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Un bella domenica italiana al Corriere #ParadoXaForum

Il “Corriere della Sera” di domenica 26 ottobre 2025 nelle pagine della Cultura con risalto riferisce annuncia che una giuria presieduta da Aldo Cazzullo, che cura la pagina quotidiana “Lo dico al Corriere” e molto altro molto spesso scrive, ha premiato un libro scritto da Massimo Gramellini, responsabile per il “Corriere” della rubrica di prima pagina “Il Caffè”. Sabato 25 ottobre Aldo Cazzullo è stato ospite della trasmissione “In altre parole” condotta da Massimo Gramellini per rete televisiva La7. Urbano Cairo è il presidente del Gruppo Cairo Communication, proprietario de La7, e di RCS MediaGroup che controlla diverse testate giornalistiche fra le quali il “Corriere della Sera”.

Soltanto facendo mostra di molta ipocrisia, di cui, più che un merito, è un semplice fatto, non sono possessore, potrei limitarmi a dire: primo, sono tutti bravi e si meritano premi e partecipazioni; secondo, si tratta di coincidenze casuali. Ho citato alcuni pochi casi perché si sono presentati tutti insieme in nemmeno quarant’otto ore. Da attento lettore del “Corriere” sono in grado di assicurare che nel corso dell’anno questo fenomenale incrocio di scambi è frequentissimo. Comporta come prima tangibile conseguenza che per vincere un premio letterario bisogna fare in qualche modo parte di quello che un giornalista del “Corriere” definisce “circoletto”. Sarebbe utile, forse doveroso esplorare le presenze, contarle, classificarle. Compito tanto importante quanto deprimente.

Seconda considerazione: i giornalisti del “Corriere” si recensiscono a vicenda e le loro reciproche recensioni occupano grande spazio, qualche volta hanno addirittura il richiamo in prima pagina. Non ricordo di avere mai letto recensioni critiche né, meno che mai, stroncature dei libri dei componenti il “circoletto”. Più in generale, la regola che mi è stata autorevolmente riferita è che le firme del Corriere debbono astenersi nella maniera più assoluta dal criticarsi l’un altro. Persino, Giovanni Sartori a malincuore vi si uniformò. Quelle recensioni elogiative a piena pagina costituiscono spesso il biglietto da visita per gli inviti ai Festival dei libri nonché l’anticamera dei premi. Vale a dire che fanno parte integrante del problema dello strapotere del quotidiano di Via Solferino.

Non sta a me, comunque, non in questa sede, trovare soluzioni a problemi di etica professionale che, evidentemente i giornalisti del “Corriere” non considerano per niente tali. Mi limito a suggerire che, quantolmeno nel caso delle recensioni incrociate, si potrebbe operare diversamente. I recensori dei libri delle firme del Corriere siano tutti esterni, non collaboratori e non aspiranti a diventare tali.

Coda. Nel 50esimo anniversario dell’uccisione di Pier Paolo Pasolini, l’attuale direttore del “Corriere” Luciano Fontana scrive nelle pagine de La Lettura con grande vanto che scandalo non fu l’arrivo di PPP (“reclutato” dall’allora direttore Piero Ottone). “Lo scandalo è considerare il giornale come un fortino in cui si ospitano soltanto le opinioni che si condividono”. Già.

Pubblicato il 27 ottobre 2025 su ParadoXaforum

State-building in Palestina, pace per la democrazia, e viceversa #ParadoXaforum

Nonostante molte critiche, più o meno fondate e saccenti, il Piano di Pace di Donald Trump ha posto, almeno finora, termine al conflitto Israele-Hamas e consentito lo scambio fra circa duemila detenuti palestinesi e 48 ostaggi israeliani vivi e morti. Poi, è certamente opportuno e doveroso porre nel mirino delle critiche quello che risalta, l’impianto affaristico della ricostruzione a Gaza, e quello che viene progettato, una fase di indefinita durata di un governo «tecnocratico e apolitico». Non entrerò nei dettagli, pure importantissimi, poiché voglio giungere all’elaborazione del punto che ritengo decisivo. Premetto che due elementi mi hanno colpito molto sfavorevolmente. Il primo è che nessuno dei quattro firmatari del documento: il presidente egiziano El-Sisi, il presidente turco Erdogan, l’emiro del Qatar Hamad al-Thani e, per dirla tutta, neppure il Presidente americano Trump, è un «sincero democratico». Il secondo elemento è la sfilata ossequiosa dei leader a stringere, uno per uno, in poco splendida solitudine e distanziati, la mano di Trump con relativa foto di rito. Apprezzabile la ritrosia di Giorgia Meloni, visibile nelle sue espressioni facciali e nel suo body language. La celebrazione ostentata è andata fuori misura e pone gran parte dell’onere dell’attuazione degli accordi sulle spalle del Presidente USA.

Il problema cruciale dell’attuazione è che esiste una controparte, ma non l’altra. Anche se cambiasse, come è possibile, per scaramanzia non scrivo probabile, il primo ministro di Israele, ci saranno altri governanti a garantire che lo Stato di Israele manterrà fede agli impegni presi. Al momento, i palestinesi di Gaza sono privi non soltanto di qualsiasi rappresentanza politica, ma di voce in capitolo. L’Autorità Nazionale Palestinese, vecchia, screditata e da molti accusata di alto tasso di corruzione, non controlla il territorio e, soprattutto, non dispone di milizie armate in grado di controllare Hamas. Nel documento manca qualsiasi riferimento alla necessità che i palestinesi abbiano/si dotino/ottengano uno Stato (la cui «esistenza» è incredibilmente già riconosciuta da più di 150 Stati sui 190 facenti parte dell’ONU).

Proprio perché sono assolutamente consapevole delle enormi difficoltà dei processi di State-building, l’assenza nel documento di indicazioni e linee guida che vadano oltre il ricorso ad un comitato «tecnocratico e apolitico» (costruire uno Stato è un compito di enorme complessità e politicità), forse presieduto da Tony Blair, la cui fama mediorientale non è propriamente elevatissima, è decisamente grave.

Si è aperta una grande finestra di opportunità per uno Stato palestinese in grado di mantenere l’ordine politico e di sfruttare le ingenti risorse che affluiranno per la ricostruzione di Gaza e, perché no?, anche per il lancio su scala internazionale del turismo balneare sulla striscia. Infine, per chi crede con me, e con una significativa «striscia» di ricerche e di analisi, e come me che gli Stati democratici non si fanno la guerra fra di loro, uno Stato palestinese democratico sarebbe un attore decisivo per la pace duratura nel Medio-oriente. Mi fermo qui senza procedere a speculazioni, pure possibili e plausibili, sul perché i governanti autoritari degli altri sistemi politici medio-orientali non vedrebbero con favore, vero e sincero understatement, la nascita nei loro dintorni di uno Stato democratico. Avremo modo, temo presto, di tornarci.

Pubblicato il 15 ottobre 2025 su PARADOXAforum  

Democrazie, non fragili, ma complesse #paradoXaforum

Fra pochi giorni sarà in libreria il primo importante libro di Giovanni Sartori, Democrazia e definizioni, pubblicato dal Mulino nel 1957. Come avrebbe poi teorizzato, Sartori scriveva contro, vale a dire criticando le definizioni di democrazia date dai comunisti e dai benpensanti non solo a sinistra negli anni quaranta e cinquanta del secolo scorso. Quel contesto era particolarmente significativo. Quelle definizioni, spesso accompagnate da aggettivi distorcenti, democrazia “guidata”, pleonastici e fuorvianti, democrazie “popolari”, erano spesso strumento di lotta politica e ideologica. Forse oggi c’è bisogno di dire e sottolineare che Sartori riteneva e argomentava che la democrazia liberale era la forma migliore di democrazia. Condivido, sapendo che Sartori fu sempre attento alle possibili declinazioni pratiche delle democrazie liberali. Qui sta il punto che merita un approfondimento.

Le democrazie, a partire da quelle liberali, sono, come, senza fantasia ripetono non pochi commentatori, “fragili“? Quest’aggettivo non compare negli scritti di Sartori et pour cause, cioè non per caso. Infatti, né le democrazie liberali né la democrazia di Sartori possono mai essere definite fragili, castelli di carte. Quell’insieme di diritti, civili e politici, talvolta anche sociali, e di istituzioni separate (merci, Montesquieu), che è costitutivo delle democrazie, non è affatto fragile. Merita, anche quando non è accompagnato da una società, uso gli aggettivi preferiti dagli americani, ”robusta e vibrante”, l’aggettivo complesso. Poi, caso per caso, si potrà indagare se complesso implica anche e a quali condizioni vulnerabile. Non necessariamente.

Certamente, la democrazia di Weimar (1919-1933), alla quale nessuno ha mai attribuito l’aggettivo fragile, fu politicamente e istituzionalmente molto complessa e si dimostrò anche vulnerabile. In quanto drammaticamente tale continua a essere oggetto di una molteplicità di analisi anche ottime sulle cause del suo crollo. Ma, fermo restando che si contano sulle dita di una mano le democrazie apparse e cresciute dopo il 1945, dopo il 1974 e dopo il 1989 (le ondate di democratizzazione di cui ha convincentemente scritto nel 1991 Samuel P. Huntington), quali sarebbero di grazia le democrazie “fragili”?

Soltanto di una democrazia del secondo dopoguerra è possibile affermare con certezza che è “caduta”: il Venezuela. Gli analisti sono concordi che la causa principale, il fattore scatenante fu l’implosione dei due partiti che garantivano la politica democratica e competitiva, non la fragilità delle istituzioni venezuelane. Quel che è sicuro è che l’autoritarismo di Maduro è tutt’altro che solido. Tuttavia, il discorso su presunta fragilità, complessità e vulnerabilità delle democrazie non deve essere abbandonato. Insieme a molti errori definitori e talvolta, più gravi, analitici (non è vero che le democrazie “muoiono”, accertabile è che vengono assassinate, per lo più dalle elites politiche, economiche, militari, persino religiose), alcuni studiosi hanno finalmente colto i punti più importanti, spesso decisivi. Erosione e backsliding, scivolamento all’indietro, retrocessione sono i due fenomeni più preoccupanti.

   Quando i diritti dei cittadini vengono limitati e cancellati e l’autonomia di ciascuna delle istituzioni, in particolare quella del sistema giudiziario, viene ferita e ridimensionata, allora comincia un procedimento pericolosissimo che colpisce prima la qualità di quella democrazia, poi, la sua funzionalità, infine, la sua esistenza. Niente di questo risulta comprensibile a chi lo guarda dalla finestra della fragilità, meno che mai sapendo come bloccarlo. Mantenere la complessità suscitando pluralismo è, Sartori approverebbe, la ricetta dei difensori della/e democrazia/e.

Pubblicato il 4 settembre 2025 su PARADOXAforum

L’essenza di quel che è imperativo sapere su pace e guerra #Paradoxaforum

Si vis pacem, para bellum. Crediamo tutti di sapere che cosa significa questa farse latina. È il chiaro invito ad armarsi per rendere noto e evidente a tutti i potenziali aggressori che il nostro paese, pardon, la nostra Nazione è pronta, forse non solo militarmente, a difendersi. Qualcuno pensa, a mio parere correttamente, che prepararsi alla guerra non voglia dire preparare la guerra, che la difesa richieda non solo armamenti, ma convinzioni, condivisioni e motivazioni, che, concretamente, più di quarant’anni (1946-1989) di preparazione alla guerra sul continente europeo abbiano garantito la pace. Certo, l’equilibrio del terrore fu il prodotto della (rin)corsa agli armamenti fra le due superpotenze: USA e URSS, e anche della consapevolezza di entrambe che un bellum nucleare avrebbe significato il loro reciproco annientamento. Insomma, in qualche modo, prepararsi alla guerra in maniera visibile contribuì a mantenere la pace (almeno sul continente europeo). Che in materia di preparazione attiva e consapevole si possa scrivere molto altro è pacifico (sic), another time another place. Ma queste considerazioni mi paiono sufficienti a delineare in maniera non fumosa problema e soluzione

Si vis pacem, para pacem è quel che, senza nessuna elaborazione, alcuni politici e intellettuali italiani contrappongono a chi indica la strada della preparazione alla/della guerra. Credo che sarebbe opportuno soffermarsi a pensare non soltanto quale pace dovremmo preparare, ma soprattutto come, delineando i tempi, i modi, i passi. “Svuotare gli arsenali e colmare i granai”, come suggerito da Sandro Pertini nel suo primo discorso da Presidente della Repubblica italiana (1978-1985), è una bella frase ad effetto che riecheggia quanto auspicato dal profeta Isaia: “spezzare le spade per farne aratri, trasformare le lance in falci”. Con la stessa logica, ma non vorrei proprio essere blasfemo, chi sostiene, in Italia sono molti a sinistra, che le spese per le armi vanno a scapito di quelle per la sanità, dovrebbe volere trasformare i carri armati e i droni in autoambulanze e agire affinché, condizione essenziale, lo facessero tutti gli Stati. Rimane più che lecito chiedere a chi non vuole che l’Italia partecipi al riarmo dell’Unione Europea quale contributo alternativo la nostra Nazione dovrebbe impegnarsi a dare per la difesa europea.

Preparare la pace significa anche, preliminarmente, riflettere sulle cause delle guerre, proporre spiegazioni storico-comparate, segnalare le modalità con le quali un certo numero di guerre sono state prevenute e impedite. Non vedo nulla di tutto questo nei discorsi di coloro che dicono di voler preparare la pace.

Si vis pacem, para democratiam. Nelle relazioni internazionali una generalizzazione molto robusta e finora non smentita è che le democrazie non si fanno la guerra fra di loro. È vero che le democrazie sono entrate e continuano a entrare in guerra per una pluralità di motivi, ma l’avversario, il nemico è regolarmente, provatamente uno Stato, una Nazione non democratica. Qui fa la comparsa in tutta la sua pregnanza e lungimiranza la lezione del grande filosofo illuminista tedesco Immanuel Kant (1724-1804). La sua tesi è che la pace perpetua è conseguibile ampliando l’area delle Repubbliche, termine usato allora per definire i paesi governati, non nell’oppressione e nella repressione, ma con il consenso, e procedendo alla costruzione di una Federazione di Repubbliche. L’Unione Europea ne è un ottimo esempio.

   Qui si pone il problema di come preparare la democrazia. Troppo facile sostenere che non è possibile esportare la democrazia chiavi in mano. Piuttosto le democrazie e i democratici, soprattutto coloro che vogliono la pace, hanno il dovere politico e morale di favorire e incoraggiare tutti quei molti comportamenti che nei differenti paesi vanno nel senso della protezione e promozione dei diritti civili e politici, sostenendo coloro che se ne fanno portatori e difensori. La diplomazia, vigorosa, insistente e generosa, delle idee e delle risorse è il modo migliore per fare sbocciare i fiori democratici.

Ne concludo che chi vuole la pace deve operare per portare, piantare, innaffiare quei fiori democratici a cominciare dai paesi responsabili di operazioni militari più o meno speciali e affini. Hic et nunc.

Pubblicato il 30 giugno 2025 su PARADOXAforum

Non genocidio, ma crimini di guerra #ParadoXaForum

Non ho nessuna ragione specifica, personale, famigliare, amicale, di tipo culturale, neppure politica nel senso di appartenenza, per sentire, continuare a provare un profondo senso di colpa per le leggi razziali e, soprattutto, in maniera dolorosa per l’olocausto. Quel binario 21 della stazione di Milano dal quale intere famiglie di ebrei furono deportate ad Auschwitz e le pietre di inciampo che si trovano anche Bologna per ricordare alcuni di loro colpiscono costantemente le mie emozioni più profonde. In maniera non del tutto spiegabile razionalmente. Nessuno della mia famiglia e dei progenitori è stato ebreo. Non ho avuto compagni di scuola riconoscibilmente ebrei, non professori al liceo e all’Università, e neppure colleghi identificabili come ebrei. I miei scrittori italiani preferiti Cesare Pavese, Beppe Fenoglio, Italo Calvino non hanno nulla a che vedere con l’ebraismo e di ebraismo non hanno scritto. Certo, Lessico familiare di Natalia Ginzburg è un romanzo che ho amato, ma il ricordo ammirevole e ammirato che Bobbio ha fatto di Leone Ginzburg sta su un altro piano. Il mio Pantheon degli antifascisti mette in ordine Piero Gobetti, Giacomo Matteotti, i fratelli Carlo e Nello Rosselli. Quando lessi Se questo è un uomo di Primo Levi mi ero già fatto un’idea di che cosa era stato l’olocausto. La foto dell’ingresso al campo di Auschwitz si era già stampata nella mia mente.

No, non riesco proprio a equiparare il genocidio programmato dai nazisti come “soluzione finale del problema ebraico” e da loro eseguito fino al 27 gennaio 1945 a nessun altro, per quanto grave, sterminio di massa. Pertanto, sono più che riluttante, nettamente contrario ad accusare gli ebrei in blocco e il governo di Netanyahu specificamene di genocidio dei palestinesi. Invece, colgo le sembianze di un possibile genocidio nello slogan From the river to the sea Palestine will be free, non so quanto inconsapevolmente pronunciato da molti, da troppi. Comunque lo ritengo ignobile e pericolosissimo. Non aggiungo controproducente poiché è evidente che quello slogan non agevola e non avvicina nessuna soluzione della rappresaglia, legittima, ma diventata enormemente sproporzionata, del governo israeliano contro Hamas.   Vorrei che, da un lato, fossero continuamente segnalate le responsabilità in questo conflitto di Hamas e dei suoi sostenitori e finanziatori, e dall’altro, fosse e rimanesse chiaro che nessuna soluzione potrà diventare duratura fintantoché i terroristi di Hamas godranno di agibilità politica. La eliminazione di una potente organizzazione terroristica è un obiettivo bellico giustificabile. Non significa certamente genocidio del popolo palestinese. Però quello che va detto a chiare lettere è che anche nei confronti di Hamas e dei suoi sostenitori debbono valere alcuni principi relativi alla proporzionalità della risposta e alla salvaguardia nella più alta misura possibile dei diritti e della vita della popolazione civile. Da questo punto di vista, non solo è opportuno porre l’interrogativo se il governo Netanyahu abbia commesso crimini di guerra. Tenendo quei crimini nettamente distinti dalle accuse di genocidio, è assolutamente doveroso perseguirli imputandoli a chi ne sarà individuato come responsabile sia fra i governanti israeliani sia fra i dirigenti di Hamas.

Pubblicato il 22 maggio 2025 su ParadoXaforum

Quelli che l’Europa di Ventotene #ParadoXaforum

“L’Europa di Ventotene”, ha affermato la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, “non è la mia Europa”. Non avrebbe certamente potuto esserlo poiché lei non si sarebbe mai trovata fra i confinati a Ventotene, ma certamente a Roma fra i confinatori fascisti. Perché gli alleati del regime fascista che metteva in galera e confinava i suoi oppositori erano proprio i nemici dell’Europa di Ventotene. A nome del Führer sovranista, Adolf Hitler: Deutschland über alles (traduzione MAGA, Make Alemania Great Again), il suo ministro degli Esteri von Ribbentrop firmava un patto di non belligeranza e di spartizione della Polonia con il ministro degli Esteri sovietico, Molotov che agiva in nome del suo capo sovranista (“socialismo in un solo paese”) Josif Stalin. Allontanatosi del PCI e critico severissimo di quel Patto, Spinelli veniva evitato dai comunisti persino nelle passeggiate quotidiane nella piccola isola.

No, Meloni non avrebbe mai potuto condividere un Manifesto scritto da esponenti delle culture politiche impegnate con il pensiero e le azioni in una verticale opposizione al fascismo e al suo nazionalismo aggressivo: Ernesto Rossi, radicale della componente di Giustizia e Libertà. Eugenio Colorni socialista nel solco tracciato da Giacomo Matteotti. Altiero Spinelli, es-comunista, poi azionista, infine, battitore libero, enfasi su entrambe le parole, di sinistra. Sono tre culture minoritarie nell’Europa di oggi e ancor più nell’Italia di Meloni che, comunque, non è culturalmente in grado di contrapporre nessun Manifesto alternativo. Certo, Spinelli, Rossi e Colorni desideravano che la proprietà privata fosse anche politicamente controllata e posta al servizio di obiettivi pubblici. Certo, Spinelli, Rossi e Colorni erano convinti che la spinta alla mobilitazione dell’opinione pubblica a favore dell’Europa dovesse venire dall’alto, da chi si impegnava per l’unificazione politica federale: gli Stati Uniti d’Europa. Era e rimane un problema di leadership la cui mancanza è fortemente sentita nell’Europa di oggi.

Quell’Europa di Spinelli, Rossi e Colorni avrebbe dovuto portare pace e prosperità, lo ha fatto, ma anche sapere difendersi. Dissentendo ancora una volta dal Partito Comunista Italiano, che pure lo aveva fatto eleggere come indipendente al Parlamento europeo nel 1979, Spinelli sostenne la necessità dell’installazione dei missili americani Pershing come difesa nei confronti dei missili posizionati dai sovietici. Con lui stava il Cancelliere tedesco socialdemocratico Helmut Schmidt, e oggi starebbe il gruppo parlamentare europeo Alleanza Progressista dei Socialisti e Democratici che ha approvato il progetto di difesa militare comune presentato dalla Presidente von der Leyen.

Non stupisce che Giorgia Meloni abbia una visione dell’Europa diversa da quella di Spinelli, Rossi, Colorni. Anche mascherato il non solo suo sovranismo è l’opposto dell’europeismo. Stupisce, invece, che metà degli europarlamentari del Partito Democratico si siano espressi con l’astensione su un voto importante. Lo Spinelli del Manifesto di Ventotene, che ho conosciuto, ho letto, ho seguito nella sua indefessa battaglia politica, e i suoi co-autori, avrebbero risposto con un chiaro e argomentato voto a favore. Poi avrebbero contribuito a migliorare quel progetto, da dentro, non soltanto con la retorica.

Pubblicato il 24 marzo 2025 su ParadoXaforum

Democrazia, non melassa #paradoXaforum

Gli editorialisti del “Corriere della Sera” continuano a inquietarmi, anzi, ad irritarmi. Lo fanno con grande nonchalance. Spesso annunciano solennemente grandi verità, ad esempio, contrariamente a quel che (non) ha (mai) scritto Francis Fukuyama “la storia non è finita”. Avessero mai letto il libro! Qualche volta, poi, le enunciazioni sono non solo fattualmente sbagliate, ma pericolose poiché annegano differenze cruciali e conducono in melasse e paludi dalle quali non si esce più (e, infatti, lì rimangono a dibattersi).

“L’obiezione [alle critiche ai suoi comportamenti balordi] che Trump sia stato democraticamente eletto (come del resto Putin o Xi Jinping o Orbán o Erdogan, sorvolando sull’affidabilità di certe votazioni) non sposta di un millimetro che [la democrazia] sia entrata in una fase clinica delicatissima” (Carlo Verdelli, La democrazia archiviata, “il Corriere della Sera”, 6 marzo 2025, p. 1 e 36).

Questa frase, il cui tenore è simile a molte altre che vengono periodicamente pubblicate da “il Corriere” più spesso che da altri, è assolutamente diseducativa, nei fatti e nelle implicazioni. In primo luogo è sbagliato “sorvolare sull’affidabilità di certe votazioni”. Elezioni libere, segrete, periodiche stanno al cuore delle democrazie, ma le democrazie si fondano su diritti e Costituzioni. Si può discutere del quantum di manipolazione venga effettuato in crescendo in Ungheria, Turchia e Russia, ma di elezioni politiche democratiche in Cina non è proprio il caso di parlare. Secondo, chi scrive di politica ha l’obbligo di documentarsi, di controllare i fatti, di fare riferimenti verificabili e verificati. Il fact-checking non è un gioco di società; è un esercizio utilissimo, pedagogicamente importante, altamente democratico. Consente di aprire e svolgere dibattiti e confronti in pubblico combinando dati e interpretazioni, facendo crescere la quantità e la qualità delle conoscenze, affinando le spiegazioni.

Chi andasse, come dovrebbero sempre fare i giornalisti, gli opinionisti e, naturalmente, gli studiosi, ad analizzare le migliori serie statistiche sulle democrazie, Freedom House, Economist Intelligence Unit, V-Dem, riscontrerebbe un notevole aumento del numero dei sistemi politici democratici nel secondo dopoguerra e troverebbe traccia di alcune difficoltà e problemi di funzionamento spesso seguiti da soluzioni, e nessun crollo, tranne il Venezuela Nessun ingresso dei regimi democratici attualmente esistenti in, qualsiasi cosa significhi, “una fase clinica delicatissima”. A qualche affannato commentatore, mi sento di dire: Medice cura te ipsum.

   In giro per il mondo, dall’Iran al Myanmar, sono molti gli oppositori, uomini, donne, studenti, intellettuali, che mettono regolarmente consapevolmente continuativamente a rischio la loro personale salute proprio per conquistare i fondamenti della democrazia. Questa, dove, quando, chi e come, lottano proprio per la democrazia, sarebbe una bella ricerca. Ho molte idee in materia. Quanto alla morte della/e democrazia/e non avviene per cause naturali, ma per mano di sicari e criminali. Le democrazie non muoiono. Vengono uccise, per lo più dalle elite, economiche, militari, politiche, burocratiche, religiose. Proprio mentre completo questo sintetico post, l’autorevole, come si usa dire, “New York Times”, riferendosi ad una serie di improvvisate decisioni del Presidente Trump (e del consigliere Musk), titola Democracy Dies in Dumbness: “nessun presidente è stato così ignorante delle lezioni della storia, così incompetente nell’attuare le sue proprie idee”. Ma, molto resiliente, la democrazia tollera anche la stupidità del Presidente USA. Chi vivrà vedrà.

Pubblicato il 7 marzo 2025 su ParadoXaforum

Le strette di mano contano. La Sharia conta molto di più, troppo #ParadoXaforum

Grande attenzione è stata data alla sequenza di immagini relative all’incontro fra i ministri degli esteri della Francia, Jean-Noël Barrot, e della Germania, la verde Annalena Baerbock e il nuovo capo della Siria Al Jolani. Giustamente. Però, troppi commentatori, fra i quali segnalo Antonio Polito (Le strette di mano contano, in “Corriere della Sera”, 4 gennaio 2025) non hanno saputo “leggere” correttamente e “comprensivamente” quelle immagini finendo per darne un’interpretazione gravemente distorta. L’immagine che è circolata di più ritrae Al Jolani che stringe la mano di Barrot, ma non quella di Baerbock. Tuttavia, è importante sottolineare che, primo, non c’è nessun suo rifiuto perché Baerbock non ha dato il minimo segnale di stendere la sua mano con una qualche aspettativa. Secondo, e di conseguenza, la Ministra tedesca, alla guida dei Verdi quanto mai sostenitori della parità di genere, non manifesta nessuna delusione. Al contrario, mentre, terzo, guardandola Al Jolani si porta la mano destra sul cuore, Baerbock congiunge le sue mani a mo’ di saluto. Nessuno sgarbo e nessun risentimento, ma un interrogativo: come si salutano uomini e donne nei contesti islamici?

Concludo sul punto suggerendo di allargare la sequenza e di notare che non c’è nessuna premessa di un’accoglienza meno che formale e nessun seguito di comportamento scortese, infatti, Al Jolani fa cenno a Baerbock di sedersi alla sua destra. Chi ricorda la sedia platealmente e deliberatamente negata dal presidente turco Erdogan alla presidente della Commissione Europea, von der Leyen, certamente un atto offensivo, deve prendere atto della notevole diversità di comportamenti.

Le immagini rivelano e il body language ha un suo pregnante significato. Accusare Al Jolani di un comportamento che sminuisce la donna in quanto tale mi sembra sbagliato, prematuro e controproducente. Sbagliato perché, visibilmente, non è stato così e tale non intendeva essere. Prematuro perché almeno finora non hanno fatto la loro comparsa disposizioni discriminatorie di stampo afghano. Controproducente perché le critiche “occidentali” potrebbero essere interpretate come espressioni preconcette di ostilità ai nuovi governanti. Invece, mi parrebbe politicamente più saggio offrire un’apertura di credito politico a Al Jolani e ai suoi collaboratori più moderati (qualsivoglia significato possa avere questo aggettivo non solo nel mondo islamico).

Negli stessi giorni, Al Jolani ha dichiarato “Cristiani parte integrante della Siria, ammiro il Papa”, ma sullo sfondo quasi preannunciata sta la possibilità(/probabilità?) della introduzione in Siria, paese finora “laico”, della sharia. Naturalmente, la sharia farebbe strame di qualsiasi riconoscimento e qualsiasi concessione dei basilari diritti civili e politici. Opportunisticamente, Al Jolani potrebbe provvedere a eccezioni mirate per le comunità cristiane. Comunque, verrebbe posto un pesantissimo ostacolo alla transizione della Siria, non alla democrazia, ma ad una situazione nella quale le diversità non siano represse, negate, oppresse e neppure ghettizzate. La risposta a Al Jolani deve essere una sola: riconosca e accetti il pluralismo, non soltanto religioso, ma anche sociale. Se ne seguirà pluralismo politico potremo ragionarne. Sarà un bel giorno.

Pubblicato il 9 gennaio 2025 su PARADOXAforum

La vittoria di Trump. Difficile da credere, ma è una questione di “cultura” #Paradoxaforum

I numeri attestano che la vittoria di Donald Trump è stata epocale. Segna un’epoca che, forse, a causa dell’età, non sarà lui a guidare, ma che è uno spartiacque nella storia USA. Troppo spesso il “suo” elettorato è stato fatto coincidere quasi esclusivamente con la grande maggioranza degli uomini bianchi di mezz’età (e le loro famiglie), con limitato livello di istruzione e redditi medio-bassi. Per tutti costoro le tematiche di genere, gli scontri sul politicamente corretto, le riscritture della storia dell’uomo bianco colonizzatore e oppressore, non erano semplicemente riprovevoli e sbagliate. Politicamente e culturalmente colpivano il loro status sociale. In gioco era la loro stessa identità di americani, osteggiati, isolati, circondati. Certo, i latinos portano via posti di lavoro, ma c’è di più. Portano con sé una cultura di organizzazione familiare, di vita sociale, di musica e di cibo, di forme di svago che non si incontra e non si mescola con quella degli americani “come noi”. Anzi, che la vuole più o meno inconsapevolmente sostituire sotto gli occhi amichevoli e beneaguranti degli intellettuali e dei divi, delle grandi università dedite al multiculturalismo e dei quotidiani delle gradi città, come se davvero le culture potessero essere messe tutte sullo stesso livello, dimentiche che “e pluribus unum” (il motto del federalismo USA) indica l’obiettivo dell’integrazione, non la conservazione della separatezza.

Tutti, o quasi, affermano che l’Occidente è in declino tanto quanto, e viceversa, gli USA. Non è accettabile nessuna rassegnazione a quell’esito. Make America Great Again è un compito che restituisce l’orgoglio, la consapevolezza di potere fare quanto altri non riuscirebbero neppure a immaginare. Da un lato, una componente non trascurabile, forse persino crescente dei latinos, si fa coinvolgere: saranno parte attiva del ritorno alla grandezza, prova provata della loro integrazione riuscita; dall’altro, fenomeni simili attraversano non pochi sistemi politici europei: i sovranisti variamente declinati come Veri Finlandesi, Democratici Svedesi, Fratelli d’Italia et al. Vecchi e nuovi americani non chiedono autocritiche, ma desiderano pieno riconoscimento di dignità storica e di cittadinanza. Suggeriscono come (ri)conquistarle perché il loro tempo non è passato, ma futuro.

Che un uomo bianco possa fare tutto questo meglio di una donna di colore, vista con sospetto persino dagli stessi uomini di colore, appare addirittura scontato. Quell’elettorato trumpiano non attendeva nient’altro che l’offerta credibile di riscatto. Madornale è l’errore di credere che la sua motivazione prevalente fosse la paura e che i Democratici offrissero speranza, che, invece, era contrizione per i misfatti dell’uomo bianco e della potenza egemone. Unico sollievo per la leadership democratica è che Trump durerà per un solo mandato. Però, se i Democratici non trovano quel (weberiano) imprenditore politico che sappia delineare una strategia di attrazione attorno al credo americano (opportunità per tutti) e ai valori costituzionali troppo spesso disattesi nei confronti dei cittadini di colore, lo scontro culturale continuerà a premiare i repubblicani trumpiani post-Trump.

Pubblicato il 11 novembre 2024 su PARADOXAforum

Proteste, rappresentanza, verità “alternative” #ParadoxaForum

In quanto (ex)Professore di chiara, ancorché un po’ obsolescente, fama, vengo periodicamente da più parti intervistato sugli studenti che protestano in nome, per conto, a favore dei palestinesi. Spesso mi si vuole fare dire che sono degli ignoranti, faziosi, da deprecare. E lo si vuole sentire da me, uomo di sinistra che ha un limpido pregiudizio, che non abbandono, a favore degli israeliani, del diritto ad esistere dello Stato d’Israele (trovo lo slogan “from the river to the sea Palestine will be free”, assolutamente efferato) e del suo diritto alla rappresaglia proporzionata. Da mesi, Netanyahu si è consapevolmente e deliberatamente esibito in una reazione sproporzionata, deprecabilissima, da sanzionare.

La mia risposta alle domande è che gli studenti hanno tutto il diritto di protestare, di fare assemblee, di sfilare in cortei, di organizzare dibattiti, meglio se invitando, non solo palestinesi e simpatizzanti. Lo possono fare anche nelle sedi universitarie, meglio senza interferire con il diritto degli altri studenti a frequentare le lezioni che desiderano e con il diritto/(dovere) dei docenti a tenere quelle lezioni. Però, aggiungo subito senza esitazioni, ci sono tre limiti invalicabili al diritto di parola degli studenti, e dei professori e dei più o meno cattivi, nei diversi significati dell’aggettivo, maestri: i) nessun incitamento alla violenza; ii) nessuna affermazione di odio razziale, sì, questo è l’aggettivo più appropriato; iii) nessuna discriminazione di religione e di genere, accostamento non banale, come ci ricorderebbero le donne dall’Iran all’Afghanistan.

Poi, spingo l’analisi più in là. Quegli studenti non sono isolati, privi di retroterra, meno che mai marziani. A casa con i parenti, fra i loro amici, nelle loro reti di relazioni, in Italia, incontrano consenso e sostegno. Insomma e purtroppo, quegli studenti attivisti sono per una molteplicità di ragioni, piuttosto rappresentativi di un’opinione pubblica o di bolle di opinioni pubbliche che neanche troppo in fondo la pensano come loro. Rappresentano anche una zona grigia più ampia, quella dei sedicenti pacifisti.

Non mi contengo e, grazie alle mie innegabili e innascondibili esperienze e conoscenze internazionali, guardo fuori dal paese dello stivale. È molto facile vedere proteste studentesche non dissimili, in qualche caso anche peggiori dal punto di vista dell’ordine pubblico, in special modo nelle prestigiose università USA: da Harvard a Berkeley, e inglesi: Oxford e Cambridge, ma non solo. Per di più, non sembrano pochi neppure i docenti giustificazionisti.

Cerco di capire senza nessuna intenzione di giustificare. Ribadisco il no all’incitamento e alla pratica della violenza, all’odio politico, sociale, culturale, alle discriminazioni in tutte le sfumature possibili. Ma non mi basta e sono certo che non basta neanche a chi gentilmente mi sta leggendo. Dove e come riprendere il bandolo della matassa? Veritas vos liberabit. Già, ma, in quanto convinti e forse troppo compiaciuti democratici, abbiamo lasciato troppo spazio alle “verità alternative”. Da dove ricominciare?

Pubblicato il 27 settembre 2024 su ParadoXaforum