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Discutere il futuro dell’Europa si può (e si deve) #CoFoE con @rsantaniello @rivistailmulino

Chi continua a battere il tasto del «deficit democratico» a livello di Unione o non conosce le istituzioni europee o è in malafede. Molto va aggiustato, ma l’Unione europea resta uno straordinario esperimento di democrazia

di Gianfranco Pasquino e Roberto Santaniello per rivistailmulino.it

Spesso accusata a torto di soffrire di un deficit democratico, l’Unione europea ha programmato una Conferenza sul futuro dell’Europa che si avvierà il 9 maggio, festa dell’Europa. Una data che coincide con l’anniversario della dichiarazione dell’allora ministro degli Esteri francese Robert Schuman che nel 1950 propose la creazione della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (Ceca), considerata la madre di tutte le istituzioni dell’Europa unita.

La Conferenza, prevista inizialmente per la primavera 2020, ma ritardata a causa della crisi pandemica, si basa su una dichiarazione tripartita firmata il 10 marzo scorso da David Sassoli, presidente del Parlamento europeo, Antonio Costa, attuale presidente del Consiglio dell’Unione europea e da Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, si intitola: Dialogo con i cittadini per la democrazia. Costruire un’Europa più resiliente. In essa si descrivono i principi dell’organizzazione e delle modalità di lavoro della Conferenza.

L’obiettivo dichiarato è quello di conferire ai cittadini un ruolo più incisivo nella definizione delle politiche e delle ambizioni dell’Unione europea grazie a uno spazio di incontro pubblico nel quale si svolga «un dibattito aperto, inclusivo, trasparente e strutturato con i cittadini europei sulle questioni che li riguardano e che incidono sulla loro vita quotidiana». Gli argomenti da trattare sono dettati in parte dalla situazione attuale: la salute e i cambiamenti climatici; in parte dalle sfide a cui è confrontata l’Unione europea: equità sociale e trasformazione digitale; in parte da problemi strutturali: ruolo dell’Unione nel mondo e rafforzamento dei processi democratici che governano l’Europa. La scelta degli argomenti e il loro approfondimento dipenderanno dalle preferenze espresse dai cittadini europei che parteciperanno alla conferenza.

La dichiarazione tripartita prevede, inoltre, la governance della Conferenza che è stata conferita a un Comitato esecutivo, organismo coadiuvato da una segreteria comune e composto da rappresentanti di Parlamento, Consiglio e Commissione, che esercitano congiuntamente la presidenza, e da un certo numero di osservatori provenienti dalle altre istituzioni europee.

Oltre alle plenarie, è prevista l’organizzazione di panel tematici, che coprono l’insieme delle questioni oggetto della Conferenza. I dibattiti nazionali ed europei, da cui scaturiranno idee e proposte, saranno alimentati grazie a una piattaforma digitale multilingue interattiva, allo scopo di diffondere le informazioni necessarie a svolgere una discussione la più ampia possibile. I panel di cittadini europei hanno lo scopo di dare vita a forme e modalità di discussione delle proposte e di valutazione del loro impatto, note come democrazia deliberativa. Le sessioni plenarie avranno cadenza semestrale con il compito di stilare un bilancio degli esiti già conseguiti e a (ri)orientare le discussioni successive. Infine, è prevista una sessione plenaria finale che si concluderà nella primavera del 2022. Da sottolineare, che anche i Parlamenti nazionali invieranno loro rappresentanti in qualità di osservatori.

Come si può vedere, si tratta di un esperimento di discussione transnazionale aperta alla partecipazione di milioni di persone che non ha precedenti. Da un lato, ambiziosissimo; dall’altro, segnale straordinariamente importante di fiducia nella democrazia e nelle sue pratiche. Si incrocerà inevitabilmente con l’attuazione del programma Next Generation Eu, forse contribuendo ad aggiustamenti probabilmente dandogli ancora maggiore vigore. L’Unione europea scommette su sé stessa, sulla capacità di trovare al suo interno le risorse intellettuali e politiche per aprire una nuova fase, di ripresa e di rilancio.

La Dichiarazione comune sul futuro dell’Europa contiene esplicitamente impegni di notevole importanza, che si compenetrano. Come si è visto, il dialogo sulla democrazia con i cittadini è la premessa per costruire un’Europa più resiliente. Ma come sarà possibile contrastare le critiche alle carenze di democrazia nell’Unione e chiarire le modalità attraverso le quali l’Unione riuscirà a diventare e rimanere davvero più resiliente?

Troppo spesso l’Unione europea è accusata di avere notevoli deficit democratici. Tout court di non essere democratica, tanto che qualcuno ha sostenuto che una sua ipotetica domanda di accesso sarebbe respinta perché non rispetterebbe i criteri che l’Unione europea impone ai «pretendenti». Giusto che il dibattito sulla democraticità dell’Unione sia aperto, ma merita di essere molto meglio presentato e discusso. La nostra posizione è che, a prescindere da molte considerazioni, l’Unione europea è comunque una democrazia in the making, in corso d’opera.

È innegabile che l’Ue abbia quasi tutte le caratteristiche proprie delle democrazie liberali, essendo nei fatti il più grande spazio di diritti esistente al mondo. Non solo i cittadini europei godono della più ampia gamma possibile dei diritti civili, ma anche di tutti i diritti politici: votare e essere votati, fare propaganda politica e costruire organizzazioni politiche dei più vari tipi, criticare e contestare la stessa esistenza dell’Ue. Inoltre, questi diritti sono protetti e promossi in maniera impeccabile, troppo spesso sottovalutata e talvolta addirittura ignorata, dalla Corte europea di giustizia. Lungi dall’essere un super-Stato oppressore, l’Unione europea è in realtà uno Stato dotato delle essenziali caratteristiche liberali.

I critici sostengono che il deficit sta nella limitata democraticità delle sue istituzioni, un punto che merita una riflessione limpida e approfondita. In estrema sintesi, il Consiglio è composto dai capi di governo degli Stati. Ciascuno di loro è tale perché ha aggregato a suo sostegno la maggioranza assoluta degli elettori del proprio Stato. Se perde quella maggioranza viene regolarmente e democraticamente sostituito da chi comunque è sostenuto da un’altra maggioranza. Quindi, non è corretto porre in discussione la legittimità di ciascuno dei componenti del Consiglio né del Consiglio stesso nella sua interezza. Debbono, invece, essere prese in seria considerazione le critiche rivolte alle modalità di funzionamento del Consiglio, in particolare, la necessità di votazioni all’unanimità. Pur essendosi ridotto l’ambito delle materie sulle quali è richiesta l’unanimità, questa modalità di votazione (la cui democraticità è del tutto discutibile poiché attribuisce enorme potere a un solo componente), permane per quel che riguarda materie come la politica estera e di sicurezza, la fiscalità e le questioni sociali rendendone molto difficile il ridimensionamento. Quanto ai capi di governo che difendono interessi nazionali, questo semmai è un deficit di europeismo attribuibile ai comportamenti di quei capi di governo che poco ha a che vedere con la democrazia nell’Unione europea.

Non soltanto il Parlamento europeo è l’istituzione democratica per eccellenza nel circuito delle istituzioni dell’Unione, ma è quella che nel corso del tempo ha acquisito maggiore centralità e poteri. Istituzione che garantisce rappresentanza ai cittadini europei da loro eletto, quindi, pienamente legittimato, dai numeri del Parlamento nasce la presidenza della Commissione, dalle udienze conoscitive viene saggiata la qualità dei diversi commissari in quanto a competenza, affidabilità e europeismo, dal voto del Parlamento viene insediata la Commissione nella sua interezza, da quel voto la Commissione è anche sfiduciabile.

Ciò detto e sottolineato, è opportuno prendere in considerazione alcune critiche. La prima molto nota e persino eccessivamente ripetuta è che le elezioni del Parlamento europeo sono di «secondo grado», vale a dire ritenute dagli elettori meno importanti delle elezioni nazionali (di primo grado). La seconda è che sono «combattute» prevalentemente su tematiche nazionali piuttosto che su tematiche effettivamente europee. La terza è che l’affluenza complessiva dei cittadini europei alle urne è piuttosto bassa, oscillando intorno al 50% (nel 2019), comunque nettamente inferiore a quelle delle rispettive elezioni nazionali. Solo in parte queste inadeguatezze, che non giustificano l’accusa di deficit democratico, riguardano la democraticità dell’Unione europea. Piuttosto riguardano i partiti nazionali in attesa che decidano di trasformarsi in autentici partiti transnazionali, a condizione ovviamente che riescano a farlo.

Con i suoi componenti designati dai capi di governo riuniti nel Consiglio europeo, anche se poi «fiduciati» dal Parlamento, la Commissione non può ovviamente godere di legittimità democratica direttamente espressa dai cittadini europei. Tuttavia, farne, con espressione che contiene una valutazione fortemente negativa, un organismo asetticamente tecnocratico (irresponsabile, privo di riferimenti) è del tutto sbagliato. La Commissione è composta da uomini e donne, spesso con competenze di alto livello, ma anche con una biografia politica tutt’altro che irrilevante che include una loro propensione europeista positivamente valutata dal Parlamento europeo al momento della loro nomina. Quanto alla responsabilizzazione politica, tutti i commissari sanno di dovere rispondere del loro operato al Parlamento europeo. Infine, dalle loro memorie e dalle loro dichiarazioni, è possibile accertare che la grande maggioranza di loro ha inteso spogliarsi delle proprie appartenenze nazionali per interpretare e dare forma a (parafrasando de Gaulle) «una certa idea di Europa».

Se, dunque, è possibile sostenere che il deficit democratico dell’Unione europea non può essere fatto risalire alle modalità con le quali le sue istituzioni vengono formate, persistendo le critiche diventa essenziale guardare in maniera più approfondita al loro funzionamento. Due critiche appaiono di una certa consistenza.

La prima riguarda una eccessiva apertura a una molteplicità di interessi organizzati, con quelli più forti che hanno maggiori possibilità di influenza sulle decisioni. L’ansia di includere il maggior numero di interessi nelle procedure decisionali, attuata attraverso varie forme tra cui le consultazioni pubbliche, incide sui tempi e sulla qualità del prodotto. A ciò si aggiunge il processo conosciuto come «comitatologia», utilizzato per l’adozione della legislazione di dettaglio, che rischia di favorire gli interessi dei più forti e a tale scopo dovrebbe (potrebbe) essere oggetto di maggiore trasparenza e di una più severa selezione degli interessi.

La seconda critica attiene alla burocratizzazione delle modalità di funzionamento delle Direzioni generali della Commissione europea con il cosiddetto acquis communautaire che sembra giustificare la continuità («si è sempre fatto così») e al tempo stesso finisce per tarpare sul nascere qualsiasi innovazione. Malgrado la riforma attuata dalla coppia Prodi-Kinnock nel 2000, queste critiche persistono e sollecitano maggiori innovazioni amministrative.

Di recente è emersa una terza critica, più sottile e insidiosa, che riguarda, per ragioni che in parte discendono dalle prime due, l’opacità dei processi decisionali. Per chi ritiene che la democrazia debba vivere e agire in una casa di vetro, l’oscurità del castello europeo impedisce di vedere chi, come, con quali informazioni e con quali intenzioni, prende le decisioni e quindi di ritenerlo responsabile anche per poterne correggere compiacenze, insufficienze e errori. Anche se l’introduzione prevista dal Trattato di Lisbona della possibilità per un milione di elettori europei cittadini di almeno otto Stati membri di sollecitare iniziative legislative da inserire nell’agenda dell’Unione su tematiche importanti evitate o trascurate dagli organismi decisionali dell’Unione, è un passo importante nella direzione giusta, altre misure meritano di essere pensate e congegnate.

Se la Conferenza sul futuro dell’Unione europea che sta per partire è fatta anche per ottenere maggiore coinvolgimento e più ampia e incisiva partecipazione dei cittadini europei, allora i compiti della sburocratizzazione, della trasparenza, della responsabilità di decisioni e non-decisioni dovranno figurare in maniera esplicita sull’agenda. Dovranno, in definitiva, costituirne parte molto rilevante.

Rivista il Mulino 2021
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Perché Conte è tutt’altro che spacciato. La versione di Pasquino @formichenews

Conte, oggi, ha tra le altre cose messo in chiaro che è sempre disponibile al confronto con il Parlamento e continuerà ad esserlo nella elaborazione e nella stesura definitiva dei progetti per ottenere i fondi Next Generation Eu, ponendo come scadenza la metà di febbraio. Saranno tranquillizzati tutti coloro che danno l’Italia già in ritardo? Il commento di Gianfranco Pasquino

In maniera pacata e sobria, il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha difeso praticamente tutte le scelte del governo. Lo ha fatto assumendosi le responsabilità che gli competono senza scaricare colpe su nessuno tranne in un passaggio: il non aver speso tutti i fondi disponibili ricevuti nel passato dall’Europa, ma solo il 60 per cento. Non so a quale nuora abbia voluto parlare e neppure da quale suocera volesse farsi comprendere (o viceversa). Penso, però, che le molte orecchie della burocrazia centrale e alcune orecchie delle burocrazie regionali e delle rispettive classi politiche abbiano dovuto fischiare forte e a lungo. Questa incapacità di spesa rapida è servita a Conte anche per spiegare una delle ragioni per non chiedere i 29 miliardi di Euro del MES “sanitario”. Capisco, ma non condivido. Anzi, mi preoccupo poiché ritengo che se governo, burocrazia, regioni non riusciranno a spendere adeguatamente gli enormi fondi della NextGenerationEU, non sarà solo un’occasione sprecata. Sarà il collasso del sistema politico e economico italiano.

 Spesso agendo da muta che insegue la preda non pochi giornalisti italiani, anche in occasione della Conferenza stampa, cercano di azzannare il Presidente del Consiglio. La modalità più recente, non credo che sia né provata né solida, sarebbe che Conte non gode più della fiducia degli Europei. Chi la godrebbe, di grazia? Conosco la risposta che mi verrebbe abbaiata: Draghi, of course. Un altro, classico, governo “tecnico/tecnocratico” non scelto dagli elettori, non uscito dalle urne, mai visto sulle schede elettorali? Come on. La domanda quanto si sente tallonato da Draghi non è stata rivolta direttamente a Conte. Eppure era una buona occasione. Comunque, dimostrando grande padronanza delle interlocuzioni, talvolta ostili, Conte ha fatto chiarezza, oserei dire definitiva, se non sapessi che già da domani mattina, i commentatori lo daranno per spacciato, sulla sua valutazione della situazione. Da un lato, replicando indirettamente alle ripetute, per me molto fastidiose, critiche di autoritarismo, Conte ha messo in chiaro che è sempre disponibile al confronto con il Parlamento e continuerà ad esserlo nella elaborazione e nella stesura definitiva dei progetti per ottenere i fondi NextGenerationEU, ponendo come scadenza la metà di febbraio. Saranno tranquillizzati tutti coloro che danno l’Italia già in ritardo? La Francia avrebbe già fatto i suoi compiti a casa, ma per 40 miliardi. Mi pare più che giustificato e giustificabile un mese e mezzo in più per ottenerne 209.

   Confrontarsi, formulare critiche, avanzare suggerimenti, persino offrire un package di progetti alternativi è certamente legittimo. Invece, nient’affatto apprezzabile è dire “questo è quanto vogliamo, se non lo accettate, ce ne andremo subito”. La parola italiana per questo tipo di intimazione è ricatto. Né lo si può riscattare (ah, il quasi gioco di parole) affermando che “Renzi dice anche cose giuste”. Non ne sono affatto sicuro (vedere cammello), ma so che il modo ancor m’offende. La risposta di Conte è affidata a Moro che giudicava gli ultimatum in politica “inammissibili”. Anch’io. Poi, naturalmente, da Moro avrei voluto meno mediazione e più azione. “Cambiare passo” è la condivisibile richiesta del PD che sarebbe più efficace se indicasse in quali aree e con quali modalità. Auguri di Buon 2021, caro Presidente del Consiglio.

Pubblicato il 30 dicembre 2020 su formiche.net

Investire trasparentemente con l’approvazione del Parlamento

Decidere come investire 209 miliardi di Euro in pochi anni su attività precisamente definite nell’ambito di settori chiaramente indicati dalla Commissione Europea: digitalizzazione e innovazione; economia verde; coesione sociale e parità di genere; istruzione e ricerca; e infrastrutture, è il problema. Per politici e burocrati italiani che non si sono mai distinti per la capacità di usare al meglio i fondi pubblici in tempi stretti, questa mole di investimenti necessari a fare ripartire il paese per dare un futuro alla prossima generazione di italiani (e di europei): Next GenerationEU è il nome del programma, è un problema enorme. Il Presidente del Consiglio Conte ha pensato di risolverlo attraverso una struttura complessa, la “cabina di regia fatta di sei manager e circa trecento collaboratori che rispondano ad alcuni pochi ministri, in particolare, quello dell’Economia, Roberto Gualtieri (PD) e dello Sviluppo Stefano Patuanelli (5 Stelle) e, naturalmente, a lui stesso, con il coordinamento del Ministro per gli Affari Europei Vincenzo Amendola (PD). È stato sommerso di critiche e la definizione di chi saranno i partecipanti e di chi avrà il potere di decidere è tornata in alto mare.

   L’accusa rivolta a Conte di avere accentrato tutto/troppo nelle sue mani ha qualche fondamento. Deriva dalla sfiducia del Presidente del Consiglio (e non solo) nella burocrazia italiana, sfiducia largamente diffusa, ma, forse, non del tutto fondata. Comunque, i burocrati, in particolare, i dirigenti di livello medio-alto, non potranno essere totalmente esclusi dall’attuazione, quindi, meglio che siano coinvolti già nella fase di progettazione. Inoltre, questa potrebbe essere anche l’occasione sia di modernizzazione della burocrazia italiana sia di valutazione e valorizzazione delle competenze che, a mio parere, sono molte anche se disegualmente diffuse. L’altra accusa rivolta a Conte è di avere proceduto senza previe consultazioni.

   Si lamentano gli imprenditori. Protestano i sindacati. Rivendicano un ruolo gli enti locali e le regioni. Vi si è aggiunto anche il Sen. Renzi contraddicendo in maniera plateale la strategia della disintermediazione da lui praticata quando era a Palazzo Chigi. In verità, l’oggetto più corposo del contendere riguarda l’assegnazione dei fondi. I critici di Conte temono che il Presidente del Consiglio ne approfitti per ricompensare i vecchi amici e farsene di nuovi, utili per il prosieguo della sua carriera politica. Senza necessariamente sostenere Conte, alcuni obiettano che il coinvolgimento dei capi partito comporterebbe rischi di spartizione secondo criteri che non hanno nulla a che vedere con sane prassi di efficienza e di produttività. Conte ha già in parte accettato l’idea della presenza di qualche altro ministro. Per il resto, sia il controllo degli investimenti sia la valutazione degli esiti, debbono rispondere a due criteri: la trasparenza delle procedure e l’approvazione da parte del Parlamento. Auguri.

Pubblicato AGL 11 dicembre 2020

Basta soluzioni tampone, serve una road map del Covid. La lezione di Pasquino @formichenews

Dopo il ripetuto ricorso ai Dpcm, una discussione parlamentare sarebbe utile per migliorare e affinare le decisioni prese. Soprattutto, vorrei che tanto il governo quanto l’opposizione si esercitassero a individuare le tappe e i passaggi attraverso i quali evolverà il Covid. Il commento di Gianfranco Pasquino

Il dilemma è drammatico: chiudere le attività economiche per salvare vite, ma impoverendo tremendamente milioni di italiani oppure lasciare aperte moltissime attività ponendo a rischio contagio, con un numero di vittime già quantificabile, ampi settori della popolazione italiana? Per dare una risposta a questo dilemma è anche possibile, forse consigliabile guardare le decisioni prese altrove. Certo, non siamo un’isola con circa sei milioni di abitanti come la Nuova Zelanda. Non è possibile sigillare l’Italia. La lezione asiatica, Corea del Sud, Giappone, Taiwan (due di questi paesi sono isole), non l’abbiamo studiata, ma è molto plausibile che il loro successo dipenda da tratti culturali distanti da quelli degli italiani e da comportamenti che abbiamo già capito non sapremmo imitare e praticare. Degli altri paesi europei, a giudicare dai numeri, solo la Germania ha fatto meglio. Il governo Conte ha trovato qualche insegnamento in quell’esperienza?

In tutte le democrazie i governi debbono essere costantemente sotto la lente dell’opinione pubblica, anche quella delle opposizioni. È imperativo che giustifichino le decisioni che prendono e quelle che evitano. Hanno l’obbligo di spiegare tempi, modi, conseguenze di quelle decisioni. Non sono affatto sicuro che al dilemma che ho posto all’inizio la risposta migliore stia nel mezzo. No, in medio non stat virtus. Suggerirei alle opposizioni che le critiche più efficaci non sono quelle formulate alzando la voce e che si traducono in “un po’ più di questo (orari di apertura e soldi)” “un po’ meno di quest’altro (meno didattica a distanza)”. E non consistono mai nel condonare il “disagio” che si traduce in disordini, saccheggi, violenza organizzata che chiaramente è del tutto controproducente. Sono convinto che, da un lato, il capo del governo ha la facoltà di emanare i famigerati DPCM per comprensibili ragioni di urgenza e di necessità. Dopo il ripetuto ricorso a questo strumento ho, però, maturato l’opinione che una discussione parlamentare sia utile per migliorare e affinare le decisioni prese. Soprattutto, vorrei che tanto il governo quanto l’opposizione si esercitassero a individuare le tappe e i passaggi attraverso i quali evolverà il Covid. Però, non vedo come questo compito sarebbe meglio svoto da un governo di larghe intese, che non si è formato sulla spinta del Covid in nessuna democrazia (la Grande Coalizione tedesca è nata prima del Covid)

Nessun governo democratico è finora caduto a causa del Covid. Neppure Trump potrà e, forse, neanche sarà in grado di giustificare la sua sconfitta come esito di una malattia trascurabile, poco più di un’influenza. Nelle attuali condizioni in Italia non è pensabile un altro governo né è minimamente plausibile andare alle urne. Proprio per questo è lecito pretendere che il governo Conte non navighi a vista limitandosi alla formulazione di soluzioni tampone (sì, desidero proprio usare questa parola) soluzioni che non è in grado di argomentare motivatamente e giustificare convincentemente. Last, ma tutt’altro che least, e non è un’altra cosa, il governo dovrebbe stare approntando i progetti, tempi, contenuti, costi, indispensabili a ottenere gli ingenti fondi del programma Next Generation EU. Sarebbe utile che, lo dirò con il massimo di retorica disponibile, il paese venisse informato. Donne e uomini informati mezzo salvati.

Pubblicato il 26 ottobre 2020 su formiche.net

E adesso poveri parlamentari

Preso atto del voto, è opportuno rilevare che all’appello referendario è mancato circa il 45 degli aventi diritto e alle pur importanti elezioni regionali più 1/3 degli elettori ha deciso di non partecipare. Peccato. Hanno perso una buona occasione di fare conoscere le loro preferenze. Chi non vota non conta, ma in qualche modo rende molto più complicato il compito di coloro che debbono rappresentare i cittadini. I verdetti sono stati tutti molto chiari, limpidi. Più di 2/3 dei votanti hanno approvato la riduzione del numero dei parlamentari. Maggioranze più (De Luca in Campania e Zaia in Veneto) o meno (Emiliano in Puglia) ampie hanno confermato i Presidenti uscenti i quali partono, grazie alla loro visibilità e attività di governo, con un buon vantaggio iniziale. Laddove non c’era un Presidente uscente, il candidato di Fratelli d’Italia ha conquistato le Marche e il centro-sinistra ha sconfitto la candidata di Salvini in Toscana.

Alla fine della ballata, il sicuro vincitore è il governo guidato da Conte. Tanto il Movimento Cinque Stelle, che s’è intestato la revisione costituzionale, quanto il Partito Democratico di Zingaretti, che ha ottenuto un esito numerico e politico confortante, possono tirare un sospiro di sollievo e guardare avanti, molto avanti. Debbono assolutamente formulare i progetti necessari ad ottenere gli ingenti fondi del programma Next Generation EU stanziati per migliorare la vita e le condizioni di lavoro delle future generazioni. Molto correttamente il Presidente del Consiglio Conte ha affermato che gli italiani dovranno giudicare lui e il suo governo proprio da come utilizzeranno i fondi europei. In contemporanea, però, la maggioranza deve dare seguito alle sue promesse di ritocchi necessari dopo la riduzione drastica del numeri dei parlamentari. In ottica ancora molto populista i Cinque Stelle desiderano ridurre anche le indennità: una “casta” numericamente ridimensionata e messa a dieta con il rischio che da alcuni settori sociali, non ricchi, ma benestanti nessuno intenderà più candidarsi al Parlamento.

Il compito più complesso e delicato è quello di scrivere una legge elettorale che consenta di reclutare i migliori, i più competenti. Non c’è nessuna garanzia che “la proporzionale” abbia esiti virtuosi, come sostiene Di Maio (e, da tempo, anche Zingaretti). Dal canto suo, mentre Salvini si lecca le sue oramai molte ferite, Meloni rilancia un non meglio precisato presidenzialismo accompagnato da un altrettanto imprecisato “maggioritario”. È una discussione, non nuova, destinata a durare. I risultati delle elezioni regionali hanno certificato l’ascesa di Fratelli d’Italia che, però, non hanno ancora raggiunto la Lega, e una leggera, ma significativa, ripresa del Partito Democratico con conseguente rafforzamento del segretario Zingaretti. Il non buono stato di salute elettorale dei Cinque Stelle sembra essere una garanzia che l’alleanza di governo continuerà. Conte va. Il suo cammino, che dipende in notevole misura dalle sue capacità, può continuare.

Pubblicato AGL il 23 settembre 2020

Quanto peserà il doppio voto sul governo @domanigiornale

  • Il referendum costituzionale non riguarda il presidente del Consiglio Conte. Dicendo senza nessuna particolare enfasi che voterà “sì”.  Non c’è nessuna ragione per la quale un’eventuale vittoria del No debba incidere sulla sua carica istituzionale.

  • Il referendum riguarda semmai parlamentari e dirigenti delle Cinque Stelle, il Pd e i parlamentari della Lega, autrice della proposta originaria di “taglio delle poltrone”

  • Nessuna crisi di governo è giustificabile, e certamente non la sarebbe per il presidente Sergio Mattarella, nella delicatissima fase in cui il governo ha l’obbligo di formulare progetti fattibili, limpidi nei costi e nei tempi, per ottenere i sussidi e i prestiti del piano Next Generation Eu.

 

Alla pletora di informazioni manipolate, di retroscena fantasiosi, di postscena immaginari che andranno rapidamente al macero consentendo ai loro pronosticatori di farla franca, vorrei contrapporre alcuni ragionamenti, realistici e lineari (sic).

No, il referendum costituzionale non riguarda il governo se non in minima e trascurabile parte. Le revisioni costituzionali le propongono i partiti e le analizzano e, eventualmente, le approvano i parlamentari. Ciascuno di loro in coscienza e, quando ce l’ha, in scienza, ha l’obbligo politico e etico di assumersene la responsabilità.

Quindi, semmai, il referendum riguarda parlamentari e dirigenti delle Cinque Stelle, il Pd e i parlamentari della Lega, autrice della proposta originaria di “taglio delle poltrone” (e dei poltroni). Ciascuno può, se vuole, misurare il tasso di opportunismo dei tre gruppi di protagonisti. Se vincesse il “sì”, gli unici che potranno effettivamente rallegrarsi, meglio se lo faranno senza ballare scompostamente su un balcone, saranno i Cinque Stelle.

No, il referendum costituzionale non riguarda il presidente del Consiglio Conte. Dicendo senza nessuna particolare enfasi che voterà “sì”, Conte ha esercitato la facoltà che hanno tutti i cittadini di rendere noto il loro voto. Non c’è nessuna ragione per la quale un’eventuale vittoria del No debba incidere sulla sua carica istituzionale. Conte e il suo governo hanno il diritto costituzionale di rimanere in carica fintantoché godono della “fiducia delle due camere”. Toccherebbe alle opposizioni di andare a vedere le carte attraverso una mozione di sfiducia.

No, neppure significative vittorie del centro-destra nelle elezioni regionali possono essere brandite contro il governo. I cittadini italiani sanno per che cosa votano e, anche se il voto di un certo numero di loro è improntato anche all’insoddisfazione proprio per l’azione di governo, non può in nessun modo essere utilizzato per condurre automaticamente a una crisi del governo. Tuttavia sia i Cinque Stelle sia il Pd dovranno tenere conto del voto e delle sue proporzioni. Questo vale anche per le opposizioni.

No, né il referendum né le elezioni regionali, se i risultati fossero molto negativi, in nessun modo dovrebbero essere utilizzati contro Nicola Zingaretti per sostituirlo. Comunque, è imperativo che il Partito democratico funzioni secondi il suo statuto e le regole che richiedono la messa in moto della procedura che implica ricorso alle primarie e loro svolgimento.

No, nessuna crisi di governo è giustificabile, e certamente non la sarebbe per il presidente Sergio Mattarella, nella delicatissima fase in cui il governo ha l’obbligo di formulare progetti fattibili, limpidi nei costi e nei tempi, per ottenere i sussidi e i prestiti del piano Next Generation Eu. Nessuno può credere che le autorità europee sarebbero disponibili a trattare con un Matteo Salvini amico del dittatore bielorusso Lukashenko, appena censurato dal parlamento europeo ma senza i voti della Lega. Neanche quelle autorità vorrebbero leggere le duemila (sic) proposte che la generosa Giorgia Meloni, evidentemente incapace di valutare le priorità, si vanta di avere già pronte e si duole che Conte e i suoi ministri non abbiano mostrato alcun interessamento. Dopo il referendum e le votazioni regionali sarà, dunque, tutto come prima?

Evidentemente, No. Conteranno i numeri e le interpretazioni, ma ancora una volta saranno da evitare terribili semplificazioni.

Pubblicato il 21 settembre 2020 su Domani

 

L’Europa c’è e rimbalza #NextGenerationEu

L’Unione Europea fa passi avanti, qualche volta piccoli qualche volta lunghi, costantemente. Prendendo le mosse dall’accordo raggiunto fra il Presidente francese Macron e la Cancelliera tedesca Merkel (nulla di cui scandalizzarsi trattandosi dei due Stati-membri più importanti), Ursula von der Leyen, Presidente della Commissione, ha presentato un ambiziosissimo programma di interventi a sostegno della ripresa economica per la “prossima generazione” dell’Unione Europea. Alquanto imbarazzati i sovranisti, a partire da quelli italiani, hanno fatto spallucce affermando che il programma non passerà nel Consiglio Europeo di metà giugno e che i soldi arriveranno molto tardi, solo all’inizio del 2021. Prima delle critiche, è opportuno concentrare l’attenzione sull’entità senza precedenti dell’intervento: più di 700 miliardi di Euro, una parte sotto forma di prestito a lungo termine, una parte sussidi ai singoli Stati-membri che li riceveranno per progetti chiaramente definiti, per l’economia verde, per la digitalizzazione, per le infrastrutture. L’Italia, paese al quale va la parte più grossa dei fondi, potrà ottenere fino 170 miliardi di Euro, che, per trovare un termine di confronto, equivalgono a circa cinque leggi finanziarie quelle definite “lacrime e sangue”. La sfida riguarda l’intero “sistema paese” che dovrà, anzitutto, definire con pragmatismo e precisione dove vuole spendere quei fondi elaborando un piano convincente in termini di tempi e modi, essendo noto a tutti che l’efficienza e la rapidità della spesa dei fondi europei non sono mai state il punto forte né dei governi nazionali né, tantomeno, di molti governi regionali.

I ventisette commissari europei si sono espressi in maniera concorde il che vuole dire molte cose, a partire, dalle capacità di mediazione e persuasione della von der Leyen e dei due commissari all’economia, il lettone Dombrovskis e l’italiano Gentiloni, ma anche della consapevolezza di tutti gli altri. Sappiamo che ci sono riserve da parte di quattro paesi, in ordine alfabetico: Austria, Danimarca, Olanda, Svezia, che si autodefiniscono “frugali”, ma che a Bruxelles molti preferiscono etichettare come “avari”. Non sarà facile ottenere l’approvazione del Consiglio europeo composto da capi di Stato e di governo, anche perché su materie come i finanziamenti è richiesta l’unanimità. Sono già in corso le trattative da parte della Commissione per evitare che qualche Stato-membro ponga il veto. Cresce la consapevolezza che senza ripresa dei paesi più colpiti anche i paesi rigoristi subiranno conseguenze economiche negative. Dal 1 luglio per un semestre la Presidenza del Consiglio spetterà alla Germania. Sicuramente Angela Merkel desidera conseguire un successo di grande significato sia per la Germania sia per il suo personale prestigio. L’approvazione del piano della Commissione è proprio quel tipo di evento epocale. Lo sarà soprattutto per l’Italia se saprà utilizzare al meglio le ingenti risorse attribuitele dalla Commissione.

Pubblicato AGL il 31 maggio 2020