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Perchè stare a guardare è roba da irresponsabili

La Direzione del Partito Democratico aveva un sacco bello di domande politicamente rilevanti alle quali rispondere. Ha deciso, quasi all’unanimità, sette astenuti soltanto, di evaderle. Però, è riuscita, nuovamente quasi all’unanimità, a rispondere a una domanda che nessuno ha ancora fatto. In assenza del segretario Renzi che, per correttezza politica, avrebbe dovuto presentare le sue dimissioni al più importante organismo del suo partito, spiegando perché erano necessarie e doverose, la Direzione le ha accettate senza batter ciglio. L’accettazione è stata sanzionata da un inutile tweet di Gentiloni che ha lodato “lo stile e la coerenza politica” di Renzi, facendo finta di non avere letto l’intervista di Renzi al “Corriere della Sera” nella quale figuravano in maniera prominente le critiche al Presidente del Consiglio, il cui governo non avrebbe neppure dovuto nascere dopo la batosta referendaria, e al Presidente della Repubblica.

In altri tempi in altri partiti, dopo una pesante sconfitta elettorale, due milioni e mezzo di voti persi dal 2013 al 2018, più di sette milioni se Renzi continua a intestarsi il perdente bottino del “sì” al referendum costituzionale del dicembre 2016, la Direzione si sarebbe chiesta dove sono finiti quei voti, se si poteva/doveva fare una campagna elettorale meno personalizzata, se, invece, di parlare di squadra a due punte, in realtà relegando Gentiloni al ruolo di “spalla”, non fosse stato preferibile valorizzare quanto fatto dal governo. Avrebbe cercato di capire che tipo di partito è diventato il PD: forte nelle città medio-grandi debolissimo nei comuni relativamente piccoli; molto votato dalle fasce medio-alte per reddito e istruzione, abbandonato dai settori popolari; evanescente fra gli elettori al di sotto dei 40 anni, presente in maniera cospicua fra gli ultrasessantenni. Il vice-segretario Martina ha accuratamente evitato di discutere di tutto questo che implicherebbe anche una critica severa a un partito divenuto personalista e una ricerca vera di un modello di partito diverso, con qualche radicamento territoriale. Che siano state le candidature paracadutate almeno in parte responsabili dell’emorragia di voti? No, la Direzione di questo tema mondano non si è occupata anche perché avrebbe portato con sé una qualche riflessione sulle modalità di scelta delle candidature e quindi sulla responsabilità non solo del segretario dimissionario, ma anche dei suoi collaboratori, tutti rieletti, seduti nelle prime fila. Nulla dirò sulla legge Rosato per non sentire come replica un sospiro e il lamento: “ah, avessimo avuto l’Italicum…” che non discuto in quanto ad esito, quasi sicuramente non favorevole al PD, ma in quanto alla qualità: cattiva legge elettorale. La Direzione non si è neanche interrogata sui più che mediocri risultati delle piccole liste coalizzate: Civica Popolare del ministro Lorenzin, Insieme dei prodiani, +Europa di Emma Bonino.

Lasciate inevase le domande politiche che segneranno comunque i problemi che il PD in quanto partito dovrà affrontare per non scomparire, la Direzione ha dato una risposta secca e sommaria ad una domanda che non è ancora stata rivolta agli organi statutari: “staremo all’opposizione”. A prescindere momentaneamente da qualsiasi altra considerazione, il verbo è sbagliato. Poiché attualmente il PD è al governo con Gentiloni e con un pacchetto di ministri importanti, il verbo giusto è “andremo” all’opposizione. La giustificazione di questo comportamento a futura memoria è semplicemente stupida: gli elettori ci hanno mandato all’opposizione. Sicuramente, non sono stati gli elettori che hanno votato Partito Democratico a mandarlo all’opposizione. Anzi, votandolo speravano riuscisse a rimanere al governo. È tuttora probabile che gli elettori del PD desiderino che il partito protegga e promuova le loro preferenze, i loro interessi, addirittura i loro ideali con impegno, con “umiltà e coesione politica” (seconda parte del tweet di Gentiloni che, evidentemente, sta già sognando un altro partito .

In una democrazia parlamentare multipartitica chiamarsi pregiudizialmente fuori dalle procedure, consultazioni e confronti programmatici, che conducono alla formazione di un governo, rifiutare il proprio apporto, annunciare un’opposizione preconcetta è un atteggiamento che ho definito “eversivo”. Nel frattempo, già più di una volta, il Presidente Mattarella ha richiamato tutti al senso di responsabilità. Esiste una responsabilità nei confronti dei propri elettori, ma c’è anche una responsabilità superiore, quella nei confronti della democrazia parlamentare: responsabilità nazionale. Chi si rifiuta di contribuire alla soluzione del rebus prodotto dai partiti e dai loro dirigenti agevolati da una pessima legge elettorale che ha dato loro troppo potere a scapito di quello degli elettori è irresponsabile. Se rende impossibile qualsiasi soluzione il suo comportamento merita di essere definito eversivo.

Pubblicato il 14 marzo 2018

La modesta calidad de la democracia italiana #elindependiente

Sergio Mattarella, el Presidente de la República italiana

Como ha sucedido en muchas elecciones de los últimos dos o tres años en países importantes, como en el referéndum del Brexit en el Reino Unido, las presidenciales en Estados Unidos, las francesas en las que venció Emmanuel Macron, o las celebradas en Alemania, también las elecciones italianas del 4 de marzo 2018 presentan oportunidades y riesgos.

Los riesgos superan a las oportunidades, si hacemos caso de una mayoría de comentaristas italianos. Personalmente creo que las instituciones de la democracia italiana y los responsables institucionales, en particular el Presidente de la República y el Tribunal Constitucional, podrán hacer frente a los riesgos y optimizar las oportunidades.

El primer riesgo, y el más probable, es que ninguna de las tres coaliciones -según el orden en el que están situadas en los sondeos: el centro derecha; el Movimiento 5 Estrellas; y el Partido Democrático y sus pequeños aliados- obtendrá la mayoría absoluta en escaños en el próximo Parlamento. Añado que ninguno se merece esta mayoría absoluta.

El presidente de la República, Sergio Mattarella, tendrá entonces que elegir a quien considere capaz de formar una coalición de gobierno. Sería la oportunidad de dejar de lado a Matteo Renzi, otra vez derrotado, y a Silvio Berlusconi, que lleva demasiado tiempo en la escena política y que además no podrá optar a ningún cargo debido a una condena por fraude fiscal.

El segundo riesgo para el sistema político es que el Movimiento 5 Estrellas sea el más votado y obtenga el mayor número de escaños, si bien no sean suficientes para llegar a la mayoría absoluta. Sería la oportunidad de ver a los 5 Estrellas obligados a reconocer la necesidad de encontrar aliados con los que tejer una coalición, basada en un programa compartido, por ende pactado, que no podrá reflejar integralmente su ideario.

El tercer riesgo es que gane el centro derecha liderado por Berlusconi -que increíblemente cuenta con el apoyo de los populares europeos- sin que él tampoco tenga la mayoría absoluta de los escaños. Obligado a buscar apoyos en el Parlamento, y si los votos que necesita son pocos, Berlusconi podría encontrar apoyos entre los diputados de los partidos más pequeños, entre los desencantados de los 5 Estrellas o, en menor medida, en el Partido Democrático, cuyos diputados ya ha definido como “apuntaladores”.

Con tal de no volver a votar en breve, lo que pondría en riesgo su recién ganado escaño, un buen número de diputados podría dejarse seducir por las sirenas de Berlusconi. Como alternativa, Berlusconi podría apostar por una gran coalición de “amplios acuerdos” (aunque los números parecen indicar que estos acuerdos podrían no ser suficientemente amplios) con el Partido Democrático de Renzi.

En virtud de la nueva ley electoral, tanto Berlusconi como Renzi han podido elegir a todos sus diputados y senadores. Ellos saben a quién le deben su escaño actual, a quién tendrán que pedirlo mañana para volver a ser reelegidos, y podrían acabar aceptando una coalición Berlusconi-Renzi, pero ¿quiénes se sumarían?

Las oportunidades de esta potencial tercera solución son difíciles de evaluar. Los anteriores gobiernos de Berlusconi no fueron en absoluto satisfactorios y terminaron en 2011 de forma dramática y repentina. El senador Mario Monti se hizo cargo de un gobierno independiente de los partidos.

Ni siquiera el mandato agresivo y antagónico de Matteo Renzi puede ser juzgado de forma positiva. Al contrario, en virtud de sus defectos y límites, ha podido beneficiar a su sucesor, Paolo Gentiloni, que no ha hecho nada nuevo o relevante, pero ha tenido un estilo de gobierno para nada irritante o urticante, más bien tranquilizador.

De este modo, la oportunidad podría presentarse con la continuación de la experiencia de gobierno de Gentiloni, un ex democristiano. Sería el garante, para los europeos y en particular para el descuidado presidente de la Comisión Jean-Claude Juncker, de que habrá -por lo menos durante un tiempo- un gobierno de continuidad y “operativo”. Esta última opción es la más difícil de poner en práctica pero a su vez podría aglutinar el consenso de casi todos los partidos y de una consistente mayoría de los diputados.

Desde hace más de 20 años, todos los presidentes de la República italiana han ejercido un papel político e institucional decisivo. Lo han hecho de manera sabia frente a un sistema político sustancialmente desestructurado, con partidos personalistas, mal dirigidos e incapaces de proponer programas de largo recorrido.

Aunque el presidente Mattarella no querrá admitirlo y seguirá insistiendo que todos los gobiernos son “políticos”, desde su autoridad podría llegar a indicar a los partidos qué gobierno deben apoyar, nombraría al presidente del Gobierno e inspiraría los nombres de ministros valedores de áreas culturales y no tanto de partidos específicos. Serían personalidades competentes, capaces de tener las riendas de la economía y de formular una verdadera política europea/europeísta. Un “gobierno del presidente”, al fin y al cabo.

De nuevo, este “gobierno del presidente” tendrá que enfrentarse a la tremenda asignatura pendiente: una reforma de la pésima ley electoral en vigor que es parte del problema y no ha sabido ofrecer una solución aceptable para las coaliciones, los candidatos al Parlamento o la formación de un gobierno.

Los escenarios aquí dibujados son todos plausibles y factibles. Ninguno contempla un descarrilamiento populista, autoritario ni el colapso de la democracia en Italia. De todas formas, la política italiana continuará siendo fea y la calidad de la democracia seguirá siendo modesta. Ambas reflejan una sociedad que, en su conjunto, no consigue expresar nada mejor.

Gianfranco Pasquino es profesor emérito de Ciencia Política en la Universidad de Bolonia. Autor de Final de partida El ocaso de una república (2013), Partidos, instituciones y democracia (2014) y Deficit democratici (2018). Junto a Norberto Bobbio y Nicola Matteucci es codirector del Diccionario de Política.

Publicado el 3 de Marzo de 2018 EL INDEPENDIENTE

 

Italiani, eccolo il Governo che vi state meritando

Quando conteremo i voti scopriremo che il 40 per cento di voi che avete votato hanno scelto l’usato sicuro (sicuro di cosa: delle bugie, delle inadempienze, della crescita del debito pubblico?) e l’ex-rottamatore (rottamatore di idee, di competenze, di culture politiche, mai dei suoi imbarazzanti collaboratori). Scopriremo anche che il 25/30 per cento di voi hanno delegato, colpevolmente, la scelta dei nuovi parlamentari a chi è andato votare. Pur comprendendo la loro insoddisfazione, irritazione, delusione per la politica com’è praticata in Italia, quegli astensionisti cronici o occasionali debbono essere severamente rimproverati. Hanno comunque perso il diritto di continuare nella critica, spesso qualunquistica, a politica e politici. Sono anche loro con il non-voto responsabili di quello che va male in Italia. Insomma, in un sistema politico nessuno può chiamarsi fuori, fare l’anima bella e dire che è colpa degli altri -meno che mai, naturalmente, che è colpa dell’Europa alla quale, anzi, dobbiamo riconoscere il diritto di criticarci e di auspicare, come ha fatto, persino troppo timidamente, Jean-Claude Juncker, “un governo operativo”. Ha ragione. Anche molti di noi vorremmo un governo, non solo operativo, ma fatto di persone decenti, in grado di dare rappresentanza alle preferenze dei cittadini e persino ai loro interessi (una scuola davvero buona, un mercato del lavoro flessibile e accogliente, una politica dell’immigrazione con filtri e controlli, la sicurezza nella legge), in grado di governare non a colpi di arroganza e di “teatro”, ma con una visione orientata dalla consapevolezza che, fuori dall’Unione Europea, l’Italia non andrebbe da nessuna parte tranne che a fondo nel Mediterraneo.

Rosi dalle loro differenze interne sia la coalizione di centro-destra sia il PD e i suoi alleati cespugli non offrono granché come stabilità e progettualità. Né si può pensare ad un governo pentastellato con Di Maio (insieme a Grillo e Casaleggio) costretto a dedicare tutto il suo tempo a verificare gli scontrini delle spese e delle restituzioni e a comminare espulsioni a destra e a manca, ma anche al centro. Insomma, la palla passa al Presidente della Repubblica Mattarella che, felpato almeno quanto Paolo Gentiloni, il Presidente del Consiglio che, seppur necessariamente dimissionario, rimarrà in carica (proprio come Angela Merkel) fino alla formazione del prossimo governo, s’inventerà una soluzione politica secondo il dettato costituzionale: “Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio” (che, dunque, lo scrivo per chi ancora non lo sa, non è “eletto dal popolo”). No, non è vero che il paese reale starà meglio senza governo. No, non è vero che governare gli italiani è impossibile. Non è neanche inutile. È doveroso. Senza governo si ha soltanto galleggiamento, mentre è opportuno che qualcuno sia al timone. La barca non va mai avanti da sola, finisce per girare su se stessa.

Dovremo attenderci un “governo del Presidente”? e di quale Presidente? Del Presidente della Repubblica? Non sembra questa la propensione di Mattarella che, invece, cercherà la persona (non necessariamente un uomo) che sappia costruire e tenere insieme una coalizione in grado di durare e di governare, anche viceversa: governare e durare. I numeri (dei seggi in Parlamento) contano, ma bisogna avere anche i “numeri”politici, quelli che solo l’esperienza e la competenza garantiscono. Sarà il Presidente della Corte Costituzionale, come in nessuna, ma proprio nessuna democrazia parlamentare, è mai avvenuto? Oppure tornerà fra di noi, il figliol prodigo Mario Draghi, Presidente della Banca Centrale Europea, le cui competenze politiche sono ignote ai più, a tutti? Credo che se ne guarderebbe bene. Avremo bisogno del neo-Presidente del Parlamento Europeo, Antonio Taiani, facendo la classica figuraccia italiana: preferire una carica nel proprio paese a un ruolo importante nelle istituzioni europee? Sono convinto che, alla fine, Mattarella ci consegnerà un governo politico dopo avere escluso i più divisivi degli ambiziosissimi leader in campo e avere esercitato la sua fantasia e, mi auguro, anche la sua moral suasion. Sarà, comunque, un governo che noi italiani, certo con responsabilità differenziate, ci siamo meritato. Purtroppo, anche con la pessima legge elettorale firmata dal piddino Rosato, non adeguatamente contrastata dai grandi opinionisti dei grandi quotidiani e dai conduttori/trici dei meno grandi talk show, il Parlamento lo abbiamo eletto noi e, seppure indirettamente, è sui nostri voti che si costruirà un governo.

Pubblicato il 1 marzo 2018 su ITALIANItaliani

Nemici solo a sinistra

“Nemici solo a sinistra”: questa è l’impostazione della campagna elettorale del Partito Democratico. E, allora, non servono le proposte, anche se qualcosa di strampalato lo si può buttare in pasto ai mass media. Serve la delegittimazione dei concorrenti, il character assassination dei competitors. Però, c’è anche l’avversario interno. Messaggio a Gentiloni: le “punte” sono tante e il suo tempo scadrà il 4 marzo. Non potrà essere così poiché bisognerà aspettare per fare il prossimo governo, e chi sa a chi toccherà, ma, tant’è, Gentiloni avvisato Gentiloni mezzo silurato.

Sinistra perdente senza un federatore

Intervista raccolta da Pier Francesco Borgia per Il Giornale

Roma – Ciclicamente ritorna di prepotente attualità il dubbio che la sinistra si crogioli con gusto nel masochismo di dividersi. Favorendo così la vittoria degli avversari. A Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza politica, abbiamo chiesto ragione di questo infausto destino che sembra attanagliare la sinistra.

Professor Pasquino pensa anche lei che la sinistra sia masochista? Che preferisce dividersi pur di non far vincere Renzi?
Non credo che la sinistra, come dice lei, preferisca dividersi. Piuttosto è già eternamente divisa e frammentata.

Quindi non è d’accordo sul fatto che molti le diano della masochista.
La sinistra soffre come in tutta Europa di una frammentarietà che la destra non conosce.

E secondo lei perché questa sofferenza?
Perché il centrodestra, anche se formato da partiti con origini lontane fra loro, riesce a difendere interessi comuni. Da quella parte c’è una coscienza di classe che nel centrosinistra manca.

Niente coscienza di classe a sinistra? Questa è dura da digerire.
È così un po’ dovunque. Veda cosa succede in Germania, in Francia e persino in Spagna. Da noi questa frammentarietà è più esasperata perché a sinistra pretendono di difendere troppi interessi.

Crede che una coalizione non sia possibile? Nemmeno adesso che il Senato ha votato il Rosatellum bis? Dicono sia fatto apposta per premiare le alleanze.
Il Rosatellum sarebbe stato adatto solo se avesse consentito il voto disgiunto. Com’è stato licenziato dal Senato serve soltanto per premiare Renzi.

Quindi la sinistra si deve rinnovare partendo dal programma e da una nuova leadership, e soprattutto bevendo l’amaro calice delle alleanze?
Renzi come politico è testardo. Una coalizione, però, la deve accettare e quindi un prezzo lo deve pagare.

Viene prima la leadership o la coalizione?
Senza dubbio serve una persona che unisca le diverse anime della sinistra e che porti a identificare le priorità.

E quel leader cui sta pensando è Renzi?
Renzi è sicuramente un leader. Non è un federatore, ma un divisore. Il centrosinistra ha avuto un solo leader federatore nella sua storia: Romano Prodi. Per far vincere il centrosinistra Renzi dovrebbe fare un passo indietro. Ha anche a provato a fare il Macron italiano ma non gli è riuscito quando aveva preso il 40% dei voti con le Europee, figuriamoci se può riuscirgli adesso.

Anche Mdp e Sinistra italiana dovrebbero fare delle concessioni, non le pare? In fondo una coalizione si fonda sul reciproco venirsi incontro.
Quello che dovrebbero fare è di indicare loro un leader. Le sparse membra della sinistra dovrebbero correre il rischio di imporlo un leader.

Il caso Ostia apre uno spiraglio per chi a sinistra vuole smarcarsi dal Pd e cercare un dialogo coi grillini?
Ostia è un caso a parte. O meglio. Come in tutti i casi di ballottaggio il dialogo lì conta fino a un certo punto. Semmai è importante vedere cosa accadrà dopo il voto politico.

In che senso?
Se, come probabile, ci saranno nel nuovo parlamento tre grandi forze senza i numeri per governare, un dialogo coi grillini avrebbe un senso diverso. E un dialogo con quel movimento riuscirebbe meglio a un leader federatore, aperto al dialogo. Magari uno come lo stesso Gentiloni.

Pubblicato il 10 novembre 2017

Senso delle istituzioni e opportunisti di oggi, ieri e domani.

Dopo la legge elettorale che “tutta l’Europa c’invidierà che metà Europa imiterà” (largamente cassata dalla Corte Costituzionale), è arrivata la legge firmata dal capogruppo del PD alla Camera, Ettore Rosato, noto esperto di leggi elettorali, certo più di Roberto D’Alimonte. La legge di Rosato di europeo non ha proprio nulla. Per di più, non consentirà di sapere la sera stessa chi ha vinto le elezioni e chi governerà (né l’uno né l’altro obiettivi ritenuti prioritari e perseguiti dai sistemi elettorali europei), ma impone la formazione di coalizioni pre-elettorali (che si scomporranno per dare vita ad una coalizione di governi) rendendo impossibile agli elettori di darne una valutazione disgiunta dal loro voto a favore o contro il candidato nel collegio uninominale. Se questa non è “la sua legge”, come Renzi ha dichiarato più volte sdegnosamente con il labbro all’insù, trovando spazio nei reportages di Maria Teresa Meli, il segretario ha subito una sconfitta (e con lui Maria Elena Boschi e Anna Finocchiaro). Sconfitto, invece, non è il giurista del PD Stefano Ceccanti per il quale è andato sempre tutto ottimamente: lo spagnolo in salsa tedesca e viceversa, l’Italicum e, adesso, almeno per qualche tempo, il bruttamente detto Rosatellum.

Che, poi, Camera e Senato abbiano legiferato con la pesante tagliola del voto di fiducia che ha impedito ai non molti parlamentari che ne hanno il coraggio di esprimere le loro preferenze e formulazioni alternative, è parso grave soltanto al Presidente del Senato Grasso che ha abbandonato il Gruppo del Partito Democratico dopo il voto. I commentatori a chiedersi dove andrà e cosa farà da grande invece di porsi il problema del senso delle istituzioni del segretario del PD e dei molti, troppi, suoi parlamentari alla ricerca della (ri)candidatura. Disposti a tutto, specialmente, alla Camera dove, grazie al premio in seggi del 2013, almeno un centinaio di loro non torneranno più (mai dire mai), 211 parlamentari del PD hanno approvato una classica mozione tanto improponibile quanto populista. Gli eletti (aggiungere dal popolo, trattandosi di designati dai capipartito e corrente sarebbe quasi offensivo) si sono audacemente posti a difesa dei risparmiatori contro il banchiere Ignazio Visco, noto nemico del popolo, accusato di non avere utilizzato gli strumenti di vigilanza della Banca d’Italia. Sobillati dal loro segretario che ha rivendicato la scelta e difeso l’esito (persino contro il coro di suoi tardivi critici da Napolitano a Prodi, ma non ho letto di Arturo Parisi), quei parlamentari, hanno gravemente interferito nei poteri del capo del governo, del Consiglio dei Ministri del Presidente della Repubblica ai quali, oramai lo sappiamo tutti, speriamo di ricordarcene, spetta la proposta, la nomina, la firma. La legittima espressione di critiche al governatore in carica Ignazio Visco avrebbe potuto trovare una legittima sede nella appositamente istituita Commissione d’inchiesta sulle banche alla cui Presidenza era stato nominato il tuttologo PierFerdinando Casini, già referendario del “sì”, Presidente della Commissione Affari Esteri del Senato. Il senso istituzionale del doppio incarico mi sfugge. Non mi sfugge l’alto livello di dilettantismo di Casini.

Sconfitto nel suo referendum costituzionale trasformato in plebiscito personale, frustrato nel suo tentativo di ottenere elezioni anticipate, innervosito dalla popolarità acquisita dal Primo Ministro Gentiloni, leader tranquillo, ma certo non entusiasmante, Renzi sta menando colpi a destra e a manca contro le regole e le istituzioni. Non è l’inizio, ma la prosecuzione di un’avventura che rischia di travolgere i principi della democrazia rappresentativa parlamentare italiana che qualche commentatore ha svilito nel corso della campagna referendaria e che altri, come Paolo Mieli, ritengono inadeguata per mancanza di alternanza (e non piuttosto per carenza di senso delle istituzioni, qualità delle quale tutti gli azionisti furono sempre abbondantemente provvisti).

Non frequento l’astrologia, ma non ne ho bisogno per prevedere che un capo partito che non ha senso delle istituzioni (e neppure alternative occupazionali) alzerà il tiro della sua campagna elettorale fino al parossismo rendendo difficilissima la formazione del primo governo della legislatura che comincerà nella primavera 2018. In questo modo si renderà degno della qualifica di “mattatore trascendente” offertagli (Il Mattino 30 ottobre) con understatement anglosassone dal politologo per il “sì” Mauro Calise. Non riesco a dimenticare di avere imparato da James Madison che poiché gli uomini, ma neppure le donne, non sono angeli, è necessario un governo ovvero istituzioni che stabiliscano i limiti e le modalità accettabili dei conflitti e delle loro risoluzioni. Chi attenta alle istituzioni distrugge beni preziosi. Prendo atto che stuoli di commentatori politici non condividono l’importanza di salvaguardare le istituzioni della democrazia italiana. I chierici non tradiscono mai una volta sola.

Pubblicato il 2 novembre 2017 su PARADOXAforum

Atto nel segno del populismo

Con un inusitato atto di violenza populista che ha colto di sorpresa il Presidente del Consiglio e il Ministro dell’Economia, quasi tutto il gruppo dei deputati del Partito Democratico ha approvato una mozione che sostanzialmente dichiara la contrarietà del segretario del loro Partito a rinnovare il mandato al Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco. La mozione è giunta sostanzialmente inaspettata mentre Renzi, che l’ha ispirata e avallata, iniziava il suo viaggio ferroviario pre-elettorale (e mentre una apposita Commissione parlamentare sta “investigando” lo status e l’attività delle banche italiane, Banca d’Italia compresa). Non si è fatta attendere, alquanto indispettita, nella misura in cui glielo consente la sua personalità, la reazione del Presidente della Repubblica che l’ha affidata all’agenzia internazionale Reuters quasi a volere informare soprattutto gli operatori economici stranieri. Se sapesse infuriarsi, il Presidente del Consiglio lo sarebbe moltissimo così come il Ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan. Senza indulgere in nessuna illazione, ad esempio, quella che Visco è divenuto malvisto a Renzi proprio perché Bankitalia indaga su misfatti di banche in qualche modo collegate con il segretario del PD, con la sua fidata sottosegretaria Maria Elena Boschi, con loro parenti, quella mozione va valutata da due prospettive. La prima è quella europea. Proprio mentre la politica dell’Unione nei confronti delle banche dei diversi Stati-membri annuncia rinnovato rigore, indebolire in qualsiasi modo la Banca Centrale di uno Stato-membro ad opera del partito di maggioranza manda un segnale pericoloso, di una discontinuità che difficilmente potrebbe essere considerata positiva e di apertura di un conflitto non destinato ad essere facilmente ricomposto. Ne va della credibilità del sistema Italia sulla scena europea, in particolare poiché il conflitto nasce e si situa nel cuore del governo contrapponendo il segretario del Partito democratico al Presidente del Consiglio espressione di quel partito. Per quel che riguarda la situazione nazionale, va rilevato come la mozione dei deputati del PD, più volte limata e depurata (secondo alcune fonti retrosceniste la prima versione era sostanzialmente equiparabile un voto di piena sfiducia nei confronti del Governatore in carica), sembra avere rincorso la mozione dei deputati del Movimento Cinque Stelle da tempo molto critici non solo di Ignazio Visco, ma della Banca d’Italia in quanto istituzione. Dunque, il partito che Renzi dichiara costituire l’argine contro i populisti, che, secondo lui, si trovano sia a destra sia dentro le Cinque Stelle, si sposta lui stesso su posizioni populiste. Notoriamente, quando i populisti elaborano un discorso sulle istituzioni, il cuore è costituito da una sequenza di affermazioni semplici, semplicistiche, trancianti: il potere deriva del popolo, dal popolo viene esercitato attraverso le elezioni, chi ottiene il mandato politico-elettorale dal popolo sta al di sopra delle istituzioni. Secondo loro, chi ha (avuto) più voti deve contare più del Parlamento, della Magistratura e, ovviamente, della Banca d’Italia. Fra i nemici del popolo i banchieri occupano regolarmente una posizione privilegiata. Attraverso il gruppo parlamentare dei suoi deputati, ai quali il segretario del PD ha forse ricordato che sta arrivando il tempo delle ri-candidature, Renzi pretende di dettare la linea della non riconferma di Visco interferendo pesantemente nei poteri del capo del suo governo e del Ministro dell’Economia, ai quali spetta, unitamente al Consiglio direttivo della Banca d’Italia, la designazione del Governatore, e nella prerogativa del Presidente della Repubblica al quale, ovviamente, consultato in precedenza, spetta di ratificare la nomina. Quando un partito tenta di imporre le sue preferenze alle istituzioni che svolgono compiti chiaramente definiti dalla legge non è possibile non cogliere un grave e pericoloso sconfinamento populista.

Pubblicato AGL il 19 ottobre 2017

Questa legge elettorale fa felici leader di partito e capicorrente. E il voto di fiducia è una grave forzatura

Intervista raccolta da Marco Sarti

Il politologo Gianfranco Pasquino: “La richiesta del voto di fiducia viene da Renzi, Gentiloni si è solo adeguato. Ma sulle leggi elettorali è il Parlamento che deve decidere. Questa riforma iniqua e poco democratica toglie il potere agli elettori e lo consegna ai capicorrente.

La scelta del governo di porre la questione di fiducia sul Rosatellum rappresenta una forzatura istituzionale. In tema di leggi elettorali deve essere il Parlamento ad assumersi la responsabilità di decidere. Ne è convinto Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza Politica all’Università di Bologna, autore apprezzato e già senatore della Sinistra Indipendente e dei Progressisti. In ogni caso il politologo resta fortemente critico sull’impianto della riforma. “Una legge iniqua e scarsamente democratica – spiega – perché toglie il potere agli elettori e lo consegna a dirigenti di partito e capicorrente”.

Professore, alla fine il governo ha autorizzato il voto di fiducia sul Rosatellum. Troppo alto il rischio dei franchi tiratori. C’è chi denuncia una forzatura istituzionale, ma se questa fosse l’unica maniera per superare lo stallo parlamentare?
Per me si tratta di una forzatura istituzionale. Evidentemente il governo ritiene che la propria maggioranza non terrebbe davanti a una brutta legge. Ma è preoccupante, perché è il Parlamento che deve decidere sulla riforma elettorale.

Sarà anche discutibile, ma il voto di fiducia resta una legittima scelta del governo. Non crede?
Guardi, ci sono decisioni che restano in una zona grigia. La richiesta è lecita, ma la legge elettorale è forse materia del governo? Questa riforma si trovava nel programma elettorale di qualcuno dei partiti che oggi sono in maggioranza?

In realtà non è la prima volta che un governo chiede la fiducia su una riforma elettorale. In questa legislatura l’esecutivo Renzi aveva fatto lo stesso con l’Italicum.
Anche quella è stata un’imposizione del Partito democratico. E allora si trattava di una legge elettorale talmente brutta che, in seguito, la Corte Costituzionale ne ha distrutto le parti essenziali.

Come esce da questa vicenda il presidente del Consiglio Gentiloni? Il premier aveva escluso un intervento del governo nel percorso della riforma, deve aver ha cambiato opinione.
Gentiloni non ha cambiato idea, gliel’hanno fatta cambiare. La richiesta di fiducia viene dal segretario del Partito democratico. Comprensibilmente, Gentiloni si è adeguato.

Professore, non si arrabbi. Ma proviamo a osservare la vicenda dal punto di vista di chi sostiene il Rosatellum: questa legge elettorale nasce da un ampio compromesso politico.
Sono un uomo sempre pacato, perché mai mi dovrei arrabbiare? È vero, questa legge elettorale è frutto di un compromesso. Ma un pessimo compromesso. Si tagliano fuori gli elettori che non potranno più scegliere i loro parlamentari. È un compromesso fondato su liste di nominati e impossibilità di voto disgiunto, che consegna il potere totale a segretari di partito e capicorrente.

Nella scheda gli elettori potranno esprimere un unico voto.
Quindi non potranno scegliere il candidato che preferiscono nel collegio uninominale e la lista di un altro partito nella parte proporzionale. E parliamo di liste bloccate: i candidati saranno eletti in Parlamento secondo l’ordine deciso dai segretari di partito.

I detrattori del Rosatellum puntano il dito anche contro le pluricandidature, possibili fino a un massimo di cinque.
Le pluricandidature servono ai capipartito per essere certi della rielezione. Fondamentalmente servono ad Alfano, che non sa in quale collegio sarà eletto. E servono ad alcuni dei candidati che Berlusconi vorrà portare in Parlamento.

Qualcuno teme che anche questa legge elettorale sia incostituzionale. Eppure, lo ha segnalato anche lei, la Consulta potrà intervenire solo a legge approvata e, probabilmente, già applicata. Il prossimo Parlamento sarà delegittimato in partenza?
Temo proprio di sì. Il ricorso alla Corte costituzionale non potrà essere presentato fino all’approvazione della legge. Calendario alla mano, si può immaginare che sarà accolto tra gennaio e febbraio. Molto vicino alla data delle elezioni. A quel punto, per evitare la patata bollente, la Consulta potrebbe posticipare ulteriormente la decisione.

Tema governabilità. Secondo alcuni questa legge elettorale ci consegnerà un Parlamento senza una chiara maggioranza. È d’accordo anche lei?
Qui il discorso si fa più complesso. Le leggi elettorali servono a scegliere un Parlamento che rappresenti gli interessi, le aspettative, forse anche gli ideali, degli elettori. Usciamo da questa idea che la legge elettorale deve per forza eleggere un governo. Questo non succede da nessuna parte del mondo. La governabilità dipende da altro, semmai: dalle competenze e dalla capacità del presidente del Consiglio di trovare un’intesa con i suoi alleati. Dire che la legge elettorale serve alla governabilità è una frase senza senso. La lascerei ad altri, magari a Fiano e Rosato.

Vesto i panni dell’avvocato del diavolo. Arrivati a questo punto, davanti al rischio concreto di andare al voto con il Consultellum, la legge elettorale su cui il governo ha posto la fiducia non è comunque il male minore?
Guardi, forse il diavolo avrebbe bisogno di un altro avvocato… La legge elettorale deve scriverla il Parlamento, sono i parlamentari che se ne devono assumere la responsabilità. Ecco perché sono contrario al voto di fiducia, ma sono contrario anche al voto segreto. Avrei voluto una legge elettorale diversa, che si poteva fare. Ma se i capi di partito vogliono nominare i loro parlamentari…

Intanto a Montecitorio è scoppiato il caos. I Cinque Stelle gridano al golpe, denunciano la scelta eversiva del governo e chiamano il popolo in piazza per difendere la democrazia. Forse la temperatura è salita un po’ troppo?
Il clima è surriscaldato, certo. Ma li capisco i Cinque stelle, devono alzare la voce. Molti aspetti di questa riforma elettorale sono contro di loro. Questa legge non è fair, come direbbero gli inglesi. È una legge iniqua. Se fossi un avvocato davanti alla Corte costituzionale direi che le candidature multiple e le liste bloccate rompono il principio di uguaglianza. Non è una riforma immorale, come ha detto qualcuno. Ma riconosce più potere ai dirigenti di partito che agli elettori. È una legge scarsamente democratica perché dà poco potere al popolo.

Pubblicato 11 Ottobre 2017 su LINKIESTA

Elezioni anticipate: credibilità politica e impegni da rispettare

Soltanto gli irresponsabili non hanno paura di chiamare gli italiani a votare qualche mese prima della scadenza naturale di un Parlamento che ha leggi importanti da approvare. Con quale credibilità politica e personale, Gentiloni e i suoi ministri saranno accolti nell’Unione Europea in questi mesi? Quali impegni prenderanno, quali adempiranno? Chi fa cadere il governo e chi scioglie il Parlamento?

 

Provateci ancora elettori “primari”

Non è, ovviamente, colpa dello strumento chiamato “primarie”, anche se, correttamente, dovrebbe essere definito “votazioni” per il segretario del Partito Democratico, se neppure in fase conclusiva della campagna si sono destati grande interesse e ardenti “passioni”. Peraltro, Renzi ci ha subito provato a dire che chi vince la carica di segretario del PD diventa automaticamente il candidato a Palazzo Chigi. Immagino che Gentiloni abbia fatto con grande pacatezza gli opportuni scongiuri. Neanche ancora segretario già Renzi lo destabilizza. Figurarsi dopo il 30 aprile!. Molto dipenderà dall’affluenza alle urne e dalle percentuali e numeri assoluti di votanti. Però, già sappiamo che Renzi ha perso smalto, capacità di trascinamento, persino entusiasmo. È rimasta la sicumera, quella che a Napoli chiamano “cazzimma”, ma non gli è stato possibile trovare slogan o parole di forza paragonabili a “rottamazione”. Anzi, non pochi, compreso lo sfidante Emiliano, sono convinti che é già ora di rottamare Renzi per salvare il PD.

Peraltro, né Emiliano, con un piede fuori del PD, ma con la voglia di cambiarlo da dentro, né Orlando, troppo a lungo ministro nel governo Renzi e ancora con Gentiloni, rappresentano reali e significative alternative. Allora, hanno pensato fin troppi iscritti, tanto vale tenersi l’usato ancorché non troppo sicuro, il Renzi. Sembra che anche gli elettori, ovvero la maggioranza, probabilmente assoluta, di coloro che andranno ai gazebo, sia giunta alla stessa conclusione. Quindi, il PD rimarrà quello che è stato e che tutti hanno già visto con Renzi segretario. Peggio, anche la futura coalizione di governo potrà trovarsi a ripetere, lo ha detto senza nessuna preoccupazione Renzi, l’esperimento del Nazareno. Nel frattempo, Mattarella, consapevole di qualche degenerazione successiva alla (ri-)elezione di Renzi ha posto un ultimatum: discutere seriamente e approvare rapidamente due leggi elettorali decenti e compatibili per Camera e Senato senza peraltro mirare a elezioni anticipate ad libitum, ovvero a piacimento del segretario prossimo venturo della maggioranza del PD. Il libitum, aggiungo io, vale a dire il potere di scelta dei tempi e dei modi, è tutto nelle mani e nella mente di Mattarella e sta anche scritto nella Costituzione.

Dal dibattito triangolare Renzi-Emiliano-Orlando non è venuta fuori nessuna indicazione sulle leggi elettorali prossime venture. Renzi fa bene a tenere coperte le sue carte. Se vedremo, noi e la Corte Costituzionale, che sono brutte come quelle dell’Italicum, sarebbe un altro colpo, non basso, ma meritato, per lui. Emiliano e Orlando sono stati troppo vaghi in materia. Peccato perché lanciare una buona proposta, magari, perché no, quella francese, di cui troppi hanno straparlato, ma i cui meccanismi sono e rimangono ottimi, servirebbe a capire che cosa attende un po’ tutti, partitini compresi, nella primavera del 2018 (che è la mia data preferita per le elezioni).

Su un punto, non abbastanza sottolineato, Renzi ha fatto una capriola acrobaticissima: l’Europa. Non più critiche, peraltro, sbagliate, a Eurocrati e Burocrati, ma il riconoscimento che l’Europa è il progetto del PD ed è anche il destino di un’Italia che voglia crescere e migliorare. Per il resto, nessuno dei tre ha detto che partito vuole davvero, che rapporti fra maggioranza e minoranze nel partito, che democrazia interna, che cultura politica, quali modalità per la scelta delle candidature (ma Emiliano e Orlando si sono espressi contro i capilista bloccati: vessillo di Renzi, Boschi e Berlusconi). Eppure, il PD era nato per combinare il meglio delle culture riformiste. Adesso, sembra che il compito se lo sia assunto Giuliano Pisapia con il suo, peraltro, vago e embrionale, Campo Progressista. Insomma, il 30 aprile sapremo soltanto chi è il segretario del Partito Democratico. Tutto il resto, dalla legge elettorale al governo Gentiloni, dalla politica economica alla presenza italiana nell’Unione Europea, verrà dopo e, da quel che s’è sentito nel dibattito triangolare, sarà praticamente da inventare.

Pubblicato il 28 aprile 2017 su Fondazione Nenni Blog