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Pasquino: “Giorgia Meloni ha vinto alla grande. Pd? La sconfitta è dei dirigenti e non di Letta” #intervista @com_notizie

Intervista raccolta da Francesco Spagnolo. Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza Politica, in esclusiva a ‘Notizie.com’: “La storia del Pd è molto triste”.

Professor Pasquino, si aspettava una vittoria così netta di Fratelli d’Italia?
“Non mi aspettavo un successo così schiacciante della Meloni, ma una vittoria sì. Ha vinto alla grande e peraltro portando via voti a Salvini e a Berlusconi. Il Centrodestra grossomodo è dove lo davano le previsioni con Fratelli d’Italia più avanti perché ha strappato voti agli altri due partiti“.
Lei ha parlato di voti strappati a Salvini e Berlusconi. Questo potrebbe portare tensioni all’interno della coalizione?
“Qualche tensione ci sarà inevitabilmente perché Salvini è irrequieto, molto nervoso e invidioso e rimane con la sua ambizione. Sente che la sua carriera politica è in difficoltà e cercherà di appropriarsi di qualche tematica, essere molto presente mediaticamente. Ma penso che Giorgia Meloni abbia abbastanza larghe per controbattere, ma qualche tensione me l’aspetto. Berlusconi è in declino totale, la sua classe dirigente si sta liquefacendo e quindi non è un grosso problema“.
Possiamo parlate di Salvini e Letta come grandi sconfitti?
“Salvini sicuramente sì, secondo me Letta non è un grande sconfitto. Ha perso perché pensava di arrivare sopra il 20%, ma lo ha fatto in maniera elegante. E’ un uomo competente, che conosce la politica e non ha mai esagerato. La sconfitta non è sua ma del Pd perché i dirigenti non fanno quello che dovrebbero fare. Dopodiché Letta ha preso atto della sconfitta ed ha detto che si dimette però continua una brutta storia che si chiama Partito Democratico, che non riesce a radicarsi, trovare delle tematiche, non riesce a darsi una unità e una visione“.
Chi potrebbe essere il nome giusto per rilanciare il Pd?
“Non c’è nessun nome giusto. Credo che ci sono molti uomini ambiziosi, ma presumo che faranno un tentativo di trovare una donna. Sembra che questa sembra Elly Schlein sia chissà che cosa, ma io penso di no. Dovrebbero fare delle primarie vere e non contrattate in anticipo. La storia del Partito Democratico è molto triste“.
Il M5s ha avuto una crescita importante al Sud. Un risultato inaspettato alla vigilia per i pentastellati.
“Il fatto del reddito di cittadinanza è molto importante al Sud e quindi hanno cercato di difenderlo sostenendo Conte, ma questo non basta. Un partito che arriva al 17% può essere contento, ma ricordo che quattro anni fa era al 33% e quindi ha perso il 16% dei suoi elettori. Possono festeggiare di non essere andati malissimo, ma non possono dire di aver ottenuto un grande risultato“.
Delusione invece per il Terzo Polo e Di Maio.
“Di Maio evidentemente non si è radicato, ma nella zona di Napoli aveva dei concorrenti molto agguerriti iniziando dal fatto che il presidente della Camera non lo sosteneva. Il Terzo Polo non è mai esistito. Era una riunione degli ego di Calenda e Renzi visto che il vero Terzo Polo sono i pentastellati. Hanno anche utilizzato una caratterizzazione sbagliata e illusoria per cercare di catturare gli elettori“.
Pubblicato il 26 settembre 2022 su Notizie.com
Ma quali due mandati. Pasquino sulla proposta dei 5 Stelle @formichenews

Secondo il professore emerito di Scienza Politica e accademico dei Lincei, il limite di due mandati elettivi per i parlamentari non è solo populista, ma anche illiberale e antidemocratico. Aprire su questo un serio dibattito all’interno del Movimento sarebbe una buona notizia
Il limite a due mandati elettivi per i rappresentanti del “popolo” in Parlamento e altrove non è soltanto una misura populista. È una misura sbagliata, illiberale (contro la libertà) e sostanzialmente anti-democratica. No, non esagero e, prima che mi si opponga, che esiste in altri contesti, ad esempio, in America latina, dalla Costa Rica al Messico, presento per esteso la mia argomentazione. Premessa: imporre un limite ai mandati dei capi degli esecutivi eletti direttamente dal “popolo” ha un senso molto diverso. Significa, se non impedire, quantomeno rendere molto difficili la costruzione e la manutenzione di reti di potere ad opera del sindaco, del governatore, del Presidente. Nessun singolo parlamentare potrà mai essere assimilato al capo di un esecutivo né potrai ma accumulare tanto potere e esercitarlo direttamente.
Primo, il limite del doppio mandato è populista perché soddisfa le esigenze di una parte, difficile dire quanto grande, di elettori che nutrono la convinzione che i rappresentanti si fanno gli affari loro e non si occupano dei problemi della gente. Quindi, bisogna impedire loro di continuare nell’andazzo, fare finire la pacchia. D’altronde, uno vale uno e chi seguirà non sarà peggiore, anzi, c’è il rischio che, occasionalmente, sia migliore. Tutti possono fare politica e poi come valutare le competenze e gli apprendimenti? Qui sta, naturalmente, una batteria di errori. Il parlamentare deve avere un tot di conoscenze iniziali, superiori a quelle di un artigiano (il famoso/igerato idraulico), e se frequenta il Parlamento, le commissioni, l’aula, può imparare molto riguardo la lettura e la valutazione dei testi di legge, la stesura di emendamenti, la comunicazione politica a cominciare da quella con i suoi elettori (peraltro, operazione non facile con le recenti leggi elettorali italiane).
Secondo, il limite ai mandati è illiberale. Infatti, limita la libertà dei parlamentari di ripresentarsi a loro piacimento. Dunque, se imposto, violerebbe un loro diritto politico fondamentale che sta all’inizio della storia delle democrazie liberali e vi si accompagna quasi dappertutto.
Infine, il limite ai mandati è antidemocratico ovvero incide negativamente sul potere del popolo sovrano, quel potere che consente ai cittadini non soltanto di scegliere (eleggere) senza previe discriminazioni attraverso una impersonale mannaia burocratica, ma anche di giungere attraverso una valutazione politica di quello che il parlamentare ricandidato/si ha fatto, non ha fatto, ha fatto male, ad una sua bocciatura.
Vadano le Cinque Stelle al rispetto di una loro regola tanto fondamentale quanto sbagliata e produttiva di conseguenze pessime, come sembra adombrare la più recente dichiarazione del Ministro Di Maio, uno dei più autorevoli decapitabili, oppure no, renderebbero comunque un significativo servizio alla democrazia parlamentare, alla sua funzionalità, alla sua rigenerazione, se aprissero un trasparente dibattito pubblico sul pro e sul contro al limite di due mandati.
Pubblicato il 18 giugno 2022 su Formiche.net
Il federatore di Pd e M5S non sarà Conte. La versione di Pasquino @formichenews
Quell’importantissimo compito e ruolo di federatore non toccherà certamente a un uomo. Una donna sarà la federatrice di un centro-sinistra, di gialli e rossi. Eppure, poco si può dire se non vengono differenziate le indicazioni e le proposte con riferimento ai livelli di governo e non vengono chiarite le condizioni di alleanze tuttora non facili. L’analisi di Gianfranco Pasquino
Ma davvero è giunto il momento agognato di interrogarci sulla comparsa di un federatore delle non “magnifiche sorti e progressive” del PD e delle 5 Stelle? Ovvio, comunque, e prioritario, rilevare che quell’importantissimo compito e ruolo non toccherà certamente a un uomo. Una donna sarà la federatrice di un centro-sinistra (uhm, mi sento a disagio con le collocazioni spaziali), di gialli e rossi. “Gialli” che, secondo Di Maio, sono moderati, ma ha anche detto liberali? Forse, sì, per rassicurare il Corriere della Sera dove sono tutti più liberali che si può e, infatti, intrecciano dialoghi e interviste con i diversamente liberali Giorgia Meloni e Matteo Salvini, e “rossi”, parola che non fa parte del lessico di Enrico Letta, diciamo rosé come lo champagne de Paris. I gialli stanno, forse, cambiando, come le cipolle, il terzo o quarto dei loro strati, con la regia di Grillo e sotto la guida elegante e forbita di Giuseppe Conte. Purtroppo, Rousseau recalcitra e di altri partecipazionisti in giro non se ne vedono. Eppure, quella è la zona nella quale i giunti al compimento del secondo insuperabile (sic) mandato si metteranno all’opera con profitto tutti, ma proprio tutti (o forse no) i leader dell’entusiasmante legislatura 2018-2023 che li ha visti presenti, attivi, esuberanti in tre molto diversi governi, alla Shakespeare: “governanti per tutte le stagioni”.
La cultura politica del Movimento 5 Stelle 2.0 per un mondo nuovo post-Covid sta per arrivare. Alquanto lontanina, invece, sembra la formulazione (ri-formulazione farebbe erroneamente sospettare che già ce ne sia una) della cultura politica per il PD di Letta. Tutti in attesa dei contributi delle donne, mentre si disboscano i rami secchi: la velleitaria “vocazione maggioritaria”, che ha pure portato iella, e traballano rami che pure sarebbero, se adeguatamente curati, in grado di dare frutti politici, come le primarie “fatte bene”. No, non ho nulla da aggiungere qui se non l’auspicio che Letta dedichi un po’ di attenzione proprio alle primarie che, a determinate condizioni, dimostrerebbero grande efficacia nel fare partecipare i potenziali elettori e sostenitori di un’alleanza, non perinde ac cadaver, con i pentastellati, costruita sulle idee, sulle soluzioni, sulle persone migliori (non tutti i migliori sono al governo) nelle più importanti situazioni locali. A Torino e a Roma potrà Letta dire no alla ricandidatura di due donne? Comunque, le proposte delle donne del PD stanno per arrivare soddisfacendo attese spasmodiche.
Al momento, non vedo e non sento elaborazioni nuove e trascinanti. Mi pare sia in onda il tradizionale dico e non dico, anche perché c’è poco da dire se non vengono differenziate le indicazioni e le proposte con riferimento ai livelli di governo e non vengono chiarite le condizioni di alleanze tuttora non facili. Qualche riflessione sulla cultura delle coalizioni, esiste un’abbondante convincente letteratura sulla formazione e il funzionamento dei governi di coalizione, mi parrebbe opportuna. Conte manifesta alcune propensioni nella direzione giusta, ma l’intendenza non pare già disposta a seguire. Letta sicuramente sa che ne esiste la necessità. Chi ha più filo tesserà più tela, ma è sulla qualità del filo, che per il momento appena si intravede, che è lecito nutrire un tot di riserve.
Pubblicato il 4 aprile 2021 su formiche.net
La missione quasi impossibile di Conte per salvare i Cinque Stelle @DomaniGiornale
Non conosco il pensiero politico del Professor Giuseppe Conte. Non sono neppure riuscito a vederne il pensiero istituzionale nei suoi quasi tre anni di governo. Anzi, ricordo di avere immediatamente criticato la sua concezione di Presidente del Consiglio quando definì il suo ruolo come quello di “avvocato del popolo”. Sbagliato. Semmai, l’avvocato/a del popolo è chi rappresenta l’opposizione alla quale spetta difendere quel popolo dalle malefatte del governo.
Non so quanti libri di scienza politica Conte abbia mai letto (o sfogliato). A Firenze ne troverebbe molti, da Machiavelli a Sartori, utilissimi per rappresentanti e governanti. Ho visto, però, che nella sua pratica istituzionale si è mostrato abilissimo, equilibrato e equilibrista, entrambi elementi che ritengo positivi anche se, talvolta, il decisionismo diventa più che opportuno, indispensabile. Nessuno di questi termini compare nel linguaggio di Conte come da lui stesso manifestato sia nel suo sobrio, serio e sofferto discorso d’addio a Palazzo sia nella sua cosiddetta lectio magistralis per il ritorno, che probabilmente non ci sarà, all’insegnamento fiorentino.
Il fatto più duro dell’esperienza di governo di Giuseppe Conte è che il Movimento che lo ha designato sembra avere già perso quasi la metà dei voti ottenuti nel marzo 2018 e sta assistendo inebetito ad una considerevole emorragia di deputati e senatori. Le elezioni regionali hanno altresì mandato messaggi preoccupanti. Il potere, anche a Roma e a Torino, sembra avere logorato chi ce l’ha (non sapendolo usare). Ė la democrazia, bellezza! Adesso, sembra che a Conte verrà affidato il compito di ricostruire il Movimento 5 Stelle con l’obiettivo principale di riportarlo ai fasti d’antan. Quei fasti erano stati costruiti su una grande pervasiva insoddisfazione nei confronti della politica politicata, ma anche contro lo stesso sistema istituzionale repubblicano: la democrazia parlamentare.
Tutti i dati confermano che l’insoddisfazione permane molto diffusa né mi pare probabile che il governo Draghi calato dall’alto del Quirinale e alquanto carente in materia di comunicazione riuscirà a contenerla prima che, tempi non brevi, venga ridimensionata e messa ai margini la pandemia e facciano effetto i fondi europei. Quanto alla sfida alla struttura della democrazia parlamentare in quanto tale, di successi, nel nome usurpato di Rousseau, non ne ha avuti nessuno. Anzi, va a grande merito del parlamentarismo e della Costituzione italiana l’avere sconfitto tutte le versioni anti-sistema, peraltro, mai brillantemente elaborate, del Movimento, versioni riguardo le quali non conosciamo le eventuali condivisioni e valutazioni di Giuseppe Conte.
Tuttavia, non possiamo dimenticare che la critica anti-parlamentare ha prodotto qualche esito sostanzialmente irreversibile: abolizione o quasi dei vitalizi, drastica riduzione del numero dei parlamentari. Resta da vedere se il limite dei mandati sarà più o meno tacitamente abbandonato. Anche su questo il silenzio di Conte è stato assoluto. Probabilmente, però, la leadership che il Movimento ovvero, quanto meno, il garante maximo Beppe Grillo, gli ha offerto non dovrà misurarsi sulle proposte del passato né sulle innovazioni, alcune delle quali possibili e auspicabili, da introdurre nelle modalità di funzionamento della democrazia parlamentare italiana, ad esempio con pratiche e esperimenti di democrazia deliberativa (il lettore apprezzerà il mio riserbo sulle leggi elettorali ancora oggetto di oscuri desideri dei partiti e dei loro leader).
Il Movimento non ha mai avuto una ideologia se non quella di essere contro le poche rimanenti pallidissime e evanescenti elaborazioni occasionali dei simulacri di partiti esistenti, che soltanto alcuni dirigenti politici e i loro non fantasiosi intellettuali di riferimento sembravano puntellare. Certamente, il Movimento non avrebbe fatto molta strada dichiarandosi “liberale e moderato” alla Di Maio. L’europeismo al quale Conte è approdato senza fare rumore è, al tempo stesso, molto più che un’ideologia (è, invece, il più ambizioso progetto politico del secondo dopoguerra) e molto diverso da un insieme di idee rigide e costrittive. Richiede, però, una declinazione e un arricchimento che sono sicuramenti estranei al Movimento e, al momento, fuori della loro portata. Quanto Conte sia in grado di trovare una via originale per l’europeismo dei Cinque Stelle è una delle sfide alla sua leadership.
La transizione da un ruolo istituzionale adempiuto con successo (non è opinione soltanto mia, ma condivisa in una lunga serie di sondaggi da circa il 50/60 per cento degli italiani) ad un ruolo più propriamente politico, è complicatissima, irta di imprevedibili difficoltà. Non farò nessun paragone con la frettolosa “salita in politica” del Sen. Prof Mario Monti che, pure, si era avvalso di qualche consulente politico, oggi diventato sottosegretario. La ricostruzione di un movimento declinante, roso da tensioni e conflitti, anche di tipo personale, si presenta come un’avventura che fa tremare i polsi. Compulsando la ricca storia politica delle democrazie europee non sono riuscito a trovare esempi e precedenti utilizzabili per una sana e feconda comparazione. Non sta a me suggerirli, ma credo che Conte dovrebbe indicare e operare attorno ad alcuni punti incomprimibili, irrinunciabili. Il primo consiste nel mantenere, rivista, potenziata e meglio regolamentata, una piattaforma telematica che consenta agli iscritti di esprimersi frequentemente non solo in votazioni, ma anche in discussioni. Il secondo punto irrinunciabile consiste nel garantire, anche a rischio di qualche confusione, la pluralità di prospettive: allargare i confini senza espulsioni che mi paiono una deplorevole pratica da partiti totalitari. Sarà lo stesso Conte, e dovrà rivendicarlo, a fare la sintesi. Pur tenendo sempre alto il tiro delle mie critiche al Movimento, lo ritengo un attore utile al sistema politico italiano per incanalare il dissenso e per obbligare a decisioni meglio profilate. Non so quanto “politico” riuscirà a diventare Conte, ma questo è il compito che sta per assumersi. Quello, molto eventuale e arditissimo, di “federatore delle sinistre” verrà semmai dopo.
Pubblicato il 2 marzo 2021 su Domani
La crisi si risolverà con un Conte ter. A sinistra sta nascendo un nuovo polo #intervista @Affaritaliani
Intervista raccolta da Carlo Patrignani
“Lo sbocco più realistico alla crisi di governo sulla quale sta lavorando il Presidente della Camera, Roberto Fico, è senz’altro un Conte-ter: e spero con il Ministero dell’Economia ancora nelle mani del ministro Roberto Gualtieri per le sue indubbie qualità e la buona reputazione di cui gode nell’Unione Europea: sarebbe un gravissimo errore sostituirlo”.
A parlare è Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza Politica all’Università di Bologna, Accademico dei Lincei ed ex-senatore della Repubblica, per il quale l’ipotesi di un governo ‘tecnico’ affidato a Mario Draghi “non esiste nei fatti, il suo coinvolgimento è un fatto mai avvenuto”.
Dunque la via d’uscita possibile è un nuovo governo con Giuseppe Conte Premier, con “un nuovo programma in via di definizione e – osserva il politologo – possibilmente con Luigi Di Maio ministro degli Esteri e con Roberto Speranza alla Salute e naturalmente, dopo le tante bugie di Renzi di non tenere alle poltrone, con altri ministeri per Iv così da poter ricompensare i suoi”.
Certo il cammino del nuovo esecutivo, una volta definito il programma e la sua composizione ministeriale, non sarà facile, non sarà tutto rose e fiori: “l’affidabilità di Renzi è tutta da verificare – avverte Pasquino – fermo restando che dei voti di Iv non si può fare a meno. Del resto i governi di coalizione dipendono dalla lealtà dei contraenti”.
L’asse Pd-M5S-Leu tutto sommato pare aver retto bene all’onda d’urto di Renzi e potrebbe, da questa esperienza, anche configurarsi come polo per una alleanza futura. “Lo si vedrà, ma molto dipende dalla legge elettorale”. Ultima considerazione: il Governo Conte non è stato sfiduciato dalle Camere quindi secondo la Costituzione il Premier non era obbligato a dimettersi.
“Certo le dimissioni non erano dovute: purtroppo al Senato aveva una maggioranza semplice assai friabile e precaria nei numeri per cui le dimissioni sono state un atto nobile dal momento che il Presidente della Repubblica voleva una maggioranza significativa, operativa”.
E proprio perché non è sfiduciato potrebbe essere il ‘governo-ponte’ fino al semestre bianco? “Con l’incarico al Presidente della Camera di esploratore siamo andati abbastanza avanti – conclude Pasquino – ed in prossimità, me lo auguro, dello sbocco più realistico: il Conte-ter”.
Pubblicato il 1° febbraio 2021 su affaritaliani.it
Così Di Maio s’inventa statista di protesta (e di proposta)
“Statisti” non si nasce, si diventa. È un processo lungo, spesso tormentato, qualche volta l’esito è un riconoscimento postumo (sì, siete autorizzati a fare gli scongiuri di rito). Nel 2005, quando divenne Cancelliera per la prima volta, pochissimi pensarono che Angela Merkel si sarebbe trasformata in una statista. Ammetto che il paragone con Luigi Di Maio che, sicuramente, statista non nacque, è comunque alquanto azzardato, ma se pensiamo ai loro rispettivi punti di partenza, il tragitto compiuto dal già due volte ministro del Movimento 5 Stelle è lungo assai. Poco più di un anno fa celebrava con un ballo da balcone l’abolizione della povertà. Da qualche mese, pure in una fase molto difficoltosa del Movimento in declino accertato, Di Maio assume atteggiamenti responsabili. Sembra (però, non voglio dubitare più di tanto) avere capito, contrariamente a molti fra i Cinque Stelle, ma anche negli altri partitini italiani, che la situazione politica e sociale in Italia è molto brutta e che le soluzioni debbono essere non proclamate, ma impostate con cura e fatte maturare. Finalmente s’è reso conto, non è l’unico nel Movimento, ma temo per lui che non sia neanche in maggioranza, che bisogna passare dalla protesta a qualcosa di più della proposta, alla traduzione concreta in comportamenti e, se del caso, leggi. Peraltro, la protesta non può essere del tutto abbandonata, meno che mai lasciata a disposizione di Alessandro Di Battista e dei suoi pasdaran. Deve, invece, essere governata. Continuerà ad esistere poiché per un periodo indefinito di tempo molte cose in Italia (e persino in Europa) non andranno come vorremmo. Protestare è, spesso, giusto, sono i modi della protesta a diventare talvolta deplorevoli e, sobriamente, Di Maio ha lasciato intendere che in effetti lui li “riprova”.
Paradossalmente il passo indietro che ha fatto da leader del Movimento a esponente autorevole nonché ministro che impara il suo mestiere ne hanno fatto una voce ascoltata poiché non esprime soltanto ambizioni personali. Ha già avuto molto, dunque, non ha bisogno di sgomitare. Per di più grazie alla deroga alla regola dei due mandati potrà svolgerne anche un terzo, quindi, può proiettare il suo pensiero, la sua azione e la sua non automaticamente censurabile ambizione (e ne ha, eccome, ed è legittima) anche oltre l’orizzonte del secondo governo Conte. Quel governo e quel capo di governo li deve difendere non soltanto perché sono anche il prodotto, il secondo più del primo, di sue preferenze e di sue scelte, ma perché ha capito che la stabilità politica è indispensabile per chiunque intenda conseguire efficacia per le politiche che attua.
Il futuro del governo è strettamente collegato con il futuro del Movimento. Di Maio non è l’unico ad avere capito che soltanto se il governo Conte dura, e giungendo a fine legislatura potrà vantare buoni risultati, compreso il superamento della pandemia, il Movimento potrà riacquisire almeno alcuni dei troppi voti che i sondaggi tetragoni danno per perduti dal marzo 2018 ad oggi. Di Maio ha capito che quei voti non risorgeranno da un bagno di opposizione nel quale il Movimento rischierebbe di annegare. Infine, il suo personale processo di apprendimento, finora più politico che istituzionale, ha portato di Di Maio a rendersi pienamente conto dell’importanza di una posizione aperta nei confronti dell’Unione Europea che è, ma questa è la mia opinione personale, l’àncora di salvezza per il sistema politico e economico italiano. Essere Ministro degli Esteri ha comportato la necessità di apprendere molte lezioni e di farlo in maniera accelerata vedendo anche che grama e triste è la vita dei populisti nel Parlamento europeo.
Non possedendo qualità di introspezione psicologica, sono costretto a cercare consapevolmente nella dinamica dei sistemi politici le condizioni che influenzano quella che è la rilevante trasformazione della persona pubblica di Di Maio. Lo scriverò senza enfasi, ma in maniera solenne. Ancora una volta (in precedenza è toccato a Berlusconi, ma ne vediamo l’esito soprattutto adesso) la democrazia parlamentare ha dimostrato di essere tutt’altro che una forma debole di governo. Impedì a suo tempo molte violazioni ai governi di centro-destra e alle loro cospicue maggioranze parlamentari. Con i suoi vincoli, con le sue regole, precise, ma, entro certi limiti, anche flessibili e adattabili, ha accolto il Movimento 5 Stelle e lo ha costretto a svolgere la sua azione “nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Il nuovo Di Maio è anche la conseguenza apprezzabile delle costrizioni politiche e costituzionali esistenti e vitali nella Repubblicana italiana.
Pubblicato il 2 dicembre 2020 su Domani
M5S, gli Stati Generali sono una buona notizia. Pasquino spiega perché @formichenews
Non è successo poco agli Stati Generali di M5S. Al contrario, governisti e ribellisti si sono contati e pare che i primi abbiano vinto. Avanti tutta, anzi, no: adelante con juicio. Il commento di Gianfranco Pasquino
Barcamenarsi. Potrei anche scriverlo in inglese: muddling through. Ė una pratica spesso onorata e riverita. In paesi dove la politica non è veloce, barcamenarsi può anche essere una strategia, saggia. Vero è che non sembra che i Cinque Stelle abbiano la capacità di elaborare una strategia di lungo termine, che, comunque, personalmente, sconsiglierei. Allora, finché la barca va e, in effetti, la barca, sia quello del Movimento sia quella del governo, di cui il Movimento è parte essenziale, va, è il caso apportare solo piccole correzioni di rotta. Rimanendo in metafora, la barca continuerà ad andare paradossalmente spinta dal brutto vento del Covid-19. Soltanto gli irresponsabili cambierebbero il timoniere, che continua ad avere un alto grado di gradimento, e i suoi collaboratori, in piena tempesta Covid (-19, 20, 21) Soltanto i perfezionisti vorrebbero restringere la scelta fra il movimento che fu, ma ancora in parte è, e il partito che difficilmente sarà anche perché in Italia non si fa più politica con partiti veri e propri da almeno tre lustri.
Però, ci sono delle falle chiudere. La più evidente è quella che ha consentito ai Casaleggio di ottenere non solo una barcata di Euro, ma un notevole controllo sui pentastellati. Il distacco fra il Movimento e Rousseau è cominciato e questo spiega l’irritazione di Davide Casaleggio che sente sfuggirgli, forse definitivamente, il doppio asset: danaro e potere. L’altra falla si trovava nella maledetta clausoletta del limite ai mandati. Chi conosce un po’ di politica e di teoria della rappresentanza sa che fu un errore, ma un errore dettato dal furore anti-casta parlamentare. Quel furore si è un po’ acquietato, ma la correzione dell’errore non sarà affatto facile. I governisti già fibrillano. Alternative occupazionali prestigiose è difficile trovarne. Invece, trovare un seggio per Alessandro Di Battista sarà un gioco da bambini. Non fa problema neanche soddisfare la sua seconda richiesta che il Movimento si presenti e corra da solo. Con una legge elettorale proporzionale, di cui non si sente parlare perché evidentemente è in lockdown con tanto di mascherina, correre da soli è quasi imperativo. Poi, perché mai annunciare alleanze organiche prima del voto quando nelle democrazie parlamentari i governi non escono affatto dalle urne (come Minerva dalla testa di Giove), ma si fanno, contati i voti e i seggi in Parlamento?
Non è successo poco agli Stati Generali. Al contrario, governisti e ribellisti si sono contati. Ancora non sappiamo i risultati, ma per i numeri precisi anche negli USA ci hanno messo una decina di giorni. Ad ogni buon conto, i primi hanno vinto e i secondi si sono resi dolorosamente conto che non hanno abbastanza forza per nessuna spallata. Avanti tutta, anzi, no: adelante con juicio. Attacco a due punte: Di Maio e Di Battista, altrimenti teniamoci Vito Crimi come falso nueve, cioè il centravanti che sbuca quando serve. Se tutto quello che hanno gli altri è l’allenatore Goffredo Bettini che sdogana Silvio Berlusconi per allearsi con il quale certo non avevano votato gli elettori del PD, allora il Movimento 5 Stelle potrà anche sperare, da un lato, che un buon numero di elettori esprimerà la sua insoddisfazione, dall’altro, che il reddito di cittadinanza verrà ricordato dai suoi percettori come, risbuca la metafora marinara, un’efficace ancora di salvezza.
Pubblicato il 16 novembre 2020 su formiche.net
M5S, è tempo di ragionevolezza. Pasquino spiega perché @formichenews

Almeno una parte, non piccola, del futuro del Movimento è nelle mani di coloro che più e meglio hanno imparato, come Di Maio. Confido nella loro ragionevolezza, ma non mancherò di criticare i loro comportamenti, a cominciare da eventuali prossimi balli sul balcone
Tornato oramai da tempo dalla sua entusiasmante motociclettata guevariana in America latina, Di Battista sta mettendo a punto, anche con l’aiuto di Davide Casaleggio, la sua nuova impegnativa strategia: “el deber de todo revolucionario es de hacer la revolución”. Se proprio al momento la rivoluzione non si può fare, allora il second best è la scissión grazie alla quale un gruppo più piccolo e compatto, da lui capeggiato, tornerà ai valori originari del Movimento 5 Stelle e si attrezzerà per la conquista di qualche Palazzo.
Essendo rimasto in patria, avendo acquisito responsabilità di governo, esercitandole più o meno bene (una valutazione equilibrata complessiva non è ancora possibile), Luigi De Maio sembra essersi fatto una convinzione molto diversa. Chi vuole cambiare un paese deve cercare di governarlo con tutte le sue contraddizioni stando in alleanza con chi ugualmente ha imparato da tempo che dall’opposizione non si governa. Di Maio ha anche, con molta fatica, imparato che in una democrazia parlamentare bisogna, per andare e restare al governo, sapere costruire delle alleanze, e per vincere le elezioni amministrative ai vari livelli, bisogna trovare accordi e candidature comuni. Quello che è successo sia dove candidati/e pentastellati/e hanno perso sia dove hanno vinto va tutto a favore della sua posizione.
Tutti o quasi i nodi del non-programma e delle non-conoscenze manifestate fin troppo a lungo degli esponenti delle Cinque Stelle stanno inevitabilmente venendo al pettine. Applausi sono dovuti sia alla Costituzione italiana, che pure è stata ferita dal taglio e aspetta le indispensabili cure regolamentari e elettorali, sia alla democrazia parlamentare per essere riuscite a costringere giocatori inesperti e disinvolti a imparare come stare in campo e come giocare osservando le regole (un applauso anche al Presidente della Camera Roberto Fico). Tutto questo non conduce necessariamente a dare un buon voto (gioco di parole…) a tutto quello che il Movimento vuole, fa, progetta, e neppure alla sua azione nel futuro.
Di Battista non andrà da nessuna parte. Anche se ha già esagerato, confido in un suo ravvedimento operoso. I Cinque Stelle governisti dovranno ancora ingoiare qualche rospo che è tutto di loro fattura, come il MES per spese sanitarie dirette e indirette (enfasi e corsivo miei!). Dovranno trovare modalità di presenza organizzata e duratura sul territorio, che è il modo migliore per valorizzare coloro che si avvicinano loro, anche, perché no?, per ambizione. Disperdere le esperienze fatte applicando burocraticamente la mannaia dei due mandati è controproducente. Andrebbe anche a scapito del funzionamento del sistema politico. Almeno una parte, non piccola, del futuro del Movimento è nelle mani di coloro che più e meglio hanno imparato. Confido nella loro ragionevolezza, ma non mancherò di criticare i loro comportamenti, a cominciare da eventuali prossimi balli sul balcone. Déjà vu.
Pubblicato il 7 ottobre 2020 su formiche.net
Il governatore bravo a offrire soluzioni #intervista #LaCittàdiSalerno
Il politologo: «Berlusconi avrebbe dovuto lasciar scegliere il candidato a Mara Carfagna»
«Vincenzo De Luca è bravo. E questo, molto semplicemente, è il segreto del suo successo ». Non c’è nessuna formula magica, dunque, dietro la riconferma, con un plebiscito di stampo bulgaro, del governatore uscente. Su questo non ha dubbi il politologo e accademico Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza politica nell’Università di Bologna. «È bravo – evidenzia riferendosi a De Luca – a trovare soluzioni possibili e plausibili. E, con il suo decisionismo, riesce a tenere a freno un popolo che non sempre è disciplinato. Per questi motivi si è ampiamente meritato la rielezione».
De Luca, però, ha stravinto. E anche le sue liste hanno ottenuto migliaia di voti. Come legge questo dato?
Non c’è da meravigliarsi, perché è normale che un candidato ad una carica elettiva monocratica personalizzi la competizione elettorale. De Luca, comunque, resta sempre un esponente del Partito democratico, al di là di qualsiasi altra considerazione.
Secondo lei De Luca può ambire alla leadership del Pd?
Penso che De Luca sappia benissimo che, almeno in questa fase, la sua rimanga una dimensione regionale. In linea di principio, però, io sono contro chi, una volta preso un impegno, ambisce ad altre cariche. Pertanto spero che De Luca in questi 5 anni riesca a portare a termine i suoi progetti in Campania.
Quali dovranno essere, in questa seconda legislatura, le priorità di De Luca?
Non sono un profondo conoscitore dei problemi della Campania. Però De Luca dovrebbe cercare di essere più attento a promuovere il turismo, anche quello d’arte, perché in Campania ci sono tanti tesori. E a far ritornare i cosiddetti cervelli in fuga, offrendo loro la possibilità di fare ricerca. E, poi, come obiettivo principale, dovrebbe riuscire a ridurre la criminalità e la corruzione.
Come contraltare al successo di De Luca c’è la débâcle del centrodestra in Campania…
Questo è un male, perché l’opposizione non deve mai sparire e essere perlomeno decente. Però l’insuccesso del centrodestra era ampiamente annunciato, in quanto ha scelto un candidato, Stefano Caldoro, che aveva già perso.
A quanto pare non è stato possibile trovare un’alternativa a Caldoro…
Se fosse così sarebbe gravissimo. Caldoro è stato scelto direttamente da Silvio Berlusconi, ma in questo caso il cavaliere doveva lasciare più potere decisionale a Mara Carafagna, che conosce bene le dinamiche politiche in Campania. Doveva essere la vicepresidente della Camera a scegliere il candidato, portando anche soluzioni alternative.
Il centrodestra, comunque, a livello nazionale, sembra aver retto…
Sì, la coalizione è andata abbastanza bene, anche se nel suo interno ci sono diversi problemi. Matteo Salvini perde consensi, tant’è che ha pure cambiato strategia comunicativa. E la Lega è sì il primo partito ma in continua perdita di consensi. Giorgia Meloni ha vinto nelle Marche col suo candidato ma ha perso in Puglia. E, nonostante sia un lenta crescita, non riesce a sorpassare la Lega. Forza Italia oramai boccheggia e sopravvive.
Quale giudizio dà del Pd alla luce di questa tornata elettorale?
Tutto sommato positivo. Il Partito democratico ha dovuto sconfiggere due componenti: la destra, che in questi casi riesce a compattarsi, e la sfida di Italia Viva, che ha finanche presentato un proprio candidato, che è andato malissimo, in Puglia. Il pareggio si sarebbe potuto addirittura trasformare in vittoria se nelle Marche non si fosse fatto l’errore di mettere da parte il governatore uscente. Quando c’è la possibilità di schierare ai nastri di partenza qualcuno in carica non bisogna sostituirlo.
Qual è la sua opinione sul Movimento 5 Stelle?
Dal punto di vista dei numeri è andato molto male, perché l’ulteriore perdita di voti conferma la tendenza al declino. Evidentemente non sa scegliere più i candidati e motivare l’elettorato. Se, invece, non prendiamo come metro di paragone le preferenze ma il risultato del referendum, i 5 Stelle ne escono bene. E Luigi Di Maio ha giustamente rivendicato il risultato politico. C’è, tuttavia, un altro dato che, secondo me, deve essere evidenziato.
Quale?
L’astensionismo. È andato a votare soltanto il 45% degli italiani. E dovremmo essere molto preoccupati per questo motivo, in quanto neanche sfide così importanti riescono più a stimolare l’elettorato. Colpa delle politica, che non è più in grado di risolvere i problemi della gente. Perciò sarebbe importantissimo riprendere il discorso con gli italiani.
(gds)
Pubblicato il 23 settembre 2020 su lacittadisalerno.it