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“Si rischia una deriva confusionaria”; Pasquino boccia le riforme del Governo
di Alessandro Francini per alessandrianews.it
ALESSANDRIA – Il professor Gianfranco Pasquino è un vero e proprio fiume in piena. La sua critica alle contraddizioni legate alle (poche) riforme già attuate dal Governo Renzi e a quelle in programma è appassionata e viscerale.
Pasquino, professore Emerito di Scienza Politica e politologo di fama internazionale, è stato ospite ieri sera, giovedì 26 marzo, dell’associazione Cultura e Sviluppo in qualità di relatore del convegno organizzato per il ciclo dei “Giovedì Culturali”. Obiettivo dell’incontro un’analisi approfondita sull’effettiva utilità delle nuove riforme istituzionali e costituzionali stabilite e discusse negli ultimi mesi di governo, argomento trattato da Pasquino nel suo ultimo libro “Cittadini senza scettro Le riforme sbagliate” (UBE 2015).
Una delle frasi spesso ripetute dal Presidente del Consiglio durante le prime settimane del suo insediamento è stata “questo sarà il Governo del fare”; non sempre però “fare” è sinonimo di “costruire”, perlomeno costruire qualcosa di realmente valido. Pasquino esprime chiaramente il suo giudizio sull’attuale azione di governo; “il Presidente del Consiglio e il Ministro per le Riforme Costituzionali e per i Rapporti con il Parlamento Maria Elena Boschi non hanno alcuna visione complessiva; hanno semplicemente deciso che le riforme devono essere fatte in fretta e che le loro sono le uniche riforme possibili” dichiara il politologo. Un atteggiamento che per buona parte delle opposizioni sta assumento contorni antidemocratici; il professore in questo caso getta acqua sul fuoco affermando che non pensa sussista il pericolo “di derive autoritarie. Penso però che agli elettori vengano dette molte stupidaggini. Il Paese è in balìa di una gran confusione e una grande incompetenza”.
Sul fronte riforme, a detta dei renziani, prima di Renzi il nulla. Su questo argomento il professor Pasquino ha molto da obiettare. “Non è vero che il trent’anni non è stata fatta alcuna riforma. Per esempio nel ’93 abbiamo avuto il Mattarellum, l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti e di quattro ministeri; è stata inoltre fatta una buona legge sull’elezione diretta del sindaco, dei presidenti delle province e dei consigli comunali e provinciali. Nel 2001 sono state attuate importanti riforme del Titolo V sul rapporto tra Stato e Regioni; nel ’95 il Porcellum. Renzi – continua Pasquino – in più di un anno non ha ancora fatto la nuova riforma elettorale”. Le riforme, quindi, negli ultimi venti anni non sono certo mancate, il problema è che erano quasi tutte sbagliate.
Tra le riforme annunciate dal Governo spicca quella del bicameralismo. Certamente 945 parlamentari sono troppi, ma il nuovo Senato disegnato da Matteo Renzi al professor Pasquino non piace per niente; “se il Senato dovrà rappresentare le autonomie locali mantenere in carica i cinque senatori a vita non servirà a nulla. Perché, inoltre, sono previsti solo 21 rappresentanti dei sindaci? Con quali criteri verranno scelti?”. Anche per ciò che riguarda i rappresentanti delle Regioni scelti dai vari Consigli Regionali il giudizio di Gianfranco Pasquino è assai critico; “non è forse vero che la classe politica regionale è da almeno dieci anni la più screditata del Paese? E dovremmo consentirle di nominare 74 senatori? Questa è sicuramente una riforma che non andava presa in considerazione, almeno non in questo modo” spiega il professore.
Mattarellum, Porcellume e ora, o meglio, prossimamente, Italicum. La nuova legge elettorale, che secondo quanto dichiarato da Renzi verrà presentata a brevissimo, manterrà i capilista bloccati e ciò potrebbe portare ad un Parlamento composto per più di un terzo da deputati selezionati dalle segreterie di partito. “L’Italicum varia di pochissimo rispetto al Porcellum. Inoltre i capilista non rappresenteranno il collegio – sostiene Pasquino – dovrebbe quindi essere introdotto il requisito di residenza nel collegio in cui si è candidati. I capilista bloccati non garantiscono affatto la rappresentanza del collegio”. Una legge elettorale che in sostanza porterebbe all’abolizione delle coalizioni per premiare liste e partiti; peccato che in quasi tutta Europa siano presenti governi di coalizione; “non è un caso – spiega il professore – ma è una scelta. In primo luogo perché una coalizione interpreta meglio l’elettorato di un Paese e poi perché rappresentanza e moderazione sono le caratteristiche fondanti dei governi di coalizione”. Con questo sistema il partito che vince le elezioni può andare alla Camera beneficiando della maggioranza assoluta, potendo fare il bello e il cattivo tempo nella sostanza indisturbato.
In conclusione il professor Pasquino dipinge un quadro a tinte fosche, affermando che “per governare serve esperienza maturata sul campo, non basta darla ad un neofita, che tra l’altro commette tanti errori. Non serve a nulla usare il criterio delle velocità, il solo criterio di cui l’Italia ha bisogno è quello dell’efficacia. Sono davvero preoccupato, perché riforme malfatte in un sistema già malfunzionante producono conseguenze potenzialmente disastrose”. Verrebbe da dire, e il professore chiude effettivamente così il suo intervento prima del dibattito con il pubblico in sala, che in Italia “più che di una deriva autoritaria si dovrebbe temere una deriva confusionaria”.
Pubblicata il 27 marzo 2015
Qualcosa da sapere sui sistemi politici
Diradare la confusione e sventare la manipolazione è possibile
Chi facesse attenzione al dibattito sui partiti, sulle istituzioni, sulle democrazie (con quella italiana che, “governata” da Renzi, starebbe subendo una “deriva autoritaria”) finirebbe per pensare che, in fondo, in Italia, si può dire davvero di tutto. Se nessuno sa che cosa sono i partiti, se molti ritengono che in materia di riforme elettorali e istituzionali tutto è opinione e niente è strafalcione, se ciascuno definisce la democrazia come gli pare (magari dimenticandosi che un po’ di “potere del popolo” è l’elemento costitutivo e irrinunciabile di qualsiasi definizione decente), se anything goes, allora everything diventa confusissimo. Diradare la confusione e sventare la manipolazione è possibile per coloro che abbiano studiato e posseggano gli strumenti per analizzare e spiegare la politica, per l’appunto: partiti, istituzioni e democrazie.
No, non bisogna confondere le preferenze personali, che comunque, dovrebbero essere argomentate e giustificate, con le conoscenze disponibili che hanno solide basi nella storia e nella comparazione fra sistemi e attori politici. No, non sono accettabili le affermazioni che fanno di tutta l’erba un fascio, ma che non sanno neppure di che erba parlano. Che sia non soltanto possibile, ma addirittura corretto affermare che sono proprio le limitatissime conoscenze sulla politica e sulle istituzioni a dare, in Italia, solido e continuo alimento, allo stesso tempo, tanto all’antipolitica quanto alla cattiva politica? E’ certamente vero che non si può chiedere agli italiani di diventare tutti “scienziati della politica”. Tuttavia si potrebbe e dovrebbe chiedere ai commentatori politici, ai giornalisti, non soltanto quelli “di punta”, quelli che stanno, questa è l’espressione di moda, “sul pezzo”, magari addirittura ai dirigenti politici, di studiare un po’ di scienza politica.
Il florilegio di errori gravi e di manipolazioni è talmente vasto che condurrebbe alla stesura di un non del tutto inutile libro. Parto dall’attualità. Si può consentire al Presidente del Consiglio di dichiarare che l’Italicum (una legge elettorale proporzionale con scrutinio di lista e premio di maggioranza) è un Mattarellum (una legge elettorale maggioritaria per l’elezione di tre quarti dei parlamentari in collegi uninominali) con le preferenze? Aberrante. Si può accettare, senza contraddirla, che il Ministro Boschi sostenga che non si tratta di “capilista bloccati”, ma di “rappresentanti di collegio” che in quel collegio potranno essere, anzi, sicuramente molti saranno, paracadutati, che in quel collegio non avranno nessun obbligo, né politico, di fare campagna elettorale, né giuridico, di residenza, che in quel collegio non avranno nessuno sfidante, che, addirittura, grazie alla possibilità di candidature multiple (dieci) potrebbero trovarsi a “rappresentare” più collegi? Allucinante. E’ possibile accettare la critica al capo del governo italiano di non essere stato “eletto” quando, tecnicamente, non esiste in nessuna democrazia parlamentare l’elezione popolare diretta del capo del governo? Quando tutti dovrebbero sapere che i capi di governo nelle democrazie parlamentare devono godere di un rapporto di fiducia con il loro Parlamento? Quando abbiamo visto che persino i capi di governo nel sistema politico inglese sono sostituibili dal loro partito (come Thatcher e Blair)? Che se, a ogni sostituzione di capo di governo ad opera del suo partito o della sua maggioranza, fosse necessario tornare alle urne verrebbe bruciata una delle qualità dei modelli parlamentari di governo: la loro adattabilità.
Di converso, è giusto sostenere che l’avere ottenuto un’alta percentuale di voti nelle elezioni europee offre al capo del partito che ha effettivamente vinto quelle elezioni la legittimazione elettorale “nazionale” che gli manca? Esistono nelle democrazie, parlamentari, presidenziali, semi-presidenziali, partiti che aspirano a definirsi “della Nazione”, senza cogliere il rischio, questo sì, effettivo, di una concezione autoritaria della dinamica politico-partitica che delegittimerebbe i concorrenti ? Infatti, i concorrenti di un eventuale Partito della Nazione potrebbero essere facilmente incasellati come rematori “contro-Nazione”. Davvero esistono sistemi elettorali che impediscono di sapere chi ha vinto le elezioni la sera stessa del voto? Certamente, sì: ad esempio, proprio l’Italicum nel quale il ballottaggio fra i due partiti più votati prorogherà la conoscenza del vincitore di una, se non addirittura due settimane.
Le democrazie che funzionano meglio sono quelle nelle quali l’alternanza è possibile ad ogni elezione, che non significa che avviene ad ogni elezione. Altrimenti, che splendida democrazia sarebbe stata quella italiana dal 1994 al 2013 con tutti i governi rimpiazzati dall’opposizione in ogni elezione di quel periodo! Altrove, in assenza di una vera e propria alternanza completa si hanno ricambi parziali nelle coalizioni di governo. Con il premio alla lista o al partito, l’Italicum cancella un’altra peculiarità delle democrazie parlamentari europee, che, incidentalmente, funzionano praticamente tutte meglio di quella italiana: la necessità di formare coalizioni di governo. Bi- (anche quando sono Grandi Coalizioni: Germania e Austria) o multipartitici, i governi di coalizione sono regolarmente più rappresentativi di elettorati compositi e spesso sono in grado di fare riforme importanti. Il Patto del Nazareno, per le mentalità non complottistiche, può essere letto come una coalizione per fare le riforme, sulla cui qualità, ovviamente, è lecito e opportuno avere dei dubbi. Non si possono avere dubbi sulla pessima qualità del dibattito politico italiano, sulla quasi scomparsa di cultura e culture politiche in questo paese. Riflettendo sui miei saggi che, in qualche caso, hanno trent’anni di vita, ma, come si dice, sono attualissimi, è possibile imparare molte cose sui partiti, sulle istituzioni, sulle democrazie, diventando commentatori e cittadini migliori.
Articolo scritto per il Laboratorio della contemporaneità della Casa della Cultura
Perchè il primo ostacolo del Presidente Mattarella sarà l’Italicum
Alla fine, Renzi e Berlusconi hanno avuto gran parte di quello che volevano dalla riforma elettorale, ovvero si sono messi d’accordo su quello che era davvero importante per loro. La ministra Boschi, che raramente sa di cosa parla e che, dunque, non per caso è spesso lodata dal noto saggio di Lorenzago, Roberto Calderoli, ha affermato che con questa legge non ci saranno più “inciuci” (a malincuore uso la loro mediocre e riprovevole terminologia). Scampato il pericolo di un maxinciucio presidenziale, ci prepariamo a verificare a futura memoria. Al momento, è possibile dire che, primo, l’Italicum ha solo qualche somiglianza con il testo inizialmente introdotto in Parlamento. Dunque, il Parlamento ha svolto un compito, nella misura del possibile, di effettivo miglioramento. Secondo, l’Italicum continua a essere una brutta legge.
La legge elettorale Renzi-Boschi
Per adesso accontentiamoci di sapere che, primo, la legge elettorale dei miracoli Renzi-Boschi produrrà un vincitore la sera stessa delle elezioni. Poverini i tedeschi, gli inglesi, i francesi e persino i greci i cui rispettivi, molto diversi, sistemi elettorali producono vincitori soltanto alle calende greche. O no? Tuttavia, se ci sarà, come probabile, un ballottaggio fra le due liste più votate, nessuna delle quali abbia superato il 40 per cento, per conoscere il vincitore, gli italiani dovranno dolorosamente aspettare un paio di settimane. Secondo, la legge elettorale dei miracoli garantirà la governabilità che, evidentemente, Renzi, Boschi, Del Rio e Madia sono consapevoli di non riuscire a garantire in questa legislatura. O no? Soprattutto la legge elettorale dei miracoli, terzo, porrà fine agli inciuci anche se essa stessa è finora il più visibile prodotto dell’inciucio Renzi- Berlusconi, e degli inciucini in Commissione Finocchiaro-Calderoli. Qualcuno, poi, non i loro giuristi di riferimento, spiegherà a Renzi et al. che gli inciuci non riguardano la formazione delle coalizioni di governo (minima vincente, come si dice nel lessico politologico, la coalizione fatta da Tsipras, ma bella e limpida proprio no), ma il fare e approvare insieme brutte politiche pubbliche e istituzionali di cui, per l’appunto, la legge elettorale costituisce un esempio clamoroso. Del Senato parleremo un’altra volta.
Perchè l’Italicum non è una buona legge
Questo Italicum, che piace anche ad alcuni politologi pragmatici e calabrache, i quali sostengono addirittura che è simile alle loro proposte del gennaio 2014, mentre in realtà è parecchio diversa, ma non importa, è persino migliorato. Continua a non essere una buona legge per almeno quattro motivi e mezzo. Primo, circa il 70 per cento dei parlamentari saranno comunque nominati dai capipartito e capicorrente, quindi obbedienti e ossequienti nei confronti dei loro severi e burberi nominatori, mandando a benedire l’assenza del vincolo di mandato. Inoltre, che il capolista in un collegio sia il rappresentante di quel collegio è tutto da vedere, soprattutto se sarà, e accadrà spesso, un/a paracadutato/a. Chi sa che cosa penseranno i candidati che si faranno un mazzo tanto sul territorio per ottenere le preferenze e che, se eletti, verranno trattati, neanche come figli, ma come nipoti di un dio minore. Secondo, le candidature multiple, fino alla possibilità di essere presenti, sicuramente come capilista, in dieci collegi, rimangono un intollerabile obbrobrio, un unicum dell’Italicum.
Questi, però, sono i due punti sui quali Renzi e Berlusconi, interessati a esercitare un ferreo controllo sui loro parlamentari, si sono trovati d’accordo. Attendiamo anche di conoscere quella che è più di un’opinione del Presidente Mattarella, padre del Mattarellum e devastatore del Porcellum. Terzo, anche se il premio di maggioranza dovrà essere assegnato con il ballottaggio, esiste il rischio che sia vinto da una lista che al primo turno abbia ottenuto poco più del 25 per cento dei voti. I giudici costituzionali, immagino Mattarella compreso, potrebbero obiettare che la loro sentenza aveva detto molto di diverso, chiedendo una soglia decente. Quarto, con la scelta della lista e non della coalizione come aspiranti al premio di maggioranza sia Renzi che Berlusconi hanno mandato un messaggio chiaro ai cespugli di sinistra e di destra: entrate subito con noi, altrimenti vittoriosi o no vi terremo lontani dal governo e dalle cariche che spettano all’opposizione. I grillini dissenzienti l’hanno capita e si sono avvicinati al Nazareno. Li seguiremo fino alla loro eventuale probabile ricandidatura nel generoso Partito della Nazione.
Infine, c’è un ultimo punto discutibile, forse grave, ma non riprovevole, anzi, che potrebbe diventare divertentissimo. Con gli attuali rapporti di forza, il ballottaggio potrebbe anche avere luogo fra il Pd e il Movimento Cinque Stelle consegnandoci per sempre al laboratorio del Dr. Jekyll che ha già avuto modo di vedere la sua creatura all’opera a Parma e a Livorno (città modello per la trasposizione del “sindaco d’Italia). Non ci resta che augurare la vittoria allo schieramento che avrà candidato, s’intende, non come capilista, il maggior numero di gufi saggi (e residenti nei loro collegi). Ce ne sono. Ne conosco almeno uno.
Pubblicato il 3 febbraio 2015
Triangolo virtuoso e lati deboli
Quando a vincere la carica più importante di un sistema politico è un candidato dalle indiscutibili qualità diventa difficile per tutti intestarsi la vittoria. Qualcuno dice che Mattarella era, insieme a Amato, il candidato preferito da Napolitano. A più riprese, Bersani ha sostenuto che Mattarella era sulla sua lista di candidati nel 2013. Tutti sanno che Mattarella non era affatto il primo dell’elenco dei presidenziabili di Renzi. Lo è diventato quando, da un lato, Renzi ha capito che soltanto con Mattarella poteva sperare di tenere unito il Partito Democratico, e, dall’altro, che Berlusconi gli contrapponeva proprio un candidato divisivo. Dunque, sicuramente Mattarella deve essere grato anche a Renzi per averlo candidato, ma la sua elezione è il prodotto di una pluralità di fattori che non lo rendono affatto dipendente da Renzi. Inoltre, sarebbe un’offesa alla storia politica e personale di Mattarella pensare che in quanto Presidente della Repubblica che rappresenta l’unità nazionale rinuncerà alla sua autonomia di giudizio e di comportamento. No, non è affatto probabile che la schiena dritta del Presidente Mattarella si pieghi agli ordini di scuderia, di nessuna scuderia né di partito né di provenienza culturale.
Renzi ha ragione di esultare per il risultato, ma non può credere neanche per un momento che Mattarella sarà il “suo” Presidente. Fin da subito il Presidente Mattarella si troverà nelle condizioni di provare in maniera trasparente e a tutto campo la sua autonomia. Mattarella troverà sulla sua scrivania due leggi importanti. Anzitutto, l’Italicum che, immagino, né il relatore del Mattarellum, sistema d’impostazione opposta alla legge Renzi-Boschi, né il giudice che ha sicuramente contribuito allo smantellamento del Porcellum, può approvare in tutti i suoi impasticciati e forse incostituzionali dettagli. Poi, dovrà esaminare un brutto decreto fiscale che contiene una norma che, da qualsiasi parte la si rigiri, offre straordinari vantaggi a Berlusconi (oltre che a tutti coloro, probabilmente nessuno, che abbiano livelli di reddito altrettanto elevati). Insomma, Mattarella entrerà subito in dialettica con il governo Renzi sulle regole del gioco, delle quali la legge elettorale è la più controversa e la più significativa, come dimostrano le tensioni dentro il PD e fra i due “nazareni”: Renzi e Berlusconi. Dovrà decidere come, attraverso la cosiddetta moral suasion oppure rifiutando pubblicamente e motivatamente di promulgare leggi e di autorizzare decreti, svolgere appieno il suo ruolo. Infine, dovrà in qualche modo anche affrontare la pratica della riforma del bicameralismo paritario con il fortissimo ridimensionamento del ruolo, dei compiti, del potere del Senato e quindi con la necessità di costruire nuovi contrappesi al governo, per di più dotato di un notevole premio in seggi.
Il difetto più visibile del Presidente Mattarella è costituito dalla sua scarsa esperienza internazionale e dalla sua limitatissima riconoscibilità a livello europeo e, più in generale, sulla scena di una politica diventata globale. Eppure, Mattarella dovrà intervenire, collaborando, potenziando, ma, eventualmente, anche “correggendo” la politica estera ed europea di un Presidente del Consiglio, neppure lui particolarmente preparato, ma lui, sì, spesso affrettatamente superficiale. Prudenza, sobrietà, riservatezza sono qualità che non impediscono affatto a Mattarella di diventare dopo un brevissimo periodo di apprendistato un Presidente capace, anche grazie alla sua esperienza di parlamentare e di ministro, di esercitare i molti poteri presidenziali che Napolitano (al quale Mattarella potrà rivolgersi per avere utilissimi consigli) ha portato alla loro massima estensione. Nessuno s’illuda, tantomeno Renzi e i renziani, che nel triangolo istituzionale Presidenza-Governo-Parlamento, il lato affidato a Mattarella risulterà debole e trascurabile.
Pubblicato AGL 1 febbraio 2015
L’anno di Matteo Renzi
Sdoganati i gufi. Questo è uno dei messaggi che il Presidente del Consiglio ha voluto mandare nel suo ampio, puntiglioso, compiaciuto resoconto dell’anno ovvero dei primi dieci mesi del suo governo. Di gufi ne esistono due grandi tipi. Primo, quelli che criticano il governo e il suo capo. Per la prima volta, Renzi riconosce che sono gufi, se non buoni, almeno utili. Possono continuare a svolgere il loro lavoro anche perché, seconda importante concessione post-natalizia del Presidente del Consiglio, leadership è circondarsi di persone di valore che non necessariamente condividono le idee del leader (che, però, poi, fa come vuole lui!). Ben vengano, dunque, i gufi di valore. Invece, proprio non sono accettabili, i gufi che dicono che l’Italia non ce la farà, quelli che non hanno nessuna fiducia nel paese, che esprimono preoccupazione e rassegnazione. Dal canto suo, con parecchi eccessi, inevitabili, a causa del suo temperamento, ma anche consapevoli e voluti, il Presidente del Consiglio afferma che non soltanto l’Italia ce la farà, ma aggiunge che l’Europa e il mondo hanno bisogno dell’Italia molto più di quanto l’Italia abbia bisogno di loro (se questa non è un’esagerazione…). Chi può permettersi di fare a meno di un paese il cui governo in dieci mesi ha fatto (o iniziato) più cambiamenti positivi di tutti i settant’anni della Repubblica (forse un’altra esagerazione…)?
Non sufficientemente incalzato dai giornalisti, Renzi non ha mai dovuto spiegare la differenza fra riforme iniziate e riforme concluse, portate a casa direbbe il Presidente del Consiglio, nel lessico che cerca di tenere lontanissimo dal politichese. Per la legge elettorale, la prova provata della sua quasi approvazione è che addirittura già Renzi ha potuto sbandierare un facsimile di scheda elettorale dell’Italicum che contiene, qui è la notizia, anche lo spazio per due preferenze, ma la cui “logica”, contrariamente a quanto ha affermato, non ha proprio niente a che vedere con il Mattarellum. Sul Jobs Act Renzi non ha voluto precisare se la “libertà di licenziamento” si applicherà anche ai lavoratori del pubblico impiego. Non soltanto per chiarire questo delicatissimo punto, ha ripetutamente rimandato “alla Madia”, ovvero al disegno di legge di riforma della burocrazia, il cui percorso parlamentare appare, però, ancora molto lungo. Renzi si è vantato del fatto che il suo governo ha fatto poche leggi (senza dire quanti voti di fiducia ha richiesto) perché ha saputo sfruttare al meglio il ricorso ai regolamenti. Il Presidente del Consiglio ha inquadrato i famosi 80 euro in busta paga (già prorogati) non come misura per fare crescere i consumi (che, infatti, non sono cresciuti), ma come strumento, da valutare insieme al tetto posto alle retribuzioni dei manager pubblici, per ridurre le diseguaglianze sociali.
Scoraggiando le domande sulla successione al Quirinale e impartendo una lezioncina sulle modalità con le quali sono stati eletti i Presidenti, Renzi non ha mostrato alcuna preoccupazione per la scelta del prossimo Presidente, ma ha colto l’occasione per abbondare in lodi e in riconoscimenti a Napolitano, al quale, certamente, deve moltissimo. Infine, Renzi ha voluto battezzare una volta per tutte le sue modalità d’azione e di comunicazione: “meglio arroganti che disertori”. L’arroganza la si è vista tutta nella sua conferenza stampa accompagnata da una cospicua dose di autostima. Dei disertori non sappiamo i nomi. Difficile che qualcuno della vecchia ditta intenda autodenunciarsi. Saranno le prossime scadenze legislative e parlamentari nonché le votazioni sul Presidente della Repubblica a fare apparire almeno quanti sono. Tuttavia, ed è questo il messaggio definitivo che vale un po’ per tutti, il governo Renzi intende arrivare operando con alto ritmo fino al febbraio 2018 completando la legislatura. [Auguri a tutti di un Anno migliore da un gufo, spero di buona qualità, che non smetterà di criticare, le molte volte in cui lo crederà opportuno, né il governo né il suo capo.]
Pubblicato AGL 30 dicembre 2014
Renzi, perché tutta questa fretta di approvare il “nuovo” Porcellum?
Intervista raccolta da Pietro Vernizzi per ilsussidiario.net
“Alla lucida follia di Berlusconi si è sostituita la non troppo lucida confusione del governo Renzi, i cui principali ministri non stanno facendo ciò cui sono chiamati perché sono privi di una vera esperienza politica”. Ad affermarlo è Gianfranco Pasquino, professore di Scienza politica alla Johns Hopkins University di Bologna.
Renzi vuole votare prima per l’Italicum e poi per il Quirinale, Berlusconi chiede che sia il contrario. Chi la spunterà?
A me i tempi interessano poco e mi interessa molto di più il merito. Questa è una brutta legge elettorale, e approvarla in tempi stretti non significa migliorarla. Invece che a gennaio, potremmo approvarla a maggio purché sia meglio di quella attuale. Capisco d’altra parte che Forza Italia voglia negoziare l’elezione del presidente della Repubblica prima di dare i suoi voti che sono decisivi per approvare la legge elettorale.
L’elezione del capo dello Stato può inasprire le tensioni fino a fare saltare l’accordo sull’Italicum?
No. Il punto però non è l’inasprimento delle tensioni politiche, dietro a cui ci sono ben altre motivazioni. La vera questione è che il Presidente della Repubblica deve essere scelto non perché piace a Renzi e a Berlusconi, ma perché è un uomo o una donna che sa fare rispettare la Costituzione, attuarla, ricordarsi che deve rispettare l’unità nazionale e che deve essere il punto di equilibrio del sistema.
Quali sono le vere ragioni dell’inasprirsi delle tensioni politiche?
Queste tensioni dipendono molto spesso dal linguaggio utilizzato dai leader. Ci troviamo in una politica parlata, e nessuno va a vedere che cosa contengono concretamente i provvedimenti del governo e le controproposte delle opposizioni che spesso non conosciamo. Le opposizioni si limitano a dire no e i loro emendamenti spesso sono presentati in modo folkloristico.
Perché ritiene che l’Italicum sia una brutta legge elettorale?
A non andare bene è l’impianto, che è esattamente quello del Porcellum con piccole variazioni. L’Italicum è un sistema elettorale proporzionale con un premio di maggioranza. In tutta Europa inoltre ci sono sistemi elettorali che incoraggiano la formazione di coalizioni, e non che le impediscono come nel caso di questa riforma. Il fatto che nell’Italicum si dica che un partito deve vincere un premio di maggioranza che gli consente di governare da solo documenta che la nuova legge elettorale è basata su un principio semplicemente sbagliato. Occorre una legge che consenta di rappresentare meglio questo Paese per evitare che troppi elettori si astengano.
Non ci sarà il Mattarellum come legge elettorale transitoria, ma l’Italicum sarà post datato al 2018. Che cosa ne pensa?
Questa è una follia, si fa una legge elettorale votata prima del 15 gennaio per farla entrare in vigore soltanto nel 2018. In Italia le norme entrano in vigore 15 giorni dopo la loro pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. L’idea di posticiparla di tre anni mi pare francamente assurda. Trovo inoltre assurdo rigettare il Mattarellum sul quale invece ci sarebbe una notevole convergenza parlamentare.
La “lucida follia” era uno dei motti di Berlusconi. Renzi lo ha fatto proprio?
La follia la vedo, la lucidità un po’ meno. A gennaio il presidente del consiglio aveva presentato tre proposte di legge elettorale per poi sceglierne una quarta, che nel corso del tempo è notevolmente cambiata su punti non marginali. Si reintroducono le preferenze, si prevede il ballottaggio e le soglie si abbassano dall’8% al 3%.
All’orizzonte vede una nuova sentenza di incostituzionalità della Consulta?
Il presidente della Repubblica qualche tempo fa ha dichiarato che la legge elettorale avrebbe dovuto essere sottoposta a “opportune verifiche di costituzionalità”. Lo stesso Napolitano aveva sollevato dubbi, e non so se a diradarli siano state sufficienti queste piccole modifiche. Personalmente mi sembra che I dubbi di costituzionalità restino ancora tutti, anche se innanzitutto questa legge è un pasticcio.
Dal 31 gennaio alla Camera torna la riforma costituzionale. Che cosa accadrà?
Renzi si vanta di avere i voti e quindi staremo a vedere. Alcune parti di quella riforma, che però non sono sottoposte all’attenzione dell’opinione pubblica, sono sacrosante: mi riferisco in particolare all’abolizione del Cnel, che proposi già 30 anni fa quando ero senatore. Anche la riforma del rapporto tra Stato e Regioni, checché ne dica Renzi, era già stata attuata nel 1999.
Che cosa ne pensa della modifica del Senato?
E’ giusto modificare il bicameralismo paritario, ma continuo a credere che i senatori nominati per sette anni dal presidente della Repubblica non abbiano nulla a che vedere con un’autentica riforma di Palazzo Madama. E continuo a pensare che sarebbe un gesto nobilissimo da parte di Napolitano affermare che una volta terminato il suo mandato non intende fare il senatore a vita.
Sel ha attaccato Renzi affermando che l’agenda delle riforme la detta il Parlamento e non il governo. Lei che cosa ne pensa?
Il governo deve avere un’agenda e i parlamentari che sono stati eletti per sostenere il governo devono tradurla in pratica. Se Renzi è quindi in grado di fare funzionare la sua maggioranza parlamentare sui provvedimenti del governo, che riflettono l’agenda elettorale e le proposte fatte agli elettori, su questo ha il diritto di andare avanti. Ma sulle riforme costituzionali che riguardano il Paese è il parlamento che rappresenta compiutamente il Paese, mentre il governo rappresenta solo una parte e cioè la maggioranza che ha vinto le elezioni.
L’agenda del governo sta risentendo negativamente della fretta di fare le riforme?
L’agenda risente anche del problema della fretta, insieme a quello dell’ignoranza e della superficialità di alcuni dei componenti della squadra di governo, incluso il presidente del consiglio.
E di chi oltre a lui?
Il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, è una persona capace, eppure manca la sostanza. Il suo ruolo non è solo quello di fare fronte alle emergenze, come è il caso di Mafia Capitale, ma anche di dare risposte al fatto che la giustizia civile italiana funziona malissimo. Mi domando se il ministro Orlando darebbe un voto di sufficienza all’attività che egli stesso ha svolto finora.
Il ministro Orlando è l’ultimo della classe?
Non è affatto così, anzi ne ho grande stima. Ho stima anche per il ministro dell’Istruzione, Stefania Giannini, ma anche nel suo caso mi domando se lei si promuoverebbe. Il ministro non è riuscita a rilanciare l’attività di istruzione pubblica e di ricerca.
Perché abbiamo dei bravi ministri, come Orlando e la Giannini, che però non fanno le cose per le quali sono stati scelti?
Perché i ministri non sono stati scelti sulla base delle loro competenze e di una qualche pregressa attività parlamentare. Un politico che si dedica all’attività parlamentare ha molto da imparare. Nel Regno Unito e in Germania non si diventa ministri se non si è stati parlamentari per diversi anni. Invece in Italia sembra che i migliori ministri siano quelli che vengono dalla società civile, e le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti.
Pubblicata giovedì 18 dicembre 2014
Riforme, un’altra narrazione
“Altri, invece, pensano che nessun salto di qualitá potrá essere effettuato se non si produce una analisi seria e approfondita delle nuove narrazioni, se non si va ad un contraddittorio franco e duro”
Articolo pubblicato sul fascicolo 5/2014 della rivista “il Mulino”(pp. 738-748)

Riforme, un’altra narrazione
Naturalmente, i tempi nuovi richiedono, sostengono molti, nuove narrazioni. Richiedono anche nuovi narratori. Forse li abbiamo giá trovati. Qualcuno ritiene che é sufficiente che la narrazione sia nuova e che i narratori siano giovani affinché si ottenga un salto di qualità. Altri, invece, pensano che nessun salto di qualitá potrá essere effettuato se non si produce una analisi seria e approfondita delle nuove narrazioni, se non si va ad un contraddittorio franco e duro. Qui mi scapperebbe di aggiungere, ma sarebbe un appunto da “vecchia” narrazione, al fine di pervenire ad “una piú elevata sintesi”. Come non detto. Naturalmente, “contraddittorio” significa confronto sulle idee e sulle proposte contenute nelle nuove narrazioni. Non consiste in nessun modo nella derisione personale con la quale si travolgono gli eventuali interlocutori, magari approfittando delle proprie posizioni di potere politico. Ció detto, in questo breve articolo, mi eserciteró soltanto nell’analisi della narrazione istituzionale variamente e succintamente pronunciata dal presidente del Consiglio alla quale hanno finora fatto da eco tutti i suoi collaboratori senza eccezione alcuna.
Naturalmente non è vero che negli ultimi trent’anni di riforme non ne siano state fatte. Anche tralasciando la legge sulla Presidenza del Consiglio nel 1988, nello stesso anno giunse a compimento la sostanziale abolizione del voto segreto voluta da Bettino Craxi. Tre anni dopo, anche contro il famoso invito di Craxi ad andare al mare, il 62,5 per cento degli elettori italiani preferì andare a votare nel referendum sulla preferenza unica. Nel 1990 era già stata approvata una legge innovativa, per quanto priva di interventi sul sistema elettorale, sul riordino delle autonomie locali. Nel 1993, superata l’incerta giurisprudenza della Corte Costituzionale in materia elettorale, gli italiani furono in grado di dare una spallata consapevole e decisiva alla legge elettorale proporzionale e, nella stessa tornata, abolirono il finanziamento statale dei partiti e tre ministeri: Agricoltura, Partecipazione Statali, Turismo e Spettacolo. Per evitare un referendum che avrebbe cambiato in senso fortemente maggioritario la legge per l’elezione dei comuni e delle province, nello stesso anno il parlamento approvò la tuttora vigente legge in materia che ha dato ottima prova di sé. Nel 2001 il centro-sinistra formulò cambiamenti significativi giungendo fino, così si vantarono i legislatori, “ai limiti del federalismo” (quello allora alla moda), ai rapporti Stato/enti locali, Titolo V, che poi, per consolarsi delle elezioni perdute, sottopose a referendum, vincendolo, nell’ottobre 2001. Nel 2005, il centro-destra fece approvare dai suoi parlamentari sia la legge elettorale nota come Porcellum sia un’ambiziosa riforma della Costituzione: 56 articoli su 138. Anche se smantellato dalla Corte costituzionale, il Porcellum è ancora con noi, mentre il centro-sinistra fece bocciare dall’elettorato in un referendum tenutosi nel giugno 2006 l’intera, pasticciata, riforma costituzionale del centro-destra. Nessun rimprovero, nessun rimpianto.
Dunque, seppure controverse e scoordinate, molte riforme sono state fatte e approvate dal 1988 ad oggi. É stupefacente come i mass media non siano stati in grado oppure non abbiano voluto controbattere con dati durissimi le affermazioni propagandistiche del presidente del Consiglio, del suo ministro per le Riforme Istituzionali, dei suoi costituzionalisti (ma anche di qualche improvvisato politologo) di riferimento che si presentano come i riformatori venuti dal nulla.
Oltre alle riforme costituzionali e istituzionali, da circa quindici anni a questa parte, seppur faticosamente, nel centro-sinistra, nella pratica ante litteram prima, poi, quello che più conta, nello Statuto del Partito democratico, è stata introdotta una riforma molto importante, fra l’altro, decisiva per la stessa carriera politica di Matteo Renzi: le elezioni primarie. Non è il caso di andare alla ricerca dei diritti di primogenitura (ma poiché carta canta, anche quella della rivista “il Mulino”, l’esercizio è facilmente fattibile. É sufficiente sfogliare l’indice degli articoli pubblicati negli anni novanta). Certamente, fra i fautori delle primarie non troveremo i costituzionalisti dell’attuale presidente del Consiglio. Non troveremo i professoroni. Non troveremo neppure i “gufi”. Troveremo, invece, coloro, pochissimi, che hanno sempre creduto e scritto che nessuna riforma, neanche la più tranchante, delle istituzioni, è in grado di produrre, da sola, un miglior funzionamento del sistema politico se non riesce a trasformare i partiti politici che, per quanto indeboliti, ma meno di quel che si crede, rimangono centrali. Chi sottovaluta l’importanza delle primarie e dei rapporti “istituzioni-partiti” è destinato a fare riforme brutte che avranno cattive conseguenze.
Naturalmente, non è vero che la riforma del Senato porrebbe, se andasse in porto, fine al bicameralismo perfetto. Infatti, il bicameralismo italiano, se le parole hanno un senso e in politica sarebbe sempre opportuno che lo avessero, non è mai stato perfetto (aggettivo che si riferisce al funzionamento). É sempre stato indifferenziato e paritario, aggettivi che si riferiscono alle strutture e ai poteri. Non è neppure vero che la lentezza del processo legislativo in Italia sia attribuibile all’esistenza di due Camere. Infatti, come ripetutamente evidenziano i presidenti di Camera e Senato, sbagliando ripetutamente, poiché considerano il numero delle leggi approvate il segnale che il parlamento fa le leggi, mentre le leggi le fa il governo spesso saltando il parlamento con la decretazione e umiliandolo con i voti di fiducia, entrambe le Camere sono sempre state molto operose. Anno dopo anno, un po’ meno di recente, fanno (meglio approvano) molte leggi, all’incirca quattro volte di più di Westminster, la madre di tutti i Parlamenti, abbondantemente due volte di più di Bundestag e Bundesrat tedeschi e dell’Assemblea Nazionale e del Senato della Quinta Repubblica francese, tutti parlamenti bicamerali “imperfetti”, ovvero differenziati. Pertanto, né la quantità né la velocità della produzione legislativa costituiscono criteri convincenti a giustificazione della riforma del Senato per porre fine ad un bicameralismo che perfetto non è mai stato, ma che non ha in quasi nessun modo costituito l’intralcio principale o predominante all’azione del governo. Gli stessi commentatori che hanno, non proprio sobriamente, applaudito la riduzione del Senato a Camera delle regioni, hanno sempre pappagallescamente argomentato che il problema del modello di governo parlamentare all’italiana consiste nei pochi poteri a disposizione del presidente del Consiglio. Pare alquanto difficile sostenere che ridimensionando i poteri del Senato, fin quasi all’azzeramento sulle leggi del governo e sulla possibilità di chiamarlo a rendere conto del fatto, del non fatto e del malfatto, automaticamente il presidente del Consiglio italiano ne uscirà con potere istituzionale e politico rafforzato.
Naturalmente, nelle democrazie parlamentari, “forti” risultano essere i capi di governo che sono espressione di un partito grande, coeso, rappresentativo di più ceti sociali, che hanno esperienze di governo e che guidano una coalizione programmatica. Curiosamente, negli stessi giorni dell’epica battaglia di Palazzo Madama, battuto alla Camera dei deputati, il governo Renzi annunciava che avrebbe recuperato al Senato. No comment. Al momento, è soltanto possibile affermare che la riforma del Senato squilibra la democrazia parlamentare italiana. Non è una deriva autoritaria. Più italianamente, è la deriva di chi procede perseguendo tornaconti di immagine e di pubblicità di breve periodo poiché la sua incultura istituzionale non gli consente neppure di intravedere il lungo periodo.
Naturalmente, “non esiste proprio” che la disciplina di partito possa essere imposta sulle riforme costituzionali. Il solo pensiero è aberrante. Sentirlo dire e ripetere dai collaboratori di Renzi senza che nessuno dei commentatori e dai giornalisti rilevasse l’aberrazione è più che sconfortante. Primo, la disciplina di partito può essere richiesta ai parlamentari esclusivamente sulle materie inserite nel programma che il loro partito ha sottoposto agli elettori, sul quale ha ottenuto voti grazie ai quali quei parlamentari sono stati eletti, soprattutto quando esistono le liste bloccate. Il discorso potrebbe essere leggermente diverso se i parlamentari fossero stati eletti in collegi uninominali. In questo caso, alcuni approfondimenti e altre precisazioni sarebbero necessarie. Toccherebbe a quei parlamentari formularli anche come informazione da mettere a disposizione degli elettori, sicuramente interessati ed esigenti, dei loro collegi. La disciplina di partito può anche essere richiesta sul programma di governo concordato con gli indispensabili alleati, in particolare se i gruppi parlamentari sono stati coinvolti, come dovrebbero, nella definizione del programma di governo. Su altre, imprevedibili materie, ad esempio, le emergenze, ovvero problemi che sorgono improvvisamente e che necessitano una soluzione rapida, quella disciplina di partito non può essere richiesta, ma deve essere conquistata con consultazioni e anche con votazioni chiare e trasparenti.
Sulle modifiche costituzionali e sulle votazioni che riguardano persone, i parlamentari hanno la facoltà, se lo desiderano, di richiamarsi all’assenza di vincolo di mandato (art. 67). Tuttavia, il loro voto difforme da quello dei parlamentari del loro partito non può essere giustificato soltanto con il richiamo alla “coscienza”. Troppo facile e, qualche volta, persino ipocrita. Soprattutto un voto di coscienza non argomentato non comunica le indispensabili informazioni del parlamentare dissenziente agli altri parlamentari, al suo partito, agli elettori, all’opinione pubblica. Il voto di coscienza deve essere argomentato con riferimento alla “scienza”. In base alle conoscenze loro disponibili, ad esempio, relative al possesso da parte di un leader autoritario di armi di distruzione di massa, tutti i parlamentari sono sicuramente legittimati a negare il loro voto al governo di cui fa parte il loro partito. Quanto alle votazioni che riguardano persone -dall’autorizzazione all’arresto all’elezione del presidente della Repubblica e dei giudici costituzionali -, nessun parlamentare deve mai essere messo né trovarsi nella condizione di “scambiare” apertamente il suo voto con l’arrestando o con l’eligendo e neppure di temere che il suo voto possa essere ritorto contro di lui, i candidati ad alcune cariche di rilievo essendo notoriamente uomini già abbastanza potenti e, spesso, provatamente vendicativi.
Naturalmente, non è vero che non conosciamo la sera delle elezioni chi ha vinto (peraltro, dovrebbe interessarci sapere anche chi ha perso quanto e perché). Lo abbiamo sempre saputo giá con la legge elettorale proporzionale utilizzata nella prima lunga fase della Repubblica italiana. Abbiamo continuato a saperlo con il Mattarellum (1994, 1996, 2001). Non abbiamo avuto dubbi, tranne il maldestro tentativo berlusconiano di riconteggio dei voti nel 2006, con il Porcellum. Con qualsiasi legge elettorale si sa chi ha vinto appena finito di contare i voti. Però, in nessuna democrazia parlamentare è sufficiente sapere chi ha vinto, numeri (di voti e di seggi) alla mano. In tutti i sistemi multipartitici delle democrazie parlamentari è giusto attendere che siano i dirigenti di partito a decidere, magari con riferimento a quanto detto durante la campagna elettorale e agli eventuali precedenti, chi farà parte della coalizione di governo e a chi andranno le cariche ministeriali, compresa anche la più elevata. Per fare un solo esempio, non c’è stata neppure una elezione in Germania (la Gran Bretagna é un caso fin troppo facile) nella quale non si sia saputo la sera della chiusura delle urne chi aveva vinto. Senza nessuno scandalo, per due volte la vincitrice, Angela Merkel, ha saggiamente costruito governi di Grande Coalizione (2005-2009; 2013–). Supponendo che esista un sistema elettorale dal quale esca sempre un velocissimo vincitore, questo non proprio miracoloso fatto cambierebbe la qualità della politica, dei partiti, del governo? Condurrebbe alla tanto agognata, ma mai precisamente specificata, governabilità?
Naturalmente, tutti vogliono la governabilità. Pochi sanno definirla. Pochi conoscono le condizioni alle quali acquisirla, mantenerla, esercitarla. Dal Presidente del Consiglio in carica, Matteo Renzi, non abbiamo finora avuto indicazioni precise, ma, forse, sì. Sarà la legge elettorale chiamata Italicum che, grazie al suo premio di maggioranza, assicurerà la governabilità. Quindi, la governabilità è la conseguenza oppure il prodotto di una maggioranza assoluta creata artificialmente dalla legge elettorale che, nelle parole del presidente della Repubblica, riportate senza rilievo da alcuni quotidiani, ma mai discusse, contiene clausole che debbono sicuramente essere sottoposte a “verifiche di costituzionalità”. Facendo un opportuno passo indietro, poiché né la voglia di riforme né quella di governabilità sono nate poche mesi fa, tra la metà degli anni settanta e la fine degli anni ottanta vi fu un intenso, importante, persino appassionato dibattito politologico e sociologico sulla governabilità e, soprattutto, sulla sua crisi. Il cuore del problema era: “come debbono comportarsi i governi democratici e le loro istituzioni per fare fronte alle domande, molte e nuove, espresse dalle loro società mobilitate, esigenti, post-materialiste?” Alla crisi di “sovraccarico” si prospettarono due risposte: scoraggiare le domande. Esistono molte modalità di scoraggiamento, a cominciare dall’indifferenza a continuare con il palleggiamento di responsabilitá fra le autoritá e le istituzioni a finire con lo scarico di responsabilitá, ad esempio, sull’Unione europea e sulla Troika. Oppure accrescere la capacità delle istituzioni. Esistono soluzioni anche per questo piú delicato compito. A quei tempi, qualcuno rilevò anche che, nei sistemi politici non soltanto europei nei quali un partito di sinistra al governo riusciva a convincere sindacati e organizzazioni imprenditoriali a entrare in rapporti di collaborazione e a concordare le politiche, la crisi di governabilità era di limitato impatto e trovava (trovó) soluzioni praticabili.
Accordi di non breve periodo fra governi, partiti, associazioni sindacali e organizzazioni imprenditoriali, che tecnicamente si chiamano “neo-corporativismo”, vanno contro tutte le indicazioni e i suggerimenti che certi “autorevoli” editorialisti danno da anni a tutti i governanti italiani di turno (un po’ meno a Berlusconi) intesi a porre fine a qualsiasi forma di concertazione e a “spezzare le reni” ai gruppi di interesse dei più vari tipi, senza nessuna distinzione. In seguito, si sostenne che la governabilità dipende dalla stabilità degli esecutivi e che, di conseguenza, le leggi elettorali che insediano maggioranze assolute sono la (semplicistica, illusoria, è sufficiente leggere la storia inglese degli anni sessanta e settanta) soluzione: stabilità governativa eguale governabilità. Qualcuno aggiunse che la stabilità governativa è soltanto una premessa per l’esercizio dell’efficacia decisionale, magari in maniera molto veloce. In attesa di qualche criterio per valutare l’impatto e la qualità delle decisioni, anche in materia costituzionale, ci si può fermare, piuttosto perplessi, qui.
Naturalmente, i referendum costituzionali non li chiedono i governi. Eppure questo è l’annuncio ripetuto, prima e dopo la riformetta del Senato, dal ministro Maria Elena Boschi e dal presidente del Consiglio. Entrambi, davvero generosamente, hanno aggiunto la paradossale concessione che il governo farà deliberatamente mancare nella seconda lettura la maggioranza dei due terzi (maggioranza che, comunque, al Senato, se la sogna) per consentire ovvero, addirittura, per chiedere lui stesso un referendum popolare sulle riforme costituzionali. I referendum chiesti dai governi hanno un nome chiarissimo. Sono plebisciti. Restano tali anche quando i referendum costituzionali li chiese de Gaulle che, da leader carismatico quale sicuramente fu, voleva proprio un plebiscito sulla sua persona. Quando gli fu negato, guarda caso proprio sulla riforma del Senato nel 1969, sdegnosamente, ma in maniera impeccabilmente responsabile, se ne andó a Colombey-les deux églises a completare quell’eccezionale documento letterario che sono le sue memorie. Secondo l’art. 138, i referendum costituzionali possono essere chiesti da un quinto dei parlamentari di una o dell’altra Camera oppure da cinque consigli regionali o da 500 mila elettori. Naturalmente, non Renzi, capo del governo, ma Renzi segretario del Partito democratico ha la facoltá di invitare (obbligare, magari, no) i suoi parlamentari, le maggioranze consiliari in cinque regioni, gli iscritti e i simpatizzanti del Partito democratico a chiedere il referendum. Tuttavia, la striscia plebiscitaria si vedrebbe comunque. Purtroppo, il centro-sinistra, popolato da “quelli che… la Costituzione più bella del mondo”, fecero, come ho rilevato sopra, questa superflua e brutta torsione referendaria nel 2001, creando un precedente. Non è, però, il caso di insistere nella proposta di un’operazione che spetta, se lo vorranno, alle minoranze, e che sarebbe costosa in termini di denaro, di tempo e di energie. Anzi, il governo deve essere fortemente scoraggiato a esercitarsi in inutili prove di forza. Impieghi piuttosto le sue e le nostre risorse in modi piú produttivi.
Naturalmente, chi conosce le Costituzioni sa che sono state costruite in maniera sistemica, vale a dire che, soprattutto le migliori, hanno tenuto conto dei rapporti e delle interazioni che si stabiliscono fra le istituzioni e che conducono a una varietà di esiti. In un certo senso, i limiti al potere di una istituzione sono posti dal potere di un’altra istituzione. Tecnicamente, spesso se ne parla come di checks and balances, freni e contrappesi. Se ad un’istituzione si danno poteri significativi strappandoli ad un’altra istituzione allora bisognerà trovare contrappesi altrove. Talvolta ci si trova anche in situazioni di inter-institutional accountability, vale a dire che ciascuna istituzione ha responsabilitá che deve osservare nei confronti delle altre, e viceversa. La prendo alla larga per farla facile. Se il rapporto “governo-parlamento” viene squilibrato togliendo molto, quasi tutto il potere che il Senato ha nei confronti del governo e abolendo la responsabilizzazione del governo nei confronti del Senato, allora nella rimanente Camera dei deputati sarà opportuno che l’opposizione parlamentare acquisisca maggiori poteri di ispezione e di controllo sul governo. Tuttavia, non si tratta soltanto di questo come rivela una valutazione congiunta, seria e comprensiva del progetto di riforma elettorale. Tralascio le giravolte compiute dal premier a partire dalla presentazione in gennaio di addirittura tre progetti diversi di legge elettorale per approdare ad un testo che non rifletteva nessuno dei tre. Tralascio anche il frequente e ripetuto riferimento alla formula sindaco d’Italia, ma almeno un commento deve essere fatto. In qualsiasi salsa, “sindaco d’Italia” significa mutamento della forma di governo dell’Italia: da democrazia parlamentare a democrazia presidenziale, per di piú priva dei freni e contrappesi dei presidenzialismi migliori e irrigidita nei rapporti fra il sindaco/capo di governo e il Consiglio-Camera dei deputati. A prescindere che non esiste nulla di simile altrove, non c’é nessuna garanzia che quanto funziona a livello locale riesca automaticamente funzionare a livello nazionale.
Per quel che riguarda l’Italicum nella sua versione approvata alla Camera dei deputati, mi limito, per il momento, alle osservazioni che, proprio perché sono le piú semplici, dovrebbero fare ripensare tutta la legge. Primo, se la Corte costituzionale “condanna” le liste bloccate perché impediscono all’elettore di esercitare il suo diritto di scelta fra i candidati al parlamento perché mai liste corte, ma ugualmente bloccate, sarebbero accettabili? Criticamente, rilevo che la Corte si fa davvero delle illusioni se ritiene accettabili liste “nelle quali il numero dei candidati da eleggere sia talmente esiguo da garantire l’effettiva conoscibilità degli stessi e con essa l’effettività della scelta e la libertà del voto”. Attendiamo, comunque, di sapere quanto esiguo debba essere quel numero. Non dobbiamo attendere per sapere che sicuramente ci saranno in quelle liste “corte” numerosi imboscati.
Nel giugno 1991, gli elettori approvarono contro l’esplicita opposizione di quasi tutti i dirigenti di partito il quesito sulla preferenza unica. Naturalmente, é possibile sostenere che quegli elettori volevano molto di piú. Il minimo comune denominatore era allora e rimane oggi una sola (non nessuna) preferenza. Un solo voto di preferenza non puó essere scambiato (e moltiplicato) da cordate di candidati che si strutturano in correnti o che trattano con gruppi esterni. Una sola preferenza significa che gli elettori hanno un po’ di potere che, per quanto poco, é meglio di niente. Chi risponde a queste obiezioni che personalmente preferisce i collegi uninominali al voto di preferenza puó, naturalmente, attivarsi per cambiare tutto l’impianto della legge. Altrimenti, voti per la “concessione” di una preferenza che toglie dalle mani dei dirigenti la nomina dei parlamentari. Con quella preferenza l’Italia entrerá nel club delle democrazie parlamentari europee, ventitré delle quali (su ventotto) hanno qualche forma di voto di preferenza. Seconda osservazione, se la Corte dice che il premio di maggioranza va attribuito stabilendo in anticipo una soglia minima, quella soglia va determinata percentualmente e la sua entitá argomentata in maniera convincente affinché, torno al cuore dei sistemi elettorali, conferisca effettivo potere al voto degli elettori. Esiste un solo modo per accrescere il potere degli elettori: stabilire che, a prescindere dalle percentuali ottenute, si procederá comunque al ballottaggio fra i due partiti e le due coalizioni piú votate consentendo, come giá si fa nel caso di ballottaggio fra candidati sindaco, l’apparentamento fra liste. Rimarrebbe, lo so benissimo, il rischio che il premio (se fisso) attribuito a un partito non sia sufficiente affinché quel partito o coalizione per raggiungere la maggioranza assoluta alla Camera. Tant pis o tanto meglio se questo è deciso dall’elettorato. Fra le clausole, si potrebbe anche aggiungere che, in caso di suo dissolvimento, la coalizione premiata perderá i seggi aggiuntivi che saranno redistribuiti proporzionalmente.
Mi rendo conto che sto entrando in dettagli tecnici, quelli dove si annida, soddisfatto, compiaciuto e competente il diavolo e, temporaneamente, mi fermo. Il punto vero, comparso improvvisamente alle non sistemiche menti dei riformatori elettorali, é che il premio in seggi avrá effetti anche sull’elezione ad opera del parlamento di molte cariche, a partire dai giudici costituzionali (con il rischio di dare vita ad una Corte palesemente di parte), ma soprattutto sull’elezione del presidente della Repubblica. Non mi arrampicheró sugli specchi dove i riformatori stanno cercando di trovare altri Grandi Elettori che evitino alla “premiata” maggioranza elettorale di diventare allegramente maggioranza presidenziale (spero, con la salvaguardia del voto segreto…). Credo che la soluzione possibile sia quella ventilata da coloro che pongono il quorum dei due terzi per le prime tre votazioni, andate a vuoto le quali si passerebbe ad un ballottaggio fra i due candidati piú votati affidato a tutto l’elettorato italiano. Poiché credo nella capacitá degli uomini e delle donne di apprendere e di tenere conto dei requisiti della carica che occupano, ci sarebbero molte buone probabilitá che l’eletto/a si comporterebbe da rappresentante “dell’unitá nazionale”. A prescindere dalla soluzione,quello che appare chiaramente é come sia imperativo tenere conto degli effetti sistemici di qualsiasi riforma, mentre nella loro sregolatezza i riformatori non hanno inizialmente avuto neppure la minima consapevolezza del problema complessivo.
Al supermercato delle istituzioni, delle regole, dei meccanismi é disponibile un po’ di tutto, ma chi vuole riformare una Costituzione, deve sapere che non é dal supermercato che otterrá quello di cui ha bisogno, ma dalla elaborazione di un progetto sistemico. Oserei dire dei progetti sistemici formulati da architetti o ingegneri costituzionali e non solo. Opportunamente consultato, qualche politologo (purtroppo, non tutti) consiglierebbe di guardare in chiave comparata appunto ai sistemi politici, che non sono soltanto Costituzioni, che hanno dimostrato di funzionare in maniera (piú che) soddisfacente. Guardare al mondo animale: ai porcelli, ai canguri, ai gufi, pur tenendo conto delle differenze, non conduce all’altezza della sfida.
Alla fine di questa, pur sintetica, panoramica in quanto ognuno dei punti che ho sollevato ha dietro di sé un’ampia letteratura scientifica nonché numerosi casi di pratiche concrete, mi permetto di concludere con due considerazioni generali. La prima é che la cultura costituzionale del paese, in special modo dei politici, degli operatori dei media e dell’opinione pubblica appare tuttora tristemente non aggiornata. Sconta anche un incredibilmente elevato livello di servilismo e di conformismo che la rendo non adeguata a contrastare né le cannonate né i tweet della propaganda del governo e dei suoi quartieri. Seconda considerazione, senza procedere a opportune analisi comparate, che sono lo strumento per controllare ipotesi, generalizzazioni e aspettative, qualsiasi riforma rischia di non conseguire gli esiti promessi e sperati. Rimane molto spazio per miglioramenti, ma, naturalmente, anche per peggioramenti.
“il Mulino”, 5/2014, pp. 738-748
La libertà di scrivere senza censure

Avevo appena pubblicato, fine luglio 1977, il mio primo articolo su un quotidiano (“Il Giorno” diretto da Afeltra), con qualche critica al ruolo del PCI nel governo di solidarietà nazionale guidato da Andreotti che mi arrivò, durissima, la reprimenda dell’allora direttore de “l’Unità”, Emanuele Macaluso. Fu in un certo senso il mio incontro con il quotidiano “fondato da Antonio Gramsci”. Ovvio che lo leggevo già, non tutti i giorni, ma da allora la mia/nostra interazione divenne più frequente: qualche critica in più fino all’invito a collaborare nelle pagine della cultura. Ricordo, su commissione di Ferdinando Adornato, il responsabile di quelle pagine, un necrologio di Raymond Aron nell’ottobre 1983, una recensione al libro, Io, l’infame, del brigatista Patrizio Peci e una riflessione comparata sul fattore K, la tesi di Alberto Ronchey sul perché i comunisti occidentali non sarebbero mai andati al governo in quanto tali.
Non ricordo esattamente quando venni invitato anche a scrivere editoriali, con mia grande soddisfazione e con qualche eco nel corpo dei dirigenti di partito (che leggevano “l’Unità”). Infatti, fui spesso chiamato dal 1985 in poi nelle federazioni a discutere del tema allora dominante (sic): le riforme elettorali e istituzionali. Poiché avevo in sede di Commissione Bozzi suggerito, non il superamento della proporzionale, ma un sistema che arrivasse alla competizione fra due coalizioni con il ballottaggio per ottenere un premio di maggioranza, fui invitato a spiegarlo e a difenderlo in tutte le salse sulle pagine del giornale. Il dibattito era apertissimo anche se la linea ufficiale fu data da due editoriali, a distanza di un anno o poco più, con lo stesso titolo “La proporzionale è irrinunciabile”, firmati da Renato Zangheri e da Nilde Jotti. Qualche anno più tardi dal Presidente della Camera Giorgio Napolitano mi giunse un bigliettino autografo a chiedermi di “rettificare” le critiche che dalle pagine de “l’Unità” avevo indirizzato alla elaborazione del Mattarellum.
Cambiavano i direttori, D’Alema, Renzo Foa, Veltroni, Caldarola, ma, per mia fortuna, tutti continuavano a chiedermi commenti di prima pagina e interventi politici, compresa una recensione non proprio elogiativa ad un libro di Bruno Vespa sollecitatami da Veltroni. Scrivevo frequentemente e liberamente. Non mi fu mai chiesto di cambiare neppure una virgola. Quei direttori tanto diversi fra loro si limitavano a darmi il titolo dell’argomento: svolgimento libero. Nessun mio articolo fu mai cestinato e neppure messo in sala d’attesa per giorni e giorni. Come si capisce, non potrei dire altrettanto di alcune esperienze con altri quotidiani nazionali. Negli anni Duemila non tutti i Direttori che si susseguirono furono interessati alla mia collaborazione. Fui “ripescato” prima da Antonio Padellaro, con il quale intavolammo un dialogo fitto su alcuni miei editoriali, e da ultimo da Luca Landò.
Credo di avere scritto più di cento articoli per “l’Unità” e ne sono lietissimo. E’ stata un’esperienza gratificante di “battaglia” politica a viso aperto, di scambi e scontri di opinione, di diffusione di idee e proposte e di formulazioni, come si conviene al migliore dei giornali “politici”, di soluzioni. So che, non soltanto è troppo facile, ma è persino banale affermare che la cessazione della pubblicazione de “l’Unità” impoverisce in maniera significativa il già non proprio brillantissimo panorama dei quotidiani italiani, ma è decisamente così. In non pochi di questi quotidiani, la politica la fanno i resoconti dei giornalisti intrisi di preferenze politiche e apprezzamenti di leader. Forse, una sinistra che oscilla fra faziosità e tifo e che non dimostra nessun interesse per il confronto cultural-politico si merita di restare senza “l’Unità”, almeno per un po’. Personalmente, ma sicuramente non da solo, ne sentirò la mancanza.
Pubblicato su l’Unità del 31 luglio 2014
Cara Boldrini, ti scrivo …
Come non rallegrarsi? La Presidente della Camera annuncia agli italiani un bellissimo, ancorché imprecisato, regalo, se non di Natale, almeno per l’Anno Nuovo. Metterà il suo impegno prioritario al servizio di una nuova legge elettorale. Qualcuno, per esempio, Napolitano, che assistette impotente alla nascita del Mattarellum, oppure Casini, che non fece proprio un bel niente contro il Porcellum, dovrebbe comunicare all’on. Laura Boldrini che i Presidenti delle Camere non si immischiano in materie elettorali. Addirittura, il Presidente del Senato Grasso ha compiuto il suo atto politico più rilevante accettando, con un profondo respiro liberatorio e senza raccomandabili sensi di colpa, che la riforma della legge elettorale trasmigrasse dal Senato, nella cui Commissione Affari Istituzionali si era colpevolmente arenata, alla Camera. Ciò detto, a nessuno sono note, non le preferenze, che la Presidente Boldrini vorrà pure comunicare agli italiani “popol suo”, ma le sue competenze “elettorali”.
Una new entry nel dibattito già abbondantemente inquinato da incompetenti, da plagiatori, da approfittatori e da frenatori, dovrebbe sentirsi obbligata a fare chiarezza sul traguardo che si prefigge e. dato il suo potere, sulle modalità con le quali intende perseguirlo e conseguirlo. I proclami vuoti, anche quando sono espressi dai nuovi politici, sono quel che di peggio la vecchia politica ci ha lasciato. La Presidente Boldrini ha sicuramente voluto gettare il suo cuore buonista oltre l’ostacolo rappresentato dai mattarelli e dai porcelli, dai doppio turnisti di coalizione e dai proporzionalisti. Adesso, è lecito attendersi che chiarisca in che modo solleciterà i “suoi” deputati a procedere spediti verso l’approvazione di una riforma, in tempi decenti, che non irritino la suscettibilità dei giudici costituzionali. Soprattutto, nella sua prossima ventura esternazione, dovrà regalarci una spiegazione convincente del modello al quale dovrà ispirarsi la nuova legge elettorale. Questa è, cara Presidente, trasparenza e assunzione di responsabilità.
Arlecchino e le riforme elettorali
Di leggi elettorali ne abbiamo viste di tutti i colori e di proposte di riforma ne abbiamo sentite di troppi tipi. Quelle che abbiamo visto all’opera, proporzionale con preferenze della prima fase della Repubblica, Mattarellum dal 1994 al 2001, proporzionale con liste bloccate e premio di maggioranza, ovvero, anche secondo la Corte Costituzionale, un vero Porcellum, utilizzato tre volte: 2006, 2008, 2013, non sono state soddisfacenti. Tutte avevano dei problemi, grossi; più di tutte il Porcellum. Dunque, fare di meglio non dovrebbe essere impossibile e neppure troppo difficile. Invece, un po’ tutti i partiti, tutti i dirigenti e i loro esperti di riferimento, nonché la maggioranza dei parlamentari ragionano in base a due presupposti paralizzanti. Primo, quale è la legge elettorale che farà vincere il mio partito (e, di conseguenza, mi salverà il seggio)? Secondo, quale è la legge elettorale che funziona meglio per me/noi in questo contesto (che molti definiscono tripolare)?
La ricerca di vantaggi particolaristici, per di più nel breve periodo,è il modo più sicuro per fare una brutta legge elettorale destinata ad essere variamente criticata, mai pienamente accettata e, quel che più conta, a funzionare male. L’unico criterio che i sedicenti riformatori elettorale dovrebbero usare è quello del potere dei cittadini-elettori. Qual è, pertanto, la legge elettorale che dà più potere agli elettori? Senza disperdersi nel sogno di una legge elettorale perfetta, che non esiste, ma ci sono leggi elettorali ottime come quella tedesca, proporzionale personalizzata con clausola di accesso al Parlamento), e come quella francese (maggioritaria a doppio turno in collegi uninominali), entrambe imitabili e facilmente importabili, sembra opportuno prendere le mosse da quel che conosciamo meglio. D’altronde, i riformatori elettorali italiani non hanno affatto saputo inventare qualcosa di particolarmente apprezzabile.
Sembra che nessuno desideri ritornare alla proporzionale di un tempo che fu, anche se non sono pochi quelli che desidererebbero il voto di preferenza (facilmente surrogabile dai collegi uninominali). Impossibile ripresentare qualsivoglia variante del Porcellum dichiarato incostituzionale (e brutto) dalla Corte Costituzionale. Non resta, fra i sistemi noti, che il Mattarellum. Non è né ottimo né pessimo. E’ perfezionabile. Tre quarti dei parlamentari (sperabilmente dei soli deputati se il Senato verrà profondamente riformato) sono eletti con sistema maggioritario in collegi uninominali dove candidati e elettori dovranno”metterci la faccia”. Un quarto dei deputati è eletto con il recupero proporzionale. Consente ai partiti e alle coalizioni che lo vogliano di designare il loro candidato a capo del governo.
Il Mattarellum non svantaggia a priori nessuno e non avvantaggia nessuno. Non ha bisogno di voti di preferenze neppure di premi di maggioranza. Con qualche ritocco, per evitare liste civetta, ovvero false, e per meglio distribuire il recupero proporzionale, funzionerà adeguatamente. Soprattutto, nelle condizioni date, può essere il più facile e conveniente punto di convergenza e di approdo delle principali forze politiche: dal Partito Democratico al nuovo veicolo di Berlusconi, “Forza Silvio”, alla Lega, persino al Movimento Cinque Stelle. Alfano lo teme perché dovrebbe cercarsi alleati da posizioni di debolezza, ma in un anno e mezzo, l’orizzonte che Renzi e Letta danno al governo, il Nuovo Centro Destra potrebbe riuscire a rafforzarsi sul territorio. Poiché la nuova discussione su quale legge elettorale approvare comincerà alla Camera dove il Partito Democratico ha una ampia maggioranza partorita dal premio del Porcellum, al PD spetterà la prima mossa. Saggezza istituzionale suggerisce che il Mattarellum ritoccato ha buone probabilità di viaggiare veloce verso la approvazione. Tutto il resto appare alquanto, forse troppo, problematico. Chi la tira per le lunghe rischia, nel tempo dell’anti-politica e del populismo telematico, di tirare le cuoia.



