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Per una Presidenza di qualità #Quirinale #Elezione

Toto nomi? No, grazie. Enough is enough. Cambiamo il paradigma e facciamo il toto qualità. Non debbono essere qualità a caso che riflettano le preferenze e i pregiudizi di chi le formula. Propongo che si individuino le qualità presidenziali facendo riferimento a due fonti diverse, ma entrambe autorevoli. La prima è la Costituzione. Art. 87: . Il Presidente “rappresenta l’unità nazionale”. Art. 54: “i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore”. La seconda fonte è un Presidente stesso. Nel suo discorso di fine anno (e fine mandato), Mattarella ha detto che il Presidente deve “spogliarsi della sua appartenenza”; perseguire l’interesse nazionale; tutelare ruolo, prerogative, poteri della Presidenza. Se la Costituzione fosse un documento adeguatamente noto ai politici e ai commentatori, potrei limitarmi ad affermare “a buon intenditore poche parole”. Invece, mi sento costretto a fare qualche essenziale chiosa. Per rappresentare l’unità nazionale è decisivo che il Presidente abbia dato prova di non perseguire pervicacemente i proprio interessi politici e personali.

   Soltanto se riesce a combinare la sua visione con quella di altri in una sintesi virtuosa la sua “rappresentanza” diventerà effettivamente nazionale. Assurgerà allo stadio di patriota e sarà tanto più efficace se consapevole che il patriottismo non è autarchia, non è nazionalismo, non è sovranismo, ma è volontà e capacità di collaborare con i patrioti di altri paese per assicurare “la pace la giustizia fra le Nazioni” (art. 11). Sicuramente, una volta eletto il Presidente non dovrà più avere nessuna appartenenza partitica e politica. Però, Mattarella non ha, credo deliberatamente, aggiunto l’aggettivo “politica” nel suo riferimento all’appartenenza. Il Presidente non dovrà essere condizionato dalla sua appartenenza religiosa, ma neanche da sue appartenenze economiche, dalle attività che svolgeva prima dell’elezione e che debbono cessare immediatamente. Solo così potremo ragionevolmente pensare che le dichiarazioni e le azioni presidenziali saranno sempre, sistematicamente e esclusivamente, improntate al perseguimento di interessi politici nel senso di attinenza alla polis, al sistema politico.

   La Presidenza della Repubblica italiana non è un premio alla carriera. Non è un risarcimento. Non è una carica cerimoniale. Il Quirinale è il vertice di un triangolo composto con il Governo e con il Parlamento. In una democrazia parlamentare come quella italiana le istituzioni interagiscono, si controllano a vicenda, entrano in competizione per l’esercizio dei poteri di rappresentanza e di governo (qualcuno, oggi, aggiungerebbe di comunicazione). Chi pensa che è giusto che gli equilibri siano dinamici e che nessuna istituzione, e neanche i partiti, possa prendere il sopravvento, deve desiderare che alla Presidenza venga eletta una persona capace per cultura, autorevolezza, prestigio, di usare al meglio tutti i poteri della carica. Deve, dunque, essere qualcuno che ha competenza e esperienza politica. Non aggiungo altro se non la raccomandazione ovvero, per richiamare il titolo del libro pubblicato dal Presidente Luigi Einaudi al termine del suo mandato (Prediche inutili 1955), la predica, che spero utile, di valutare le oramai molte candidature con riferimento, non agli “equilibri” di potere, ma alle indispensabili qualità presidenziali.

Pubblicato il 10 gennaio 2022 su PARADOXAforum     

Democrazie illiberali

In linea di massima a Giovanni Sartori gli aggettivi appiccicati al sostantivo democrazia piacevano poco. Per nulla, poi, se quegli aggettivi servivano a definire (Democrazia e definizioni 1957) regimi, come le “democrazie popolari”, che erano (quasi) tutto tranne che democrazie. Nel recente passato ho già variamente trattato l’argomento (“Paradoxa” 3/2019, Democrazie fake), ma data la sua importanza continua a meritare approfondimenti specifici e mirati. Hic et nunc. Concentrerò l’attenzione sulle democrazie illiberali. Con la sua abituale franchezza, quel terribile semplificatore di Putin qualche tempo fa affermò che la democrazia liberale è finita. Punto. Più manovriero per necessità, il Primo ministro ungherese Orbán, a fronte delle critiche europee alla sua manipolazione dei mass media e della magistratura, delle scuole e delle Università (chiusura e espulsione di quella, importante e ottima, sede a Budapest, fondata e finanziata dall’ebreo di origine ungherese George Soros) ha dichiarato che l’Ungheria è una democrazia illiberale. Semplicemente, non può essere così. Le democrazie contemporanee, che Sartori preferiva definire liberal-costituzionali, si basano su due pilastri: i diritti dei cittadini e la Costituzione che stabilisce la forma di governo (parlamentare, presidenziale, semipresidenziale, direttoriale) e il tipo di Stato (accentrato/federale/semifederale etc.).

Per quel che riguarda lo Stato, democratico non è se non mantiene la separazione dei poteri e delle istituzioni, se non esistono freni e contrappesi, se non la accountability, la responsabilizzazione dei governanti e dei rappresentanti a tutti livelli, non è all’opera. I democratici illiberali sostengono che nei loro regimi governanti e rappresentanti sono effettivamente eletti e, sottoposti al vaglio degli elettori, anche rieletti. Alcuni studiosi occidentali ritengono in questi casi che esistono democrazie elettorali. Certo, in assenza di elezioni, non è mai possibile parlare di democrazia. Ma, da sempre, la democrazia è molto di più che una serie di competizioni elettorali ripetute nel tempo. Comunque, è decisivo valutare il grado di libertà e equità delle elezioni non soltanto nel momento del voto, ma tanto a monte quanto a valle del voto. A monte, se i diritti dei cittadini a candidarsi, a organizzare gruppi e partiti, a fare campagna elettorale, a esprimere le loro opinioni soprattutto politiche con l’accesso ai mass media non sono né protetti né promossi, non c’è modo di considerare libere quelle elezioni. Sono elezioni foglie di fico. A valle, se la legge elettorale è tale da conferire enormi vantaggi ai detentori delle cariche di governo e di rappresentanza, distorcendo la traduzione dei voti in seggi, non è accettabile che si parli di democrazia elettorale. Per quanto blando, siamo di fronte ad un caso di autoritarismo elastico che si attiva ogni qualvolta i detentori del potere politico vengono sfidati e sentono di doversi difendere.

Vero è che le elezioni possono produrre sorprese, che i detentori del potere politico si logorano, che nuove generazioni hanno l’opportunità di esprimersi in maniera difforme. Finché, però, il cambiamento non si produce quei regimi non sono democrazie elettorali. Rimangono sistemi politici non competitivi e non liberali, effettivamente illiberali. La difficoltà di trovare un termine che ne colga la sostanza non significa che dobbiamo accettare le manipolazioni non soltanto lessicali dei potenti. Nella confusione è difficile combattere battaglie politiche trascinanti. Nella confusione si rischia di perdere di vista le promesse della democrazia: libertà e diritti, inscritti nella Costituzione e garantiti dalle istituzioni apposite. Anche nell’ambito dell’Unione Europea dove molti sovranisti sembrano avere incomprimibili pulsioni illiberali.

Pubblicato il 4 novembre 2021 su PARADOXAforum

Abbiamo abbastanza democrazia per poterla esportare?

La democrazia che conosciamo non è “occidentale”. È universale. Non è nata in India e in nessun altro luogo del mondo non occidentale. Pratiche di accordi e compromessi, saltuarie rinunce alla violenza, scambi di ascolti e riunioni assembleari non configurano nessuna democrazia. La democrazia che conosciamo è il prodotto complesso del pensiero europeo, poi anglo-americano, combinato con le pratiche necessarie a riconoscere e mantenere il pluralismo dei dissidenti religiosi, aggiungendovi le riflessioni dei liberali sui diritti, a cominciare da one man, oops, one person one vote, sulla separazione delle istituzioni e sull’autonomia del potere politico da quello religioso. Tutte le altre interpretazioni che vengono date della democrazia sono il prodotto sbagliato e fuorviante, anche pericoloso per tutti, di un mix variabile di ignoranza e manipolazione, di cancel culture e buonismo inclusivo.

Esportare la democrazia, ha scritto nitidamente Giovanni Sartori, si può, subito aggiungendo: non dovunque e non comunque. Certo, la “esportazione” non potrà essere fatta da chi, come Arianna Farinelli in un troppo lungo articolo sul “Domani” (21 agosto), non ha un’idea chiara di che cosa è la democrazia. Galli della Loggia (“Corriere della Sera” 20 agosto) l’esportazione la farebbe persino portandola con la guerra, operazione che non sembra finora avere avuto successo. Anzi, è stata controproducente. No, in Italia nel 1945 la democrazia non fu portata dai carri armati americani e nella Germania sconfitta la democrazia poteva fare leva su democratici rimasti in patria e su esuli prestigiosi. Solo per il Giappone si può parlare di imposizione USA, ma una rondine non fa primavera (democratica).

   La democrazia ha bisogno di un luogo definito dove sperimentarsi. State-building, vale a dire l’esistenza di uno Stato con i suoi confini, con i suoi apparati, burocrazia e forze di polizia e militari, in grado di garantire l’ordine politico impedendo ai detentori di risorse soprattutto economiche di schiacciare gli altri abitanti, è la premessa di qualsiasi costruzione di democrazia. La democrazia ha bisogno anche di atteggiamenti e emozioni. Nation-building è il procedimento attraverso il quale si creano sentimenti di appartenenza condivisa, anche attraverso una rilettura della storia comune, di ridimensionamento delle fratture esistenti su base etnica, di concessione e protezione dei diritti basici: civili e, aprendo la strada alla democrazia, politici. Entrambi i procedimenti sono (stati) prodromici alla nascita di qualsiasi democrazia. Esemplarmente, per quel che ci riguarda: “fatta l’Italia bisogna fare gli italiani”. Per la Francia, il cui Stato esisteva da secoli, solo la prima guerra mondiale trasformò i “contadini in francesi” (è il titolo di un libro giustamente famoso di Eugen Weber, 1976). In un non piccolo numero di paesi sono (state) alcune confessioni religiose ad opporsi ad entrambi i procedimenti. Mi pare alquanto stucchevole continuare a sostenere che l’Islam non è in via di principio la religione monoteistica che maggiormente si oppone alla democrazia. Dove i proclami e i dettami dei mullah contano più dei voti, nessuna democrazia può affacciarsi. Inevitabilmente quei proclami e quei dettami lanciati contro i voti dei cittadini configurano uno scontro di (in)civiltà.

Nel mondo giorno dopo giorno che siano i monaci tibetani, gli studenti di Hong Kong, i seguaci della signora Aung San Suu Ky, le donne afghane, centinaia di migliaia di persone lottano per ottenere i diritti sui quali da tempo si fonda la democrazia in occidente, diritti che possono/debbono essere importati e sui quali e grazie ai quali nascono nuovi regimi democratici. Per nessun altro regime, mai, così tante persone di nazionalità, di cultura, di colore, di età e di genere diverso si sono impegnate allo stremo, spesso mettendo in gioco consapevolmente la loro vita. Quelle donne e quegli uomini, quei ragazzi si sentirebbero traditi da coloro che sostengono che bisogna tenere conto della loro storia, delle loro tradizioni, dei loro costumi (compreso quello di opprimere le donne) piuttosto di tentare di esportare la democrazia occidentale che, insomma a loro non è adatta, sarebbe una forzatura, verrebbe respinta. La tristissima conclusione è che la difficoltà di esportare la democrazia dipende anche dal fatto che troppi intellettuali, giuristi di più o meno oscura fama, opinion-makers, influencers occidentali non hanno un pensiero democratico. Per lo più non sanno esattamente di cosa parlano; spesso sono portatori malsani di alambiccatissimo e provincialissimo elitarismo con strisce di preoccupante razzismo: “eh, no, purtroppo, quei popoli non sono adatti/pronti per la democrazia. Triste.

Pubblicato il 2 settembre 2021 su PRADOXAforum

Tu sì que vales: classe dirigente

Sono sicuro che, affascinati dai molti pensosi editoriali(sti) del Corriere della Sera, molti di voi stanno mettendo a buon frutto le vacanze. Il tema è chiarissimo: “come creare una nuova classe dirigente”. Lo svolgimento si preannuncia complicato assai, ma, niente paura, condivido con voi quello che so, anche grazie alla scienza politica e al metodo comparato. Escluso che la nuova classe dirigente possa provenire dai giornalisti, nonostante le posizioni di rilievo acquisite in politica da Toti, Mulé, Cangini e nel passato, fra gli altri, da Antonio Polito, Minzolini, Lilli Gruber, dovremmo guardare, esempio di comparazione intertemporale, all’Italia del 1945-48 e almeno alla Francia di quel periodo e successivamente. Le biografie professionali e le esperienze personali dei componenti delle classi dirigenti sono figlie dei tempi, ma anche dei modi. Lo furono per i Costituenti italiani e per i compagnons de la Résistance di de Gaulle. Si temprarono nella ricostruzione, anche per imprenditori e sindacalisti, e nella Guerra Fredda. Furono selezionate in una situazione fortemente conflittuale.

   Non basteranno, dunque, le esortazioni che, spesso, sembrano venire da chi è convinto di essere già classe dirigente. Sarà necessario guardare ai luoghi e ai nuovi tempi. Luogo principe di formazione di una relativamente piccola parte della classe dirigente è certamente la Banca d’Italia. Trasmissione di conoscenze, selezione in base al merito, senso civico, patriottismo e visione europea. Naturalmente, tutto questo serve, ma non basta e non è imitabile. Il resto dobbiamo cercarlo guardando a quello che non è, a cominciare dai partiti. Da tempo, la classe dirigente non viene più dalle organizzazioni partitiche, non a causa di un destino cinico e baro, ma perché nessuno ha ricostruito le culture politiche inabissatesi intorno al 1989, e perché le scuole di partito non hanno la minima idea di quello che dovrebbero insegnare diventando meste passerelle di dirigenti esibizionisti. Inoltre, nelle elezioni prevale la pratica della cooptazione, notoriamente mai orientata alla selezione dei migliori che, quando tali effettivamente sono, fanno ombra e vogliono esercitare autonomia. L’assenza di competizione è dominante all’interno dei sindacati, ma più in generale riguarda l’intero sistema sociale e culturale. Respingere qualsiasi modalità di valutazione dell’operato, a cominciare dalla scuola, università compresa, deprime i migliori e non fa affatto crescere gli ultimi. Non basta non “lasciare indietro nessuno”. Bisogna premiare chi sa andare avanti ispirando e trainando, anche con la forza dell’esempio, molti altri.

   Oggi il luogo principe della competizione e dell’emulazione è l’Unione Europea. La nuova classe dirigente sarà quella preparatasi in scambi di vario titolo e durata con gli altri Stati-membri, in programmi come l’Erasmus, in tirocini internazionali, in gruppi di ricerca multinazionali. Conoscere la storia, anche della scienza, e le lingue è la premessa di qualsiasi attività a livello europeo, di qualsiasi crescita culturale, di qualsiasi spirito di corpo. Non saranno i 200 miliardi e più di Euro che vengono da Bruxelles a fare uscire in Italia una nuova classe dirigente come Minerva dalla testa di Giove, ma l’opportunità è grande nonché irripetibile. Su quel terreno di investimenti e di riforme si possono misurare le competenze, le si possono premiare e possono nascere comunità di intenti e di valori che fanno una classe dirigente. Hic Bruxelles hic salta.

Pubblicato il 29 luglio 2021 si PARADOXAforum

C’è un tempo per la manipolazione, ma c’è anche un tempo per l’informazione?

Ė arrivata l’ora dell’ombudsman. Ripresento la mia candidatura at large, vale a dire per qualsiasi, no, non proprio tutti, quotidiano che mi desideri. Certo, leggerli dalla prima all’ultima pagina è un lavoraccio. Mi attendo, dunque, una proposta adeguata di compenso. Lasciamo che continui il dibattitto sulle fake news e sulle manipolazioni, anche sul ruolo degli influencer. Ma diamo ai quotidiani italiani un sano difensore civico dei lettori. Sono almeno più di vent’anni che tutti i lunedì, la seconda pagina del “New York Times” riporta in bella evidenza, scusandosi, gli errori commessi nel corso della settimana, segnalati loro dai lettori, ma anche scoperti attraverso altre modalità. Qui mi limiterò ad alcuni pochi esempi tratti dal “Corriere della Sera” dell’ultima settimana. Non direi niente su Shönberg senza “c” in bella evidenza nel titolo di un articolo sulla sua musica se non fosse che nel supplemento “7” del 14 maggio c’è un elogio a “Quei correttori umanisti e acuti che hanno salvato tanti di noi”. L’articolo pubblicato il 9 aprile 1990 lo si deve alla penna di Gaetano Afeltra indicato come vice direttore del Corriere fra il 1962 e il 1963, poi collaboratore dal 1983 alla sua morte nel 2005. Viene in questo modo passata sotto silenzio la sua lunga (1972-1980) direzione de “il Giorno” fase da ritenersi assolutamente importante anche perché su quelle pagine avvenne il mio esordio come opinionista da lui invitato nel 1977 (e subito criticato da Emanuele Macaluso, allora direttore de “l’Unità”).

   Il “Corriere” ha intrapreso una vasta attività di pubblicazioni in molti settori. Fra le sue “firme di spicco” figurano collaboratori che scrivono molto spesso e di tutto, che amano fregiarsi del titolo di storici. Fra le iniziative recenti c’è una storia della Repubblica italiana a puntate pubblicata nel supplemento del sabato “Io, donna” che i solutori più che abili possono scovare una volta sfogliate le tantissime pagine di pubblicità (sento irrefrenabile il bisogno di aggiungere l’aggettivo “patinata”). Le fotografie dominano sulle parole per raccontare la Repubblica italiana. Nella quarta puntata (8 maggio 2021), dedicata agli anni ’80, a p. 82, sotto il titolo, già discutibile, LA PRIMA REPUBBLICA viene annunciata la foto: Bettino Craxi in Piazza del Duomo, prima del terremoto di Mani Pulite, Milano, 1980

   Non ho ancora visto la Seconda Repubblica, e non è solo un problema mio. Un noto giornalista si è da tempo messo avanti con il lavoro e pubblica regolarmente i suoi interventi con il titolo Terza Repubblica. Chi mi conosce sa che da tempo ho espresso e motivato la mia preferenza per la Quinta Repubblica, ma il problema è un altro, duplice. La Repubbliche cambiano quando si danno istituzioni diverse e una nuova Costituzione. Nulla di tutto questo è avvenuto in Italia, nonostante tentativi deplorevoli bocciati due volte dall’elettorato, 2006 e 2016. Quindi, in assenza di una Seconda, Terza, Quinta Repubblica, l’Italia ha una sola Repubblica che non è necessario definire Prima. Anzi, è sbagliato farlo. Ma il distico che accompagna la foto di Craxi è sostanzialmente tremendamente manipolatorio, non so se debbo dire anche sottilmente, perché mi pare invece grossolanamente tale. Mani Pulite arrivò dodici anni dopo quella foto. A quei tempi non era prevedibile, ma, soprattutto, non è accettabile suggerire una stretta, tout court, identificazione di Craxi con Mani Pulite.

   Poi, certo, lamentiamo pure l’ignoranza degli elettori italiani, non escludendo in nessuno modo i lettori del Corriere ai quali il loro giornalone offre splendidi esempi di refusi, di cancellazioni, di manipolazioni. Faccio persino fatica a dire che ciascun paese ha la stampa che si merita. Ma, forse, il Corriere conferma che “così è, se vi pare”.  

Pubblicato il 20 maggio 2021 su PARADOXAforum

La flessibilità delle democrazie parlamentari

La formazione del governo Draghi ha, chi sa perché, tacitato gli affannatissimi sostenitori dei ‘governi eletti dal popolo’ e ‘usciti dalle urne’, governi che, semplicemente, non esistono nelle democrazie parlamentari.  Nel testo qui riprodotto* tiro le somme di un importantissimo tentativo di inusitata coalizione effettuato nel corso della prima fase dell’Italia repubblicana, quando il centro impediva l’alternanza e faceva le coalizioni di governo. Ho inteso mostrare che la flessibilità è la vera dote delle democrazie parlamentari. Adesso, lo sa anche Mario Draghi. Buon per lui (e, speriamo, buon per tutti noi).

Dal cap. 4 “Compromesso storico, alternativa, alternanza” in Libertà inutile. Profilo ideologico dell’Italia repubblicana, Milano, UTET, 2021 (pp. 110-112)

La conclusione dell’avventura partitica, politica e ideologica di quella proposta di compromesso storico che, accuratamente maneggiata, poteva diventare una coalizione di governo dotata di potenzialità riformatrici/riformiste, fu una débâcle sotto tutti i punti di vista. Purtroppo, neppure coloro che volevano trasformare per tempo il PCI (lo spettro dei loro suggerimenti si trova nei contributi raccolti da Laura Balbo e Vittorio Foa, Lettere al PCI, Einaudi 1986) capirono che prima di tutto era necessario un confronto aspro e decisivo con la mentalità che aveva prodotto il compromesso storico.

L’incapacità di scegliere un’opzione chiaramente delineata (le incertezze nella Commissione Bozzi 1983-85 furono sconsolanti), da un lato, e il timore della discontinuità nel gruppo dirigente comunista, dall’altro, giocarono sostanzialmente a favore della coalizione, il pentapartito, che si era opportunisticamente formata all’inizio degli anni Ottanta proprio contro il PCI e che era interessata soprattutto alla sua durata e alla sua riproduzione.

Sarebbe persino sbagliato affermare che il pentapartito non seppe fare i conti con la storia poiché, tranne Craxi, tutti i politici del pentapartito vivevano alla giornata. Nessuno di loro si rese conto dell’importanza dello smantellamento del Muro di Berlino quell’entusiasmante giornata del 9 novembre 1989. In maniera preveggente, soltanto Norberto Bobbio aveva segnalato la necessità di una riflessione profonda: L’utopia capovolta («La Stampa», 9 giugno 1989): «con quali mezzi e con quali ideali [la democrazia] si dispone ad affrontare gli stessi problemi da cui era nata la sfida comunista?». Quel muro travolse qualsiasi riflessione tradizionale concernente le modalità di governo della democrazia italiana. Costituì la cartina al tornasole della scomparsa delle culture politiche dell’Italia repubblicana.

Esauritasi la fase del ‘governo di partito’, la formazione dei governi italiani ha seguito diverse, peraltro tutte comprensibili e spiegabili, modalità, nessuna delle quali, però, era fondata su un retroterra culturale adeguato che, oltre agli indispensabili numeri, offrisse una qualche prospettiva in termini di idee, ideali, ideologie (per l’Ulivo rimando a quanto ho scritto nel capitolo sulle culture politiche).

Le definizioni, spesso superficiali, per lo più mal congegnate, raramente attente alla comparazione (non «capaci di viaggiare», notò con disappunto fortemente critico Giovanni Sartori) si sono sprecate: Grande Coalizione, bipolarismo, alternanza [però, ‘alternativa’ è fondamentalmente scomparsa e di ‘vocazione maggioritaria’ non è rimasta nessuna traccia], sono tutte formule raramente sottoposte a valutazioni da esprimersi con riferimento ai contenuti e agli obiettivi. Tutti i vecchi protagonisti partitici sono da tempo morti e sepolti e i nuovi non sembrano in buona salute culturale e intellettuale. Accertatamente si sono finora dimostrati incapaci di elaborare visioni di società e di sistema politico, tranne gli spezzoni di un discorso non-partitico, non-parlamentare, talvolta non-democratico espresso dal Movimento 5 Stelle.

Non può stupire, ma neppure può rallegrare, che dopo quasi trent’anni di dibattiti sul bipolarismo e sulla sua qualità, senza adeguata prospettiva comparata, sia tornato alla ribalta, oserei dire tanto inconsistentemente quanto nostalgicamente, il ‘centro’, un presunto bisogno di centro. Di tanto in tanto, in mancanza di meglio, lo argomentano Angelo Panebianco e alcuni commentatori politici nessuno dei quali va alla ricerca di riscontri comparati (sostanzialmente inesistenti).

Molto schematicamente, soprattutto nella politica italiana post-1994, il centro è stato poco più di un piuttosto ristretto assembramento di elettori moderati per lo più non interessati a qualsivoglia elaborazione politico-ideologica, le cui oscillazioni numeriche e comportamentali non hanno migliorato la politica, ma soprattutto non hanno spinto né la destra né la sinistra a affinare i contenuti delle loro idee e proposte, la loro presentazione, il confronto con la realtà ‘effettuale’. La strategia del compromesso storico non lasciò nessuna eredità politica; di alternativa non si parlò più. Dopo il 1994, l’alternanza ha fatto alcune sue casuali comparse senza incoraggiare e accompagnarsi a nessuna elaborazione politica e istituzionale.

Sic transit

Pubblicato il 19 marzo 2021 in PARADOXAforum

Fatto il governo italiano bisogna fare gli europei

L’Europa si avvia alla Conferenza sul suo futuro, fissata per il 9 maggio 2021, settantunesimo anniversario della dichiarazione di Robert Schuman, ministro degli Esteri francese, che è considerata la data d’inizio del lungo percorso effettuato. In maniera sicuramente del tutto fortuita si è insediato in questi giorni il governo guidato dall’italiano che, quando era Presidente della Banca Centrale Europea, ha salvato l’Euro e, in sostanza, l’Unione stessa in uno dei momenti più drammatici di una storia complessa, ma sostanzialmente di successo.

   Festeggio il governo Draghi, che, peraltro, deve essere visto all’opera senza fare schizzare le aspettative (come troppi commentatori di giornaloni e giornalini hanno già fatto), suggerendo al Presidente del Consiglio di pensare e poi magari anche dire “fatto il governo in Italia è ora di fare gli europei”. Con le parole di un europeo, non proprio europeista, ma con grande, forse fin troppo, senso dello stato (e dello humour), vale a dire il Gen. de Gaulle, non ho difficoltà a sostenere che sarebbe un davvero vaste programme. Per quanto l’obiettivo sia effettivamente molto ambizioso, il governo Draghi ha a sua disposizione una quantità molto ingente di risorse: 209 miliardi di Euro.

   Sono certo che Draghi e i suoi più stretti collaboratori hanno le idee chiare su come assegnarli lungo le direttive e gli ambiti già indicati dalla Commissione Europea. Non è, naturalmente, soltanto un problema tecnico poiché lungo quelle direttive e all’interno di quegli ambiti molte scelte saranno necessariamente politiche. Non sono altrettanto sicuro che il governo e lo stesso Draghi abbiano fin dall’inizio le competenze politiche per rendere i progetti non soltanto fattibili, finanziabili, attuabili in tempi relativamente brevi e soprattutto in grado di fare diventare gli italiani effettivamente cittadini europei. Non si tratta di discutere se l’inconveniente sia quello costituito dal diminuito e oggi scarso numero di ministri provenienti dal Sud. Se i ministri non sanno acquisire/avere una visione nazionale, allora, semplicemente, sono stati scelti male e dovranno essere orientati dal Consiglio dei Ministri a fare proposte e compiere azioni che giovino a tutto il paese e non alle loro aree di provenienza. Il punto, però, è un altro, molto più importante.

   L’ex-Presidente della Banca Centrale Europea deve intraprendere da subito un compito imprevisto, ma cruciale. Deve diventare il predicatore che combina le esigenze italiane con le richieste europee e che, ogniqualvolta possibile, riesce a mettere in grande evidenza tutto quello che l’Italia si trova in condizione di fare grazie al sostegno dell’Unione Europea, osservandone le regole e praticando i comportamenti che da quelle regole discendono. Diventare “europei” significa, per l’appunto, abbandonare i localismi sotto qualsiasi forma si presentino, anche di rappresentanza politica asfittica. Significa ricorrere alle best practices europee, per esempio, nel ristrutturare insegnamenti e percorsi nella scuola a tutti i livelli. Implica due riforme cruciali: quella della tassazione (lo so che lo diciamo da decenni e, per l’appunto, il vizio/reato dell’evasione fiscale diventa sempre più intollerabile) e dell’amministrazione della giustizia.

   Da Draghi e dai suoi ministri, non soltanto “tecnici”, spesso professionisti di alto livello, ma anche quelli di provenienza partitica, vorrei che le riforme fossero presentate, spiegate e argomentate non con la pudica giustificazione “ce le chiede l’Europa” quanto con la semplicissima, decisiva motivazione “vogliamo conseguire i più elevati standard europei”. NextGenerationEU, europei della generazione che viene.

Pubblicato il 15 febbraio 2021 su PARADOXAforum

Cose che so sugli USA e la loro democrazia

La prima cosa che so è che, da tempo, prima di Trump, con frequenza e costanza, non pochi studiosi americani, storici, sociologi, politologi hanno criticato, anche severamente, lo stato della democrazia negli USA. So anche, però, che la critica al razzismo non è mai stata centrale ovvero tanto centrale quanto avrebbe dovuto e dovrebbe ancor di più essere in questi anni. Non voglio fare graduatorie, ma trovo assolutamente meritorio il lavoro fatto nell’ultimo decennio da Jill Lepore (These Truths. A History of the United States, 2018). Suggerirei anche di tornare alla ricerca coordinata e curata dall’economista svedese Premio Nobel Gunnar Myrdal, An American Dilemma. The Negro Problem and Modern Democracy (1944). Però, il problema non è “il negro”, ma sono i suprematisti bianchi. Nella folla degli assaltatori al Congresso, sovraeccitati da un uomo bianco supersuprematista alla Casa Bianca, non ho visto neppure una persona di colore. Nelle carceri USA i detenuti di colore sono il 60 per cento del totale. I neri rappresentano poco meno del 13 per cento della popolazione.

La seconda cosa che so è che non è vero, come molti hanno scritto, che la democrazia USA è la più grande, la più importante, implicitamente la migliore democrazia al mondo. Non lo è probabilmente mai stata. Quasi sicuramente, ma qualche inglese obietterebbe, è stata la prima democrazia, ma da tempo non è la più grande (con riferimento ai numeri ben più grande è l’India) e, se importante, vuol dire migliore, i dati di Freedom House e quelli della Intelligence Unit dell’Economist dicono che nelle rispettive graduatorie, gli USA si collocano rispettivamente al 30esimo e al 25 posto. Nella classifica dell’Economist l’Italia è 35esima.

La terza cosa che so è che proprio nell’ambito dei diritti la democrazia USA è sempre stata piuttosto carente, a partire, come ho già detto, dalla condizione dei neri. Mi limito a segnalare che l’uscita formale dalla segregazione è del 1954. Il Civil Rights Act è del 1964 e il Voting Rights Act è del 1965, ma quantomeno da una ventina d’anni un po’ dappertutto a partire dagli stati del Sud e, più in generale, dove governano i Repubblicani intensa e incessante è la pratica nota come voter suppression che ha sostanzialmente di mira i non-bianchi, ma soprattutto i neri e, in parte, i latinos, per impedirne l’esercizio del diritto di voto.

La quarta cosa che so è che il diritto di voto è il più importante diritto politico, un vero spartiacque. Quindi, coloro che non riescono a votare perdono la opportunità/capacità di scegliere chi viene eletto e di influenzare le sue politiche. Mentre dappertutto nell’Unione Europea e in altri stati democratici del Vecchio Continente sono riconosciuti, rispettati e messi all’opera i diritti sociali, negli USA persino una riforma importante, ma non “universale”, come l’ObamaCare, continua ad essere oggetto di scontri durissimi con i Repubblicani che hanno tentato pervicacemente di sabotarla e persino di abolirla. Qui si innesta la quinta cosa che so.

   Gli USA sono gradualmente diventati la democrazia che ha (e che tollera) le più grandi diseguaglianze economiche e sociali al mondo. Sono diseguaglianze cresciute in maniera clamorosa negli ultimi trent’anni. Sono diseguaglianze che molti americani ritengono non soltanto inevitabili, ma collegate in qualche modo al merito, al duro lavoro, all’impegno personale e, di converso, attribuite all’indolenza e carenza di capacità per chi sta in fondo alla scala sociale. Troppo spesso gli osservatori non colgono il nesso fra ricchezza personale e influenza politica e fra povertà e non-partecipazione, nesso che, naturalmente, perpetua e addirittura accresce le diseguaglianze. Tutte le cose che so convergono su una considerazione importante. L’assalto del 6 gennaio 2021 a Capitol Hill è stato sconfitto. Seppure a fatica, le istituzioni USA hanno retto (e, prima, i procedimenti elettorali si sono rivelati free and fair). La Corte Suprema, pure imbottita di giudici nominati da Trump, non ha dato nessun ascolto agli eversori. Il Congresso ha ratificato l’esito del voto dopo un dibattito svoltosi secondo le regole. Insomma, la democrazia non si è piegata, non è affatto scivolata all’indietro. Ritengo che sia profondamente sbagliato affermare che la democrazia USA è in crisi. C’è stata una sfida gravissima proveniente dall’interno della democrazia. È stata respinta e sconfitta. Certo, però, la società e la politica USA hanno molto da lavorare per migliorare l’attualmente non buona qualità della democrazia. Da tempo, la democrazia americana non abita più in “una città scintillante sulla collina”, ma democrazia rimane, in grado di apprendere, resistere, cambiare.

Pubblicato il 11 gennaio 2021 su PARADOXAforum.com

De America fabula narratur #Presidential2020

Nella più recente classifica dei Presidenti USA (Rottinghaus, Eady, and Vaughn, Presidential Greatness in a Polarized Era: Results from the Latest Presidential Greatness Survey, in “PS. Political Science & Politics”, vol. 53, July 2020, pp. 413-420) Donald Trump occupa l’ultima posizione con grande distacco dal penultimo. Eppure, nonostante il consistente vantaggio del candidato democratico Joe Biden registrato in tutti i sondaggi, anche negli Stati chiave, non è affatto sicuro che Trump sarà sconfitto il 3 novembre. Non è neppure sicuro che il 3 novembre conosceremo il nome del vincitore.

Nel frattempo a Trump si è presentata la grande occasione, per quel che so più unica che rara, di nominare un altro giudice alla Corte Suprema. Sarebbe il terzo che gli consentirebbe di lasciare un’eredità duratura. Ne ha subito approfittato scegliendo una donna relativamente giovane (48 anni), apertamente antiabortista, ruvidamente conservatrice. Poiché i giudici mantengono la carica a vita, per almeno trent’anni e più, la Corte Suprema avrà una solida maggioranza di giudici molto conservatori, alcuni reazionari, che, con le loro sentenze, incideranno non soltanto sulla società, per esempio, consentendo l’abolizione dell’Obamacare e rendendo quasi impossibili le interruzioni di gravidanza, ma anche sulla politica, per esempio, non intervenendo sui vari sotterfugi usati per “sopprimere il voto” (voter suppression). Non mi riferisco esclusivamente alla pratica, troppo spesso condonata, del gerrymandering (tracciare/disegnare i collegi elettorale per favorire/sfavorire determinati candidati), ma alle numerose modalità che riescono a rendere difficilissimo al limite dell’impossibile lo stesso esercizio del diritto di voto a cominciare dalla indispensabile registrazione nelle liste elettorali.

Nel frattempo, in almeno quattro stati USA gli elettori hanno già la possibilità di votare e lo stanno facendo per una pluralità di ragioni, compresa ovviamente quella di evitare eventuali assembramenti ai seggi ai tempi del Covid (che ha colpito duramente gli Stati Uniti). In altri stati si annuncia un massiccio ricorso al voto postale che Trump ha deciso di contrastare in tre modi: 1. dichiarando che si presta a frodi ordite dai democratici; 2. chiedendo che venga concesso soltanto a chi dimostra di non essere in condizioni fisiche che gli/le consentano di andare al seggio (negli Stati governati dai repubblicani il numero di seggi è stato considerevolmente ridotto: taglio non proprio “lineare”); 3. negando i fondi allo US Postal Service al cui vertice qualche tempo fa nominò un suo ricco finanziatore. Naturalmente, va subito sottolineato che, da un lato, in caso di ricorsi le eventuali frodi potrebbero giungere alla Corte Suprema, dall’altro, che addirittura l’esito complessivo del voto e quindi l’elezione del Presidente finirebbero proprio nelle mani della Corte come avvenne nel 2000 quando i cinque giudici nominati dai Repubblicani decisero che il repubblicano George W. Bush aveva sconfitto il democratico Al Gore a favore del quale si erano schierati i quattro giudici nominati dai democratici.

Tutti i mass media USA riportano quotidianamente non soltanto i dati dei sondaggi, ma i molti episodi che riguardano ostacoli frapposti agli elettori. Non mi spingo fino a dire che negli USA è in corso una crisi costituzionale e istituzionale senza precedenti. Prendo atto della acuta preoccupazione di molti commentatori, la maggioranza dei quali sono, comprensibilmente, democratici. Segnalo, però, che, da un lato la separazione dei poteri scricchiola e vacilla. Il Presidente repubblicano può imporre alla sua maggioranza di senatori repubblicani di confermare la donna giudice da lui prescelta portando ad una granitica maggioranza nelle sede più alta e decisiva del potere giudiziario. Dall’altro, prendo atto che persino il fondamento della democrazia, le elezioni, rischiano di non essere free and fair, ma di venire manipolate, sovvertite. Sullo sfondo stanno le proteste dei partecipanti al movimento “Black Lives Matter” contro il razzismo strisciante e il suprematismo bianco. Nessuno stupore che gli USA occupino il 23esimo posto nella classifica di Freedom House.

Pubblicato il 28 settembre 2020 su PARADOXAforum

L’Unione Europea c’è e funziona

Ho sempre sostenuto e, per fortuna, anche scritto (quindi, è possibile controllare la veridicità delle mie affermazioni) che l’Unione Europea, persino nei momenti di maggiore difficoltà, non rimaneva mai bloccata. Faceva regolarmente dei passi avanti, piccoli, lenti, zoppicanti, ma avanti. Non si trovava mai a scegliere fra la disastrosa disgregazione e riforme epocali, le sole che la salvassero. Ho sempre sostenuto anche che l’Unione Europea e le sue istituzioni non soffrivano/soffrono affatto di insuperabili deficit democratici, ma hanno alcuni problemi di funzionalità. Il Consiglio Europeo* 17-20 luglio ha detto molte cose importanti (per quel che riguarda importanza e entità delle risorse economiche esauriente è l’intervento di Paolo Onofri che condivido in toto), ma soprattutto ha segnalato che le istituzioni dell’Unione funzionano. La Commissione Europea, fatta da uomini e donne con precedenti esperienze di governo anche ai massimi livelli nei loro paesi, quindi non “burocrati” né, in larga misura, tecnocrati, ha formulato, suo compito politico fondamentale, una proposta. Dopo un necessariamente lungo negoziato, quella proposta è stata quasi totalmente accettata, con variazioni minime sulla distribuzione dei fondi. Il Consiglio Europeo, sicuramente un organismo democratico poiché composto dai capi di governo degli Stati-membri, i quali, dunque, hanno una maggioranza politica che li sostiene nei loro paesi, ha lungamente discusso, alla fine approvando senza nessun dissenso. Inoltre, è stata respinta la richiesta del Premier olandese Mark Rutte che voleva che i prossimi piani di ripresa dei singoli Stati fossero approvati dal Consiglio all’unanimità.

Come procedura decisionale l’unanimità non è assolutamente democratica. Da un lato, consente ad uno stato di esercitare enorme potere di ricatto nei confronti di tutti gli altri; dall’altro, implica che gli altri Stati sarebbero talvolta costretti a “comprare” quel voto con concessioni costose, privilegi, favoritismi sostanzialmente diseducativi. Si è, però, concesso ad uno Stato il potere di bloccare il programma di un altro Stato, freno di emergenza, ma l’ultima parola in materia di utilizzo dei fondi spetterà alla Commissione che ha la facoltà di decidere a maggioranza. Incidentalmente, in tutta la sua storia la Commissione e i Commissari si sono dimostrati i protagonisti più europeisti, tutti disposti a lavorare per fare avanzare il processo di unificazione politica dell’Europa. Fondi assegnati, programmi di utilizzo, valutazione complessiva del grado di successo conseguito nel tentativo di porre rimedio alle gravissime ferite economiche e sociali inferte dalla pandemia agli Stati e alla società europea saranno oggetto di discussione e di monitoraggio anche ad opera del Parlamento europeo. È giusto così poiché, anche se ci rammarichiamo di una partecipazione elettorale inadeguata, il Parlamento è il luogo della rappresentanza politica degli europei che produce informazioni, coadiuva l’attività della Commissione, approva il bilancio dell’Unione.

Il quadro complessivo è quello di istituzioni che sanno adempiere ai loro impegni, che riescono spesso ad andare oltre l’intergovernativismo, che hanno dimostrato di saper praticare la solidarietà e la cooperazione. Il sovranismo, ovvero la strategia per la quale ciascun Stato-membro cerca di strappare il massimo senza concedere nulla, ne esce sonoramente sconfitto. I sovranisti alzano la voce perché sono costretti ad abbassare la cresta. Gli europeisti sanno che l’opera è lunga, ma che è giusto godere il successo attuale che non sarà quello di una sola estate. Riguardatevi: l’Unione Europea è al vostro fianco.

Pubblicato il 20 luglio 2020 su paradoxaforum.com

* Consiglio europeo straordinario, 17-21 luglio 2020