamento pubblico dei partiti in quantità che erano certamente alquanto generose. Che cosa facevano quei partiti negli anni Ottanta e Novanta e perché avevano bisogno di una crescente quantità di denaro? A questa domanda è imperativo azzardare una risposta prima di affermare la necessità di tornare/ridefinire modalità di finanziamento pubblico.
La prima risposta ruota intorno alla politica italiana come si era strutturata, quasi monopolizzata dai partiti la cui competizione era sempre stata molto intensa e che si era acuita con la sfida socialista diventando per alcuni sostanzialmente una questione di vita e di morte. I partiti piccoli: Liberali, Repubblicani, Socialdemocratici, privi di entrate derivanti dagli iscritti e da feste di autofinanziamento, avevano assoluto bisogno di molto denaro semplicemente per sopravvivere. Più si alzava il livello della competizione, e certamente fu Craxi ad alzarlo (non è un demerito), più servivano soldi a tutti i competitors, al PSI più degli altri poiché la sua sfida competitiva si scontrava con due avversari molto attrezzati: DC e PCI. Naturalmente, oltre alla competizione fra i partiti, esisteva anche una competizione dentro i partiti, fra le correnti, in particolare, all’interno sia della DC sia dello stesso PSI. Ancora una volta erano i socialisti ad avere più bisogno di soldi poiché la lotta fra correnti fu durissima fino a quando Craxi ottenne il completo controllo del partito, dopo il Congresso di Verona nel maggio 1984. Soprattutto, però, furono i dirigenti socialisti candidati alla Camera in varie aree del paese ad avere bisogno di soldi che il centro non consegnava loro (no, il PSI non fu mai un partito “federale” come si diceva fosse, ma non fu, il Parti Socialiste di Mitterrand) per le loro campagne elettorali personali(zzate). Il numero di voti di preferenza da ciascuno di loro ottenuti ne consacrava la “capacità” politica, ne aumentava il prestigio, veniva tenuto nel massimo conto e fatto valere per ottenere cariche di governo. Ricordo qui che Craxi si oppose frontalmente al referendum sulla preferenza unica con l’invito ad andare al mare affinché non fosse conseguito il quorum, consapevole che la lotta per le preferenze (allora tre o quattro a seconda della dimensione delle circoscrizione) costituiva uno strumento importante per mobilitare una pluralità di settori di elettorato potenzialmente socialista.
Tutto questo fa parte del passato, di un passato che è utile conoscere per andare oltre verso una situazione migliore. Il problema è, però, fondamentalmente simile: è giusto finanziare i partiti di oggi con fondi pubblici? Qual è la somma da considerarsi complessivamente adeguata e con quali criteri dovrebbe essere attribuita e distribuita, a chi? Probabilmente, il primo passo da compiere dovrebbe consistere in un esercizio il più accurato possibile di spending review. Quanto i partiti oggi rappresentati in Parlamento spendono per la loro vita quotidiana e quali sono precisamente le loro voci di spessa? Non partiamo da zero poiché alcune cifre sono note, quelle che riguardano il finanziamento dei gruppi parlamentari sulla base della loro consistenza numerica e i fondi che vanno a ciascun parlamentare per pagare suoi collaboratori. Quanto al primo punto, il fenomeno del trasformismo nella sua versione di passaggio di parlamentari da un gruppo ad un altro gruppo indebolisce economicamente il gruppo che perde quei parlamentari e rafforza il gruppo che li riceve/accoglie. Ovviamente, se i parlamentari passano al gruppo misto è il gruppo di partenza che perde senza che venga rafforzato un altro gruppo. Le misure contro il trasformismo, se lo si ritiene fenomeno particolarmente nocivo per la vita politica, per la qualità della rappresentanza e per il ruolo e prestigio del Parlamento, possono essere anche altre. Peraltro, nulla vieta che il parlamentare trasformista possa essere punito anche nei fondi che gli sono assegnati personalmente né cozza contro l’assenza di vincolo di mandato che riguarda la sua libertà di voto non le sue traiettorie. Ricordo, comunque, che parlamentari assidui e intenzionati a contare che sappiano le domande da fare riescono ad ottenere un’assistenza eccellente dai funzionari di Camera e Senato e dai rispettivi uffici studi. Insomma, l’attività parlamentare dei singoli e dei gruppi non necessita ulteriori finanziamenti. Semmai, il mio suggerimento è eventualmente di provvedere a rafforzare anche numericamente gli apparati dei funzionari di Camera e Senato.
In verità, quando i partiti e i loro dirigenti chiedono più soldi giustificano la richiesta con riferimento a due tipi generali di attività: in primis, le campagne elettorali; secondo, il mantenimento dei rapporti con gli elettori anche fra una campagna elettorale e quella successiva. È un peccato che nessuno degli studiosi abbia esplorato in maniera approfondita né l’una né l’altra di queste attività. Impareremmo molto sia sulla società italiana e le sue richieste alla politica/ai politici sia sulle trasformazioni e le inadeguatezze dei partiti, dei politici, dei candidati, degli eletti. Di nuovo, in partenza suggerisco ancora una accurata opera di spending review che sarà certamente più delicata di quella che ha riguardato le spese in parlamento per le attività colà svolte. Infatti, sia le campagne elettorali sia i rapporti con gli elettori (e, immagino, con gruppi organizzati e con vere e proprie lobby) potrebbero contenere per ciascun partito e, chi sa, anche per qualche candidato, sia elementi al limite del lecito che, ovviamente, il partito vorrà tenere nascosti, sia elementi che, seppure leciti, è preferibile che non vengano resi noti poiché originali, innovativi, peculiari ad un candidato e/o al suo partito, tali da produrre effetti positivi. È giusto che la riservatezza venga garantita e che l’innovazione non venga svelata a vantaggio di chi non ha saputo fare altrettanto.
Non so dire quanto il sistema del Movimento 5 Stelle, che si basa sulla Piattaforma Rousseau, debba essere effettivamente collocato fra le innovazioni politico-comunicative. Sappiamo che non è stato imitato da nessuno dei concorrenti e sappiamo anche che il suo funzionamento e il suo finanziamento contengono elementi di riservatezza/segretezza variamente e fortemente criticati (e, aggiungo, criticabili). Saperne di più sui costi di quella Piattaforma, sugli eventuali, ma probabili, profitti del proprietario e gestore Davide Casaleggio e sulla provenienza dei fondi che ne consentono l’utilizzo è una lecita curiosità di chi desidera conoscere i costi della politica eventualmente da coprire con fondi pubblici.
Nella misura in cui i finanziamenti pubblici debbano essere ripristinati, essenzialmente per coprire i costi delle campagne elettorali, allora bisogna riflettere su almeno due aspetti importanti. Primo: per garantire la parità dei punti di partenza nelle competizioni elettorali è necessario che tutti i partiti e tutti candidati abbiano gli stessi fondi per organizzare eventi, distribuire messaggi, ottenere presenze televisive? Oppure i fondi andranno esclusivamente ai partiti (già) presenti nel Parlamento e ai loro candidati in quelle campagne elettorali? Non finiremmo in questo modo per dare vita ad una situazione di “cartello” fra partiti insediati che si spalleggiano nella quale diventa molto difficile, al limite dell’impossibile per partiti nuovi ottenere finanziamenti e quant’altro? D’altronde, potremmo anche legittimamente sostenere che, per avere accesso a fondi e servizi, spetterebbe ai partiti nuovi raggiungere in proprio una incerta soglia minima. Per esempio, raccogliere dai privati una predefinita somma di denaro che lo Stato raddoppierebbe. Quanti “piccoli” versamenti da quale numero minimo di privati (500 Euro massimo per ciascuno da almeno mille finanziatori/sottoscrittori) dovrebbero essere richiesti?
Come è facile notare subito, questa è una strada irta di ostacoli, forse anche di inconvenienti, che si presta più di un’obiezione, ma mi pare che meriti di essere percorsa anche perché coinvolgerebbe e responsabilizzerebbe i cittadini-elettori e non solo. Il messaggio non è “fatevi il vostro partito”, ma “sostenete chi porta avanti le vostre idee, le vostre preferenze, i vostri interessi”. Il secondo aspetto, che è ancora più importante, riguarda il tipo di sistema elettorale vigente. Una legge elettorale proporzionale non può che accompagnarsi a finanziamenti che vanno ai partiti, ai loro segretari amministrativi. Per quanto si possa statuire che i fondi saranno distribuiti anche alle organizzazioni locali, se le dimensioni delle circoscrizioni sono elevate, i costi delle campagne elettorali saranno di conseguenze prevedibilmente alti. Chi vuole tenere bassi i costi delle campagne elettorali deve volere circoscrizioni piccole, nelle quali si eleggano dieci o meno deputati. In questo caso i costi si ridurranno, ma non potranno comunque essere irrisori. Qualora, invece, vi siano collegi uninominali i costi delle campagne elettorali potranno effettivamente essere abbastanza contenuti, come, in Gran Bretagna dove vengono eletti 650 deputati e in ciascun collegio gli elettori variano da 80 a 100 mila elettori circa. Ovviamente, se il referendum non sconfiggerà il taglio dei parlamentari italiani, quand’anche, ipotesi del terzo tipo, si introducessero in Italia i collegi uninominali (inevitabilmente facenti parte di una legge elettorale maggioritaria), ciascuno di loro per la Camera dovrebbe contenere più di 125 mila elettori e per il Senato il doppio, vale a dire 250 mila. Il costo delle campagne elettorali risulterebbe sicuramente piuttosto più elevato di quelle inglesi. Qui non discuto minimamente le difficoltà di dare rappresentanza politica adeguata che conseguono dalla riduzione del numero dei parlamentari, ma è possibile in questo contesto sostenere che la democrazia ha davvero un costo e che è indispensabile che i cittadini siano informati su quello che segue al risparmio, non ingente, derivante dal taglio delle “poltrone”.
Ho la tentazione di concludere con alcune, poche, affermazioni drastiche, quasi apodittiche. Prima affermazione: ai partiti in quanto organizzazioni bisogna dare soltanto una quantità minima di denaro pubblico. È molto meglio finanziare adeguatamente l’attività dei gruppi parlamentari anche al fine di riacquisire attraverso il miglioramento delle loro prestazioni il prestigio perduto dai parlamentari e dal Parlamento in quanto tale. Seconda affermazione: è opportuno finanziare le campagne elettorali, meglio se, da un lato, offrendo servizi gratuiti ai partiti, dall’altro, procedendo a rimborsi per attività svolte dai partiti (e dai candidati), quelle attività che servono la politica garantendo effettiva competizione e mettendo a disposizione degli elettori il massimo di informazioni (aggiungerei, persino, in maniera visionaria, la possibilità e la strumentazione del fact checking) Infine, molti di questi nobili obiettivi: spese contenute, competizione reale, diffusione di informazioni, più potere agli elettori sono più facilmente conseguibili laddove e quando la legge elettorale prevede l’esistenza di collegi uninominali. Che qualche riformatore elettorale, soprattutto coloro che si collocano anche fra i risparmiatori, mi auguro che ce ne siano di disponili a mettersi all’opera, voglia tenere conto di questa cruciale indicazione?
Discutere se, come, quanto finanziare con denaro pubblico la politica democratica continua a essere un’operazione importante. Naturalmente, è altrettanto importante valutare se, come e quanto chi intende “fare” politica a tutti i livelli debba essere messo in condizione di ottenere denaro anche dai privati oppure soltanto dai privati oppure, ancora, in quale mix dal pubblico e dai privati. A qualunque soluzione si giunga, un elemento è irrinunciabile: bisogna che qualsivoglia finanziamento di provenienza dai privati al di sopra di una somma minima, che potrebbe essere indicata in 20 Euro, sia riconducibile a chi l’ha versata. Chi dà denaro a candidati, partiti e eletti compie un atto politico. Come qualsiasi altro atto politico il versamento di fondi deve essere pubblico, forse, meglio, deve, secondo modalità da stabilire, potere essere reso pubblico. È vero che in nessun luogo è oramai possibile fare politica senza disporre di denaro. Ma è altrettanto vero che un po’ dappertutto i cittadini diffidano di coloro che si fanno largo in politica grazie al loro denaro o alle donazioni che ricevono o ai fondi che ottengono, in maniera più o meno sregolata, dalle casse dello Stato e da altri soggetti. Credo sia essenziale aggiungere che la pubblicità deve riguardare anche i gruppi di pressione e i lobbisti.
Chi intende ridare dignità alla politica e ai politici stessi (dei quali troppi sostengono, con una buona dose di ipocrisia, di essere in politica “per passione” o “con spirito di servizio” e non con la legittima ambizione di acquisire cariche che consentano di produrre cambiamenti) ha l’obbligo di operare con il massimo di trasparenza. Altrimenti, il rischio che la politica in Italia ha già corso consiste nell’offrire straordinarie opportunità ai populisti. Dunque, non è sufficiente finanziare con fondi pubblici partiti e candidati. Anzi, forse, senza una meticolosa legislazione di contorno, questa modalità potrebbe risultare addirittura controproducente. Non è sufficiente neppure procedere a, pur essenziali, argomentazioni a favore di ciascuna modalità di finanziamento e di più per quello statale. È imperativo sapere garantire impeccabili controlli dei fondi e delle spese ai quali la cittadinanza sia in grado di accedere facilmente. Allora, alla fin della ballata, mi sento obbligato ad affermare che, no, non credo che in Italia sia già tornato il tempo del finanziamento pubblico della politica, con tutte le variazioni e precisazioni del caso. Alla domanda specifica risponderei: “dipende”. Spero di avere spiegato convincentemente da cosa dipende e perché.
Gianfranco Pasquino è Professore Emerito di Scienza politica nell’Università di Bologna. Socio dell’Accademia dei Lincei, dal 2010 fa parte del Consiglio Scientifico dell’Enciclopedia Italiana. I suoi libri più recenti sono Bobbio e Sartori. Capire e cambiare la politica (2019); Italian Democracy. How It Works (2020) e Minima Politica. Sei lezioni di democrazia (2020).
Come valutare la produttività dei parlamentari @rivistailmulino
Il già apprezzato presidente dell’Inps Tito Boeri ha scritto un articolo (Non solo questione di numeri, “la Repubblica”, 31.12.2019), alquanto confuso, inteso a dimostrare che è possibile ridurre il numero dei parlamentari senza che ne discendano conseguenze negative sul funzionamento del Parlamento. Il suo punto di partenza è che i parlamentari attualmente esistenti, pure inspiegabilmente numerosi (rispetto a che cosa, a chi? agli elettori Boeri non offre nessun elemento di valutazione comparata), risultano molto poco produttivi. Per definire e misurare la produttività dei parlamentari l’articolo utilizza due criteri. Il primo è la presenza alle votazioni in aula; il secondo è la stesura di disegni di legge. Entrambi i criteri sono inadeguati e fuorvianti.
Quanto al primo, chi studia i parlamenti e il loro funzionamento sa che, tranne qualche significativa eccezione, tutti i disegni di legge che arrivano alla votazione finale in aula sono stati ampiamente discussi, talvolta emendati (in effetti, ottima cosa sarebbe contare e valutare quali e quanti emendamenti di successo sono stati introdotti dai singoli parlamentari anche in aula) e, infine, votati nelle commissioni di merito. Un numero notevole di parlamentari ha partecipato attivamente a quelle discussioni e approvazioni. A tutti è noto che molte, se non addirittura la maggior parte delle votazioni in aula non presentano nessun conflitto e avverranno senza sorprese. Dunque, la loro presenza non è politicamente richiesta, senza contare che molti parlamentari sono occupati in cariche di governo e molti possono essere in missione. Le foto delle aule vuote del Parlamento in occasione di discussioni generali, che molti quotidiani pubblicano e che scandalizzati commentatori, più o meno inconsapevolmente “populisti”, stigmatizzano, sono del tutto fuorvianti. Oscurano il fatto che molti parlamentari stanno lavorando in Commissione, studiando nei loro uffici, dando interviste di politica a quegli stessi quotidiani, tenendo rapporti con i loro elettori. Per quel che riguarda il secondo criterio, la stesura e presentazione dei disegni di legge, è da tempo che gli studiosi del Parlamento sanno che il compito principale di qualsiasi e di tutti i parlamenti (tranne quelli delle Repubbliche presidenziali) non è affatto quello di “fare le leggi”. Nelle democrazie parlamentari, sono i governi (se si preferisce, le maggioranze che sostengono i governi) che fanno le leggi. All’incirca fra l’80 e il 90% delle leggi approvate dalla maggioranza dei Parlamenti contemporanei sono di origine (iniziativa) governativa. D’altronde, è giusto che sia così.
Infatti, quei governi e i partiti che ne fanno parte hanno non soltanto il potere di fare approvare i loro specifici disegni di legge, ma hanno anche il dovere di farlo. Hanno ottenuto voti anche, in qualche caso, soprattutto, poiché hanno promesso agli elettori di attuare determinate politiche. Una volta al governo è loro compito tradurre le promesse in progetti di legge sui quali chiederanno l’approvazione dei parlamentari che anche su quei programmi sono stati eletti. La disciplina di voto che ne consegue è parte del complesso circuito di responsabilità istituzionale richiamata anche nel discorso di fine d’anno del presidente Mattarella. Se fossero i singoli parlamentari a fare le leggi assisteremmo al caos, nel quale la Terza Repubblica francese, definita la République des députés, si trovò a lungo con scambi dei più vari e incontrollabili tipi fra gruppi di deputati. Non è un dettaglio marginale il crollo come un castello di carta di quella Repubblica di fronte alla comparsa dei carri armati tedeschi nel giugno 1940. Quindi, invece di considerare positivamente come indicatore di produttività il numero dei disegni di legge scritti dai singoli parlamentari (incidentalmente, mai i più noti e neppure quelli che godono di maggiore prestigio fra i colleghi, a richiesta sono in grado di fare i nomi!), è opportuno preoccuparsi e interrogarsi su quali ne siano le motivazioni anche alla luce dell’altissima improbabilità che quei disegni di legge siano presi in considerazione e, meno che mai, giungano all’approvazione. No, è completamente sbagliato misurare la “produttività” di un parlamentare contando i disegni di legge da lui/lei “sfornati”. Praticamente, nessuno di quei disegni di legge ha la minima possibilità di essere preso in considerazione; giustamente, poiché, da un lato, sono semplici messaggi, oramai abbastanza rari, mandati agli elettori, ma più spesso sono “favori” restituiti a qualche gruppo di interesse che, in effetti, è il vero autore di quel disegno di legge. Comunque, se produttività è produrre disegni di legge, allora Boeri dovrebbe essere fermamente contrario alla riduzione del numero dei parlamentari. Infatti, quanti più sono i parlamentari tanti più saranno/sarebbero i disegni di legge. Se, poi, ci fosse competizione fra un numero elevato di disegni di legge sullo stesso tema, allora alla produttività in termini di quantità si affiancherebbe anche l’incremento di qualità [sic!]. Ciò detto, propongo a Boeri e a chi come lui si dice favorevole alla riduzione del numero dei nostri parlamentari che la produttività venga misurata con riferimento non alla moltiplicazione dei disegni di legge che neppure arrivano alla votazione, ma con riferimento al molto più complesso ma molto più significativo ed esigente criterio della rappresentanza.
Che cosa fanno i parlamentari per dare rappresentanza agli interessi, alle preferenze, alle aspettative, persino agli ideali dei loro elettori, degli elettori in generale? In democrazia si ha rappresentanza politica soltanto quando i rappresentanti sono eletti, possono essere rieletti indefinitamente, con buona pace dei teorizzatori del limite ai mandati, e, naturalmente, anche sconfitti. Se la rappresentanza è elettiva non si può, come sembra suggerire Boeri, non (pre)occuparsi delle leggi elettorali, procedendo unicamente alla rozza, ma reale, distinzione fra leggi maggioritarie e leggi proporzionali. Già l’uso del plurale indica che è indispensabile guardare proprio alle technicalities di ciascuna legge. Non lo farò qui. Almeno in prima approssimazione è giusto affermare che esistono leggi elettorali capaci di collegare più efficacemente gli elettori al parlamentare che hanno eletto/a e spingerlo a dare buona rappresentanza.
Qui si apre il discorso relativo alla misurazione della qualità della rappresentanza. Ci sono alcuni indicatori facili: la residenza nel collegio nel quale il rappresentante è eletto; se non residente, il numero di volte che il rappresentante torna nel collegio e quanto tempo vi rimane; il numero di iniziative pubbliche svolte; il numero di elettori che riceve nel suo ufficio nel collegio; la quantità di posta che riceve e il numero di risposte che invia; i suoi interventi in Parlamento, magari distinguendo, come fatto più di duecento anni fa dal più autorevole interprete di ciò che è e che può essere buona rappresentanza politica, l’inglese Edmund Burke (1729-1797), fra rappresentanza del collegio, del partito, della nazione. C’è molto da fare per trovare e affinare i criteri più adeguati, non causali, non occasionali per la valutazione della produttività dei parlamentari soprattutto in chiave specifica di rappresentanza politica. Sappiamo che il paracadutaggio in liste bloccate e le candidature multiple non sono modalità propedeutiche (Burke esprimerebbe apprezzamento per questo mio very British understatement) alla buona rappresentanza politica Per il momento mi fermo qui suggerendo, anche a Boeri, la lettura di qualcosa che è più di un’approssimazione come risposta, come il mio Minima Politica. Sei lezioni sulla democrazia (Utet, 2020), delle quali una è sulle leggi elettorali e un’altra proprio sulla rappresentanza.
Pubblicato il 4 gennaio 2020
Quanto malposto rumore su #Rousseau Conversazione democratica senza insulti sui meccanismi interni ai partiti
Riconosco ai partiti e ai non-partiti con il loro non-statuto, ai movimenti più o meno personali e personalizzati, a tutte le associazioni politiche il diritto a scegliere come regolamentare la loro vita interna in qualsiasi forma e modalità preferiscano. Riconosco a me stesso e a tutti commentatori che si informano il diritto a criticare quelle forme e quelle modalità purché lo facciano in maniera seria e argomentata, non, per esempio, in maniera pretestuosa. Sto ancora cercando materiale sulle riunioni degli organismi dirigenti di Forza Italia – eppure dal 1994 ad oggi ce ne dovrebbe essere di abbondantissimo – e della Lega. Vorrei sapere come hanno deciso la loro linea politica e le loro alleanze, come scelgono le candidature, come promuovono e perché rimuovono i dirigenti. So che, in maniera un po’ raffazzonata, il Partito democratico ha tenuto più di mille primarie, che non sono “consultazioni”, come ho sentito da alcuni giornalisti televisivi, ma modalità di selezione delle candidature per cariche monocratiche, non per l’elezione del segretario del partito, che hanno rivelato più di un problema “democratico”. So anche che la democrazia non si esaurisce in queste scelte né da mai “pieni poteri” agli eletti in questo modo. Ho personalmente di persona partecipato a più riunioni della Direzione di un partito nelle quali le decisioni erano preconfezionate. In una di quelle riunioni, il documento conclusivo da sottoporre all’approvazione, che debitamente fu espressa con larghissima maggioranza, era stato scritto prima della discussione e non ritoccato in nulla.
Dunque, quando il Movimento 5 Stelle fa ricorso alla piattaforma Rousseau non mi esibisco in male informate critiche preliminari in sbeffeggi in insulti in affermazioni indignate poiché ne deriverebbero chi sa quali violazioni della Costituzione e, nel caso dell’approvazione o no dell’accordo con il Partito democratico, addirittura in un non meglio motivato sgarbo alla presidenza della Repubblica. Quando 75 mila attivisti, vale a dire quasi il 70% degli aventi diritto, decidono di esprimere la loro valutazione mi rallegro. Probabilmente, si sono informati, ne hanno parlato con altri, hanno deciso che la loro opinione conta, hanno partecipato ad una scelta significativa. Avevano addirittura, udite udite, ricevuto input dei più vari tipi e toni, dai dirigenti e dai parlamentari del Movimento. Si chiama “conversazione” democratica. Sostanzialmente, abbiamo assistito a un inusitato e perfettibile procedimento politico di notevole rilievo culminato in un voto la cui rilevanza non può affatto essere sminuita definendolo tanto spregiativamente quanto erroneamente “plebiscitario” dal momento che quasi il 20% ha votato no. Tutto questo non significa in nessun modo che non ritenga di esprimere tutta una serie di critiche.
La piattaforma Rousseau è di proprietà di un privato che la “gestisce” anche a scopi di lucro? Se non c’è un reato, non vedo il problema a meno che una parte degli attivisti ritenga che quel privato e i suoi collaboratori falsino deliberatamente i risultati. Allora siano loro a fare ricorso. Non abbiamo modo di assicurarci che abbiano votato esclusivamente coloro che ne avevano diritto e non disponiamo di strumenti per accertare la validità dei risultati? Le procedure opache non mi piacciono. La mancanza di trasparenza mi preoccupa. L’impossibilità di controllare se vi siano state o no violazioni e/o interferenze è una ferita inferta al gracile corpo della democrazia diretta. Stanno le 5 Stelle praticando una democrazia diretta che non conoscono in attesa di scoprire le modalità migliori per suscitare partecipazione politica e premiarla? Temo proprio di sì. Sono affari loro e dovrei soltanto farmi gli affari miei? Nient’affatto. Quando un attore politico rilevante fa ricorso a procedure decisionali che incidono sulla rappresentanza politica e addirittura sulla nascita (e poi anche sulla possibile morte) del governo, diventano affari di tutti i cittadini democratici e le critiche sono assolutamente doverose. Per essere anche credibili quelle critiche dovrebbero però provenire da chi fa congressi di partito, tiene riunioni degli organismi dirigenti, spiega e giustifica le scelte delle candidature e dei leader, formula analisi – lo scrivo per i commentatori politici – fondate su conoscenze comparate. Naturalmente, sono del tutto fiducioso che, preso atto dell’esito della consultazione online svolta dalle 5 Stelle una folta e mista delegazione di parlamentari democratico-partecipativi s’impegnerà – naturalmente “pancia a terra” – per tradurre in norme di legge quel piccolo e prezioso inciso dell’articolo 49 “con metodo democratico”. Mi stupisco che la proposta non si trovi già nei ventisei punti programmatici del governo Conte bis.
Pubblicato il 4 settembre 2019 su rivistailmulino.it
Italia, Santiago
da il Mulino n. 501, pp. 156-163
Sono andato a vedere il docu-film di Nanni Moretti. Mi ha fatto riemergere una pluralità di ricordi che, probabilmente, non hanno interesse e valenza esclusivamente personali. Li metto qui in ordine cronologico con qualche riflessione che serve a puntualizzare e a rischiararli.
La prima volta che incontrai il Cile fu nel settembre 1970. Nella sua strategia di attivare nelle Facoltà di Scienze Politiche corsi che avessero riferimento con la Scienza politica come madre di tutte le discipline politologiche, Giovanni Sartori mi chiese (sic!) di andare a Firenze come professore incaricato di Storia e istituzioni dei paesi dell’America latina. Naturalmente, aggiunse, avrei potuto insegnare il corso nella versione Sviluppo politico che era il mio argomento di ricerca di quel periodo. Nel dicembre 1970 uscì il mio primo libro Modernizzazione e sviluppo politico (Il Mulino). Grazie alla presenza di un numero relativamente ridotto di studenti, una ventina circa, il corso si tenne in forma seminariale con gli studenti che leggevano di volta in volta alcuni brevi testi che assegnavo loro e che discutevamo ampiamente, approfonditamente e con grande soddisfazione in classe. In un certo senso, gli studenti si erano auto reclutati: un giovanissimo professore con credenziali di sinistra, un corso tutto meno che paludato dove, ricordo che siamo nel 1970, riusciva a fare la sua (ri)comparsa persino Che Guevara (e Cuba), la possibilità di scambiare idee senza peli sulla lingua. Studiando intensamente acquisii conoscenze sufficienti a comprendere e trasmettere l’evoluzione politica di quattro paesi latino-americani: Argentina, Brasile, Cile, Perù. Tre di quei quattro erano già caduti sotto governi militari, e bisognava spiegare perché, affrontando il tema dei militari in politica (uno degli aspetti indispensabili di qualsiasi analisi dello sviluppo politico e/o della decadenza politica nonché della formazione e del funzionamento dei regimi autoritari). Controtendenza, il socialista Salvador Allende era diventato Presidente del Cile in maniera pienamente costituzionale il 24 ottobre 1970, ma attraverso una procedura complessa che avrebbe potuto dare un esito molto diverso. Nelle elezioni presidenziali Allende aveva ottenuto di pochissimo la maggioranza relativa: 1.075.616 voti (36,63%) contro Jorge Alessandri , già Presidente del Cile dal 1958 al 196, il candidato della destra, 1.036.278 Voti (35,29%), terzo piazzato Radomiro Tomic, candidato del Partito Democratico Cristiano, 824.849 voti (28,08%).
Non avendo nessuno dei candidati ottenuto la maggioranza assoluta dei voti popolari, la decisione passò al Congresso. La Democrazia cristiana cilena, trovatasi ago della bilancia fra Allende e Alessandri, si spaccò con la maggioranza che, votando insieme ai parlamentari di una variegata sinistra consegnò la Presidenza ad Allende (che era candidato per la terza volta). Costituzionalmente corretta, la procedura che portò all’elezione di Allende non poteva cancellare il fatto politicamente rilevante che due terzi dei cileni non avevano votato per lui. Ne seguirono tre anni molto turbolenti nei quali Unidad Popular non riuscì ad ampliare il suo consenso, mentre, da un lato, la destra politica, sociale ed economica sostenuta dagli Stati Uniti, ostacolava in ogni modo l’attuazione del programma del Presidente Allende, dall’altro, sarò drastico, molti intellettuali di sinistra europei, fra i quali, in particolare, Régis Debray e Rossana Rossanda, lo incitavano irresponsabilmente ad avanzare verso il socialismo (attraverso le nazionalizzazioni, a cominciare dalle miniere di rame e di settori industriali). L’11 settembre 1973, com’era prevedibile (ed era stato previsto da uno studioso delle Forze Armate cilene), i comandanti dell’Esercito, dell’Aviazione, della Marina e dei Carabineros eseguirono un sanguinoso colpo di Stato chiedendo le dimissioni di Allende. Il Presidente si rifiutò e decise di morire togliendosi la vita nella Moneda, il Palazzo presidenziale. L’episodio è riferito anche nelle testimonianze raccolte nel film di Moretti (di più sotto).
In fretta e furia scrissi un articolo che sintetizzava quanto avevo fino ad allora imparato sul Cile e cercai una rivista che mi garantisse la pubblicazione più rapidamente possibile. Giorgio Galli mi mise in contatto con Giuseppe Faravelli , socialista turatiano, Direttore di “Critica Sociale” che molto gentilmente pubblicò il mio articolo: Militarismo e imperialismo contro “Unidad Popular”, 20 ottobre 1973, pp. 482-485 (con note a seguire).
Il mio corso dell’anno accademico 1973-74, ridenominato “Teoria e politica dello sviluppo” cominciò all’inizio di novembre. Naturalmente, la sconfitta politica di Unidad Popular e il golpe di Pinochet ebbero spazio notevole in chiave comparata, vale a dire collegandoli alle difficoltà dei partiti di sinistra negli altri paesi latino-americani e ai governi militari già esistenti, specialmente in Argentina, Brasile e Perù. Fin dalla elezione in Congresso di Allende, Sartori che aveva cominciato la sua collaborazione al “Corriere della Sera” allora diretto dal suo collega di Facoltà Giovanni Spadolini, guardò con preoccupazione all’esperimento di Unidad Popular e ne fu fortemente critico in alcuni durissimi editoriali. Tuttavia, non interferì in alcun modo, neppure chiedendomi il contenuto delle lezioni e i testi di riferimento, nel mio corso. Non ricordo più i particolari, ma, da un lato, alcuni studenti, dall’altro, alcuni esuli cileni mi avvicinarono per chiedermi se fosse possibile, alla luce dei drammatici avvenimenti cileni, organizzare qualcosa sul Cile. Ci accordammo per una Tavola Rotonda a conclusione del mio corso nel maggio 1974. In qualche modo ottenemmo la disponibilità di alcuni esuli cileni: da me coordinati e sotto la mia supervisione, un socialista, un comunista, un esponente del MAPU (Sinistra cristiana) avrebbero analizzato la situazione. Naturalmente, per quell’attività, definita extracurriculare (e assolutamente straordinaria non solo alla Facoltà di Scienze Politiche “Cesare Alfieri” di Firenze, ma in quasi tutte le Facoltà di Scienze politiche in quel periodo) dovetti chiedere l’autorizzazione al Preside, il Professore di Sociologia Luciano Cavalli che, comprensibilmente, era molto preoccupato. Mi fu concessa. Seppi poi che decisivo fu Sartori che, dagli USA dove era Visiting Professor, interpellato da Cavalli, rispose: “se la responsabilità se la prende Pasquino, lo si autorizzi”.
In un pomeriggio soleggiato e tiepido di fine maggio, in un’aula affollata da duecentoventi studenti circa (questa era la capienza), con la gradita presenza di Forze dell’ordine sia davanti all’aula sia all’ingresso della Facoltà, Via Laura 48, per tre ore e mezza si discusse pacatamente, ma con passione, della situazione in Cile. Ricordo che nessuno degli esuli s’immaginava che la Giunta militare sarebbe rimasta al potere per quindici lunghi anni. Nel mio libro Militari e potere in America latina (Bologna, Il Mulino, 1974) pubblicato proprio in maggio, avevo argomentato che un conto sono i governi militari che possono durare poco meno o poco più di un anno, un conto sono i colpi di Stato effettuati unitariamente dalle Forze Armate che intendono, come già stavano facendo da quasi dieci anni i militari brasiliani, ristrutturare il sistema politico dando vita a un vero e proprio regime militare.
Non posso seguire la complessità degli avvenimenti sulla scia del golpe dell’11 settembre 1973, ma, come dovrebbe essere notissimo, il segretario del Partito Comunista Italiano, Enrico Berlinguer, con tre lunghi e densi articoli su “Rinascita” lanciò la strategia del compromesso storico. Argomentandolo variamente, che vuole dire in più luoghi e in più modi, formulai il mio dissenso, più compiutamente in un testo pubblicato nella rivista “il Mulino”. Sartori, che aveva seguito con grande apprensione quanto era successo in Cile, criticò duramente la proposta di compromesso storico, un grande accordo fra le due maggiori forze politiche destinato a durare nel tempo, si configurava, naturalmente, come una violazione delle regole di una democrazia liberale, fondata sulla competizione fra partiti e/o fra coalizioni, con possibilità di alternanza al governo. Dunque, qualsiasi compromesso storico, che non si configurasse come alleanza straordinaria per un periodo di tempo predeterminato e breve, era, in via di principio, inaccettabile. Nella tragedia cilena, le cui responsabilità addebitava ampiamente alla sinistra stessa, Sartori vide anche, a ragione, una conferma della validità del modello di competizione partitica, “pluralismo polarizzato”, da lui formulato alcuni anni prima (la cui elaborazione finale si trova in Parties and party systems, Cambridge University Press, 1976). Laddove il centro viene svuotato da due opposizioni anti-sistema –tecnicamente che, se vincono, sovvertono il sistema- il crollo del sistema politico è probabilissimo. Nell’aprile del 1975, la “Rivista Italiana di Scienza Politica” da lui diretta (e della quale ero il Redattore capo, cioè colui che la “cucinava” fino a portarla all’editore, Il Mulino) pubblicò un denso solido documentato saggio di un giovane politologo cileno Arturo Valenzuela, Il crollo della democrazia in Cile, lettura tuttora essenziale.
Passarono non pochi anni prima del mio re-incontro con il Cile. Da tempo molti esuli cileni, stabilitisi in varie zone d’Italia, come documenta il film di Moretti, avevano preso atto che il rovesciamento del regime non era affatto dietro l’angolo. Tuttavia, meritoriamente, molti di loro cercavano in ogni modo di sostenere l’opposizione interna. Alcuni dei più attivi si trovavano a Roma. A loro, sulla base di progetti specifici, la Sinistra Indipendente del Senato offriva sostegno finanziario per le cose da fare. In quanto conoscitore dell’America latina, spesso fui personalmente coinvolto nei rapporti con gli attivisti cileni a partire dalla mia elezione nel 1983. La svolta vera e propria avvenne quando la Giunta Militare cilena, più di tutti lo stesso Pinochet, si sentì tanto sicura di godere del consenso dei cileni da indire un referendum, in realtà un plebiscito sulla persona, per sancire il prolungamento della durata in carica per altri otto anni del loro leader. Ricordo l’effervescenza (e qualche timore) degli esuli cileni a Roma incerti sul da fare, ma consapevoli che il loro ritorno in patria li avrebbe esposti a molti rischi. Passarono pochi mesi nei quali giungemmo alla decisione che sarebbe stata una buona idea, anche come segno di persistente solidarietà dell’Italia, inviare una delegazione di parlamentari come osservatori del corretto svolgimento della consultazione popolare. Andai personalmente a proporlo al Presidente del Senato, Giovanni Spadolini che accettò immediatamente congratulandosi per l’iniziativa. Una dozzina di senatori in rappresentanza dei rispettivi gruppi parlamentari approdarono a Santiago qualche giorno prima della domenica 5 ottobre 1988, data in cui si svolse il referendum. Molto gentilmente e efficientemente, l’Ambasciatore italiano aveva organizzato alcune escursioni e incontri il più importante dei quali alla sede del Parlamento cileno a Valparaiso, non distante dalla bella cittadina turistica Viña del Mar, dove era noto si trovasse la tomba di Salvador Allende. Quando, dopo un rapido consulto con gli altri senatori, chiesi che ci conducessero appunto al Cimitero di Viña del Mar, neppure troppo sorpresi, gli organizzatori-accompagnatori acconsentirono. Il custode del Cimitero disse di non sapere dove era sepolto Allende. Stava a noi cercarne la tomba. Fatti alcuni passi all’interno del Cimitero, fummo avvicinati da un ragazzino che ci fece intendere di saperci condurre a quella tomba (lieto, naturalmente, di ricevere opportune donazioni da parte di tutti noi, anche, ci feci caso, di Cristoforo Filetti, allora capo del gruppo dei senatori del MSI).Non c’era il nome di Allende sul piccolo monumento, ma quello della famiglia Gossens e di sua sorella. Di quei momenti, conservo alcune foto scattate da un collega senatore in una delle quali appaio, mi è stato fatto notare, inaspettatamente commosso.
Al nostro arrivo a Santiago eravamo stati accolti da alcuni rappresentanti dell’opposizione che si rapportarono a ciascuno di noi secondo le nostre appartenenze politiche, dandoci alcune informazioni essenziali e chiedendoci se volevamo effettivamente fare gli osservatori elettorali. La giovane donna di sinistra che si rivolse a me, di origine italiana, mi interrogò sulla mia disponibilità ad andare in una località a una sessantina di chilometri da Santiago. Avuta la mia accettazione, organizzò il viaggio in auto. Fui ricevuto da un uomo più o meno della mia età, rappresentante dell’opposizione. Appresi quasi subito che era un comunista e che possedeva della terra e un orto e con sua moglie e qualche contadino ne traeva il suo sostentamento. Mi chiese, con discrezione e trepidazione, se ero disposto a pranzare a casa sua o se preferivo una trattoria. Fui lieto di condividere il loro pasto, in una piccola cucina con pavimento di pietra, assicurandomi che non avevano preparato nulla di speciale. Subito dopo mi portò a vedere/ispezionare tre o quattro seggi elettorali (mesas: tavolate intorno alle quali sedevano gli scrutatori). Erano otto, uno di loro, era in rappresentanza ufficiale dell’opposizione. Era una bella giornata, con foschia nella prima mattinata, poi soleggiata, sarebbe diventata fresca nel tardo pomeriggio. Ho ancora negli occhi la scheda elettorale di colore bianco-giallastra conteneva nel bel mezzo il quadratino del SÌ che sovrastava quello del NO. Chiesi con le parole di rito se “il procedimento elettorale si sviluppava regolarmente” (frase incessantemente ripetuta da radio e televisioni). Ottenuta una vociante conferma, chiesi se avevano già votato. Riposta unanime alla quale seguì la domanda se mi dicevano per chi avevano votato. Fra le risate sette di quegli otto giovani, nessuno di loro mi pareva avesse più di una trentina d’ anni, mi risposero che avevano votato “per il candidato” –conferma che si trattava effettivamente di un plebiscito. Che cosa avrei votato io? Dichiarai la mia appartenenza politica; aggiunsi che in via di principio ero del tutto contrario a cariche di governo che si prolungassero troppo a lungo; dunque, il mio “No” era assolutamente logico e conseguente; conclusi augurandomi e augurando loro che il Cile tornasse a essere una democrazia. Fu, sotto gli occhi appena preoccupati del mio accompagnatore, uno scambio civile di opinioni favorito dalla convinzione assoluta di quei giovani che Pinochet avrebbe ottenuto quello che voleva.
Al mio ritorno a Santiago, non in albergo, ma alla residenza dell’Ambasciatore, attendemmo le notizie sullo spoglio delle schede ascoltando le radio e guardando la televisione che, ossessivamente, ripeteva che “el proceso electoral tuvo lugar regularmente”. Verso le ore 22, giunsero quasi contemporaneamente due notizie importantissime. La prima segnalava disagio e movimento in alcune caserme della capitale. La seconda pochi minuti dopo riportava una frase dell’Ambasciatore degli USA che si rallegrava per l’alta partecipazione elettorale (l’88,5 per cento) e riconosceva la regolarità del “proceso electoral”. Tutti, a cominciare dall’Ambasciatore italiano, cogliemmo in quelle parole il chiaro messaggio USA agli ufficiali pinochettiani e alla Giunta: l’Amministrazione americana si oppone a qualsiasi tentativo di non riconoscere o di stravolgere l’esito del voto. Terminava dopo quindici lunghi anni la brutale fase della Giunta militare con il 56 per cento degli elettori che aveva votato NO al prolungamento della Presidenza di Augusto Pinochet.
Tutti gli esuli cileni politicizzati con i quali avevamo avuto contatti a Roma come Sinistra Indipendente tornarono il prima possibile in Cile. Era l’inizio della transizione democratica. Anche ad alcuni di noi senatori, di nuovo grazie al Presidente Spadolini, fu data l’opportunità di ritornare come osservatori delle elezioni presidenziali il 14 dicembre 1989. Fin dai primi sondaggi fu chiaro che il democristiano Patricio Aylwin, candidato della Concertación Democratica (schieramento ampio nel quale i due partiti più grandi erano la Democrazia Cristiana e il Partito Socialista) avrebbe sconfitto il candidato delle destre già al primo turno (3.850.571, 55.17 %). Non soltanto il Cile tornava alla democrazia, ma lo faceva ponendo termine alla spaccatura fra democristiani e socialisti. No, non era la realizzazione del compromesso storico, ma l’inizio di una competizione bipolare. Ai festeggiamenti per Aylwin incontrai dopo dieci anni Genaro Ariagada, potente segretario della DC cilena che avevo conosciuto dieci anni prima nel 1978 quando entrambi eravamo Fellows al Woodrow Wilson International Center for Scholars. Tre dei “nostri” esuli entrarono al governo, due come ministri, uno sottosegretario.
Il trait-d’union fra quei fatti e la mia visita successiva fu rappresentato da un esule cileno, che, comunista, aveva sostenuto come giovanissimo militante l’esperienza di Unidad Popular. Esule in Italia, aveva vissuto e lavorato a Modena, nutrendo molte perplessità su un suo ritorno in patria. Non più giovane si era iscritto a Scienze politiche, aveva seguito il mio corso di Scienza politica e deciso di “fare” la tesi con me. In estrema sintesi, l’argomento era: “che cosa è andato storto: la ‘pratica’ di Unidad Popular o la teoria?” Vale a dire, forse né i politici di Unidad Popular né gli intellettuali loro vicini avevano capito lo stadio di sviluppo del Cile e le sue possibilità di cambiamento, a quale ritmo? Tesi ambiziosissima, con una componente di riflessione personale e di autocritica. Furono diverse le stesure, insoddisfacenti per lui e per me. Poi, un giorno del 2006 venne a dirmi che aveva deciso di tornare in Cile. Quindi, dovevamo scegliere una stesura affinché potesse laurearsi in tempi brevi, cosa che avvenne rapidamente. Qualche tempo dopo mi scrisse da Santiago. Aveva trovato un lavoro come grafico. Si era sistemato, ma non aveva risolto nessuno dei suoi dubbi politici. Sapendo che insegnavo a Buenos Aires, al Master in Relazioni Internazionali organizzato dall’Università di Bologna e che ero stato invitato dalla Associazione degli studenti cileni a Santiago mi chiedeva di riservargli un pomeriggio-una serata per un incontro con i suoi amici per discutere a tutto campo della sinistra. Sì, il Cile era cambiato, ma la democrazia, disse, riecheggiando forse inconsapevolmente le parole di Bobbio, non manteneva le sue promesse, in particolare non riduceva le diseguaglianze. Sì, sapevano che non c’era scorciatoia, ma lui e i suoi amici non potevano nascondere il loro disamoramento per le sinistre che non trovavano e, forse, neppure cercavano più il bandolo della matassa. Le mie parole di conforto riformista le ascoltarono con grande scetticismo. Di recente, mi ha scritto che vuole lanciare una rivista tutta centrata sulla politica che desidera la mia collaborazione. Ho dato la mia disponibilità e gli ho fatto molti sinceri auguri.
Dal 12 al 16 luglio 2009 tornai in Cile in un’occasione molto diversa dalle precedenti: il XXI Congresso Mondiale della International Political Science Association (IPSA). Su invito dell’organizzatore cileno Manuel Antonio Garretón, Professore di Scienza politica, pluripremiato, socialista, già oppositore del regime militare, presentai un paper The Theory of Political Development (riflettendo sul tema del mio primo libro pubblicato nel 1970) e partecipai a una Tavola Rotonda in assemblea plenaria sull’Unione Europea. L’evento più importante e del tutto inaspettato fu l’invito (con il mio nome immagino suggerito dall’amico Garretón) da parte della Presidenta del Cile, la socialista Michelle Bachelet, padre generale dell’Aeronautica morto in seguito alle torture dei golpisti, lei stessa, allora poco più che ventenne, detenuta, torturata e costretta all’esilio, a una cena in piedi alla Moneda, palazzo presidenziale. Mi trovai, lo debbo proprio scrivere, poiché sto ancora gongolando adesso, fra i quaranta più importanti scienziati politici del mondo. La Presidenta ci salutò uno per uno, affabilmente, chiedendo informazioni su ciascuno di noi. Tenne un breve discorso sulla democrazia in Cile. Infine, ci regalò una visita da lei guidata delle sale a disposizione del Presidente. Giungemmo allo studio usato da Allende, una stanza modesta non grande con una finestra dalla quale erano giunti spari e bombe, una scrivania, escritorio, piccola e spoglia, alla quale il Presidente era solito lavorare e alla quale, così ci raccontò Michelle Bachelet, con voce ferma,parlando lentamente, con un velo di affettuosa commozione, trascorse i suoi ultimi attimi di vita. Dal nostro totale silenzio e dai volti di quei miei colleghi politologi, mi resi improvvisamente conto che, con tutta probabilità, rappresentavamo, forse casualmente, l’ala progressista dell’International Political Science Association.
Tutti questi ricordi, che mi legano al Cile, in maniera che non pensavo fosse tanto stretta e tanto significativa, sono comparsi alla mia mente in maniera graduale e continua mentre guardavo il docu-film “Santiago, Italia”. Ricordi di esperienze importanti, non solo per me, di politica e di vita. Ricordi che, mi pare, valeva la pena esplicitare, raccontare, condividere.
E dopo il trasloco? @pdnetwork
Un milione e mezzo circa di simpatizzanti ha partecipato all’elezione del segretario del PD. Nicola Zingaretti. Delle sue idee di quale PD vorrebbe (ri)costruire poco si sa. In campagna elettorale non ne ha parlato. Adesso sappiamo che vuole “sbaraccare”. Il suo primo atto sarà un trasloco. Il quarto in una decina d’anni. Dal centro alla periferia. Lasciando soli gli elettori piddini che in centro abitano. Alla ricerca degli elettori perduti o mai pervenuti. Nelle periferie. Giusto. Da partito che fu centrale negli allineamenti politici a partito diventato periferico. Per “ribaraccare” lo spazio al pianterreno sarà affidato ai giovani. Reclutati come? Selezionati come? Formati con quale cultura politica? Certo, un partito è un’associazione di uomini e di donne. Anche giovani (ma non “meglio se giovani”). Per presentare candidature. Scelte con le primarie. Anche per le cariche di parlamentari nazionali, e europei. Che cercano di ottenere voti. Con quale programma e sotto quale etichetta se le elezioni sono quelle del Parlamento Europeo? Al nuovo segretario spetta di rivitalizzare l’organizzazione. Pensa di farlo chiedendo nuove elezioni. Subito? Su quale base e con quali prevedibili conseguenze? Con la legge elettorale Rosato? Che esista nel Partito Democratico anche un problema di regole, procedure, compiti, “democratici”? Zingaretti non vi ha fatto cenno alcuno. Per fortuna potrebbe impararlo, non facilmente, ma applicandosi. La lettura del libro di Floridia, Un partito sbagliato, gli sarebbe sicuramente utile. Potrebbe anche servire a distinguere meglio ruoli e potere. A cosa servono gli iscritti? O se ne può fare a meno? Anche rendendoli irrilevanti. Nessun tentativo di trasformare in iscritti coloro che lo hanno eletto segretario? Partito di massa no more vuole dire che conteranno solo i notabili? Pardon, i dirigenti. Regressione a un tempo che fu. Che sappiamo migliore dell’attuale. Conteranno solo gli eletti alle varie cariche? Dove si esprimeranno? Nei gruppi parlamentari? Verranno convocati gli spesso nominati e mai radunati Stati generali? Qualcuno si ricorda più della Conferenza programmatica? PD non più partito personale. Personalistico. Personalizzato. Se non partito fatto di persone, gli iscritti, allora partito degli elettori “primari”? Quali canali avranno questi elettori per esprimersi? Per esercitare influenza. Per valutare le scelte. Fatte, non fatte, malfatte. Come faranno valere la virtù democratica della responsabilizzazione dei decisori, dei detentori delle cariche? A partire dal segretario? Fatte le domande, chi risponderà? E come, e quando? Attendo la narrazione.
Pubblicato il 12 marzo 2019 su larivistailMULINO
Come sbagliare le primarie
Quando un partito, i suoi dirigenti, i commentatori politici, persino gli studiosi continuano a definire “primarie” quelle che sono votazioni per eleggere il segretario di quel partito, c’è un problema. Anzi, ce ne sono due. Primo, qualcuno non sa che cosa fa. Secondo, qualcuno ha manipolato senza ritorno il significato di un procedimento di coinvolgimento e di partecipazione di iscritti e elettori ad un avvenimento molto importante nella vita di qualsiasi partito che intenda essere democratico. Secondo, che, in un paese dalla diffusa ignoranza sul funzionamento delle istituzioni, delle procedure, dei partiti, è altamente probabile trovare chi non sa. C’era una volta, però, quando i partiti non solo avevano al loro interno “intellettuali organici”, ma sapevano, anzi, spesso erano lieti di ricorrere al parere degli intellettuali.
Quanto alla manipolazione essa può essere più o meno consapevole. Certo è che nelle votazioni per il segretario del Partito Democratico, essa si manifesta fin dall’inizio. La lunga cavalcata estiva di Veltroni nel 2007 dal Lingotto alle votazioni che lo consacrarono primo segretario del PD con una maggioranza che può essere definita bulgara solo da chi non sa che il sistema partitico bulgaro ha da tempo una dinamica bipolare, delineò il programma di governo che Veltroni desiderava attuare. Non tanto incidentalmente quella “delineazione” costituì una ferita mortale al già malaticcio governo Prodi il cui programma era oggetto di rivendicazioni e di ricatti. Certo, quale partito dovesse sovrintendere al programma di governo Veltroni non lo precisò mai. D’altronde, era in ampia, nient’affatto buona, compagnia.
I fondatori del PD avevano preferito affabularsi sulla contaminazione delle (peraltro, già pallide e esauste) culture politiche riformiste dalle quali nasceva il PD piuttosto che discutere più laicamente della strutturazione del partito che, naturalmente, richiedeva sporcarsi le mani per radicarlo sul territorio. Che quel partito, fatto ad immagine e somiglianza di Veltroni (quando leggo di “partito del leader” mi interrogo su quanto grande è stata la responsabilità del “partito di Veltroni”, a vocazione maggioritaria, nella democrazia bipolare dell’alternanza) non sapesse poi difendere Veltroni dai suoi errori è la logica conseguenza di seguaci che non osano contraddire il leader e del leader che non presta ascolto a parole e interpretazioni difformi dalle sue.
A fronte di capi di partito che controllavano saldamente persone e funzionamenti (Berlusconi e Bossi), il balletto del PD e dei suoi segretari è stato tanto intenso e frequente quanto inadeguato a strutturare un partito che non riusciva a trovare, ma in verità neppure cercava, una via di mezzo fra sezioni (“circoli”) e gazebo. La sequenza è impressionante: dopo Veltroni, Franceschini, poi votazioni dalle quali emerge Bersani a “dare un senso a questa storia” (ma il senso non lo si trovò neanche nella narrazione esplicitata in campagna elettorale), a rappresentare una “ditta” che produceva poco e male e perdeva i suoi “venditori”, e che il suo concorrente voleva addirittura “rottamare” (fenomeno del tutto sconosciuto persino nei partiti di sinistra che più si erano rinnovati: il Parti Socialiste di Mitterrand nel 1971 e il New Labour di Tony Blair nel 1995), poi Epifani a supplire per poco tempo prima della vittoria di Renzi, seguita da dimissioni e immediata rielezione e, per fare le cose in grande, da nuove dimissioni date, sospese, mantenute. In tutte queste fasi è legittimo chiedersi dov’era, se c’era, il partito oppure se quel che esisteva erano soltanto aggregazioni personalistiche, a cominciare dal partito di Renzi.
La situazione non è affatto migliorata nella fase depressiva e deprimente seguita alle seconde dimissioni di Renzi e al congelamento di un PD del tutto imbambolato dopo la pesante sconfitta elettorale del 4 marzo 2018. Stancamente rilanciato senza nessuna riflessione sulla sua inadeguatezza, il rito delle votazioni fra gli iscritti prima di giungere ai gazebo di marzo ai quali affluirà il più basso numero di sempre di elettori (eccezion fatta, azzardo la previsione, per la Campania del molto Democratico governatore De Luca) non è stato accompagnato da nessuna proposta su come (ri)costruire il/un partito degno del suo nome, cioè, anche democratico. La proposta più dirompente e perfettamente inutile è quella di fare a meno del simbolo tanto per cominciare alle elezioni europee. Peso degli iscritti e loro potere, albo degli elettori per cercare di trasformarli in attivisti non occasionali e poi in iscritti partecipanti, nuovi strumenti di formazione e di influenza politica? No, grazie. Il partito sbagliato (titolo di un eccellente pungente libro di Antonio Floridia, Castelvecchi editore) neanche si pone il problema di correggere i suoi errori. Si accontenta, ma oramai non ha più neppure la faccia tosta di vantarsene, di fare eleggere il suo segretario da platee disordinate e faziose (oh, pardon, divise in fazioni). Sic transeunt (quod non fuerunt) primariae
[“Questioni Primarie” è un progetto di Candidate & Leader Selection e dell’Osservatorio sulla Comunicazione Politica dell’Università di Torino, realizzato in collaborazione con rivistailmulino.it. In vista delle primarie del Pd, ogni settimana riprendiamo contributi pubblicati nell’ambito dell’iniziativa tutti disponibili anche in pdf sul sito di Candidate & Leader Selection.]
Il crollo di un progetto velleitario
Nel 2007 ero da dieci anni iscritto ai DS (Democratici di Sinistra), l’unico partito di cui ho mai preso la tessera. Quando iniziò la battaglia per portare i DS all’incontro con la Margherita con l’obiettivo di dare vita ad un Partito Democratico, “scesi in campo” a sostegno della Mozione 3 che suggeriva di procedere lentamente attraverso una prima fase federativa. Andai un po’ dappertutto, accolto con molta sufficienza, a esporre le tesi della Mozione 3. Mi recai anche nel più grande, dal punto di vista degli iscritti, dei Circoli dei DS a Pesaro. Dopo i tre classici interventi: una giovane donna per la Mozione 1; un sindacalista per la Mozione 2; un Prof per la 3, i giovani DS mi offrirono da bere. Tre di loro, sugli otto componenti della segretaria, erano stati miei studenti di Scienza politica a Bologna. Vi ho convinti, chiesi, voterete per me? No, fu la risposta chiara inequivocabile immediata, “facciamo parte della segreteria del partito”.
Un po’ dappertutto facevo notare che la promessa di mettere insieme il meglio delle culture politiche riformiste del paese era molto velleitaria. Da un lato, le due maggiori culture politiche, quella comunista e quella cattolico-democratica, si erano esaurite, sconfitte dalla storia e dalla pratica; dall’altro, una vera cultura politica riformista, quella socialista, non era neppure stata invitata. Nel tripudio di discorsi e di lacrime a Campo di Marte alla fine di un tiepido aprile 2017 si consumò il congresso di chiusura dei DS con un lunghissimo appassionato appello alle emozioni di Piero Fassino. E, per quel che conta, con la mia non adesione. Poi dal Lingotto cominciò la cavalcata di Walter Veltroni, “fusosi” a freddo con Dario Franceschini, scelto come suo vicesegretario: ecco la contaminazione delle culture politiche! Narrando la nuova Italia che avrebbe costruito, invece di dire con quale partito nuovo avrebbe fatto tutte quelle belle cose, Veltroni si candidava, forse non del tutto consapevolmente, ma inevitabilmente, lo scrissi subito, alla carica di Presidente del Consiglio. Era la ricomparsa della classica sindrome democristiana: il segretario del partito sfidante naturale del capo del governo. A riprova, Prodi cadde pochi mesi dopo e Veltroni si lanciò a testa bassa nella nuova avventura: il partito a vocazione maggioritaria.
Fra vocazione maggioritaria e elezione di nuovi segretari, nessuno nel Partito Democratico ha mai neppure iniziato a riflettere sulla cultura politica di un partito di sinistra (?); riformista (?); progressista (?). Nulla dirò sulla cultura istituzionale la cui inadeguatezza si è rivelata tragicamente nelle riforme costituzionali e nella conduzione del referendum 2016. Adesso, qualcuno, Carlo Calenda, sostiene che bisogna andare oltre il PD, un partito mai consolidatosi. Qualcun’altro, Maurizio Martina, risponde che è necessario un “ripensamento complessivo” di un pensiero che non si è mai espresso, di una cultura politica che non si è mai formata, attraverso “scuole di politica” che sono per lo più state “passerelle per politici”. Non dovrebbe essere difficile andare oltre un partito che non è mai stato tale. Sarà difficilissimo farlo, forse impossibile, se il ripensamento verrà affidato a uomini e donne del cui pensiero politico è più che lecito dubitare.
Pubblicato il 26 giugno 2018 su larivistaILMULINO
Traditori da punire? #vincolodimandato
Per il vincolo di mandato va cambiata la Costituzione, ma forse converrebbe prima cambiare la legge elettorale
L’assenza del vincolo di mandato è al cuore ed è il cuore delle democrazie parlamentari nelle quali gli eletti debbono offrire rappresentanza politica – delle preferenze e degli interessi, delle aspettative e degli ideali degli elettori, non solo dei loro elettori. Gli eletti debbono anche temere le valutazioni di quegli elettori ai quali torneranno alla fine del loro mandato liberamente svolto per spiegare che cosa hanno fatto, che cosa non hanno fatto, che cosa hanno fatto male. Naturalmente, gli elettori potranno valutare meglio, e con maggiore incisività, nel caso in cui esistano collegi uninominali dei quali l’eletto è l’unico rappresentante, consapevole di dovere rappresentare tutti, non solo chi l’ha votato.
L’assenza di vincolo è intesa anche a prevenire e impedire sia che i dirigenti dei partiti e delle correnti sia eventuali gruppi esterni – che potrebbero avere contribuito all’elezione del rappresentante – lo minaccino e lo coartino. Uomo o donna che sia, il rappresentante è sempre e comunque parzialmente e più debitore della sua elezione anche al partito che lo ha candidato e sostenuto, nella consapevolezza che l’elettore potrebbe averlo votato anche, forse e soprattutto, perché esponente di quel partito. Quando, per qualsiasi ragione, abbandona il partito, provoca reazioni negative in molti elettori che lo vorrebbero disciplinato e che, comunque, non gradiscono che vada a rafforzare i ranghi di altri gruppi parlamentari, magari passando dall’opposizione al governo in cambio di qualcosa. La sanzione elettorale – specie laddove la legge elettorale non è congegnata adeguatamente per comminarla, anzi, addirittura può invece sanarla, come con la Legge Calderoli e la Legge Rosato – non è, agli occhi dei cittadini, sufficiente. L’odioso e odiato trasformismo dev’essere punito il prima possibile e duramente.
La proposta contenuta nel «contratto di governo» tra M5S e Lega, «ispirata» al Portogallo, è drastica. Chi cambia gruppo parlamentare decade dal seggio. Questa normativa richiede ovviamente la modifica dell’articolo 67 della Costituzione italiana.
Il punctum dolens è molto problematico. Sarà il parlamentare a decidere se andarsene dal suo gruppo parlamentare – rinunciando quindi consapevolmente al seggio, ma fino ad allora votando liberamente anche in dissenso dal suo gruppo – oppure, come molto spesso hanno fatto i pentastellati, sarà espulso dal gruppo, per una varietà di ragioni, trovandosi di conseguenza nella condizione prevista e regolamentata per essere privato del seggio? La differenza è abissale. Per di più, non sarebbero gli elettori a stabilire se l’eletto ha “tradito” il loro mandato, ma altri eletti, non sappiamo di fronte a chi responsabili, portando comunque a una grave distorsione della rappresentanza politica.
A mali estremi estremi rimedi? No, altre strade più consone alla democrazia parlamentare sono percorribili, a cominciare dalla re-introduzione di un voto di preferenza, del voto disgiunto, di veri collegi uninominali. La terribile semplificazione della decadenza rischia di fare del Parlamento eletto con la legge Rosato un parco buoi che potrà piacere solo ai mandriani nei quali, avendoli visti all’opera, è lecito non riporre grande fiducia.
Pubblicato il 18 maggio 2018 su larivistaIlMulino
Perseverando negli sbagli non s’impara. Breve promemoria in quattro punti a pochi giorni dalle #elezioniPolitiche2018
La campagna elettorale ha fatto ricomparire vecchi e gravi errori che non bisogna stancarsi di correggere.
1. Nessun governo nelle democrazie parlamentari è mai eletto dal popolo. Non esiste neppure nessun Primo ministro eletto dal popolo. I governi nascono in Parlamento, lì possono fisiologicamente morire e essere sostituiti secondo la Costituzione, i precedenti, le tradizioni. Scrivere, come ha fatto Antonio Polito “Il Corriere della Sera” (17 febbraio 2018, p.1): “dobbiamo infatti prepararci al quinto governo di fila non scelto dagli elettori nelle urne, ma costruito in Parlamento”, non solo induce a fare erroneamente credere che i governi siano per l’appunto scelti dagli elettori, ma delegittima previamente il prossimo governo che sarà proprio “costruito in Parlamento”.
2. Non siamo affatto “tornati” alla proporzionale (quale proporzionale visto che ne esistono molte varianti?). La legge Rosato non ha quasi nulla in comune con la legge elettorale proporzionale usata in Italia dal 1948 al 1992. Sia la legge Calderoli (Porcellum) sia la legge Renzi-Boschi (Italicum) erano leggi proporzionali con premio di maggioranza, nient’affatto leggi maggioritarie come quella inglese e come il doppio turno francese in collegi uninominali. Con il suo 33 percento di seggi assegnati in collegi uninominali sia alla Camera sia al Senato ai candidati che ottengono almeno un voto in più dei concorrenti, la legge Rosato è di gran lunga meno proporzionale delle leggi che l’hanno preceduta. Per molte ragioni rimane pessima, ma non configura nessun ritorno a nessuna imprecisata “proporzionale”.
3. Non esiste nessun trade-off, nessuno scambio fra rappresentanza e governabilità. Meno che mai si può credere che la mai chiaramente definita governabilità si acquisisca comprimendo e riducendo la rappresentanza. Al contrario, da una migliore rappresentanza scaturisce la governabilità. Naturalmente, governabilità non significa, non è, non discende dal governo di un solo partito dotato di una maggioranza parlamentare gonfiata da un premio elettorale. Quanto alla rappresentanza politica, essa non è mai “lo specchio del paese”. Non è rappresentanza sociologica, comunque impossibile da conseguire e neppure da perseguire, ma è rappresentanza elettiva con gli eletti che hanno piena consapevolezza di doversi fare portatori delle preferenze politiche e sociali degli elettori. Non sono uomini e donne scelti/ e nominati/e per essere obbedienti esecutori/trici delle decisioni dei capi partito e capi corrente (uno dei punti cardine della legge Rosato, non adeguatamente criticato) con la conseguenza probabile che quei parlamentari si sposteranno in corso d’opera verso quei capi partito in grado di garantire la loro rielezione. Déjà vu, déjà fait: trasformismo, il preminente e persistente contributo italiano alla storia dei vizi del parlamentarismo.
4. No, nelle riforme costituzionali bocciate da quasi il 60 per cento degli elettori il 4 dicembre 2016 non c’era nessun meccanismo di potenziamento del governo (che, incidentalmente, avrebbe comunque anche richiesto una ridefinizione dei checks and balances, dei freni e contrappesi che sono l’essenza delle democrazie liberali) , nulla che assomigliasse al voto di sfiducia costruttivo che, per l’appunto, dà potere al capo del governo al tempo stesso che ne dà al Parlamento. Piangere sul referendum perduto asserendo che avrebbe dato slancio ad una nuova fase della politica italiana non solo non serve a niente, ma non consente di capire quanto sbagliate fossero quelle riforme e quanto necessario sia riflettere sulla possibilità/praticabilità di riforme migliori.
Pubblicato il 26 febbraio 2018 su la rivista ilMulino