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LA DEMOCRAZIA  Riflessioni a partire da “La teoria della democrazia in Norberto Bobbio” #17marzo #Chiampo #Vicenza

Venerdì 17 marzo, ore 20.45
 Sala consiliare, Chiampo (VI)

LA DEMOCRAZIA
Riflessioni a partire da “La teoria della democrazia in Norberto Bobbio ” di Nicola Muraro

 Ne discutono con l’ autore:

Giulio Azzolini, Prof.re di Filosofia Politica presso l’Università Ca ‘ Foscari di Venezia

Giorgio Cesarale, Prof.re di Filosofia Politica presso l’Università Ca ‘ Foscari di Venezia

Gianfranco Pasquino, Prof.re Emerito di Scienza Politica presso l’Università di Bologna
autore di Bobbio e Sartori: Capire e cambiare la politica

Le (sottovalutate) virtù dell’Europa “presbite” @Testimonianze

in “Testimonianze”, Settembre-Ottobre 2022, n. 545 “Dove va la «Terra del tramonto»? Riflessioni sull’Occidente”, pp. 61-66

Le (sottovalutate) virtù dell’Europa “presbite”

Gianfranco Pasquino*

in “Testimonianze”, Settembre-Ottobre 2022, n. 545, pp. 61-66

Mi sono sempre fatto una certa idea di Europa. De Gaulle sarebbe molto contento della parafrasi della sua idea di Francia: la grandeur. La prima pietra l’ha posta Dante mettendo in bocca a Ulisse, sicuramente consapevole dell’esistenza dell’Europa (termine greco), le famose parole:

Fatti non foste a viver come bruti
ma per seguir virtute e canoscenza

Da allora mi sono interrogato sulle modalità con le quali gli europei hanno (per)seguito la virtù e la conoscenza e come virtù e conoscenza hanno plasmato la storia dell’idea d’Europa tanto brillantemente descritta da Federico Chabod, e la storia dell’Europa reale, realizzabile, realizzata. Consapevoli che la virtù deve essere costantemente messa alla prova e che, a loro volta, è opportuno che le conoscenze siano regolarmente sottoposte a verifica, eventualmente falsificate, talvolta rinfrescate, talaltra aggiornate, gli europei si sono incontrati n e scontrati in nome di alcuni valori e hanno dato vita alla scienza come la conosciamo. Hanno anche sempre lasciato spazio ai conflitti su quei valori e ai confronti sulle conoscenze. Una ricognizione esaustiva di tutto questo va al di là delle mie competenze e delle mie forze. Probabilmente, non è fattibile, ma molti storici di valore hanno prodotto analisi eccellenti delle quali, soprattutto coloro che altezzosamente criticano l’Unione Europea che c’è e quella che non c’è, in nome di una loro Europa che non sanno delineare, dovrebbero tenere conto. Qui mi propongo di contrastare i ricorrenti annunci del declino e del tramonto dell’Occidente di cui l’Europa è parte costitutiva essenziale. Lo farò elaborando la mia idea di Europa intorno a tre principi/valori che complessivamente ne hanno (in)formato la storia e che sono le stelle polari del suo/nostro futuro: l’Europa è pluralista, progressista, presbite.

Europa pluralista

Il pluralismo in Europa è stato una conquista faticosa e dolorosa, ma importantissima e non più cancellabile. Spesso penso che uno dei punti di forza dei greci antichi sia stato il pluralismo delle loro divinità. Il cristianesimo fu, al contrario, l’imposizione del monismo religioso che venne sfidato con successo da Martin Lutero che aprì un periodo difficile, ma importante di diversificazione dei credi religiosi. L’accettazione del pluralismo religioso, a cominciare da tutti coloro che per praticare la loro fede furono costretti a emigrare negli USA, aprì la strada al pluralismo politico, la premessa fondante delle pratiche della democrazia. Laddove, come nel mondo islamico, nessun pluralismo religioso è neppure lontanamente pensabile, ne consegue una pressione pesantissima, coronata da successo, al monismo politico, quindi a forme di dominazione autoritaria, di controllo sociale e culturale, di repressione con modalità caratterizzate dalla crudeltà (la più illiberale dei vizi come ha scritto memorabilmente Judith Shklar (1928-1992), grande filosofa politica: Vizi comuni, il Mulino, 1986).

    Il pluralismo politico si è accompagnato al pluralismo istituzionale, anche grazie a Montesquieu (1689-1755), L’esprit des lois (1748), variamente declinato nelle forme di parlamentarismo e presidenzialismo, esportate, imitate, emulate un po’ dappertutto nel mondo con la drammatica eccezione delle teocrazie islamiche, con al vertice la Repubblica islamica dell’Iran. Altrove, come in troppi casi africani, riscontriamo frammentazione oppure pluralità, che non è pluralismo, di etnie. Certamente, il contrario lampante del pluralismo politico è il totalitarismo del partito unico della Cina e, in misura inferiore, ma non per questo meno deplorevole e criticabile, il regime dispotico di Vladimir Putin in Russia.

    Il pluralismo politico e quello istituzionale sono conquiste sperabilmente e sostanzialmente irreversibili dell’Occidente e dell’Europa, qualche volta esportate con successo in diverse parti del mondo, meglio se popolate da Europei di prima, seconda, … quinta generazione. Entrambi i pluralismi stanno anche a tutela del tema dei diritti che sembra appassionare un po’ tutti, in special modo coloro che non sanno che istituzioni, associazioni e diritti stanno insieme e che il liberalismo è la cornice nella quale da circa tre secoli si incontrano e si scontrano le idee dei liberali e dei non liberali. Peraltro, gli illiberali sono facilmente riconoscibili in quanto non intendono sottoporre a nessun dibattito le loro poche, mal formulate, rozze asserzioni.

Ho già accennato al contributo che il pluralismo religioso ha dato al pluralismo politico. Nel corso del tempo abbiamo variamente imparato che esistono altri pluralismi di grande importanza e significato: pluralismo economico, pluralismo sociale, pluralismo culturale.

Sono tutti pluralismi che merita mettere in evidenza, difendere e promuovere e che trovano poco o punto riscontro fuori dell’Occidente tranne che fra gli oppositori, uomini e donne, dei regimi variamente autoritari. Intendiamoci sugli aspetti più rilevanti. Pluralismo economico significa che, da un lato, uomini e donne hanno il diritto di godere delle proprietà che spesso costituiscono il baluardo della loro autonomia e indipendenza. Dall’altro, che situazioni monopolistiche e oligopolistiche sono una sfida e talvolta uno sfregio al liberalismo. Altrettanto grande e forse persino più pericolosa è la sfida del liberismo che si oppone alla regolamentazione del mercato. Infatti, un mercato sregolato si trasforma rapidamente in un luogo di straordinaria produzione di posizioni dominanti e di distribuzione di privilegi che vanno ad impattare negativamente sul pluralismo politico e sulla competizione democratica. La regolamentazione del mercato è continuamente e continuativamente esposta alla valutazione dell’efficienza e dell’equità (fairness) nonché costantemente suscettibile di variazioni, adattamenti, aggiornamenti derivanti dalla mutazione delle preferenze dei cittadini. Keynes era un liberale; Hayek un liberista. Nell’Occidente hanno entrambi la loro cittadinanza scientifica, culturale, politica. Entrambi hanno argomentato da par loro che il capitalismo può essere coniugato con la democrazia liberal-costituzionale, ma Hayek sembra volerci dire che soltanto il liberismo può dare ospitalità alla democrazia capitalistica, mentre Keynes coglie tutti gli squilibri di quel rapporto e li raddrizza attraverso il ruolo e l’intervento dello Stato democratico. Da nessuna altra parte al mondo è stato sviluppato un pensiero democratico e economico altrettanto articolato quanto quello prodotto in Europa, applicato, raffinato e riveduto. In progress, tuttora.

   Qualsiasi discorso sul pluralismo deve inevitabilmente e giustamente fare i conti con la/le società. Troppo spesso i teorici del terzomondismo contrappongono alle società occidentali, caratterizzate da differenze e solcate da conflitti, l’esistenza di leggendarie comunità di villaggi e di stili di vita con uomini (le donne sono quasi sempre esclusi) che in conversazioni pubbliche raggiungono decisioni collettive soddisfacenti per tutti. In verità, quel che sappiamo è che quei villaggi e quelle comunità sono spesso oppressive, bocciano le diversità, impongono uniformità raramente condivise. Paradossalmente, le loro esperienze maggiormente “comunitarie” fanno parte della storia del mondo occidentale: la democrazia diretta a Atene, i town hall meetings delle cittadine USA delle origini a cavallo fra il 1700 e la metà dell’Ottocento. Però a Salem, Massachusetts, sicuramente i Puritani (come scritto da Arthur Miller, Il crogiuolo; Jean-Paul Sartre, Hius clos; Nathaniel Hawthorne, La lettera scarlatta) imponevano cupo conformismo e assoluta ortodossia non pluralismo competitivo, non democrazia.

Nelle comunità si nasce. Per molti è difficile uscirne. Chi ci riesce racconta della fine di un senso di soffocamento, di acquisita libertà, non solo di scelta. Le società sono costruzioni variegate e mutevoli di uomini e donne che sono liberi nello scegliere i loro comportamenti. Sono l’esito delle decisioni individuali di mettersi insieme e di collaborare più o meno continuativamente, con un minimo di obbligazioni reciproche. Nelle democrazie europee l’associazionismo è diffusissimo, consustanziale. Costituisce anche un effettivo contrappeso al potere politico. Nel mondo non occidentale, si nasce, si vive, si muore in comunità di sangue, di etnia, di credi religiosi spesso non in competizione, ma in conflitto fino a vere e proprie guerre civili: Nigeria, Congo, Ruanda, Kenya, Sri Lanka.

Lo status delle donne non appartiene propriamente al discorso sul pluralismo, ma certo fa parte integrale di qualsiasi analisi che sappia, come dovrebbe, combinare diversità con equità (al limite, eguaglianza che preferisco coniugare al plurale). Se un paese non consente, anzi, impedisce alla metà circa della sua popolazione di acquisire e esercitare le sue capacità e conoscenze e di partecipare alla vita economica, sociale e politica, l’effetto negativo si abbatterà sull’intero sistema socio-economico e politico. Ruolo e status delle donne sono un potente indicatore del grado di civiltà conseguita in qualsiasi sistema politico.

Sappiamo che sono i talebani che negano qualsiasi diritto alle donne. Esistono talebani un po’ dappertutto e tuttora combattono violente battaglie di retroguardia, ma con il passare del tempo sono stati ampiamente ridimensionati in Europa tanto che possiamo dire con fiducia che i talebani non abitano più qui.

Europa progressista

Nel corso della storia l’Europa si è venuta caratterizzando, ovviamente con alti e bassi e con differenze fra i vari paesi, come continente del cambiamento, del miglioramento, del, oso ricorrere ad una parola oggi quasi bandita, progresso. Tutti i dati disponibili lo manifestano e lo dimostrano senza possibilità di smentite. Farò riferimento unicamente all’Indice dello Sviluppo Umano elaborato dalle Nazioni Unite e utilizzato a partire dall’inizio degli anni Novanta dello scorso secolo. Si basa su tre indicatori compositi: aspettativa di vita, istruzione, reddito pro capite. Nei primi venti posti della graduatori fanno la loro comparsa soltanto sei paesi non europei: Hong Kong, Singapore, Australia, USA, Giappone, Israele, uno solo dei quali, Singapore, non è una democrazia.  

   In termini di progresso, l’Europa si caratterizza per avere costruito deliberatamente e gradualmente il più grande esperimento di efficace supporto alla vita delle donne e degli uomini: lo stato del benessere, il Welfare state, e per continuare a estenderlo, migliorarlo e perfezionarlo a fronte delle frequenti sfide economiche e sociali come demografia e immigrazione. Da nessuna altra parte al mondo come nell’Unione Europea le persone si sentono e sono altrettanto protette, come nell’espressione delle socialdemocrazie scandinave, “dalla culla alla tomba”. I cittadini degli USA, almeno quelli che guardano fuori dai loro confini, invidiano quanto in termini di protezione della salute e delle condizioni dei lavoratori è un’acquisizione sostanzialmente irreversibile in praticamente tutti gli Stati-membri dell’Unione.

L’Unione Europea è anche il migliore esempio della validità dell’affermazione: “le democrazie non si fanno la guerra”. Nasce per porre termine al conflitto fra Francia e Germania. Si espande aggregando paesi che la ritengono uno spazio di pace e prosperità. Continua la sua azione pacificatrice come i conflittuali Stati dei Balcani possono confermare con la loro adesione e con le domande in corso. Pur consapevole del giudizio che può sembrare tranchant, la Russia di Putin non avrebbe aggredito l’Ucraina se questo paese avesse fatto parte dell’Unione Europea.

Considerando la pace giusta, non quella imposta con le armi, ma quella che fa seguito alla concordanza di vedute e alla composizione dei dissidi, l’Unione Europea è certamente un ottimo esempio delle modalità con le quali si può e potrà giungere alla pace perpetua nella concezione di Immanuel Kant: attraverso la formazione di una Federazione di Repubbliche democratiche. Il processo cominciato nel fatidico 18 aprile 1951 con la formazione della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA) non ha affatto esaurito la sua spinta propulsiva. Qualcuno potrebbe anche volere ricordare la risposta del Presidente della Francia François Mitterrand (1981-1995) a chi gli chiedeva quale estensione dovesse/potesse avere l’Europa politica: “dall’Atlantico agli Urali”. Non è affatto da escludere che questo sia un obiettivo da perseguire. Di tanto in tanto anche i Latinoamericani si interrogano sulla possibilità di fare sì che il Mercosur vada oltre la sua attuale configurazione di area di libero scambio economico. Il progresso conseguito dall’Europa rimane oggetto di emulazione.

Europa presbite

Prendo l’aggettivo presbite a prestito dal grande costituzionalista e costituente Piero Calamandrei (1889-1956) il quale così definiva la Costituzione italiana. Oggi sappiamo, a fronte di maldestri (sic) tentativi di riformarla a pezzi che, in effetti, la Costituzione ha saputo guardare lontano, e continua ad avere uno sguardo apprezzabilmente lungo. Anche l’Unione Europea, fin dal Manifesto di Ventotene di Altiero Spinelli (ex-comunista poi azionista), Ernesto Rossi (radicale) e Eugenio Colorni (socialista) si caratterizza per una prospettiva proiettata nel futuro che vuole costruire. Gli alti (vedere molto lontano: il Trattato di Maastricht 1992) si combinano con i bassi (sguardo corto: la celebrazione sottotono nel 2017 del 60esimo anniversario del Trattato di Roma, ma pur sempre orientato in avanti). Non è ancora possibile valutare quanto la Conferenza sul Futuro dell’Europa abbia indicato nuove vie da percorrere. Personalmente, sono rimasto affezionato alla triade: allargare, approfondire, accelerare. Gli allargamenti si sono succeduti e non sono affatto cessati. Gli approfondimenti risultano più difficili da delineare e da attuare anche se ricorrente è la suggestione di un’Europa a più velocità che, a mio modo di vedere, solleciterebbe molti governi a cercare davvero di correre dietro coloro che sappiano indicare strade e traguardi di ulteriore più stretta integrazione politica, sociale, di difesa, di intervento umanitario. Accelerare è quanto è stato imposto ad alcuni processi decisionali fin dall’inizio dell’aggressione russa all’Ucraina. Ne valuteremo la persistenza ad alta velocità e i frutti al termine dell’aggressione. 

   Un’Europa che sa guardare lontano, che sa fare progetti, che s’impegna a camminare su strade anche impervie (quella della difesa e quella dell’energia) può essere criticata, motivatamente. Non può, e non deve, essere criticata per mancanza di progettualità. La vecchiaia, mi disse Norberto Bobbio alla soglia dei suoi novant’anni, è non potere più fare progetti. L’Unione Europea fa progetti. Non cessa di esplorare le alternative. Di interrogarsi e di chiamare in causa e coinvolgere gli europei. Di essere un polo di attrazione dall’Atlantico agli Urali e dall’Artico a Gerusalemme (si parla anche dell’adesione di Israele). Dipingerla come un insieme di istituzioni inadeguate e inefficaci, ripiegate su se stesse, affermare che l’Europa è in declino mi pare semplicemente sbagliato.

Chiudo. Ho elaborato molto sinteticamente alcuni punti. Sono consapevole che si può fare di più e di meglio. Ciascuno di quei punti, isolatamente e in un quadro d’insieme, può essere approfondito e ampliato. Il quadro ne risulterebbe persino più convincente. Another time another place. Nel frattempo, ai declinisti lascio l’onere della confutazione, sui fatti.

Gianfranco Pasquino è Professore emerito di Scienza politica nell’Università di Bologna e socio dell’Accademia dei Lincei. Il suo libro più recente è Tra scienza e politica. Una autobiografia (UTET 2022).

“Destra e sinistra” di Norberto Bobbio #Conferenza Accademia dei Concordi #12ottobre #Arci #Rovigo

Arci Rovigo
Letterature | Piccoli grandi libri

Mercoledì 12 ottobre 2022 ore 18
Accademia dei Concordi Rovigo
Sala Oliva

Conferenza
Destra e sinistra
di Norberto Bobbio
Relatore Gianfranco Pasquino

Norberto Bobbio e il Partito d’Azione #7giugno #ConversazioniAzioniste #AzioneBologna

Martedì 7 giugno ore 17:30
Presso la sede di AZIONE Bologna e in diretta Facebook

AZIONE Bologna e il Gruppo tematico “Radici culturali e politiche di AZIONE”
Conversazioni Azioniste

Norberto Bobbio e il Partito d’Azione

Silvia Berti e Marco Lombardo
conversano con Gianfranco Pasquino

Da Harvard al cha cha cha. Il Pasquino che non ti aspetti #recensione Tra Scienza e Politica. Una Autobiografia @UtetLibri @formichenews

Il professore emerito di scienza politica e accademico dei Lincei è in libreria con “Tra scienza e politica – Un’autobiografia” (Utet), il racconto di una vita “variamente interessante” tra aneddoti personali e storia del ‘900

di Simona Sotgiu

Di libri ne ha scritti tanti, tantissimi, in diverse lingue, tradotti ed esportati in varie parti del mondo, visitate più o meno intensamente dallo stesso autore in occasione di convegni, seminari, lezioni, fellowship. L’ultima fatica di Gianfranco Pasquino, però, non si occupa di scienza politica (con la a, mi raccomando), non strettamente almeno. È, invece, un’autobiografia, che ripercorre la vita del politologo, professore emerito e accademico dei Lincei a partire da Trana (con la a, mi raccomando), città in cui è nato, per poi arrivare in diversi continenti del mondo, in particolare Stati Uniti e America Latina, fino ai banchi del Senato della Repubblica, in cui, tra le altre cose, ha aperto il dibattito sulla legge elettorale italiana con una proposta poi mai realizzata per timore di ritorno alla proporzionale (con la a, mi raccomando).

“Credo di aver vissuto una vita variamente interessante”, è questa la risposta che, come fosse Marzullo, Pasquino dà alla domanda che pone a se stesso: “Perché ho scritto la mia autobiografia?”. A scorrere le pagine del testo pubblicato da Utet, intitolato “Tra scienza e politica – Un’autobiografia”, non si può che concordare. E se non è difficile comprendere per quale ragione l’autore del libro sia stato – e sia, anche da Formiche.net – lungamente interpellato per commentare le vicende politiche italiane e internazionali, è proprio nello spaccato tra scienza e politica che si snoda la vera novità dell’autobiografia.

Figlio unico, Pasquino conta due grandi dolori nella sua vita: il primo, il più grande, la scomparsa della madre, che lo consiglierà in momenti cruciali del suo percorso personale e accademico; il secondo, “incancellabile” e forse ragione della sua incrollabile fede granata, “quando la radio comunicò che l’aereo che riportava a casa i giocatori del Torino si era schiantato a Superga”, nel 1949.

Severo con se stesso, come con gli altri, Pasquino non fu uno studente “particolarmente bravo”. Fu però in grado di catturare l’attenzione e la stima, tra i tanti, di Norberto Bobbio prima e Giovanni Sartori poi, impressionare il direttore editoriale del Mulino, Giovanni Evangelisti, negli anni ’70, pur arrivando al colloquio in piena estate, vestito da mare, a bordo di “una Giulietta spider azzurra decapottabile con qualche anno di vita che mi aveva regalato mio zio Antonio”. Difficile escludere dai traguardi quasi raggiunti, la sfiorata vittoria a una competizione di cha cha cha: “Con la mia compagna di ballo, un’americana non alta e cicciottella, sfiorammo la vittoria. Continuo a esserne molto fiero e a vantarmi del secondo posto, con relativa medaglietta” racconta, lasciando il lettore a domandarsi chi mai si sarà permesso di arrivare primo.

Non mancano, chiaramente, né la scienza né la politica, nelle 253 pagine firmate Pasquino. Sono fatte di studio e insegnamento, di proposte di legge e comizi in giro per l’Italia, di nomi e cognomi di compagni di viaggio, avversari politici e amici di una vita (ci sono anche i nemici, of course). E poi di uno schieramento netto, a sinistra, mai dogmatico e sempre critico, fedele al ragionamento più che al sentimento; di una propensione al dialogo e al dibattito, anche duro; di una spiccata ironia, rivolta agli altri e a se stesso. E poi una certezza: finito il libro, si avrà il fortissimo desiderio di leggere ancora.

Pubblicato il 9 aprile 2022 su formiche.net

L’Europa e i suoi (utili?) nemici ACCADEMIA DEI LINCEI Conferenze Lincee “Conferenza Norberto Bobbio”

10 marzo 2022

ACCADEMIA NAZIONALE DEI LINCEI
“CONFERENZE LINCEE”
Conferenza “Norberto Bobbio”
Gianfranco Pasquino
L’Europa e i suoi (utili?) nemici

Una vita da predicatore errante passata tra scienza e politica @DomaniGiornale #TraScienzaePolitica @UtetLibri

I maestri, le lezioni ad Harvard, una “borsa di studio” del Pci al Senato. «Dopo tanto studio e passione, sento che è un po’ diminuita la mia speranza di influenzare il dibattito. Ma molti sul mio Twitter mi rassicurano» Tra scienza e politica. Una autobiografia (UTET 2022)

Scrivere una autobiografia non è mai stato in cima ai miei pensieri né ai miei progetti. Però, di tanto in tanto, leggevo autobiografie interessanti: tra le quali quella dello scrittore tedesco Premio Nobel Günther Grass, Sbucciando la cipolla (Torino, Einaudi, 2007), che non mi è piaciuta; dell’importante sociologo di Harvard George C. Homans, Coming to My Senses. The Autobiography of a Sociologist (Transaction Books 1984), del sociologo politico, oppositore del regime militare brasiliano, diventato Presidente, Fernando Henrique Cardoso, The Accidental President (Public Affairs 2006). Ho conosciuto entrambi. Cardoso lo incontrai a Washington D.C. nell’inverno del 1978, poi in alcuni convegni accademici. Affittai per un prezzo davvero modico la bella casa di Homans quando insegnai alla Summer School di Harvard diversi anni a partire dal 1980. Tuttavia, i miei ricordi di vita furono stimolati da due occasioni molto distanti e lontane. Il docufilm di Nanni Moretti, Santiago, Italia, che mi spinse a scrivere per il Mulino il resoconto dei miei ripetuti incontri (osservatore parlamentare del plebiscito del 1988 e delle elezioni presidenziali del 1989; incontro con la Presidenta Michelle Bachelet nel 2009) con il Cile: Italia, Santiago (n. 1/2019, pp. 156-163).

Seguì la richiesta da parte dell’Ambasciatore Alessandro Cortese de Bosis di avere uno scritto in memoria di suo zio Lauro, l’antifascista che, dopo avere volato sui cieli di Roma lanciando manifestini contro Mussolini, scomparve nel Tirreno. Questa storia è elegantemente narrata da Giovanni Grasso, Icaro. Il volo su Roma (Rizzoli 2021). Dovevo raccontare il mio semestre a Harvard nel 1974-75 quando fui Lauro de Bosis Fellow in the History of Italian Civilization. La Fellowship, primo assegnatario Gaetano Salvemini, era stata istituita dalla compagna di de Bosi, l’attrice Ruth Draper. Fu in quel periodo a Harvard che conobbi il più giovane Mario Draghi, allora Ph.D. candidate al Massachusetts Institute of Technology, sotto la supervisione del futuro Premio Nobel Franco Modigliani. Con questi due lunghi interventi il dado era tratto. Al resto pensò il Covid-19 cancellando tutte le gratificanti conferenze live, in persona, almeno quaranta all’anno negli ultimi dieci anni, ottanta conferenze nel 2016 contro il plebiscito costituzional-personalistico di Renzi, e i relativi, talvolta non brevi e non facili, viaggi (ancora grazie a chi mi invitò a Sciacca al tramonto).

In maniera sistematica, tutti i giorni, mattina e pomeriggio, mai la sera, scrissi, non di getto, ma riflettendo, ricercando, correggendo e precisando, con l’aiuto di una lettrice attenta soprattutto perché curiosa del mio passato, la mia biografia intellettuale. Racconto quello che sono diventato come studioso e docente, come parlamentare, come collaboratore (“imprevedibile” disse uno dei direttori) di molti quotidiani, last but not least, del “Domani”. C’è qualche riferimento molto discreto e riconoscente alle donne che hanno accompagnato parti della mia vita, ma, non c’è quasi nulla, per esempio, sulle mie vacanze da adolescente a Rapallo e Zoagli, sui miei fortunosi campeggi, sulla mia inadeguatezza tanto come sciatore quanto come surfista, sulle mie escursioni turistiche dalla Sardegna alla Corsica, dalla Grecia alla Spagna al Portogallo. Sì, nonostante il mio essere integralmente torinese il Mediterraneo è il “mio” mare.

La storia inizia nella Torino del Grande Torino la cui scomparsa a Superga quel pomeriggio piovoso e grigio del 4 maggio 1949 costituisce il secondo più grande dolore della mia vita. Nella Torino i cui nomi delle scuole segnalano un passato di uomini degni del nostro apprezzamento: elementari De Amicis; medie Costantino Nigra; liceo classico Camillo Benso di Cavour, da qualche anno diventato il miglior liceo cittadino e uno dei migliori d’Italia, allora inesorabilmente dietro il D’Azeglio, il liceo di Augusto Monti e Massimo Mila, Norberto Bobbio e Giancarlo Pajetta, Cesare Pavese e Franco Antonicelli, Giorgio Agosti e Leone Ginzburg. Ai miei tempi, al Cavour la personalità più importante fu Livio Berruti, olimpionico a Roma 1960 sui duecento metri. Pochi anni dopo, Adelaide Aglietta, segretaria del Partito Radicale, coraggiosissima giurata nel processo del 1977 alle Brigate Rosse. Dopo buoni studi con professori preparati (mai perso una lezione) esigenti, ero approdato all’Università, corso di laurea in Scienze Politiche. Non proprio quello che desiderava mia mamma, cioè, un figlio laureato in ingegneria, prestigio e guadagno. La immagino lieta e sorridente al sapere che mio figlio è diventato ingegnere.

   Non mi ero mai posto l’interrogativo di che cosa avrei fatto. L’insegnamento di Storia e Filosofia nei licei mi è sempre parso attraente anche, credo, per l’influenza indiretta del mio professore di liceo, valdese, antifascista, per anni sospeso dalla cattedra durante il fascismo. Il resto lo fecero i grandi professori a Scienze politiche, in rigoroso ordine alfabetico: Norberto Bobbio, Leopoldo Elia, Luigi Firpo, Francesco Forte, Siro Lombardini, Alessandro e Ettore Passerin d’Entrèves, Guido Quazza. L’inserimento nell’accademia fu relativamente facile e rapido, piuttosto fortunato, ma anche meritato. Con un Master in Relazioni Internazionali della School of Advance International Studies della Johns Hopkins, un anno a Bologna, un anno a Washington, D.C., di scienza politica ne avevo imparata e ne sapevo abbastanza da essere reclutato da Giovanni Sartori e da cominciare a insegnare a Bologna (e anche a Firenze). Facevo anche conferenze varie in Emilia-Romagna, scrivevo articoli, partecipavo a dibattiti. Fui nominato Direttore di una ricerca sul terrorismo affidata all’Istituto Cattaneo dopo la strage alla stazione di Bologna. Poi, una somma di circostanze: divenni Direttore della rivista “il Mulino”, il mio piccolo libro Crisi dei partiti e governabilità (il Mulino 1980) fu letto da Ingrao che volle conoscermi, ad un convegno a Torino sul PCI “liocorno o giraffa” il mio intervento fu apprezzato da Giorgio Napolitano, infine, nella ricerca da parte del PCI di, lo debbo scrivere proprio così, “personalità della cultura” per il Parlamento 1983 su suggerimento di Lanfranco Turci, Presidente delle Regione Emilia-Romagna, con mia grande sorpresa (avevo praticamente accettato di andare a insegnare negli USA), mi venne offerta la candidatura. Scelsi il Senato e non me ne sono pentito. Scherzando ho talvolta parlato di una ricca borsa di studio offertami dal Partito Comunista Italiano. Lascio la valutazione ai molti dirigenti e miIitanti di partito, non quelli di Bologna che mi hanno poi regolarmente ignorato. Da Reggio Emilia a Cosenza, da San Giovanni Valdarno a Trani, da Pesaro a Treviso, da Rimini a Ferrara (elenco nient’affatto esaustivo), ancora oggi i “compagni” si ricordano di me e della mia disponibilità e io ricordo la grande maggioranza di loro come genuinamente interessati alla politica, a capire come rappresentare e come governare. Ho imparato tantissimo. Divenni abbastanza noto anche grazie al mio libro Restituire lo scettro al principe (Laterza 1985) frutto della mia esperienza nella Commissione Bozzi. Ebbi colleghi come Andreatta e Giugni, Sergio Mattarella e Eliseo Milani, Pannella e Natta, Ruffilli, il prudente Barbera e il conservatorissimo Rodotà. Tre legislature molto differenti, molte impegnative, culminate in una sconfitta nel 1996 nel collegio di Piacenza dove, oggettivamente, c’entravo molto poco. Qualche rammarico, ma tornando subito all’Università ebbi modo di scrivere quello che fu e rimane l’unico testo base di scienza politica opera di un solo autore.

   Grazie a Bobbio ero diventato da tempo condirettore del Dizionario di Politica, la cui edizione del 2004, Bobbio non ebbe modo di vedere. Grazie a Sartori diventai condirettore della “Rivista Italiana di Scienza Politica” e con il suo sostegno sono stato eletto socio dell’Accademia dei Lincei. Con il permesso accordatomi da entrambi mi fregio del titolo di loro allievo. Da qualche anno vengo invitato a talk show televisivi, non più a quelli nei quali ho blandamente corretto qualche esternazione fuori luogo del conduttore/conduttrice. C’est la vie. Rimango, come ha detto una mia cara amica sociologa tedesca, un Wanderedner (predicatore errante). Sento amaramente che è un po’ diminuita la mia speranza di avere qualche influenza sul dibattito pubblico, ma molti interlocutori sul mio Twitter (@GP_ArieteRosso) gentilmente mi rassicurano. Nelle parole di Kant “fai quel che devi accada quel che può”, spesso citate da Bobbio, trovo qualche conforto. Chi leggerà Tra scienza e politica. Una autobiografia (UTET 2022) ne saprà di più e deciderà se il conforto è meritato.

Pubblicato il 11 marzo 2022 su Domani

Il problema etico con i redditi privati del senatore Renzi @DomaniGiornale

Di tanto in tanto, ma in Italia piuttosto raramente, qualcuno solleva un argomento delicatissimo: il posto dell’etica in politica. Addirittura se debba esserci un posto, anche piccolo, per l’etica in politica. Sulla scia di non pochi filosofi della politica, da Immanuel Kant a Norberto Bobbio, ritengo che la politica liberale e democratica abbia a suo fondamento un’etica. Intendo per etica alcuni principi fondamentali da rispettare e praticare senza eccezione alcuna. Fra i molti principi che stanno alla base del liberalismo, parola sulla bocca di molti che non sanno di cosa parlano, sta quello, praticamente costitutivo, che il potere politico, nato per riequilibrare e contrastare il potere economico, deve essere e rimanerne separato. Non deve essere usato per acquisire potere economico. A sua volta il potere economico non deve mai trovarsi in condizione di controllare il potere politico, di subordinarlo, di imporre le sue preferenze, i suoi interessi. L’esistenza di un conflitto fra gli interessi privati e i doveri pubblici è un vulnus gravissimo che può indebolire e svilire qualsiasi politica liberal-democratica.

   Dal punto di vista liberale utilizzare le cariche politiche per ottenere ricompense economiche di qualsiasi entità e di qualsiasi provenienza è un comportamento non etico. Potrebbe anche essere un comportamento non necessariamente illecito dal punto di vista delle leggi vigenti. Tuttavia, la sua non “eticità” appare lampante. In molti sistemi politici vale il principio che ai detentori di cariche di rappresentanza e di governo bisogna negare la possibilità di ricevere denaro in cambio di prestazioni come lezioni, conferenze, consulenze fintantoché hanno una carica. La ratio è che non solo è probabile che siano interpellati, reclutati e pagati quasi esclusivamente perché hanno quella carica, ma anche perché è assolutamente probabile che coloro che ricompensano quelle prestazioni lo facciano in buona misura anche per ingraziarsi quei politici.

   Più o meno inconsciamente, i politici che ricavano guadagni dalle loro attività a favore di associazioni e governi, di persone e di enti finiranno per non sentirsi liberi quando gli interessi dei loro “donatori” faranno capolino. Saranno influenzati nelle loro argomentazioni pubbliche, nelle decisioni da prendere, negli emendamenti da scrivere, nelle leggi da votare. Non potranno mai essere al di sopra dei sospetti cosicché quei sospetti, legittimi o no, inquineranno il dibattito pubblico, renderanno problematica la trasparenza dei processi decisionali, colpiranno la qualità della democrazia. Forse, come sostiene il senatore Matteo Renzi, le sue conferenze sono lautamente pagate perché riflettono l’importanza di insostituibili conoscenze derivanti anche dalla sua esperienza di capo del governo, ma non sono penalmente rilevanti. Certamente, però, sollevano un problema etico: uso del potere politico per l’ottenimento di profitti economici, di prima grandezza. Nella patria del liberalismo, la Gran Bretagna, molti affermerebbero “it’s simply not done”. Non s‘ha da fare.

Pubblicato il 10 novembre 2021 su Domani

Gianfranco Pasquino: “La democracia no es solamente política, es sociedad y cultura” #entrevista @perfilcom @Fontevecchia

Discípulo de Norberto Bobbio y Giovanni Sartori, considera que Italia y Argentina son países que comparten un cierto desorden institucional que a veces funciona mejor y otras, peor. Pero nuestro país aporta una particularidad única en el mundo: el peronismo. Para él, representante de la izquierda moderada de su país, cumplir con las reglas no solo es una formalidad. También debe ser un camino que contribuya a reducir las desigualdades en la sociedad.

Aun antes de la derrota de Donald Trump y de las malas expectativas de Jair Bolsonaro por su mala conducción del coronavirus, ya en 2019 usted dijo ser optimista por el futuro de la democracia. ¿Los últimos resultados confirman esa idea? 

—Continúo siendo bastante optimista sobre el futuro de la democracia. La democracia de los Estados Unidos es hoy mucho mejor que cuando Trump fue presidente. Joe Biden realizará muchas transformaciones y esperemos las reacciones de su sociedad. Estados Unidos nunca tuvo la democracia más importante del mundo. Habrá cambios positivos. Jair Bolsonaro tiene una democracia de calidad limitada. Es real que puede perder las elecciones.

—¿La buena performance de Vox, el avance general de la derecha en las elecciones en España y en parte de Europa van en sentido opuesto? 

—Vox en realidad tiene una performance mediocre. No es verdaderamente importante. Los populistas en Europa no ganaron; más bien, perdieron. En el Parlamento europeo no tienen poder. Tienen escaños, pero no poder. Los soberanistas no tienen bastante poder para desafiar a los europeístas. Su situación es bastante mala.

—El discurso de Joe Biden por los primeros cien días de gestión fue juzgado por algunos analistas como una de las agendas más progresistas de un presidente norteamericano. El senador republicano Tim Scott calificó la propuesta como una lista de deseos liberales para justificar grandes gastos del gobierno. ¿Estamos frente a un regreso del Estado de bienestar? 

—Estados Unidos nunca tuvo un Estado de bienestar. Debe construirlo. El problema de la salud es muy importante. Obama fue en ese sentido, pero los republicanos han intentado destruir el Obamacare. El discurso de Biden fue verdaderamente progresista, pero tiene una pequeña mayoría en el Senado. Será una situación problemática. Aunque creo que es una dirección importante de cambios, no solamente políticos, sino sociales y espero que culturales. La democracia no es solamente política, es sociedad y cultura.

—Biden dijo: “Heredé una nación en crisis. La peor pandemia en un siglo. La peor crisis económica desde la Gran Depresióm”. ¿Se producirá un salto cualitativo?

—La pandemia reveló elementos negativos de todos los sistemas políticos y sociales. Hay reacciones de los ciudadanos democráticos en muchísimos países. Es posible derrotar la pandemia e introducir cambios que quedarán para ahora y para el futuro.

—¿El coronavirus construye un contexto para un predominio de lo colectivo sobre lo individual? 

—Si es así, no será automático. La pandemia construyó otro elemento bastante negativo. Creció la desigualdad. Si queremos construir una sociedad mejor, debemos reducir las desigualdades. Es posible, pero es bastante difícil.

—En esta misma serie de reportajes, el economista especialista en la desigualdad Branko Milanovic señaló que hay un riesgo en la humanidad de una nueva plutocracia. Usted se refirió en su en su libro a las seis promesas incumplidas de la democracia que había planteado Norberto Bobbio, y una de ellas tenía que ver con el tema de las élites y la distribución de la riqueza. ¿Es capaz la democracia de reducir la inequidad?

—El poder del dinero es un verdadero problema. Milanovic tiene razón. Debemos intentar controlarlo. Con poder, los ricos pueden comprar las decisiones políticas. No mejorará la vida de los demás. En América la riqueza cuenta muchísimo en política. La desigualdad del poder político… por ejemplo, en China, los miembros del Partido Comunista tienen mucho poder y hay muchísimos hombres y mujeres en China que no tienen ningún poder. La plutocracia es un riesgo que la democracia puede controlar, puede limitar, a través de la organización o las organizaciones y a través de los partidos. El problema de Estados Unidos es que los republicanos tienen mucho dinero. Pero hemos visto que los hombres, es decir los electores, pueden derrotar el poder del dinero.

—Usted cita a Norberto Bobbio: “El criterio más frecuente adoptado para distinguir la derecha de la izquierda es la diferente actitud que asumen los hombres que viven en sociedad frente al ideal de igualdad. La derecha considera que cierto grado de desigualdad es útil socialmente para aumentar la generación de la riqueza alentando la competencia”. ¿Se puede distribuir la riqueza sin generarla previamente? 

—En algunos momentos de la historia pueden darse desigualdades que producen transformaciones positivas gracias a la competencia. Pero si las desigualdades son enormes y persisten, el efecto será el contrario: un gobierno de pocos. El predominio de los oligarcas sobre la mayoría. La izquierda debe intentar reducir las desigualdades no productivas.

—Usted dijo que “el enemigo de la izquierda es su sentido de superioridad”. En un reportaje de esta misma serie, una diputada historiadora conservadora hispanoargentina, Cayetana Álvarez de Toledo, dijo que el debate de su espacio político, la derecha, era con la superioridad moral de las izquierdas. 

—La izquierda cree ser superior primero porque hay un compromiso con la transformación y el futuro. También son hombres y mujeres que conocen cómo funciona la política. Estudian, comprenden y hacen política, y valoran el rol de ejercerla. La derecha tiene comportamientos antipolíticos. Los políticos de izquierda muchas veces piensan que actúan de acuerdo con el interés general. Suelen creer que los políticos de derecha responden a un interés particular. Y no es así. Así se produce una reacción de derecha. Los hombres y las mujeres comunes no agradecen que existen personas que se crean superiores. No es un elemento positivo de la propaganda electoral y de la cultura política de izquierda.

—¿Las derechas actuales crecen porque son menos solemnes que las del pasado? 

—La derecha actual crece porque hay elementos de reacción contra los gobiernos de la izquierda que no resolvieron los problemas. Entonces, si la izquierda no tiene éxito, amplía el espacio político de la derecha. En el caso de Madrid, no debemos olvidar que la derecha siempre ganó. La dimensión de la victoria del Partido Popular puede ser sorprendente. Pero todos los sondeos decían que la derecha ganaría. 

—¿Cuál es su visión personal sobre las políticas identitarias? ¿Hay alguna relación entre el nacionalismo catalán, por dar un ejemplo, el feminismo o las manifestaciones antirracistas de los Estados Unidos?

—No es una buena idea hacer política identitaria. Debemos hacer política con el cerebro y no con otras partes del cuerpo, como dice Max Weber. Somos hombres y mujeres racionales. Debemos discutir sobre lo que queremos hacer, no sobre nuestra identidad. Nuestra identidad es importante psicológicamente, pero no en política. La política identitaria produce choques y no progreso. El problema de los Estados Unidos es que hay demasiados grupos que actúan siguiendo la política identitaria. En España también, en Italia la Lega Nord cree en la política identitaria de los que viven en el norte del país. 

—Sobre el presidente argentino, Alberto Fernández, usted dijo: “Su estilo es como el de sus antecesores peronistas, Cristina incluida, un poco autoritario. En general, los líderes peronistas siempre piensan que saben mucho más que la oposición, que la opinión pública, que los intelectuales y los periodistas”. ¿Cuál sería la correcta taxonomía de los líderes peronistas desde su perspectiva? 

—La mayoría del tiempo piensan que interpretan los deseos, las expectativas, las emociones del pueblo. Sucede con los populistas. Hay una estrecha relación entre peronismo y populismo. Juan Domingo Perón fue un gran populista. Y muchos de los dirigentes actuales de su fuerza tienen algo o mucho de populistas. Fernández lo tiene; pero, por ejemplo, Carlos Menem tenía muchísimo más. La manera como habla Cristina cuenta con componentes populistas muy visibles. Aunque debo aclarar que no soy especialista en temas de Argentina.

—Alberto Fernández se autopercibió como socialdemócrata y dijo textualmente: “Más cercano a la filosofía hippie que a la tradición cultural del peronismo”. ¿Pueden convivir socialdemocracia con populismo de izquierda?

—El populismo puede ser de izquierda. En toda democracia hay elementos populistas. Democracia es poder del pueblo. No podemos eliminar al pueblo de la democracia. La socialdemocracia no es populista porque organiza la política. No hay un líder, como referencia, que establece una relación especial con el pueblo. Se ejecuta un programa y se intenta convencer al pueblo de que ese plan es el conveniente. Puede ser que el líder socialdemócrata sea querido por el pueblo, pero los socialdemócratas nunca son populistas.

—Al populismo y al peronismo les tocó gobernar siempre en períodos en que había riqueza para distribuir. ¿Pueden ganar las elecciones en un contexto de caída económica? 

—Eso necesita un análisis comparado. Hay situaciones en las cuales la izquierda puede ganar las elecciones cuando hay una crisis profunda. Es el caso de Franklin Delano Roosevelt, en 1932. Estados Unidos tenían una crisis económica profunda. Roosevelt ganó y transformó el país. También en Gran Bretaña, en 1945, la reconstrucción del país fue en las manos de los laboristas. El Frente Popular en Francia, en 1936, tenía una situación económica bastante complicada, pero ganó la elección. Depende de la política. La política puede ser la guía de cambios socioeconómicos importantes. Los líderes y las organizaciones pueden convencer a la mayoría de los sectores.

—En “La razón populista”, Ernesto Laclau rescata el ideario de Antonio Gramsci. Dice, por ejemplo: “El incipiente movimiento que hallamos en Gramsci de las clases a las voluntades colectivas debe ser completado”. ¿Cuál es el lugar actual de Gramsci en el pensamiento político italiano?

—Gramsci nunca fue populista. Fue un hombre de partido. Creía en la potencialidad y en la capacidad del Partido Comunista italiano de derrotar al fascismo y de construir una sociedad nueva de forma menos autoritaria o totalitaria que Vladimir Lenin y Josif Stalin. No puede ser utilizado en tal marco teórico. No debemos olvidar que Gramsci pensó en el contexto del fascismo en el poder. No es del todo un teórico de la democracia. Es un teórico de la protección y de la promoción de los intereses de las clases populares, del proletariado. La hegemonía no consiste solo en poder y violencia. También es la capacidad de convencer, de transformar las ideas, las opiniones. Es un proceso no solo político, sino cultural. Que debe ser guiado, liderado, por un partido político organizado, de masas.

—Una de las inspiraciones de Mauricio Macri fue la figura de Silvio Berlusconi. ¿Cómo analizaría usted las ideas y la gestión de Mauricio Macri?

—Imitar a Berlusconi fue una buena idea para ganar el poder. Llegó a la presidencia. Pero los empresarios no saben gobernar. La política es diferente de la empresa. En la empresa hay alguien que decide y otros que actúan, producen los cambios. La política nunca es un problema solamente de decisión. Es un problema de colaboración, de producir consensos. Hay que aprender. Aceptar que hay decisiones que deben cambiarse. Es una actividad mucho más complicada que la de los empresarios. Macri no tuvo éxito. Si un presidente no es reelegido, la sanción electoral es clara.

—Escribió: “Bobbio no ha sido un intelectual tradicional “. ¿A quién le hablaba? 

—Los intelectuales orgánicos tienen una posición dentro de un partido. Gramsci los identificó con mucha claridad: piensan que el partido es el medio de transformación social. Pero también están los intelectuales públicos. Norberto Bobbio, como Giovanni Sartori, fueron intelectuales públicos. Hay otros intelectuales públicos en Europa. George Orwell en Inglaterra y Jürgen Habermas en Alemania lo fueron. Hablan al público, aceptan la responsabilidad de lo que dicen. No hacen política directamente, aunque tienen una ética política.

—¿Hace suya la frase de Sartori “El intelectual no debe ser indiferente, pero debe permanecer independiente”? 

—Un intelectual debe saber ver todos los elementos problemáticos de una situación. Intentar comprender lo que los hombres y las mujeres piensan, sufren, lo que pueden hacer, pero debe saber producir decisiones después de la evaluación. Que sean el producto de su pensamiento, de su conocimiento, de su experiencia. El intelectual público es de alguna manera solitario. Lo que no quiere decir que sea triste.

—En el libro sobre ellos, “Bobbio y Sartori”, dice que “ambos son clásicos; una característica decisiva de los clásicos consiste en saber hablarles a generaciones diferentes”. ¿Cuál es la enseñanza a los políticos y a los cientistas sociales de hoy de estos dos intelectuales italianos? 

—Bobbio se refería así sobre Max Weber. Weber es un clásico. Lo que escribió mantiene toda su vigencia. Su pensamiento es contemporáneo. Mi sugerencia a los políticos es que deben leer, aprender, estudiar. La política tiene historia. Hay muchísimas enseñanzas en Aristóteles, en Pericles, en los clásicos latinos. Es necesario comprender Maquiavelo. Es necesario conocer sobre análisis económico. Karl Marx es un clásico. No tuvo razón en muchas cosas, pero su método de análisis es importante. Joseph Schumpeter es un clásico. No son autores del pasado únicamente. Resultan contemporáneos.

—¿Qué opinarían Bobbio y Sartori sobre la polarización actual? 

—La polarización nunca es buena, Bobbio y Sartori la criticaron, cada uno a su manera. En el caso italiano también. Porque el Partido Comunista y el Partido Neofascista intentaban polarizar un poco la política. Los neofascistas más que los comunistas. Bobbio intentó hablar con los comunistas, convencerlos de cambios indispensables. Sartori fue más crítico de los comunistas. Los considera parte de los antisistema. La polarización peor que veo hoy es la que los republicanos produjeron en los Estados Unidos. Se desplazaron a la extrema derecha. 

—Me tocó moderar algunos encuentros entre el fiscal del Mani Pulite, Antonio Di Pietro, y el juez del Lava Jato de Brasil, Sérgio Moro. Una de las críticas que se hacía a Moro, en comparación con el Mani Pulite en Italia, fue que, en vez de un cambio en el sistema político, lo que sobrevino fue algo peor, como Jair Bolsonaro. ¿Qué se debe hacer con la corrupción? ¿Qué le sugiere el concepto de lawfare?

—La corrupción es un mal. Corrompe, y no solo a los políticos. Lo hace con toda la sociedad y toda la política. Debe lucharse siempre contra ella. La política italiana no estaba más estructurada cuando el Mani Pulite actuó contra la corrupción. Se creó el espacio en el que Berlusconi entró dentro de la política. Si los partidos políticos hubieran sido organizados, no habría tenido espacio. La situación argentina y brasileña me parecen diferentes. Pero la lucha contra la corrupción debe ser continua, constante e incesante. El problema es el sistema judicial también. Se necesita un sistema judicial incorruptible, con jueces que no intenten hacer política ni entrar en política. Creo que Di Pietro no fue un buen ejemplo. Creo que Moro tampoco. 

—¿Hay diferencia entre ciencia política y filosofía política? ¿Marx fue un filósofo político?

—Una frase histórica del marxismo es que los filósofos estudiaron el mundo. Ahora debemos cambiarlo. Pero Marx fue un filósofo, continuó estudiando el mundo. No tenía las herramientas por cambiarlo. Los cientistas políticos tienen las herramientas. Es algo que aprendí de Sartori. La ciencia política no es como la astronomía. Intenta cambiar situaciones. Sabemos cómo construir un partido político, cómo escribir una Constitución, controlar el poder. Sabemos que deben existir frenos y contrapesos, sabemos que hay que limitar la desigualdad en una democracia. La diferencia es que la filosofía política puede inventar un mundo nuevo; la ciencia política puede construirlo.

—Bobbio, a diferencia de Sartori, llamó a los miembros del Partido Comunista en 1964 a sumarse a un gran Partido Socialista, mientras que para Sartori eran antisistema. Jean-Luc Nancy habla de lo común; Gianni Vattimo, del comunismo hermenéutico. ¿Renace el concepto?

—El comunismo existe. Existe en China, Corea del Norte, Vietnam. Parece que Vietman ha derrotado al virus, en un régimen comunista con un partido único. Son sociedades sin ninguna competencia entre partidos. El comunismo existe y puede funcionar como técnica de desarrollo económico. El comunismo no produce democracia nunca, porque democracia es competencia, sería el fin del Partido Comunista. En Europa no existe más. Existen pequeños grupos solamente que no son comunistas. Es una izquierda radical, extrema. Tiene elementos populistas, pero no ganan elecciones. Cuando tienen racionalidad, participan de coaliciones de izquierda. Es lo que ocurre en Portugal.

—¿Por qué es importante concebir a la democracia como isonomía, igualdad ante la ley? ¿En la democracia la forma es el fondo? 

—No totalmente. La forma es muy importante, importantísima. Pero hay otros elementos, no solamente la forma, las reglas y lo procedimental. Debemos evaluar también los efectos. Por ejemplo, Bobbio fue siempre considerado como el teórico de la democracia formal, pero Bobbio pensaba, por ejemplo, que la democracia debe saber educar a los ciudadanos, debe saber introducir transparencia, debe derrotar a los poderes secretos, que ustedes en América Latina llaman fácticos. Debe ser capaz de reducir las desigualdades. La democracia meramente formal es algo estéril; debe tener un contenido sustancial. No es posible una democracia sustancial sin una democracia formal. La democracia formal es el prerrequisito de la democracia sustancial.

—Usted escribió, sobre el libro de Giovanni Sartori “Homo videns”, que la opinión pública está hecha de ciudadanos cuyas informaciones de base son inducidas a la equivocación y manipuladas por la exposición masiva a la televisión. ¿Modifican las redes sociales esa mirada?

—Sartori consideraba muy importante cómo se forma la opinión pública. Debería ser el producto de un diálogo, de una conversación pública. Las redes sociales, Twitter, Tik Tok, Instagram, no producen tal conversación. Pueden generar polarización, la visibilidad de algunos influencers. Pero no produce verdadera opinión pública. Si no hay una verdadera opinión pública, la democracia tiene problemas. 

—¿Las redes sociales son una especie de Babel moderna que producen enorme cantidad de lenguas que no se entienden entre sí y se ocluye el debate? 

—Sí, puede ser. La situación de Babel fue interesante. El caos es aceptable cuando nadie puede imponer el orden. El caos puede ser creativo; Babel puede ser creativa. Pero los hombres y las mujeres necesitan alguna expectativa de orden. El orden político es necesario porque reduce las preocupaciones. Permite programar actividades y futuro. Babel puede estar bien, pero por un cierto plazo de tiempo, no eternamente, porque hay alguien que impondrá el orden político. Un mecanismo normalmente autoritario.

—En la Argentina suele analizarse la actual democracia como un movimiento que fue pasando del bipartidismo al bicoalicionismo. ¿Es una condición del sistema presidencialista?

—La competencia bipolar es importante. Puede ser útil. El bipartidismo no puede constituirse artificialmente. Es un producto histórico de largo plazo, como el de Inglaterra, el de Australia, el de los Estados Unidos. No se constituye a través de algunas reglas, no basta con cambiar la ley electoral. Es un producto histórico. El bipolarismo puede ser construido. Coaliciones con algunos partidos, partidos que pueden juntarse en una coalición A o en una coalición B. La presencia de coaliciones es importante. Obliga a la responsabilidad de quienes las constituyen. Hay una palabra en inglés que es accountability. Rendir cuentas. Eso es lo que yo llamo la virtud democrática. Y si hay dos coaliciones, las dos deben rendir cuentas a los electores. Si hay un magma de muchos partidos, la accountability no funciona.

—En otro de sus libros sobre democracia italiana, usted escribió, y lo voy a leer textualmente: “Los ciudadanos se merecen el gobierno que reciben. Esa famosa frase puede interpretarse de muchas maneras, aunque la mayoría de los italianos siempre han pensado que merecen un gobierno mejor y hay buenas razones para creer que los gobiernos italianos son, y siempre han sido, no solo el producto genuino de una sociedad que tiene muchos inconvenientes, sino también efectivamente representativos de las preferencias y los sentimientos de los ciudadanos”. Podría decir que esta misma frase textualmente se podría aplicar a la Argentina. ¿En qué se parece la política argentina a la italiana?

—En la desorganización, pero la política argentina tiene un elemento muy diferente: la presencia del peronismo. El peronismo es un factor único en América Latina, en el mundo. No existe un movimiento similar. Los elementos comunes son la desorganización de la política, la inestabilidad, la insatisfacción de los votantes. Cambian comportamientos electorales, pero eso produjo estabilidad política y no ha producido liderazgos de alto perfil.

—¿Es comparable el compromiso de la Italia civil contra el fascismo con su equivalente en la Argentina contra la dictadura?

—En cierta manera sí. Es una comparación posible. Es un elemento importante y a veces positivo. Pero algunos elementos deteriorados del fascismo en Italia y de la dictadura militar en Argentina continúan existiendo. Es algo que debemos resolver.

—¿La polarización es un estadio inferior de un proceso que tiende hacia el centro político? 

—No, el centro no es nunca un lugar que puede establecer una democracia viable. El centro es un lugar donde no se decide. No hay alternativas. El centro es un lugar de compromiso. Creo que las democracias necesitan competencia. Necesitan alternancia o rotación en el gobierno. Los electores deben escoger entre alternativas bastante claras. La polarización es peor que el gobierno del centro, pero el centro es un lugar que no me gusta.

—Sobre la vieja discusión acerca de que la política es un arte y no es una ciencia, y aquella frase de Benedetto Croce acerca de que la historia siempre necesita una nariz de Cleopatra, ¿cuánto se puede enseñar ese arte? ¿Se puede enseñar empatía?

—Se puede aprender mucho, muchísimo. Yo comparto lo que Maquiavelo escribió hace más de 500 años. Podemos aprender de la historia de los sistemas políticos. Maquiavelo aprendió mucho de la historia romana, de los grandes escritores de política romana. Podemos aprender mucho de nuestra participación en la política como ciudadanos, como profesores, como periodistas. Podemos sorprendernos con los elementos que influyen sobre la política. Lo podemos aprender y hacer interesante la política. Una cosa es hacer política y otra, estudiarla. Si estudiamos bien la política, podemos hacer una política mejor.

—¿Hay algo performativo en su relación con el apellido, con la estatua del Pasquino, donde comenzó a hacerse públicos los textos críticos a la autoridad en forma de carteles?

—Una pregunta muy personal. Hay tres explicaciones sobre mi apellido. Puede ser un soldado francés de Napoleón. El apellido Pasquin existe en Francia. Puede ser alguien que venía de Roma y que, como romano, fue nombrado pasquino como referencia a la estatua en Roma. Y puede ser otra cosa que considero importante. Hubo un italiano que vivía en Piemonte o en Torino, donde nací, que tenía ese sentido de humor anticlerical. Alguien con sarcasmo, pero capaz de analizar las situaciones y de hablar con otros interlocutores. 

—Escribió que la república de Sartori es una democracia parlamentaria, liberal constitucional, en la cual los gobiernos se forman en el Parlamento. ¿Qué define un sistema para que sea republicano? 

—Si se elige al presidente de la república como poderes ejecutivos, es una república presidencial, como Argentina. La elección popular directa del jefe del gobierno cambia la forma parlamentaria de la democracia. Sartori lo considera una buena idea. Sabemos que hay diferentes tipos de democracias parlamentarias, como la democracia parlamentaria alemana, que es el poder del canciller. Está la democracia parlamentaria de Inglaterra con un sistema bipartidista. También, la democracia parlamentaria en Italia, que no funciona bastante bien, pero es una democracia. Es una democracia con inestabilidad, en algunos casos no bastante eficaz ni decisional, pero tiene momentos mejores y momentos peores. Ahora está un poco mejor que diez años atrás.

—Raúl Alfonsín estuvo interesado en convertir el sistema presidencialista en semipresidencialista y semiparlamentario. ¿Qué ventajas tienen ambos sistemas?

—Conocí personalmente a Alfonsín, un hombre muy elegante, interesante, una persona amable. Hemos discutido sobre Maquiavelo en una pequeña conferencia, cuando ya había dejado su cargo. Francia tiene una forma de gobierno semipresidencial, que funciona mejor que el presidencialismo de los Estados Unidos. Es posible otro sistema. Alfonsín quería introducir elementos parlamentarios dentro del presidencialismo argentino. Eso es más complicado, más difícil, y no sabemos exactamente cómo hacerlo. No sé si es posible.

¿Es posible un Green New Deal exportable para Europa? 

—Sí. Además, es importante. Finalmente, los europeos comprendieron que lo necesitan. Si no hay Green Deal, si no hay una transformación de la economía en la dirección verde, no es posible vivir una vida adecuada e interesante. El aporte de Europa en este momento es mundial. La conferencia sobre el ambiente fue muy importante. Es deseable que los países no democráticos acepten algunas de las conclusiones e implementar medidas necesarias. Si la China no coopera, tenemos un grandísimo problema.

—¿Cuál será el rol de China en la pospandemia, luego de una gestión exitosa en el control de los contagios?

—El control fue exitoso, pero el comienzo fue un desastre total. Los regímenes totalitarios no saben cómo informar y no les interesa la transparencia. La respuesta china llegó, pero dos o tres meses después del comienzo de la pandemia. Complicó las respuestas de todos los otros países. Debemos intentar obtener más transparencia en los procesos no solamente decisionales, sino de comunicación política, social y cultural. Eso es algo que el partido único de China no quiere construir. Tampoco lo permite.

—A lo largo de la historia de la humanidad, siempre que hubo una potencia ascendente y otra consolidada, la supremacía se resolvió a través de una guerra. Creo que los casos demuestran que fueron 16 oportunidades a lo largo de la historia en que fue así. ¿Esa hegemonía global que propone Joe Biden puede terminar dirimiéndose en algún momento en un conflicto armado? 

—La teoría de la trampa de Tucídides es fascinante (N de R: alude a la formulada por el politólogo Graham T. Allison). Pero los hombres y las mujeres aprenden de la historia. Biden y los chinos conocen estas ideas. Saben que hay una competencia entre China y los Estados Unidos, pero no solamente entre los dos. Se necesitan acuerdos en los contextos. Y esto hará que la situación persista. Si hay una guerra será de destrucción, no solo para China y los Estados Unidos, sino para todo el mundo. Se aprende de las experiencias.

Producción: Pablo Helman y Debora Waizbrot.

Perfil 18/06/2021

#Democrazia Futura Dopo il socialismo. Metodo e sostanza @Key4biz

Il valore 45 anni dopo della raccolta di cinque saggi sui rapporti fra democrazia e socialismo

Gianfranco Pasquino rilegge Quale socialismo? di Norberto Bobbio


Alla metà degli anni settanta Norberto Bobbio raccolse in un volumetto: Quale socialismo? Discussione di un’alternativa[1] cinque suoi scritti dedicati ad una riflessione sui rapporti fra democrazia e socialismo. La raccolta di articoli omogenei era il suo modo preferito di confezionare libri e derivava dal suo essere richiestissimo per conferenze un po’ dappertutto che gli consentivano/imponevano la preparazione di testi, mai peraltro occasionali. Il tema dei rapporti fra socialismo e democrazia lo aveva sempre interessato. Oltre che i socialisti del Partito Socialista Italiano ai quali si sentiva molto vicino, i suoi interlocutori erano i comunisti. Fu molto criticato per questa interlocuzione che, peraltro, non si tradusse mai in nessuna concessione né al Pci né al marxismo. In senso più lato, scrisse nella Premessa a Il futuro della democrazia[2] della necessità di dialogare con “coloro che questa nostra democrazia, sempre fragile, sempre vulnerabile, corrompibile e spesso corrotta, vorrebbero distruggerla per renderla perfetta” mai disperando “nella forza delle buone ragioni”[3].

Perfezionisti non erano e non furono soltanto i comunisti, ma, in quanto rappresentativi per quarant’anni di un quarto, poco meno di un terzo dell’elettorato italiano, meritavano certamente il massimo di attenzione. Il futuro della democrazia italiana dipendeva anche dalla loro evoluzione. Bobbio ne aveva già messo alla prova le loro credenziali democratiche con riferimento alla libertà, della cultura, della critica, degli intellettuali, in un libro che, non un best-seller (come molti anni dopo, nel 1994 sarebbe stato Destra e sinistra[4]), fu un long-seller: Politica e cultura[5], uscito nel1955 e più volte ristampato. Suoi interlocutori in un confronto duro senza diplomazie e senza concessioni erano stati alcuni intellettuali comunisti “di punta” e persino lo stesso segretario del partito, Palmiro Togliatti. Pure apprezzando l’occasione del confronto, Bobbio non era stato soddisfatto del suo esito: troppe le ambiguità di quegli intellettuali che in parte esprimevano in parte riflettevano le posizioni ufficiali del PCI (non molto distanti e non molto diverse da quelle del Partito comunista dell’Unione Sovietica). Molta acqua era passata sotto i ponti nei vent’anni trascorsi dalla pubblicazione di quel testo. Superato il doppio trauma (denuncia dei crimini di Iosif Stalin, invasione sovietica dell’Ungheria) dell’indimenticabile 1956 (l’aggettivo è di Pietro Ingrao, allora direttore de l’Unità), il Pci aveva iniziato una sua sicuramente troppo lenta e troppa cauta, in sostanza inadeguata, revisione che, pur facendo riferimento a Antonio Gramsci, poco riguardava il marxismo. La lettura/lezione di Gramsci, anche se assolutamente necessaria per contrastare il leninismo, non poteva guidare il Partito nella traiettoria da intraprendere in una democrazia nella quale bisognava costruire le condizioni politiche per l’alternanza al governo.

In realtà, il dibattito che seguì la pubblicazione del libro di Bobbio si focalizzò soprattutto sull’esistenza o meno di “una dottrina marxistica dello Stato”. In estrema sintesi, il leninismo aveva dimostrato di sapere come fare per conquistare lo Stato (quello russo nel 1917 non era neppure uno Stato “borghese”), ma come costruire uno Stato socialista e come governarlo furono certamente problemi per i quali la dottrina “marxistica” non offriva, secondo Bobbio, nessuna soluzione. Con le sue parole: “Mi domando quale sia il beneficio che possiamo trarre per la soluzione dei problemi del nostro tempo dall’ennesima chiosa … a Marx … e se non sia oggi assai più utile applicarsi agli studi di scienza politica e sociale così poco progrediti nel nostro paese in confronto a quelli di marxologia [6]. Ad onor del vero, la critica incisiva e puntuale alla mancanza di adeguate riflessioni di Marx sullo Stato era già stata potentemente formulata nel 1957 proprio dal più importante professore italiano di Scienza politica, Giovanni Sartori, nel suo Democrazia e definizioni[7]. Inoltre, Bobbio era sicuramente a conoscenza della devastante critica del Partito Comunista Francese e degli intellettuali che ruotavano nella sua orbita scritta dal grande studioso liberale Raymond Aron, L’opium des intellectuels[8]. La risposta stalinista, ovvero lo Stato come dittatura sul proletariato, praticata per più di trent’anni in Unione Sovietica non poteva certamente costituire il riferimento teorico né la soluzione attuabile.

Nessuno ricorda oggi le numerose risposte degli intellettuali comunisti per i quali discutere con Bobbio e contraddirlo era naturalmente un segno di grande distinzione. Semplicemente, rimanevano tutti imprigionati nella gabbia che, utilizzando l’appropriata parola di Bobbio, definirò della chiosa. Qualche anno dopo sarebbero anche finite le chiose e dopo il 1989 in Italia è letteralmente scomparsa qualsiasi variante di cultura marxista (e aggiungerei di cultura socialista).

In maniera assolutamente anticipatrice, nel libro Bobbio si (pre)occupa anche di quello che chiama “il feticcio della democrazia diretta” per Karl Marx esistita esclusivamente nella breve esperienza della Comune di Parigi (1871). Ricomparsa poi brevemente dopo la rivoluzione del 1917 sotto forma di Soviet di contadini e operai. Comunque, Bobbio sottolinea che nel pensiero marxistica “ciò che caratterizza la democrazia diretta sarebbe l’istituto del mandato imperativo, che implica la possibilità della revoca del mandato[9]. Naturalmente, nessuno dei comunisti italiani poneva all’ordine del giorno qualsivoglia variante di democrazia diretta che, come sappiamo, ha fatto la sua recente ricomparsa con il Movimento 5 Stelle, evidenziando tutte le sue contraddizioni insite. Le obiezioni di Bobbio alla democrazia diretta d’antan valgono anche per i brandelli di democrazia diretta oggi. Quelle obiezioni non hanno finora trovato risposta forse perché risposta non c’è, forse perché a un problema politico di incommensurabile rilevanza non è neppure pensabile che si possa offrire una risposta tecnologica, telematica. Anche il più innovativo e efficace utilizzo della rete costituisce un mezzo, necessario, ma non sufficiente. Abbiamo visto che il socialismo non è, nelle pur memorabili parole di Lenin, “Soviet più elettrificazione”. La democrazia diretta non è “piattaforma telematica più vincolo di mandato”.

Il libro contiene un capitolo scritto nel 1973, due capitoli scritti nel 1975 e due nel 1976 insieme con la prefazione alla quale è apposta la data settembre 1976. Curiosamente, Bobbio non fa nessun riferimento alla proposta di compromesso storico formulata da Enrico Berlinguer in tre articoli pubblicati da Rinascita, la rivista settimanale del PCI, nel settembre-ottobre 1973.

Altro argomento che rimane in ombra è quello del significato di alternanza, da sempre un fenomeno importante per il buon funzionamento della democrazia, ancorché non essenziale per la sua definizione. La concezione di democrazia di Bobbio non lo poteva rendere accondiscendente di fronte al compromesso storico. Per la sua ambizione di durata indefinita/non definita nel tempo, il compromesso storico fra le grandi masse popolari cattoliche e comuniste [ho estesamente trattato l’argomento nel capitolo “Compromesso storico, alternativa, alternanza” nel mio libro Libertà inutile. Profilo ideologico dell’Italia repubblicana [10] che ha la pretesa di proseguire il Profilo ideologico del Novecento italiano pubblicato da Bobbio nel nono volume della Storia della letteratura italiana nel 1969[11] poi in volume a sé stante nel 1986[12]] non soltanto avrebbe reso ininfluente la competizione politico-elettorale che il “filosofo delle regole” considera cruciale per la democrazia, ma avrebbe messo in soffitta qualsiasi prospettiva di alternanza.

Peraltro, mi affretto ad aggiungere che non è tanto la realizzazione concreta dell’alternanza che conta, è opinione anche di Sartori, quanto piuttosto la possibilità, agli occhi degli elettori, degli operatori dei mass media, dei politici al governo e di quelli all’opposizione, che possa avvenire. Questa possibilità influisce sui comportamenti di tutti e li rende più responsabili. Se mai il compromesso storico si fosse realizzato, la sua maggioranza extra-large non avrebbe dovuto temere nessuna opposizione. Praticamente non sarebbe stato possibile per nessuna opposizione “controllarla”. Gli eventuali governi di compromesso storico sarebbero stati politicamente irresponsabili. La stessa proposta del compromesso storico rivelava da parte dei comunisti sia la loro non piena comprensione delle caratteristiche fondamentali della democrazia sia la loro convinzione che, una volta, andati/tornati al governo certo non l’avrebbero abbandonato. Questo è uno degli elementi che, secondo Sartori, facevano del Partito Comunista Italiano un partito “antisistema”: potendo i comunisti avrebbero rovesciato e cambiato il sistema.

Al proposito, Bobbio ritiene sia lecito affermare che “il rapporto fra democrazia e socialismo è configurato come un rapporto fra mezzo e fine, dove la democrazia svolge la parte del mezzo e il socialismo del fine[13]. Ma, se la democrazia che conosciamo è il mezzo, qual è lo scopo, ovvero, proprio “quale socialismo?” A questa domanda i comunisti italiano non seppero mai rispondere se non in maniera confusa e evasiva. A Giorgio Amendola (e a molti altri) che asseriva la possibilità di una “terza via” fra la socialdemocrazia e il comunismo, Bobbio rispose senza mezzi termini: “La terza via non esiste”[14]. Suggerì anche di “rafforzare le organizzazioni del movimento operaio per continuare la via democratica al socialismo, che è dappertutto una sola[15].

Venti anni dopo fece irruzione nel dibattito politico europeo una riformulazione della Terza Via ad opera del sociologo Anthony Giddens e di Tony Blair che sarebbe diventato Primo Ministro nel 1997 fino al 2007. La terza via di Giddens[16], che nell’originaria edizione inglese ha il sottotitolo The Renewal of Social Democracy[17], doveva insinuarsi fra il vecchio Labour Party e il neo-liberismo rappresentato da Margaret Thatcher (1979-1990) e da Ronald Reagan (1980-1988) con l’ambizione di andare Oltre la destra e la sinistra[18]. Bobbio non seguì queste vicissitudini politico-intellettuali. D’altronde, il dibattito pubblico italiano non approdò a nulla di specialmente interessante tranne le affermazioni sulla fine della sinistra espresse da alcuni intellettuali di sinistra con il duplice obiettivo di épater les bourgeois e di ottenere visibilità sui mass media. Bobbio aveva già risposto con il libro Destra e sinistra. Ragioni e significati di una distinzione politica[19], sottolineando con forza che il perseguimento della giustizia sociale costituisce la stella polare della sinistra[20].

Nel corso del tempo, nella letteratura internazionale il termine socialismo, forse perché troppo identificato con i regimi comunisti dell’Europa orientale (e talvolta con alcuni populismi “progressisti” latino-americani) è stato sostanzialmente sostituito dal termine sinistra. Giustamente, oggi ci chiederemmo non “Quale socialismo?”, ma “Quale sinistra?” (rimando ad un’analisi comparata di grande interesse: Stephanie L. Mudge, Leftism Reinvented. Western Parties from Socialism to Neoliberalism[21] dedicata al Partito Democratico negli Stati Uniti, al Partito Socialista dei Lavoratori svedese e alla SPD. Sarebbe bello se qualcuno esplorasse i casi italiano, francese, spagnolo e portoghese). La risposta di Bobbio, in parte la immagino in parte la deduco da quanto ha scritto, sarebbe: quella sinistra che si adopera per contenere e ridurre le diseguaglianze; quella sinistra che cerca di risolvere “i problemi che hanno generato lo scontro tra capitalismo democratico e comunismo autoritario” e che “non sono stati certamente risolti dal totale fallimento di quest’ultimo, né nel mondo avanzato, né nel mondo in generale[22], citando un suo memorabile articolo su La Stampa del 9 giugno 1989 pubblicato dopo l’eccidio di Tien an Men, a Pechino.

Ce n’è ovviamente abbastanza per procedere more Bobbio ad una serie di interrogativi. La sinistra che esiste attualmente e che si manifesta in molti paesi come definisce l’uguaglianza: “Quale eguaglianza?” Anche se, certamente, si pone il problema delle diseguaglianze di reddito, quali altre diseguaglianze preoccupano e debbono preoccupare la sinistra? E se la risposta, alla quale aderisco convintamente, è che la sinistra deve offrire eguaglianza di opportunità, allora l’interrogativo è “Quali opportunità?” La filosofia classicamente socialdemocratica: protezione “dalla culla alla tomba”, comunque sempre difficilissima da garantire e oggi costosissima, non sembra più soddisfare neppure molti esponenti (e cittadini-elettori) che si collocano a sinistra. Certamente, non sembra possa essere sufficiente offrire uguaglianza di opportunità all’inizio di un percorso, per lo più quello scolastico, e affidare il resto ai singoli e alle loro capacità. Bisognerebbe intervenire flessibilmente nella vita, non solo lavorativa, per dare e ridare eguali opportunità. Di qui, la necessaria riforma dello Stato del welfare, con continui chirurgici aggiustamenti che significa sapere dove tagliare e dove e come ricucire, operazioni che nessun mercato competitivo può mai effettuare.

   Sono anche convito che fra gli interrogativi da porre alla sinistra Bobbio introdurrebbe le modalità con le quali riconoscere e premiare il merito. Anche se può apparire troppo brusco e ruvido, l’interrogativo, per chi non crede che la sinistra possa mai essere soltanto livellatrice, è: “Quale meritocrazia?” Quasi non ho bisogno di giustificare il prossimo interrogativo, ma la sinistra di Bobbio (e gli scritti di Bobbio) non possono in nessun modo escludere (e, infatti, Quale socialismo? non lo ha escluso) l’interrogativo “Quale democrazia?” La sinistra si è sempre impegnata, non soltanto perché serviva i suoi interessi e scopi politico-elettorali, a cercare di ampliare la partecipazione politica. La sinistra apprezza e incoraggia il cittadino/la cittadina partecipante anche se spesso non li premia adeguatamente. La sinistra ha anche mirato, non sempre con impegno e vigore adeguati, ad accrescere l’educazione politica dei cittadini, ovviamente non indottrinarli. Non da ultimo, fra gli interrogativi contemporanei che Bobbio solleverebbe non sta più semplicemente la democrazia diretta, ma “Quale democrazia deliberativa?” ovvero con quali modalità disponibili grazie alle nuove conoscenze e alla rete è possibile potenziare ed estendere la democrazia. Certamente, Bobbio apprezzerebbe quanto scritto in materia senza nessun cedimento “fondamentalista”, ma con motivazioni e giustificazioni fondate su ricerche e applicazioni anche nel contesto italiano da Antonio Floridia, Un’idea deliberativa della democrazia. Genesi e principi [23].

Grazie a Bobbio e con Bobbio è regolarmente stato possibile entrare in dibattiti importanti, certo riservati ad uno strato sociale di intellettuali, politici, operatori dei mass media, abbastanza ristretto, raggiungendo anche un’opinione pubblica interessata. Bobbio, editorialista de La Stampa, anche più di Giovanni Sartori, editorialista del Corriere della Sera (spesso presente nei salotti televisivi), è stato un grande intellettuale pubblico. Oggi, per una molteplicità di ragioni, non esistono più intellettuali pubblici della sua statura e della sua influenza etica e di pensiero molto più che politico. Nessuno più che voglia e sappia suscitare un dibattito sui grandi temi che riguardano l’Italia e gli italiani, l’Europa e gli Europei (questa è una mancanza clamorosa), il mondo. L’ultimo interrogativo discende inevitabilmente dalla considerazione che ho appena formulato, ma ha più rami: “Quali tematiche?” “Quali opinioni pubbliche?” “Quale cultura politica nella globalizzazione?” Infine, “Quale società giusta?”

Concludendo. Bobbio non rinunciò mai a porre gli interrogativi rilevanti che, lo sappiamo, contenevano regolarmente sia un principio di risposta basato sulla storia del concetto problematizzato e dell’uso che ne era stato fino ad allora fatto sia un’indicazione di metodo con il quale andare alla formulazione di una risposta convincente. Non ricorrerò a nessun trucco dialettico e retorico per affermare che in Italia da almeno vent’anni nessuno ha proceduto come Bobbio e non vedo all’orizzonte studiosi e intellettuali sufficientemente attrezzati. Forse è questo il vero segnale della crisi italiana, il deplorevole stato del dibattito pubblico in assenza del quale non potranno aversi miglioramenti complessivi nella democrazia italiana. Non è alle viste

Bologna, 14 marzo 2021

* professore emerito di Scienza politica, Università di Bologna, e Socio dell’Accademia dei Lincei


[1] Norberto Bobbio, Quale socialismo? Discussione di un’alternativa, Torino, Einaudi, 1976, XVIII-109. Seconda edizione con prefazione di Michele Salvati: Milano, Rizzoli Corriere della Sera, 2011, 169 p.

[2] Norberto Bobbio, Il futuro della democrazia, Torino, Einaudi, 1984, XVI-220 p.

[3] “Premessa” a Norberto Bobbio, Il futuro della democrazia, op. cit., p. XIII.

[4] Norberto Bobbio, Destra e sinistra. Ragioni e significati di una distinzione politica, Roma, Donzelli, 1994, X-100 p. Nuova edizione riveduta e ampliata: 1995, 141 p. Infine quarta edizione accresciuta, 2007, XVII-221 p.

[5] Norberto Bobbio, Politica e cultura, Torino, Einaudi, 1955, 282 p. Oggi nella nuova edizione a cura di Franco Sbarberi, Torino, Einaudi, 2005, XLiii-273 p.

[6] Norberto Bobbio, Quale socialismo ? …, op. cit., p. 27.

[7] Giovanni Sartori, Democrazia e definizioni, Bologna, Il Mulino, 1957, XII-331 p.

[8] Raymond Aron, L’opium des intellectuels, Paris, Calmann Lévy, 1955, 337 p. Traduzione italiana: Raymond Aron, L’oppio degli intellettuali, Bologna, Cappelli, 1958, 377 p.

[9] Norberto Bobbio, Quale socialismo ? …, op. cit., p. 60.

[10] Gianfranco Pasquino, Libertà inutile. Profilo ideologico dell’Italia repubblicana, Milano, UTET, 2021, 224 p.

[11] Norberto Bobbio, “Profilo idrologico del Novecento italiano”, in Emilio Cecchi, Natalino Sapegno (ed.), Storia della letteratura italiana. Volume nono. Il Novecento, Milano, Garzanti, 1969, 860 p. [pp. 121-128].

[12]Norberto Bobbio, Profilo ideologico del Novecento italiano, Torino, Einaudi, 1986, 190 p.

[13] Norberto Bobbio, Quale socialismo ? …, op. cit., p. 104.

[14] Norberto Bobbio, Autobiografia. A cura di Alberto Papuzzi, Roma-Bari, Laterza, 1997, 274 p. [il passo citato si trova a p. 124].

[15] Ibidem, p. 125.

[16] Anthony Giddens, La terza via. Manifesto per la rifondazione della socialdemocrazia. Prefazione di Romano Prodi, Milano, Il Saggiatore, 1999, 156 p.

[17] Anthony Giddens, The third Way. The Renewal of Social Democracy, Cambridge, Cambridge Polity Press, 1998, X-166 p.

[18] Anthony Giddens, Oltre la destra e la sinistra, Bologna, il Mulino, 1997, 309 p. Edizione originale inglese: Beyond Left and Right. The Future of Radical Politics, Cambridge, Cambridge Polity Press, 1994, VII-276 p.

[19] Norberto Bobbio, Destra e sinistra Quarta edizione accresciuta, op.cit .

[20] “Cap. VIII. La stella polare”, in Norberto Bobbio, Destra e sinistra…Quarta edizione accresciuta, ibidem, pp. 145-153.

[21] Stephanie L. Mudge, Leftism Reinvented. Western Parties from Socialism to Neoliberalism, Cambridge Massachusetts – London, Harvard University Press, 2018, XXVII-524 p.

[22] Norberto Bobbio, Destra e sinistra…Quarta edizione, op. cit., p. 147,

[23] Antonio Floridia, Un’idea deliberativa della democrazia. Genesi e principi, Bologna, il Mulino, 2017, 392 p.