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Fatta la legge elettorale, trovato il disaccordo. Scrive Pasquino @formichenews

Tra gli elementi non considerati nella scelta di una legge elettorale c’è la premessa scientificamente e eticamente doverosa: quanto potere conferisce agli elettori. L’analisi di Gianfranco Pasquino, accademico dei Lincei prossimamente in libreria con “Tra scienza e politica. Una autobiografia” (Utet)
La premessa scientificamente e eticamente doverosa è che il criterio dominante per valutare la bontà di una legge elettorale è quanto potere conferisce agli elettori. Naturalmente, abbiamo imparato che nessun dirigente di partito e nessuno dei loro politologi, o presunti tali, di riferimento utilizza quel criterio come essenziale. Sappiamo che due criteri prevalgono su qualsiasi altra considerazione. Primo, non perdere ovvero limitare le dimensioni della eventuale sconfitta. Secondo, riuscire comunque a portare in Parlamento rappresentanti consapevoli di essere debitori della loro elezione e carica al capo partito o al capocorrente e, dunque, orientati alla disciplina interessata (alla ricandidatura). Nessuna variante di legge proporzionale rende impossibile conseguire entrambi gli obiettivi, anche se, garantendo un voto di preferenza (ricordo che gli italiani si espressero in questo senso in un fatidico referendum giugno 1991) si darebbe persino un po’ di potere agli elettori. Mi sono tappato le orecchie per non sentire le strilla di coloro che contro ogni obiezione vedono nelle preferenze solo corruzione.
Se Letta mi chiedesse che cosa serve meglio a chi vuole costruire un campo largo, gli risponderei che una legge maggioritaria a doppio turno in collegi uninominali è la soluzione migliore. Quel campo sarebbero/saranno gli elettori a costruirlo secondo il gradimento che daranno all’offerta delle candidature, ovviamente con occhi di tigre, e delle indicazioni di alleanze con i pentastellati incentivati a stare nella coalizione in fieri. Dal canto loro, un po’ tutti i centristi vorrebbero contarsi grazie ad una legge proporzionale che non contenga nessuna soglia d’accesso al Parlamento, rischiosissima per la sopravvivenza di non pochi di loro. Meloni continua a propendere per e difendere “il” maggioritario, credo sostanzialmente la legge Rosato, due terzi proporzionale, un terzo maggioritaria. Sa che, a bocce ferme, questa legge le consentirebbe di essere numericamente decisiva se il centro-destra vuole ricompattarsi e governare. Ma non è vero, come sembra temere, che “la” proporzionale la metterebbe fuori gioco. Anzi, contati i voti proporzionali è possibile, persino probabile che quel che resto del centro-destra sarebbe costretto a constatare l’indispensabilità dei seggi di Fratelli d’Italia per giungere alla maggioranza assoluta in Parlamento. Non tanto paradossalmente, anche una legge di tipo francese renderebbe comunque i suoi voti decisivi per tutti candidati uninominali del centro-destra. FdI sarebbe sottorappresentata, ma determinante. Come si capisce da questo sintetico scenario, risulta chiarissimo perché un accordo sulla legge elettorale sia molto difficile da trovare. Formiche mi ha chiesto di non esprimere le mie preferenze. Allora concludo con due notazioni comparate che è sempre il modo migliore di procedere. Il doppio turno francese dà più potere agli elettori e ai candidati e agevola la formazione di coalizioni per il governo. Le leggi proporzionali sono spesso raccomandate quando esiste frammentazione sociale e politica. Una buona soglia di accesso riduce la frammentazione, la proporzionalità rappresenta adeguatamente la società. Il resto, nel bene e nel male, non può non restare nelle mani dei dirigenti di partito.
Pubblicato il 23 febbraio 2022 su formiche.net
Fratelli d’Italia sarebbe vittima delle riforme di Giorgia Meloni @DomaniGiornale


Forse lo sanno forse no forse preferiscono non pensarci, ma i dirigenti dei partiti e i parlamentari hanno molte gatte da pelare di qui alle elezioni politiche del marzo 2023, se arriveranno fino ad allora.
Tralasciando le elezioni amministrative i cui esiti non si preannunciano particolarmente dirompenti se non, in negativo, per il Movimento 5 Stelle, la vera svolta potrebbe/potrà essere l’elezione presidenziale. Anche se Stefano Feltri ha efficacemente argomentato le ragioni che consigliano l’elezione di Mario Draghi alla Presidenza della Repubblica, magari in seguito ad una convincente designazione ad opera del segretario del PD, è possibile che si pervenga ad uno stallo parlamentare. Se, oltre che prolungato, lo stallo sarà caratterizzato da qualche mercanteggiamento improprio, la richiesta dell’elezione popolare diretta del Presidente della Repubblica italiana è destinata a tornare prepotentemente sulla scena politico-costituzionale.
Tradizionalmente, poiché, per lo più si dimentica o semplicemente non si sa che in Assemblea Costituente Piero Calamandrei propose una Repubblica presidenziale accompagnata da una solida rete di poteri locali, il presidenzialismo è associato con la destra. In questi anni, anche Berlusconi ha genericamente parlato di presidenzialismo, rivelando, fra l’altro, di non conoscere i guasti del governo diviso USA-style. Fra i politici e i giornalisti nostrani si è raramente manifestata una chiara distinzione concernente il presidenzialismo USA messo a confronto con il semipresidenzialismo francese. La stessa Meloni, intervenendo al Forum Ambrosetti a Cernobbio, dopo avere affermato che “il parlamentarismo all’italiana è diventato un pantano”, e che per questo “bisogna uscire dalla Repubblica parlamentare. Io sono per un sistema presidenziale”, ha sentito di dover precisare che “c’è una proposta di Fdi sul semipresidenzialismo alla francese”.
Non so a quale stadio si trovi la proposta di Fratelli d’Italia, ma certamente chi volesse uscire dal sistema parlamentare all’italiana, non sempre un pantano e migliorabile anche dall’interno, potrebbe opportunamente guardare alla Quinta Repubblica francese. Lo dovrebbe fare in modo particolare ricordando che la Quarta Repubblica fu il sistema politico-parlamentare più simile alla Repubblica italiana e l’allora unica Costituzione alla quale guardarono i Costituenti italiani. Nel contesto francese, fortemente voluta da de Gaulle, la Quinta Repubblica produsse un salto qualitativo notevolissimo. Fu e rimane accompagnata da un sistema elettorale maggioritario a doppio turno in collegi uninominali che ha ridimensionato il ruolo dei partiti, come desiderava de Gaulle, e messo al centro della rappresentanza politica i candidati, rarissimamente paracadutati, che diventano rappresentanti premurosi dei collegi nei quali vengono eletti.
Non so quanto Meloni vorrà puntare sulla sua proposta e sulla riforma elettorale adottando la legge francese. Se le circostanze le consentiranno o addirittura la incoraggeranno a procedere in tal senso, mi limito a sottolineare due elementi sistemici positivi che comportano un rischio per il partito di Giorgia Meloni. Il primo elemento positivo è che l’elezione popolare diretta del Presidente della Repubblica implica la ristrutturazione bipolare di quel che resta del sistema partitico italiano. Dunque, dovrebbe essere sostenuta da tutti i bipolaristi del nostro stivale. Il secondo elemento, più visibilmente nei collegi uninominali, ma anche per l’elezione presidenziale, è che è necessario, quasi indispensabile costruire coalizioni prima del voto. Il rischio per Fratelli d’Italia è lo stesso che corre Marine Le Pen in Francia e che la ridimensiona costantemente. Al secondo turno i partiti estremi e le loro candidature vengono penalizzate dagli elettori. Lo scombussolamento successivo al mutamento del modello italiano di governo potrebbe, però, essere accompagnato dalla mitigazione di tutti gli estremisti. E sarebbe un bene.
Pubblicato il 8 settembre 2021 su Domani
Due e forse più cose che so sulle leggi elettorali @formichenews
Il vero test della validità di una legge elettorale è basato su due criteri: il potere degli elettori e la qualità della rappresentanza politica. Quando gli elettori possono esclusivamente tracciare una crocetta sul simbolo di un partito hanno poco potere. Il commento di Gianfranco Pasquino, professore di Scienza politica e autore, tra gli altri testi, di “I sistemi elettorali”, (Il Mulino, 2006)
No, non chiedete di sapere tutto sui sistemi elettorali. Soprattutto non chiedetelo né ai sedicenti riformatori elettorali né ai loro consulenti. Limitatevi ad alcuni pochi punti. Primo, a chi vi dice che non esiste legge elettorale perfetta rispondete subito che quell’affermazione è banale e persino un po’ manipolatoria. Per di più, cela il fatto che esistono alcuni sistemi elettorali che funzionano meglio, molto meglio di altri. Guardatevi intorno. Leggete qualche libro, almeno qualche articolo. Secondo, ricordate che nelle democrazie parlamentari, in TUTTE le democrazie parlamentari, le leggi elettorali servono a eleggere un Parlamento, mai un governo. Il pregio delle democrazie parlamentari è la loro flessibilità proprio per quanto riguarda il governo. Nasce in Parlamento, si trasforma, cade, può essere ricostituito. Terzo, eleggere un parlamento è operazione diversa dall’eleggere un sindaco o un presidente di regione. Dimenticate lo slogan “sindaco d’Italia”. Chi vuole il presidenzialismo oppure il semipresidenzialismo lo argomenti e lo proponga. Poi, comunque, dovrà anche suggerire una legge elettorale decente.
Leggi decenti e talvolta, anche buone possono essere sia maggioritarie sia proporzionali. Qui: Tradurre voti in seggi in maniera informata, efficace e incisiva. Si può, si deve, Lezione n 1 del Video Corso Il racconto della politica, Casa della Cultura di Milano agosto 2018, segnalo gli elementi essenziali da conoscere. Il plurale è d’obbligo poiché esistono interessanti varianti sia delle leggi maggioritarie sia, ancor più, delle leggi proporzionali. Un punto, però, deve essere chiarito subito –mi piacerebbe scrivere per sempre, ma con i riformatori/manipolatori italiani nulla può mai darsi assodato e accertato per sempre: i premi di maggioranza di qualsiasi entità e comunque congegnati non consentono di definire maggioritaria quella legge elettorale. Semmai, bisognerebbe parlare di sistema misto a prevalenza proporzionale o maggioritaria.
Mi affretto ad aggiungere che il doppio turno di coalizione non soltanto è una proposta pasticciata e pasticciante, ma non ha praticamente nulla in comune con il maggioritario a doppio turno in collegi uninominali di tipo francese. Il doppio turno chiuso ovvero riservato a due soli candidati si chiama ballottaggio. Il doppio turno “aperto” ha clausole che lo disciplinano e che consentono operazioni politiche brillanti fra le quali desistenze, che servono ad accordi di governo, e “insistenze” che misurano la forza di candidati e di partiti e che testimoniano qualcosa (non posso essere più preciso).
Last but not least, il vero test della validità di una legge elettorale è basato su due criteri: il potere degli elettori e la qualità della rappresentanza politica. Quando gli elettori possono esclusivamente tracciare una crocetta sul simbolo di un partito hanno poco potere. Quando, per di più, i candidati/le candidate sono paracadutati in liste bloccate e con la possibilità di essere presentati in più collegi, la rappresentanza politica (che, comunque, richiede un discorso più ampio che ricomprenderebbe il non-vincolo di mandato e il non-limite ai mandati) non sarà sicuramente buona. La coda è tutta italiana.
Come si fa a scrivere una legge elettorale senza sapere quanti rappresentanti dovranno essere eletti: 200 o 315 senatori; 400 o 630 deputati. Se il referendum chiesto dalla Lega portasse a un ripristino del numero attuale dei parlamentari, qualsiasi legge elettorale nel frattempo elaborata dovrebbe essere riscritta e non sarebbe un’operazione semplice. Fin qui le mie proteste. La proposta è che si scelga fra il maggioritario francese con pochissimi adattamenti e senza nessun “diritto” (?) di tribuna e la proporzionale personalizzata (si chiama così) tedesca senza nessun ritocco, meno che mai la riduzione della clausola nazionale del 5 per cento per accedere al Parlamento. Dunque, non finisce qui.
Pubblicato il 18 dicembre 2019 si formiche.net
“Le riforme e lo spezzatino” Sabino Cassese recensisce “Cittadini senza scettro. Le riforme sbagliate”
Sono in molti al capezzale della nostra democrazia, chi per valutare, chi per riformare, chi per accusare. La voce di Gianfranco Pasquino si differenzia dalle altre. Lui ama analisi distaccate, critiche, ma non catastrofiste. È contrario a semplificatori e conservatori ad oltranza. Pensa che anche le Costituzioni invecchino, e che quella italiana sia invecchiata non solo nella seconda parte, ma anche nella prima. Ritiene che gli stessi costituenti abbiano aperto la strada alle modifiche costituzionali, prevedendo le relative procedure. Non si limita a guardare nel nostro orticello, ma fa sempre paragoni con quanto accade nelle democrazie che fanno parte della nostra tradizione costituzionale comune. Non dimentica mai l’insegnamento dei classici, a partire da Bagehot. Critica il cosiddetto renzismo, ma non con la violenza passionale e lo spirito predicatorio di tanti altri commentatori. Tutti buoni motivi per leggere i suoi libri.
Quest’ultima riflessione sulla democrazia italiana parte dalla constatazione che non è vero che non si siano fatte riforme: se ne sono fatte molte, alcune buone, altre cattive. Insiste sulla necessità di considerare il sistema complessivo: le riforme costituzionali non si possono fare come uno spezzatino, richiedono un disegno coerente. Debbono avere di mira il potere dei cittadini e l’efficienza del sistema, quindi rappresentanza e governabilità (qualcuno una volta ha scritto che merito di un buon Parlamento è di dare al proprio Paese un buon governo). Insiste sulla necessità di ulteriori riforme, considerato che la nostra democrazia è di qualità modesta.
Da queste premesse prendono le mosse le sue critiche. Per Pasquino l’ultima legge elettorale è sbagliata perché i parlamentari sono nominati, non scelti, e quindi sono asserviti ai partiti. Questi ultimi sono atrofizzati, verticizzati, personalizzati: per restituire lo scettro al popolo, vanno riformati, ma la loro riforma può venire solo dalla modifica del sistema, della legge elettorale e del modo di finanziamento. Anche la riforma del Senato, tuttora in corso, è oggetto delle critiche di Pasquino: la sua composizione è cervellotica, i suoi compiti non ben definiti, non c’è la garanzia che l’iter delle decisioni sia più rapido. Infine, Pasquino non sposa la tesi secondo la quale i presidenti Scalfaro e Napolitano si sarebbero comportati da monarchi, ma ritiene che essi abbiano dovuto, contro la loro stessa volontà, giocare il ruolo del gestore delle crisi proprio di un sistema semi-presidenziale. Infine, Pasquino non nasconde le sue preferenze, che vanno all’elezione popolare diretta del presidente della Repubblica, accompagnata da un sistema elettorale a doppio turno in collegi uninominali.
Come è dimostrato fin dal titolo (Cittadini senza scettro. Le riforme sbagliate), al centro di questo libro sta il problema della democrazia. Questo termine indica uno dei concetti più sfuggenti del nostro armamentario politico, tanto sfuggente che per qualificarlo occorre accompagnarlo con aggettivi (democrazia liberale, democrazia rappresentativa, democrazia deliberativa, e così via). Ora, i nostri sistemi politici hanno una componente democratica, ma questa si accompagna con altre componenti, una liberale e una efficientistica. Della prima fanno parte istituzioni come quelle giudiziarie, le corti costituzionali, le autorità indipendenti. Della seconda fanno parte gli organi amministrativi e in generale il potere esecutivo. Quando ci riferiamo alla democrazia, indichiamo una parte (quella che riguarda elezioni, corpi rappresentativi, nazionali e locali, vertici di governo), per il tutto (lo Stato, di cui fanno parte, a giusto titolo, anche altri organi ed altre funzioni).
Di qui la domanda: se si isola solo una delle componenti di questi organismi complessi che sono gli Stati–nazione, paragonabili a certe chiese che includono mura e colonne romane, volte rinascimentali e dipinti secenteschi, non si corre il rischio di non rispondere proprio a quella preoccupazione che muove Pasquino, quella di tener conto del sistema nel suo insieme, di evitare le spezzatino?
Gianfranco Pasquino,Cittadini senza scettro. Le riforme sbagliate, Egea, Milano, pagg. 198, € 16,00
Sabino Cassese
Pubblicato il 27 dicembre 2015 Il Sole 24 ORE pag 31
Rebus elettorali (Dove eravamo, come siamo finiti)
Un articolo pubblicato il 21 gennaio 2014, dedicato a tutti coloro che dicono che l’Italicum non può/non deve essere modificato
REBUS ELETTORALI
In maniera spiazzante, il segretario del Partito Democratico ha presentato addirittura tre proposte elettorali. Hanno due elementi unificanti: primo, non si applicano al Senato; secondo, prevedono tutte un consistente premio di maggioranza alla lista o coalizione che risulterà vittoriosa. Evidentemente, Renzi dà per scontato che il Senato non sarà più elettivo, dopo una riforma costituzionale che richiederà parecchio tempo. Anche l’entità del premio in seggi si presenta come piuttosto problematica. Infatti, le motivazioni della sentenza con la quale la Corte Costituzionale ha bocciato il premio contenuto nella legge vigente (il Porcellum) potrebbero anche rendere impossibile la sua riproposizione. La proposta che Renzi fa derivare dal sistema spagnolo che, è opportuno ricordarlo, colà serve ad eleggere 350 deputati, contraddice la sua critica di qualche tempo a coloro che manifestavano “voglia di proporzionale”. Anche se le molte circoscrizioni previste (118 che, dunque, richiederanno tempo per essere disegnate) eleggerebbero ciascuna quattro-cinque deputati, la ripartizione fra le liste sarà proporzionale. Non è poi detto che il premio in seggi garantirà la maggioranza assoluta in parlamento al partito o alla coalizione premiata.
La seconda proposta implica il ritorno al Mattarellum con una variazione importante. Il recupero proporzionale sarebbe utilizzato in parte per dare un premio al partito o alla coalizione vincente in parte (“diritto di tribuna”) per consentire l’ingresso in Parlamento ai partiti piccoli che non avessero superato la soglia di sbarramento. All’incirca una novantina di seggi a chi ha vinto e una sessantina da distribuire proporzionalmente ai piccoli. Rimane curioso che a un sistema maggioritario, come è il Mattarellum, si sovrapponga anche un premio di maggioranza.
La terza proposta è ancora più problematica e, in un certo senso, dirompente. E’ stata definita “sindaco d’Italia” poiché deriva dalla legge utilizzata per l’elezione dei sindaci nei comuni al di sopra dei quindicimila abitanti. Non riguarda soltanto l’elezione del Parlamento. Prevede che, il candidato alla carica di Sindaco d’Italia ottenga, al primo turno, nel caso davvero improbabile che la coalizione a suo sostegno abbia conquistato il 50 per cento dei voti, il 60 per cento dei seggi. Altrimenti, il candidato vittorioso al ballottaggio otterrà il 60 per cento dei seggi e gli altri partiti si divideranno il rimanente 40 per cento proporzionalmente ai voti ottenuti. Il Sindaco d’Italia implica non soltanto una riforma elettorale, ma una vera e propria riforma costituzionale. Ne risulta cambiata la forma di governo nel senso di un presidenzialismo non dichiarato. I cittadini eleggono il “sindaco”-capo del governo cosicché il Presidente della Repubblica perderà il potere di nominare il Presidente del Consiglio dei Ministri (art. 92). Poiché le dimissioni del sindaco, per qualsiasi ragione, comportano lo scioglimento automatico del consiglio comunale, il Presidente della Repubblica perderà anche il potere di scioglimento del Parlamento (art. 88).
Insomma, a prescindere da qualsiasi altra considerazione. tranne che, effettuata tre volte in Israele, l’elezione popolare diretta del Primo ministro non ha funzionato ed è stata abbandonata, il Sindaco d’Italia cambia la forma di governo e, poiché è una riforma costituzionale, abbisognerà di tempi lunghi. Esistono due alternative praticabili per uscire dalla problematicità e per entrare in un rapido percorso riformatore che non potrà comunque accontentare chi sogna elezioni a maggio. Primo, fare rivivere con pochissimi ritocchi il Mattarellum che, utilizzato nel 1994, 1996 e 2001, diede esiti soddisfacenti e i cui collegi uninominali sono praticamente già disegnati. Secondo, scegliere fra il sistema tedesco di proporzionale personalizzata che elegge circa 600 deputati e il sistema francese maggioritario a doppio turno in collegi uninominali che elegge 577 deputati e che dal 1958 a oggi in Francia ha regolarmente garantito la formazione di maggioranze parlamentari stabili. Tertium non datur. Dopo il Mattarellum e soprattutto il Porcellum, nessuno può illudersi che i riformatori italiani siano capaci di fare meglio dei tedeschi e dei francesi.
Pubblicato 21 gennaio 2014 sul blog dell’Associazione “Confronti costituzionali”