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Candidarsi, smontare, galleggiare, forse? #partitodemocratico @DomaniGiornale

Molto tempo fa, studiando come cambiano i partiti, ho imparato che rarissimamente passano da un estremo all’altro. L’arco delle oscillazioni possibili è spesso abbastanza ristretto. Per smontare e rimontare il PD, come si propone Bonaccini, bisogna avere una straordinaria forza politica. Bisogna anche avere una visione strategica di cui finora il candidato Bonaccini non ha fornito alcuna prova. Al contrario, mentre i commentatori si affannano su categorie analitiche banali e sterili, resuscitando il massimalismo, ha preferito parlare di territorio e di politiche piuttosto che di struttura, di reclutamento, di modalità della scelta delle candidature. Non donna di partito, ma di movimento, anche questa è una contrapposizione di scuola antica, Schlein ha quantomeno indicato due obiettivi molto importanti: le candidature verranno dai territori e lì dovranno agire, mettendo così fine al fenomeno imbarazzante (per molti tranne, forse, i candidati/e) dei paracadutati/e, e le correnti verranno combattute. Naturalmente non c’è nessuna garanzia che saranno emarginate, ma almeno Schlein lo propone, mentre Bonaccini, già renziano di spicco e dai già renziani visibilmente sostenuto, è in materia tanto silenzioso quanto evasivo.

    Qualcosa sul partito che conosce ha detto Paola De Micheli, ma mediaticamente non ha sfondato. Nel frattempo, candidati e candidate propongono ambiziose riforme, elaborano politiche, annunciano solenni principi operativi come se il PD fosse al governo e loro fossero il capo (la capo?) del governo.  Lasciando perdere progetti fantasiosi tutti a molto futura memoria, sono giunto alla conclusione, rivedibile solo a fronte di obiezioni effettivamente dirimenti, che due macro riflessioni sono indispensabili. La prima è un’autocritica approfondita della fusione a freddo del 2007 fra due partiti già indeboliti, DS e Margherita, e privi di cultura politica. Il professore di scienza politica vorrebbe sapere quali erano allora i libri di riferimento e quali potrebbero essere oggi. Non basta, come mi ha messaggiato un parlamentare di (già troppo) lungo corso, avere calcato le aule della politica per potere vantare una cultura politica.

   La seconda è da dedicare ad una analisi della politica in Italia: dove siamo, perché siamo arrivati a tanto, poco? Poiché, come soleva affermare Giovanni Sartori, “chi conosce un solo sistema politico non conosce neppure quel sistema politico”, l’analisi deve essere comparata e tenere conto del “vincolo” europeo che è una grande, permanente opportunità. Europarlamentare per un mandato, Schlein dovrebbe sfruttare le sue conoscenze in materia. Fra l’altro, l’europeismo è una cultura politica e il Partito Democratico è già riconosciuto come il più europeista dei partiti italiani. Mi accorgo di avere fin qui scritto con molto apprezzamento e con speranza troppo vicina ad un più o meno pio desiderio. Comunque vada, la storia e la teoria dei partiti suggeriscono che raramente le organizzazioni di uomini e donne che presentano candidati/, ottengono seggi, vincono cariche, spariscono di colpo. In buona misura, che dovrebbe essere rivendicata, il Partito Democratico è, pur con tutti i suoi visibilissimi difetti, a cominciare dai suoi dirigenti, un partito indispensabile (non, però, insostituibile), nel sistema politico italiano e utile nel Parlamento europeo. Dal conflitto di idee e proposte di coloro che si sono candidati/e e dalle critiche dei commentatori preparati e degli studiosi disincantati può sortire qualche inattesa novità. Se no, il galleggiamento continuerà. Qualunquemente. Viziosamente. Tristemente.    

Pubblicato il 7 dicembre 2022 su Domani

Paracadutare i candidati, e le idee?

Adesso possiamo dirlo a ragion veduta, pardon, a liste rese pubbliche. Gli uomini e, in misura ovviamente inferiore, le donne già in cariche politiche si sono difese da par loro. Praticamente tutti, nonostante la riduzione di un terzo del numero dei parlamentari, sono riusciti a trovare posto nelle liste dei loro partiti, dei loro “poli”. Naturalmente, i leader non si sono fatti mancare niente. Troppi commentatori parlano di duelli, ma laddove nei collegi uninominali ci sono, visibili, due leader in posizione di preminenza, gli elettori non si lascino ingannare. Ciascuno e tutti si sono premuniti candidandosi anche in collegi che ne consentiranno comunque l’elezione. Ecco spiegato perché, nonostante le molte critiche, raramente da parte loro, la Legge Rosato non è stata neppure minimamente ritoccata. Consente le pluricandidature e ai dirigenti offre anche la possibilità di scegliere con buona approssimazione chi degli esponenti del loro partito/polo vogliono collocare in posizione eleggibile. Poi, grazie all’assenza di qualsiasi requisito di residenza, si manifesta il fenomeno dei paracadutati. Sono persone, spesso con lunga carriera politica, che non trovano posto nel loro territorio e vengono mandati lontano dove non sono, nel bene e nel male, abbastanza noti e dove probabilmente, fatta, forse, la campagna elettorale, non torneranno più. Prossimo giro nuovo “paracadutamento”. Naturalmente, la rappresentanza politica risentirà negativamente di tutti questi trucchetti che gli elettori non possono sventare tranne forse nei collegi definiti “contendibili” ovvero dove lo spostamento di non molti voti può effettivamente fare la differenza. Ma quello spostamento deve essere organizzato e coordinato. Al momento non se ne vedono neppure le prime avvisaglie. Certo l’interrogativo più importante riguarda chi vincerà, con il centro-destra, pur diviso su tematiche europee e sulla leadership, piazzato in testa, ma ancora in grado di commettere errori anche decisivi. Giustamente, però, gli elettori, mi permetto di interpretarli, vorrebbero sapere con quali capacità e competenze i candidati promettono di affrontare e risolvere i problemi la cui gravità è innegabile: energia e inflazione con tutto quel che ne segue in termini di bollette, di salari e di costo della vita. È lecito pensare e temere che i professionisti della politica, i soliti noti più i rientranti, come Marcello Pera e Giulio Tremonti, non abbiano idee e ricette particolarmente originali. C’è chi, consapevole delle sue carenze, si aggrappa alla “agenda Draghi”, ma per attuarla bisognerebbe ricorrere al suo ideatore con la consapevolezza che Draghi saprebbe opportunamente adattarla e aggiornarla. Il compito dei professionisti della politica si presenta arduo, ma se lo sono cercati loro. Non resta che suggerire agli elettori italiani di valutare con attenzione chi dice che cosa e quanto credibile è. Chi non vota non conta. Consente agli altri di scegliere per lui/lei e non avrà nessun diritto di lamentarsi, dopo.

Pubblicato AGL il 24 agosto 2022

I costruttori? Né eroi né voltagabbana @HuffPostItalia

Quasi sessant’anni fa concludendo un’importante ricerca sulle prime quattro legislature del Parlamento italiano, Giovanni Sartori si chiedeva a chi rispondessero i parlamentari italiani: ai partiti (e ai loro dirigenti), ai gruppi di interesse, agli elettori?

La risposta di allora era inequivocabile: ai dirigenti di partito e di corrente, i quali, aggiungo io, in una (in)certa misura, tenevano grande conto delle preferenze di non pochi gruppi di interesse. Grazie (sic) alla legge Rosato, liste sostanzialmente bloccate, pluricandidature e paracadutati/e, è chiaro che tutti/e parlamentari sanno a chi debbono la loro candidatura e la loro elezione (nonché la probabilità di essere ricandidate/i).

Sanno anche che, in Parlamento, possono, se vogliono, operare senza vincolo di mandato (ne ho già variamente scritto anche per HuffPost). Non per questo meritano di essere automaticamente considerati degli eroi, ma neppure sistematicamente condannati come trasformisti e voltagabbana.

Se uno specifico gruppo parlamentare, con i suoi componenti più o meno consultati, assume una posizione, mai esplicitata nel programma elettorale, su un tema controverso comunque di grande rilevanza, allora è più che legittimo che uno o più parlamentari gli voltino le spalle e se ne vadano da un’altra parte armi, bagagli e libertà di voto.

Se altri insoddisfatti ed espulsi vorranno costituire un nuovo gruppo parlamentare, secondo i regolamenti vigenti, ciascuno di quei parlamentari avrà la facoltà di aderirvi. Se no, si accomoderanno nel Gruppo Misto. Ricordo che al Senato gli scissionisti di Italia Viva hanno potuto costituire un gruppo parlamentare autonomo soltanto grazie all’apporto decisivo del senatore socialista Riccardo Nencini.

Infatti, il nome ufficiale del gruppo è ItaliaViva-Socialisti. Se, su una decisione tanto significativa come è il mettere in crisi il governo Conte, il sen. Nencini non consente, è pienamente libero di andarsene, cercare accoglienza in un altro gruppo e votare liberamente di conseguenza.

Stessa facoltà va riconosciuta a tutti coloro che si trovano, per una pluralità di ragioni, sulle quali nessuno di noi ha il diritto di sindacare, ma di discutere certamente sì, nel Gruppo Misto.

Comunque, il problema non è quello di cambiare gruppo parlamentare. Piuttosto riguarda la responsabilità politica, l’accountability. A chi risponderanno i parlamentari che cambiano gruppo e esercitano liberamente il loro diritto di voto? Molti, non soltanto di loro, perderanno comunque il seggio a causa della drastica riduzione del numero dei parlamentari. La loro speranza di portare la legislatura alla sua conclusione naturale nel febbraio-marzo 2023 è comprensibile e legittima.

Come negare, però, che nel comportamento di molti degli eventuali “Costruttori” abbia un peso rilevante anche la convinzione che una crisi di governo in questa fase possa essere esiziale per l’Italia? Non pochi parlamentari sono consapevoli del loro compito di rappresentanza “nazionale”.

Semmai, il problema è che la legge elettorale vigente e quella di cui si discute rendono praticamente impossibile al parlamentare di spiegare ai suoi elettori le motivazioni dei suoi voti e comportamenti e agli elettori di poterli valutare. Tutto qui, ma in democrazia questo è un gravissimo inconveniente (che non viene risolto da stigmatizzazioni e insulti).

Pubblicato il 15 gennaio 2021 su huffingtonpost.it

Quale partito per il prossimo segretario del PD?

Dalla rumorosa cavalcata di Veltroni nell’estate-autunno 2007 fino all’inusuale ri-elezione nel 2017 di un ex-segretario sconfitto al referendum costituzionale, le battaglie (impropriamente definite “primarie) per la conquista della segreteria del Partito Democratico hanno regolarmente eluso il tema di “quale partito” debba essere il PD. Tutti i potenziali segretari hanno raccontato qualche storia più o meno credibile, più o molto meno nuova, più o meno infiorettata, sulle “magnifiche sorti e progressive” che avrebbero introdotto nel governo del paese. Con quale partito non si è saputo mai. Con quale successo lo si è visto poi. Nelle democrazie contemporanee, alla faccia di tutte le estemporanee analisi che accentuano la personalizzazione della politica (in Svezia? Norvegia? Danimarca? Finlandia? Germania? Gran Bretagna? tutte democrazie davvero pochissimo “personalizzate”, e altre se ne potrebbero aggiungere), che sostengono che i partiti sono spariti, che trovano, per assolvere gli italiani, inconvenienti simili alla sgangherata politica italiana un po’ dappertutto, i partiti continuano a esserci, in uno stato di salute accettabile, e quelle che chiamiamo crisi della democrazia sono problemi di funzionamento nelle democrazie. Quei problemi sono più evidenti e più gravi proprio laddove i partiti sono più deboli. Incidentalmente, le alternanze al governo non sono mai la causa dei problemi, ma neppure la loro magica soluzione. Marco Valbruzzi mi ha insegnato che quelle alternanze frequenti sono semplicemente il prodotto della competizione fra partiti indeboliti che non riescono a mantenere “fermo” il consenso ottenuto da una elezione alla successiva. La volatilità elettorale è inevitabilmente più alta dove i partiti sono “qual piume al vento” e non dove sono radicati. Sulla volatilità del consenso del PD, se i dirigenti del partito smettessero di raccontarci i loro sogni e studiassero un po’ di analisi elettorali, qualcosa potrebbero imparare. La prima lezione è, come si conviene, tanto elementare quanto fondamentale. Laddove l’organizzazione del partito tiene il consenso elettorale fluttua poco. La seconda lezione è quella operativa. Se i dirigenti del partito si occupano di cariche e di carriere e non della presenza organizzata sul territorio, anche le cariche e le carriere diventano a rischio. Allora, bisogna proteggerle con le candidature multiple e le nomine dall’alto. La legge Rosato ha avuto questo unico esito protettivo che, naturalmente, prescindeva dallo stato del partito ed è andato a scapito della rappresentanza politica.

La campagna per l’elezione del prossimo segretario è sostanzialmente già partita, “sottotraccia” dicono i retroscenisti, ma già narrata in maniera più o meno fake da giornaliste e giornalisti che hanno fonti amiche. Sappiamo di contrapposizioni fra persone, con l’obiettivo prevalente del due volte ex-segretario (e lo scrivo due volte apposta) di bloccare chi è a lui ostile, per un insieme di ragioni che nulla hanno a che vedere con le modalità con le quali sarà ricostruito il Partito Democratico oppure si porranno le premesse per un altro partito. Che Renzi e i renziani siano totalmente disinteressati al PD è lampante. Con grande loro compiacimento personale, hanno nel tempo consentito a Ilvo Diamanti di scrivere tre o quattro articoli su “Repubblica” centrati, pardon, sbilanciati proprio a favore del Partito di Renzi (PdR). Tuttavia, un partito è più di una fazione di carrieristi e, quando i carrieristi perdono, il deflusso di parte di loro, spesso senza un ancoraggio sul territorio (anche perché paracadutati), è fisiologico, alla ricerca di chi offrirà altre opportunità di carriera. Qui sta, naturalmente, il problema di come (ri)costruire il partito sostituendo parte grande di quella classe dirigente. Dal mio allievo Angelo Panebianco ho imparato molto tempo fa che i partiti non possono mai cambiare completamente. Cambiano attraverso spostamenti interni che producono nuove coalizioni dominanti. In questo modo, è nato, frettolosamente e balordamente, nonostante le critiche apertamente rivoltegli, il PD.

Probabilmente, gli spostamenti cominceranno a fare la loro comparsa al momento delle candidature alla segreteria. In particolare, non tanto curiosamente, conteranno le “desistenze” a favore di chi. L’ultimo ex-segretario vorrà certamente continuare, scrivono le giornaliste, a dare le carte, ma quante carte gli saranno restate? Il punto, che dovrebbe preoccupare di più chi pensa che senza partiti e senza un’opposizione strutturata sul territorio nessun sistema politico può funzionare in maniera decente e nessuna democrazia può avere una qualità accettabile, è che i candidati dovrebbero formulare prioritariamente con il massimo di chiarezza possibile la loro idea di partito e non annunciare un programma di governo, per un governo che senza un partito decente non formeranno mai. Schematicamente (estesamente, riflessioni e proposte di notevole qualità si trovano nel volume di Antonio Floridia, Un partito sbagliato. Regole e democrazia interna del PD, di prossima pubblicazione), ecco i temi da trattare: iscritti, sedi, attività, modalità di consultazione e decisione, procedure per la scelta dei dirigenti e dei candidati, e, oso al massimo, “cultura politica” (quindi, anche strumenti per la formazione). Nulla di tutto questo è particolaristico e specialistico. Questa è politica: come rapportarsi alle persone, come rappresentarne idee, preferenze, emozioni, come contribuire alla loro capacità di comprendere e di fare politica. Per rendere meno sgradevole l’inverno del nostro scontento.

Pubblicato il 7 settembre 2018 su PARADOXAforum

Ma i collegi sono una bella riscoperta

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Intervista raccolta da Monica Rubino

ROMAI collegi uninominali? Quelli sì che sono una buona modifica“. Per Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza della politica all’Università di Bologna, è questo il merito principale della proposta di riforma della legge elettorale avanzata dal Pd.

I collegi uninominali al posto delle liste bloccate quindi le piacciono.

Sono una bella riscoperta, senza dubbio. È lì che si crea un rapporto vero tra candidati e elettori, ma si può fare di più.

E come?

Inserendo una piccola clausola, ossia il “requisito di residenza”, che potrebbe recitare così: “Per essere candidati in un collegio uninominale bisogna avere abitato in quella zona per almeno tre anni”. Così evitiamo i paracadutati dall’alto.

Trova giusto eliminare il ballottaggio?

No, è una pessima idea. Senza il ballottaggio l’Italicum è castrato. Anche se secondo me dovrebbe essere non fra due partiti ma fra due coalizioni, che rappresentano meglio l’elettorato e smussano gli angoli estremi delle proposte programmatiche fatte dalle forze che le compongono.

E che ne pensa dell’ipotesi di assegnare il premio di governabilità alla coalizione invece che alla lista?

Questo invece va bene. Però bisognerebbe consentire la formazione di coalizioni pre-elettorali ben definite e stabilire soglie certe.

Ha detto sì già a due punti su tre. Come giudica infine la proposta di elezione diretta dei neosenatori?

Sa qual è la questione? Che se anche vincesse il No al referendum, comunque una legge elettorale per il Senato andrà fatta. La soluzione sarebbe presentare le candidature dei senatori nelle Regioni. In questo modo avremmo veri eletti su scala regionale.

Pubblicato il 7 novembre 2016

Come NON eravamo. Un commento all’appello di “Mondoperaio”

Purtroppo, no. Le deforme costituzionali renzianboschiane non hanno nulla, proprio nulla a che vedere con quanto i socialisti di “Mondoperaio” negli anni Settanta e poi, più vagamente, Bettino Craxi, proposero e desideravano conseguire.

Non esiste nessuna continuità fra i renzianboschiani e il pensiero riformatore socialista che, naturalmente, né Renzi né Boschi conoscono e si sono mai curati di apprendere.

Il testo approvato non semplifica affatto il procedimento legislativo. Anzi, lo aggrava rendendo ancora più probabile il solito dispositivo: “emendamenti distrutti in modo ‘bestiale’ (canguri, giaguari e altri animali) con l’accompagnamento ricattatorio del voto di fiducia”.

Come si possa pensare che il Parlamento conquisterebbe così un ruolo significativo sfugge a chiunque sappia come funzionano i parlamenti nelle democrazie contemporanee.

Sfugge anche ai firmatari che, se la funzione di rappresentanza politica è il cuore delle democrazie parlamentari, l’Italicum con i suoi nominati (spero che la Corte Costituzionale, bocciando la legge, non ci consentirà mai di sapere con esattezza quanti, ma allo stato almeno il 60 per cento) e con le pluricandidature (un vero obbrobrio) distrugge qualsiasi rapporto fra eletti ed elettori.

Candidamente, il Ministro Boschi ha dichiarato che i capilista bloccati saranno i “rappresentanti del collegio”. La rappresentanza politica si fonda sulle elezioni non sui paracadutati garantiti.

Quanto al potenziamento del governo, altri meccanismi erano possibili, come, ad esempio, il voto di sfiducia costruttivo, recentemente scoperto da commentatori ignari di qualsiasi dibattito istituzionale. Naturalmente, il voto di sfiducia costruttivo è totalmente incompatibile con qualsiasi premio di maggioranza.

Infine, ma né last nè least, pessima è l’attribuzione ad un Senato di elezione comunque indiretta del potere di nominare due giudici costituzionali. Questi 100 senatori “indiretti” acquisiscono un potere squilibrato, un giudice ogni 50 di loro, rispetto ai 630 deputati che eleggeranno tre giudici, uno ogni 210 di loro.

Non sono al corrente di pulsioni plebiscitarie dei socialisti, ma almeno sul tentativo plateale del capo del governo di cercare e di pretendere un voto su di sé, mi sarei aspettato dai firmatari qualche riserva.

Gianfranco Pasquino

già componente, naturalmente, nullafacente, ma autore, con il Sen. Eliseo Milani, della Relazione di Minoranza della Commissione Bicamerale per le Riforme Istituzionali nota come Commissione Bozzi.