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Diseguaglianze e opportunità nell’era della globalizzazione #intervista @CdT_Online
Intervista raccolta da Osvaldo Migotto
Il politologo Gianfranco Pasquino, domani a Lugano per una conferenza, vede grandi sfide per le nuove generazioni
La scalata sociale oggi appare più difficile che in passato ma il meccanismo varia da Paese a Paese – Fondamentale resta il ruolo della cultura
Professor Pasquino, la sua conferenza a Lugano apre un ciclo di incontri dal titolo «Luci e ombre della globalizzazione». Vista la situazione economico-sociale in Europa, nella globalizzazione lei vede più luci o più ombre?
La globalizzazione di per sé produce notevoli opportunità, ma contiene anche grandi sfide, per cui bisogna sapersi organizzare per sfruttare al massimo le opportunità. Una delle sfide dipende dal fatto che l’economia finanziaria è molto più veloce delle capacità di reazione finora mostrate da Parlamenti e da Governi. I capitali sono inoltre molto più forti di ciascun singolo Stato. Anche gli Stati Uniti sono esposti a questo rapido movimento di capitali, per cui la risposta a questa sfida dovrebbe essere sovranazionale, ma qui si presenta un problema.
Nel senso che non esistono istituzioni sovranazionali in grado di gestire tale sfida?
Non esistono istituzioni in grado di gestire tutta la situazione. In alcuni casi è stato invece possibile gestire singole sfide, come ha mostrato ad esempio la Banca centrale europea. Anche i vari commissari dell’UE hanno saputo imporre a Google di smetterla di operare in regime di monopolio, di pagare le tasse e via dicendo. Si tratta dunque di una sfida in corso.
Misuriamo l’andamento economico di un Paese in base alla crescita del PIL (Prodotto interno lordo), quale strumento va usato per misurare le diseguaglianze?
Alcuni strumenti esistono e vengono usati dalle Nazioni Unite. Viene ad esempio misurata la salute dei cittadini e il livello d’istruzione. Quello che non possiamo misurare con precisione è la felicità delle persone. Però anche qui stanno emergendo delle possibilità di misurazione e quindi riusciamo ad andare oltre il PIL. Va però precisato che, se il PIL non cresce, tutte le altre misure di cui ho parlato sono insoddisfacenti.
Crede che la scalata sociale sia più facile oggi, ai tempi della globalizzazione, o nei decenni che l’hanno preceduta?
Su questo i dati sono abbastanza concordi, ossia oggi è più difficile passare da situazioni di relativo disagio a situazioni di grande soddisfazione lavorativa, culturale e così via. Non direi che questo meccanismo si sia interrotto del tutto, però bisogna verificare Paese per Paese. Nel caso italiano le speranze di chi aveva vent’anni negli anni Sessanta e di chi ha vent’anni oggi sono molto diverse. Le aspettative oggi sono molto meno ottimistiche.
In Europa molti giovani cercano di far fruttare all’estero quella formazione universitaria o di altro tipo che in casa propria non ha permesso loro di trovare un lavoro adeguato. È anche questa una via per aggirare le diseguaglianze?
Il poter girare il mondo alla ricerca di un lavoro che piace rappresenta uno degli aspetti positivi della globalizzazione. In questo modo è inoltre possibile aggirare le diseguaglianze in quanto ci sono dei Paesi più aperti al merito, al talento e alla voglia di fare e Paesi dove invece è meno facile far valere queste doti personali. Il paradosso è che il Regno Unito era molto aperto su questo fronte e ora con la Brexit finirà per chiudersi e per questo pagherà un prezzo. L’Italia invece è sempre stata molto meno dinamica come società.
Chi ha alle spalle una famiglia benestante può contare su una migliore formazione scolastica e su conoscenze che facilitano l’inserimento nel mondo del lavoro. Oggi questi vantaggi creano più che in passato un fossato tra giovani fortunati e giovani meno fortunati?
Se la società è statica le risorse che possiede la famiglia sono molto più importanti che in passato. Però bisogna fare molta attenzione all’elemento culturale, perché qui vi sono delle differenze importanti anche tra famiglie con lo stesso livello di reddito. Se in una di queste famiglie vi è grande disponibilità a investire in cultura, ossia se vi sono molti libri in casa, vi sono anche maggiori opportunità per i figli. Se al contrario una famiglia è ricca e ha anche delle relazioni, ma non riesce a diffondere la cultura, si troverà in una situazione meno favorevole. Per cui l’elemento culturale è quello più incisivo nel favorire lo sviluppo di una società.
Che legami vede tra partiti populisti e giovani?
I giovani mi sembrano più inclini ad essere dinamici e a cercare soluzioni, mentre i partiti populisti alla fine sono conservatori nel senso che vogliono mantenere quello che hanno all’interno dei loro confini.
Pubblicato il 4 marzo 2020 sul Corriere del Ticino
Le diseguaglianze e la qualità della democrazia @laregione @laR_Lugano
Intervista raccolta da Ivo Silvestro
Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza politica a Bologna, sul futuro delle democrazie confrontate con crescenti disuguaglianze economiche
“Diseguaglianze: precisazioni, problemi, proposte” è il titolo della conferenza che Gianfranco Pasquino, professore Emerito di Scienza Politica all’Università di Bologna, terrà giovedì 5 marzo alle 18 alla biblioteca cantonale di Lugano. L’incontro apre il ciclo “Luci e ombre della globalizzazione” del Club Plinio Verda.
Professor Pasquino, in democrazia siamo tutti uguali – per quanto riguarda diritti civili e politici, mentre le disuguaglianze economiche non sarebbero un problema. Ma una persona molto ricca non ha, anche politicamente, più potere degli altri cittadini?
Sicuramente: senza uguaglianza di diritti civili e politici non possiamo parlare di democrazia, ma possiamo parlare di democrazia di fronte a diseguaglianze economiche.
Tuttavia queste disuguaglianze economiche possono avere un impatto sulla democrazia, sulla qualità della democrazia. Una democrazia in cui i ricchi possono “comprarsi le elezioni” evidentemente è una democrazia che valutiamo negativamente rispetto a una democrazia in cui tutti i cittadini hanno quasi lo stesso potere politico: l’obiezione quindi non è tanto verso coloro che diventano ricchi, ma alla loro capacità di influenzare le politiche che a loro volta favoriranno ancora di più i ricchi. Questa situazione sta diventando intollerabile in alcuni Paesi, iniziando dagli Stati Uniti.
Spesso si sente dire che non è un problema se i ricchi diventano più ricchi – se al contempo i poveri diventano meno poveri. Insomma, le disuguaglianze economiche non sarebbero di per sé un problema.
Il problema è come i ricchi usano le loro risorse per proteggere la loro posizione, per accrescere la loro ricchezza e per controllare il potere politico: questo è un cardine del liberalismo che nasce per dire che ogni uomo, e ogni donna, ha un voto e questo voto conta allo stesso modo. Ma nel momento in cui chi ha più soldi riesce a comprare i voti, riesce a comprare le decisioni degli eletti, nella democrazia entra una discriminazione economica molto dannosa e che incide sul principio dell’eguaglianza politica dei cittadini.
Dovremmo quindi pensare a una incompatibilità tra capitalismo e democrazia? Perché sembra che o il capitalismo fagocita la democrazia, oppure la democrazia impone pratiche redistributive della ricchezza.
Finché il capitalismo rimane competitivo è compatibile con la democrazia – che a sua volta deve essere competitiva, perché se c’è un unico capitalista e c’è un unico governante non siamo più in una democrazia.
La compatibilità quindi c’è, ma c’è anche una forte tensione perché i capitalisti cercano naturalmente di arricchirsi, e di controllare il potere politico affinché non proceda a quella ridistribuzione di cui lei parlava. D’altro canto la democrazia deve basarsi sul potere dei numeri, sulla costruzione di maggioranze popolari.
Il conflitto c’è, e non può che essere risolto attraverso maggioranze che si formano intorno a una certa idea di democrazia, a una certa idea di sistema economico, a una certa idea di società in cui ci sia un minimo di ricerca di uguaglianza, un minimo di opportunità per tutti.
In concreto, cosa dovremmo fare? Impedire alle persone di arricchirsi troppo?
La democrazia non deve porre alcun limite all’arricchimento. La democrazia, o meglio i democratici, intervengono nel momento in cui quei soldi vengono utilizzati per manipolare le elezioni, per influenzare la politica a proprio vantaggio.
Quindi se mi chiede se deve esserci un limite all’arricchimento, la risposta è no. Ma ci devono essere limiti all’uso di quei soldi, quindi una legge vera sul conflitto d’interesse, una legge vera sul finanziamento della politica.
Democrazia e disuguaglianze economiche possono quindi coesistere con regole serie.
Regole serie e severe. Il potere economico non deve controllare il potere politico e a sua volta il potere politico non deve controllare il potere economico. Devono essere in competizione tra di loro, però con delle regole che stabiliscono che non possono esserci dei vincitori per sempre, che i vincitori non possono opprimere coloro che perdono.
Persone molto ricche possono influenzare la società al di là della politica. Un amante del jazz potrebbe finanziare scuole e festival solo di questo genere, penalizzando rock e classica. L’esempio può apparire banale, ma se lo applichiamo anche all’arte, alla letteratura, al cinema le (legittime) preferenze di pochi possono cambiare una società.
Con il finanziamento di queste attività lei pone un caso molto interessante. Ma se il sistema è competitivo, ci saranno altri ricchi che finanzieranno altre attività, in competizione. E anche per i cittadini ci sono possibilità, attraverso il cosiddetto crowdfunding, di finanziare a loro volta certe attività culturali.
Se avviene in maniera trasparente e in una situazione di competizione, il finanziamento di attività culturali non pone problemi.
La competizione è quindi essenziale.
Sì. Pensiamo alle primarie democratiche negli Stati Uniti. In corso ci sono dei milionari e non è affatto detto che Michael Bloomberg riuscirà a vincere. Finché c’è una situazione competitiva, c’è la possibilità di tenere sotto controllo: una volta ottenuta la nomination e magari anche diventato presidente, ci dovrà essere una legge sul conflitto d’interesse.
Il suo intervento apre il ciclo ‘Luci e ombre della globalizzazione’. In tutto questo discorso, la globalizzazione che ruolo ha?
Innanzitutto la globalizzazione è un fenomeno in corso, per cui possiamo valutarla in questo momento ma sappiamo che non possiamo fermarla – e non dovremmo neanche.
Ha prodotto arricchimento in zone del mondo che erano molto povere, a iniziare dalla Cina ma non solo. Ha prodotto una crescita di disuguaglianze ma l’uscita dalla povertà di milioni di persone. È quello che diceva all’inizio: se i ricchi diventano più ricchi ma al contempo i poveri diventano meno poveri, va benissimo – entro certi limiti, naturalmente.
La globalizzazione ha prodotto tutto questo e adesso però ci rendiamo conto che abbiamo bisogno di poter controllare come la ricchezza si va formando, di strumenti per impedire ad esempio che le corporation vadano in cerca di paradisi fiscali.
Strumenti sovranazionali: ma ci sono istituzioni internazionali che possano farlo?
L’Unione europea qualcosa sta facendo. Il resto ovviamente viene affidato a organizzazioni internazionali, alcune hanno sufficienti poteri altre non ancora. Ma certo la globalizzazione richiede un governo mondiale, o quantomeno misure prese a livello di Nazioni unite che cerchino di mitigare l’impatto che alcuni aspetti della globalizzazione sta avendo. Noi adesso stiamo parlando di ricchezza, di soldi, ma dovremmo parlare anche di clima e di commercio internazionale: quello che Trump sta facendo a livello di dazi è molto negativo, a livello di controllo delle ricchezze e delle diseguaglianze.
Ultima domanda: sul futuro della democrazia è più ottimista o più pessimista?
Se guardo a quello che è già successo, sono relativamente ottimista. Negli ultimi trenta-quarant’anni il numero di regimi che possiamo ragionevolmente ritenere democratici è cresciuto. Siamo passati grosso modo da una trentina di democrazie a novanta democrazie. C’è una spinta alla creazione di regimi democratici.
Ma al contempo vediamo in alcuni contesti erosioni delle regole democratiche, pensiamo a Orbán che in Ungheria cerca di controllare la stampa…
Quella che lui chiama ‘democrazia illiberale’.
Certo, ma se mi capiterà lo dirò sicuramente durante la conferenza: la democrazia illiberale non esiste. Senza i principi del liberalismo la democrazia non esiste.
Pubblicato il 4 marzo 2020 su laregione.ch
Rileggete Huntington. Segnalò rischi reali @La_Lettura #vivalaLettura
A circa un quarto di secolo dalla sua pubblicazione qual è la validità della tesi di Samuel P. Huntington contenuta nel libro The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order (1996, trad. it. Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti 1997)? Per rispondere correttamente bisogna preliminarmente chiarire qual’era effettivamente la tesi del grande politologo di Harvard scomparso ottantunenne nel 2018. Infatti, la maggior parte dei molti, spesso faziosi, critici di Huntington sembra essersi fermata alla prima parte del titolo e non avere mai letto la seconda. Per di più, molti di loro hanno fatto di Huntington una specie di sostenitore e cantore della necessità dello scontro fra le civiltà, non solo inevitabile, ma addirittura auspicabile. Al contrario, Huntington intendeva mettere in rilievo gli elementi e gli sviluppi che sembravano portare a un possibile scontro fra le civiltà proprio affinché i policy makers, con i quali aveva avuto frequenti e controversi rapporti nella sua attività accademica e di consulente, ne fossero consapevoli e approntassero opportuni rimedi. Come per l’altrettanto giustamente famoso libro del suo allievo Francis Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo (1991, trad. it. 1992), ugualmente letto male e peggio interpretato, è il crollo del muro di Berlino e del comunismo a stare a fondamento dell’interrogativo/obiettivo che si pone Huntington. La ricostruzione di un ordine mondiale sarebbe stata resa più facile dalla fine dello “scontro” fra le liberal-democrazie contro i comunismi realizzati e dalla vittoria delle prime? “Il futuro non sarà più dedito ai grandi, vivificanti scontri di ideologie, ma piuttosto a risolvere concreti problemi economici e tecnici”, che è la sintesi del libro di Fukuyama proposta da Huntington (p. 29), oppure altro si affacciava all’orizzonte e le sue premesse erano già visibili a chi disponeva di adeguati strumenti conoscitivi?
Il contenuto del libro di Huntington richiede ai lettori, ai critici, agli “interpreti” la capacità di combinare elementi di cultura politica in senso lato (cultura è una traduzione migliore di “civiltà”) con conoscenze di relazioni internazionali. Non può stupire che la recensione del libro di Huntington pubblicata sulla prestigiosa “American Political Science Review” (16 mila abbonati in tutto il mondo) fu affidata a un prestigioso studioso di Relazioni Internazionali , Richard Rosecrance. Infatti, Huntington non è interessato alle “civiltà” (o culture politiche) in quanto tali, ma al loro impatto sulla (ri)costruzione di un ordine mondiale. “Finita la storia” della Guerra Fredda durante la quale l’ordine mondiale, seppure con molte anche sanguinose slabbrature, era stato mantenuto dal bipolarismo USA/URSS, in che modo e da chi e che cosa sarebbe emerso un nuovo ordine mondiale? È in atto un’intensa discussione sull’esistenza durante la Guerra Fredda, di un ordine politico internazionale liberale fatto da istituzioni come il Fondo Monetario Internazionale, la Banca mondiale, le Nazioni Unite, con regole e procedure comunque rispettate fino a tempi recenti, ma che il presunto, reale, relativo declino degli USA non riuscirebbe più a garantire.
Le distinzioni che contavano negli anni Novanta non erano già più quelle su basi ideologiche, ma, per l’appunto culturali. Le liberaldemocrazie potevano anche avere vinto la Guerra Fredda, ma nel frattempo avevano fatto la loro comparsa i fondamentalismi e nella visione di Huntington alcune grandi religioni stavano a fondamento delle civiltà che prendevano coscienza delle loro peculiari identità per organizzarsi. Intese come “ampie entità culturali”, secondo Huntington esistono nel mondo contemporaneo sette civiltà (l’ordine è mio): occidentale, latino-americana, giapponese, indù, islamica, cinese (confuciana), africana. Molti critici si sono esercitati a smentire l’esistenza delle “civiltà” come definite da Huntington e, comunque, a negarne l’unitarietà, preferendo sottolinearne le differenziazioni interne. Huntington non nega le possibili differenze, ma il suo punto è che, a ogni buon conto, le differenze fra le civiltà sono molto più grandi e più rilevanti delle differenze all’interno delle stesse civiltà. A proposito dei critici (ai quali la più brillante risposta è contenuta nel densissimo articolo di Francesco Tuccari, “il Mulino”, n. 3/2015, pp. 588-594), è interessante notare che sostanzialmente ciascuno di loro è uno specialista, conoscitore di una civiltà, come i francesi studiosi dell’Islam, come Amartya Sen e la sua India, come l’orientalista di origine palestinese Edward Said, come alcuni intellettuali latino-americani, e le loro obiezioni sono tutte particolaristiche. Praticamente nessuno guarda, come direbbero gli anglosassoni, alla “big picture”.
Le critiche più severe, qualche volta addirittura violente, riguardarono il trattamento, certamente tutt’altro che ossequioso, che Huntington fa dell’Islam e della sua civiltà. Due furono le obiezioni rivoltegli. Primo, l’Islam non è monolitico; secondo, lo scontro di civiltà è talvolta interno proprio ai paesi islamici. Sono entrambe obiezioni malposte poiché Huntington riconosce le differenziazioni all’interno di tutte le civiltà e la possibilità di scontri. Nel caso del mondo islamico la mancanza più preoccupante è quella di una potenza egemonica (core) in grado di imporre l’ordine e di diventare guida. I tentativi di Al Quaeda e dell’Isis sembrano falliti così come le primavere arabe. Nel mondo islamico stanno tutti i fattori di rischio per la costruzione e stabilizzazione di un ordine mondiale, in particolare, le guerre civili in Siria, Libia, Yemen. Né si vede come, nella latitanza egoistica della leadership autoritaria, compromessa e corrotta dell’Arabia Saudita, possa fare la sua comparsa una potenza egemone riconosciuta e accettata come tale.
Da qualche tempo, ha fatto la sua comparsa, inquietante, ma inevitabile, per ragioni territoriali, demografiche, di coesione intorno al confucianesimo e grazie alla possente guida del Partito Unico, la Cina Comunista. Ha potenzialità enormi e persino la pazienza di attendere che maturino le condizioni per una sua espansione comunque già in atto. In maniera premonitrice, poiché da un’analisi solida conseguono previsioni non campate in aria, Huntington scrisse che “gli scontri più pericolosi del futuro nasceranno probabilmente dall’interazione tra l’arroganza occidentale, l’intolleranza islamica e l’intraprendenza sinica” (cinese, p. 265). Quegli scontri, surrogati da episodi violenti di vario genere, sono tuttora un’eventualità, mentre il nuovo ordine mondiale è molto di là da venire.
Pubblicato il
Felicità e benessere: non è solo questione di Pil
Non di solo PIL si vive è il titolo di un articolo pubblicato da «la Repubblica» che presenta i dati del World Happiness Report 2019. In verità, chi legge la classifica dei vari paesi non può fare a meno di notare che ai primi dieci posti si trovano sistemi politici, in gran maggiorana europei, ai quali attribuiamo, anzitutto, la qualifica di ‘civili’. Sono luoghi dove molti pensano, a ragione, che la qualità della vita sia alta. Potremmo saperne di più procedendo ad una semplice operazione di comparazione. Da decenni le Nazioni Unite usano un indice, detto dello Sviluppo Umano, per misurare il livello di benessere all’interno di ogni stato. È basato su tre indicatori: livello di istruzione, salute (aspettativa di vita), reddito medio pro capite. Abbiamo messo in correlazione i due indici nella figura 1. Come si vede abbastanza chiaramente, esiste una forte correlazione fra lo Sviluppo Umano e la Felicità percepita, vale a dire che, se alto è il livello di sviluppo umano, elevato e crescente è anche il grado di felicità.
Fig. 1. Correlazione tra l’Indice di Sviluppo Umano e Indice di Felicità nel 2018/9
Per quel che riguarda l’Italia, curiosamente, alla sua collocazione (24° posto), complessivamente buona rispetto allo Sviluppo Umano (favorita essenzialmente dall’elevata aspettativa di vita), non corrisponde una posizione simile relativamente alla felicità. In questo caso, l’Italia si trova soltanto al 37°posto. Da altre ricerche sappiamo, peraltro, che la percentuale di italiani che si dichiarano soddisfatti delle loro condizioni personali di vita e nutrono aspettative di miglioramento è nettamente più elevata di quella di coloro che si dichiarano soddisfatti del sistema politico e pensano che possa migliorare nell’anno che verrà.
Ne vorremmo trarre una sola conclusione, semplice, ma non proprio lapalissiana. La relazione positiva non sta fra il PIL e la felicità, ma fra condizioni di vita, complessivamente molto buone, e la felicità. Insomma, il benessere inteso in senso lato – comprese le politiche di welfare e la diffusione di capitale sociale tra gli individui, e dunque non il solo reddito – è un potente coadiuvante della felicità.
Pubblicato il 28 marzo 2019 su PARADOXAforum
GUERRA E PACE. Nella Costituzione gli strumenti per una pace giusta
Il testo che pubblichiamo è il commento all’art. 11 della Costituzione italiana scritto da Gianfranco Pasquino per il suo libro La Costituzione in trenta lezioni (UTET, fine gennaio 2016)
La vita della maggioranza dei Costituenti italiani era stata segnata da due guerre mondiali e dall’oppressione del regime fascista nato sulle ceneri della Prima Guerra Mondiale e pienamente responsabile della partecipazione alla Seconda. In nome di un nazionalismo malposto e esasperato, il fascismo aveva causato enormi danni all’Italia entrando in una guerra di conquista e perdendola con il sacrificio di molte vite e della stessa dignità nazionale. L’art. 11 è il prodotto di una riflessione sull’esperienza storica, non soltanto italiana, e del tentativo di porre le premesse affinché sia bandito qualsiasi ricorso alla guerra ‘come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali’. Il ripudio, questo è il termine usato nell’articolo, è, al tempo stesso rinuncia e condanna della guerra, più precisamente di esplicite guerre di offesa e aggressione. Il ripudio della guerra non è in nessun modo interpretabile come l’espressione di un pacifismo assoluto e, il seguito dell’articolo lo dice chiaramente, neppure come neutralismo. Al contrario, per assicurare ‘la pace e la giustizia fra le Nazioni’, l’Italia dichiara la sua disponibilità a limitazioni di sovranità e a promuovere e favorire ‘le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo’. Naturalmente, la Costituzione riconosce che lo Stato italiano mantiene il diritto di difendere, anche con il ricorso alle armi, il suo territorio e la sua popolazione. Tuttavia, qualsiasi reazione militare deve essere proporzionata alla sfida e non deve sfociare in nessuna conquista territoriale. Coerentemente, neppure le azioni militari condotte sotto l’egida delle organizzazioni internazionali debbono mirare a e tantomeno possono concludersi, per uno o più dei partecipanti, con guadagni territoriali, ai quali l’Italia ha l’obbligo costituzionale e politico di opporsi.
Le limitazioni alla sovranità italiana derivano dall’adesione, deliberata e approvata dal Parlamento, a tutte le organizzazioni internazionali, ma, in particolare, per quello che attiene alla guerra (e alla pace), alla NATO, alle Nazioni Unite e all’Unione Europea. In seguito alla sua adesione, l’Italia si è impegnata a partecipare alle attività decise in ciascuna di quelle sedi, quindi anche ad attività che implichino il ricorso ad azioni di natura militare. Talvolta, queste azioni sono problematiche poiché in non pochi casi vanno contro il principio di non ingerenza negli affari interni di uno o più Stati. Il principio guida di questa giustificabile ingerenza è dato dai rischi e dai pericoli ai quali sono effettivamente esposte le popolazioni di quegli Stati ovvero una parte di loro. Le missioni militari ‘umanitarie’, a favore delle popolazioni, alle quali l’Italia ha il dovere di prendere parte, sono quelle deliberate nelle organizzazioni internazionali, in modo speciale, l’ONU e, quando è minacciata l’indipendenza e l’integrità di uno Stato membro, la NATO. Possono avere una durata indefinita nella misura in cui servono ad alcuni popoli e ad alcuni governanti per costruire le strutture statali indispensabili alla difesa contro pericoli esterni e alla creazione di ordine politico interno rispettoso dei diritti civili e politici dei cittadini.
Nel secondo dopoguerra, in particolare, dopo la caduta del muro di Berlino, si sono moltiplicate le occasioni, da un lato, di oppressione delle loro popolazioni ad opera dei rispettivi dittatori, dall’altro di vere e proprie guerre civili, soprattutto nel Medio-Oriente e in Africa, ma anche nei Balcani. Seppure con qualche controversia interna, tutte le volte che l’Italia è stata chiamata in causa ha risposto positivamente in applicazione degli impegni e dei compiti derivanti dalla sua appartenenza all’ONU e alla NATO. Naturalmente, la valutazione della efficacia, dei costi e degli effetti, e della costituzionalità dell’attività delle missioni militari italiane all’estero e della eventuale necessità di una loro prosecuzione rimane nelle mani del Parlamento.
Che la pace, duratura e giusta, che non significa mai puramente e semplicemente assenza di conflitto armato, possa essere conseguita soltanto fra regimi democratici, lo scrisse memorabilmente il grande filosofo illuminista prussiano Immanuel Kant nel suo breve saggio Per la pace perpetua (1795). In un certo senso, questo obiettivo di pace è stato perseguito anche dall’Unione Europea delle cui organizzazioni l’Italia ha fatto parte fin dall’inizio (1949). Nel 2012 all’Unione Europea è stato attribuito il Premio Nobel per la pace con la motivazione di avere effettuato grandi ‘progressi nella pace e nella riconciliazione’ e per avere garantito ‘la democrazia e i diritti umani’ nel suo ambito che è venuto allargandosi nel corso del tempo fino a ricomprendere ventotto Stati-membri. A sua volta ognuno degli Stati-membri dell’Unione Europea deve avere e mantenere un ordinamento interno democratico e deve accettare le limitazioni di sovranità che conseguono alla sua adesione all’Unione. Preveggente, l’art. 11 della Costituzione mette la parola fine al nazionalismo, non soltanto bellico, ma autarchico e isolazionista, aprendo la strada a molteplici forme di collaborazione internazionale e sovranazionale che costituiscono la migliore modalità per garantire la pace nella giustizia sociale.
Pubblicato il 18 novembre 2015
Accogliere è un test di civiltà
Il modo forse migliore per celebrare la Giornata del Migrante consiste nel leggere la Costituzione italiana. Il comma 3 dell’art 10 stabilisce che: “lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica secondo le condizioni stabilite dalle leggi”. Naturalmente, non tutti i migranti sono oppositori politici dei regimi autoritari e repressivi dai quali fuggono. Tuttavia, è innegabile che in nessuno di quei regimi hanno potuto e, fintantoché non avverranno improbabili cambi democratici, i migranti che approdano in Europa attraverso l’Italia non potranno godere di nessuna libertà democratica. Se, poi, interpretiamo in maniera estensiva la dizione “libertà democratiche”, la grande maggioranza dei migranti fugge da situazioni nelle quali la loro dignità e la loro stessa sopravvivenza sono in questione. Non sappiamo quanti di loro con le loro famiglie possano essere effettivamente considerati rifugiati politici. Infatti, enormi sono i problemi amministrativi da risolvere per verificare la provenienza, le generalità e le motivazioni dei migranti. Ed è evidente che per quasi tutti loro l’obiettivo principale è trovare un luogo di residenza e di lavoro.
In assenza di permessi di lavoro, molto difficili da ottenere, i migranti sono tecnicamente “clandestini”. Dovrebbero, dunque, essere espulsi. Anche in questo caso, la Costituzione italiana (art. 10 comma 4) è chiara: “non è ammessa l’estradizione dello straniero per reati politici”. Molti dei migranti hanno sicuramente da temere rappresaglie a opere dei governanti dei regimi autoritari dai quali sono fuggiti. Sappiamo, comunque, che le espulsioni dei clandestini sono difficili, costose, inevitabilmente limitate in termini di numeri rispetto agli arrivi. Nella quasi totalità dei casi, le espulsioni riportano i migranti alla vita grama dalla quale loro e le loro famiglie, a rischio della vita, hanno cercato di sfuggire. Dalle quali, quando potranno permetterselo, visti gli alti costi dei viaggi verso l’Italia, riproveranno a fuggire. Comunque, i respingimenti, possono essere un’arma di propaganda politico-elettorale, ma non rappresentano una soluzione praticabile né, tantomeno, duratura.
Non dimenticando mai che l’afflusso dei migranti si è enormemente intensificato in seguito alla malaugurata e non necessaria guerra lanciata nel 2003 dal Presidente repubblicano George Bush per rovesciare Saddam Hussein dal suo scranno di dittatore dell’Iraq, sono in fiamme sia il Medio-Oriente sia alcuni paesi dell’Africa del Nord. Porre fine a quelle guerre, che spesso sono al tempo stesso guerre civili e di religione, è un’operazione complicatissima che richiederà comunque tempi lunghi. La creazione di un ordine politico nel quale riprendano attività economiche che liberino dalla fame e dalle malattie decine di milioni di persone, potenziali migranti, non è possibile in tempi brevi. L’attuazione di provvedimenti mirati richiede un’unità d’intenti che né l’Unione Europea né le Nazioni Unite hanno saputo finora conseguire. La costruzione di muri che impediscano l’accesso dei migranti è costosissima e non offre nessuna garanzia di successo. La costruzione di ponti che ne facilitino l’arrivo in Italia, che è il paese più esposto e più permeabile, e in Europa, è altrettanto costoso e, se non accompagnata dalla costruzione di luoghi di accoglienza, rischia di procurare enormi tensioni e conflitti con la probabilità di contraccolpi estremistici di tipo razzista.
Posta la soluzione in termini puramente economici (e “militari”), non è possibile dire con certezza che il respingimento sia meno costoso di un’accoglienza organizzata e governata. Tuttavia, le tradizioni e l’impegno democratico dell’Unione Europea e dei singoli Stati non possono contraddirsi tanto platealmente e farsi travolgere dai sostenitori dei respingimenti a tutti i costi. Il trattamento riservato ai migranti, anche in un periodo di economie non prospere, è il test del livello di civiltà di ciascun paese e del continente europeo.
Pubblicato AGL 14 giugno 2015
Si sta facendo tardi
E’ vero. Parecchi di noi si erano illusi che lo strappo di Fini dal partito nazional-cesaristico conducesse alla costruzione di un’organizzazione politica di destra, moderna, europeista, decente. Qualcuno fra noi aveva addirittura pensato che la destra decente avrebbe stimolato anche la costruzione di una sinistra decente. D’altronde, la sprezzante definizione di “amalgama mal riuscito”, affibbiata da D’Alema al Partito Democratico, coglieva nel segno. Purtroppo, il sarcasmo di D’Alema spesso obnubila la verità di molte sue valutazioni. Adesso, tocca ad Alfano spingere nella direzione di una destra decente che ha a cuore le sorti di un governo dalle intese né abbastanza larghe né abbastanza solide, ma necessarie. Sull’altro versante, molti sono in movimento per zompare sull’oramai affollatissimo carro del vincitore fiorentino (auto)preannunciatosi. Altri stanno seduti sulla riva del fiume a vedere chi passerà. Altri, ancora, pochini, vorrebbero cominciare sul serio l’opera lunga e faticosa di costruzione di un partito che occupi la maggior parte dello spazio di sinistra. Potrebbe, persino, quel partito, qualificarsi socialista, con buona pace di coloro che non soltanto vogliono morire democristiani, ma vorrebbero farlo il più tardi possibile e preferibilmente stando al governo o in qualche altra comoda ben ricompensata carica. Non è proprio il caso di accontentarli. Socialista non è una brutta parola. Socialista è quell’esperienza ampiamente vissuta nel dopoguerra europeo che ha portato molti paesi ad essere prosperi, istruiti, sani. Faccio riferimento allo Human Development Index delle Nazioni Unite che colloca ai primi dieci posti paesi che hanno tutti un grande partito socialista, ieri o oggi, al governo. Sono anche paesi con corruzione politica minima e, elemento che dovrebbe soddisfare i sedicenti liberali/liberisti italiani,con un alto livello di concorrenzialità e di meritocrazia. Se le energie dei candidati alla carica di segretario del PD non si sono esaurite in mediocri critiche reciproche, di nessun interesse per i loro eventuali elettori, ma si spostassero sulla cultura politica, allora una bella discussione sul significato e sui contenuti del socialismo oggi potrebbe essere utile anche a Rosi Bindi, Castagnetti, Fioroni e a milioni di elettori. Gli accapigliamenti li abbiamo già visti. Non sono neppure più divertenti. Invece, di quale cultura politica dovrebbe essere portatore il Partito Democratico non l’abbiamo sentito raccontare né dal Prodi che se ne è ito né dai suoi collaboratori, ma neppure da Bersani e da D’Alema. E non è vero che non è mai troppo tardi.