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Da Borgo Panigale a Stoccolma (e ritorno) #biografia #Adriana Lodi
Introduzione a:
Adriana Lodi, Laura Branca, Raccontami una favola vera. Adriana Lodi: biografia di una politica, Imola, Bacchilega Editore, 2021, pp. 11-15
Il riformismo viaggia nel tempo e nello spazio sulle gambe degli uomini e delle donne. Il riformismo può essere l’impegno di una vita. Certamente cambia la vita degli uomini e delle donne, in meglio. Adriana Lodi racconta molto sobriamente (ma con qualche reticenza) la sua vita in questa autobiografia, scritta con la preziosa collaborazione di Laura Branca, dando non solo la precedenza, ma la supremazia a quanto ha fatto e a come lo ha fatto cercando per l’appunto di introdurre cambiamenti in un ampio arco di politiche sociali in Italia. Non è una favola, nel senso di avvenimenti immaginari e fantastici, ma sono corposi tasselli di fenomeni reali. Di volta in volta il racconto riguarda e si sofferma su innovazioni importanti che molti pensavano irrealistiche e molti ostacolavano, ma che Adriana perseguiva con ostinazione e convinzione fine a conquistare il sostegno necessario. Temprata nelle circostanze difficili del fascismo e di un contesto caratterizzato da poca disponibilità di mezzi, ma grazie ad un famiglia che la appoggia dalla quale trae affetto e approvazione, l’adolescente Adriana sentì quasi da subito la necessità dell’impegno a migliorare le sue condizioni di vita insieme a coloro che le condividevano. Lo fa perché animata, senza rancori e invidie, senza motivazioni di rivalsa, dal desiderio di trovare rimedi a situazioni di ingiustizia sociale. È un’ingiustizia che colpisce i lavoratori subalterni, i bambini, le donne (ma Adriana non è sicuramente una protofemminista e l’idea della separatezza fra uomini e donne le è del tutto estranea), gli anziani. Lo ha fatto perseguendo, uso un termine appropriato, ma che so essere anacronistico, la pratica dell’obiettivo.
Di volta in volta l’obiettivo da perseguire e, quel che più conta, conseguire scaturiva dalle condizioni reali di lavoro e di vita sperimentate da Adriana e dalle molte altre persone con cui si rapportava, lei era una di loro, nelle varie attività. Lì sentiva, imparava, tentava di trovare le soluzione. Da operaia consapevole a sindacalista “di base” il passo fu relativamente facile. Con il sindacato, grazie alla sua capacità di lavoro, al suo impegno, alle sue doti personali quasi naturalmente iniziò il suo cursus honorum. Immagino che leggendo questa espressione Adriana abbia un moto di leggera insofferenza e allora aggiungo subito convintamente che non v’è traccia nelle sue memorie e in quello che qui rivela di nessuna ambizione personale di puntare ad una carriera di qualsiasi tipo. In effetti, successe ad Adriana e probabilmente a molti altri, uomini più che donne, che, grazie allo stretto legame (forse “cinghia di trasmissione”, ma spesso la “trasmissione” funzionava da entrambi i lati) fra sindacato e partito, i sindacalisti considerati più bravi venissero reclutati dal partito, in cariche interne, ma anche facendoli eleggere nelle amministrazioni comunali e provinciali. In quei luoghi portavano la loro competenza acquisita, le loro esperienze, la loro voglia di fare. Conosciamo i casi di successo, Adriana è uno dei migliori, ma sappiamo poco di quelli/e che mostrarono i loro limiti e che si persero per strada. Infatti, il partito, molto più che il sindacato, sapeva svolgere un’opera di reclutamento e di selezione, consapevole di quanto fosse in gioco che dipendeva proprio dagli uomini e dalle donne alle quali offriva opportunità che dovevano costantemente dimostrare di sapersi meritare.
Il partito era il Partito Comunista Italiano. Adriana vi si iscrisse giovanissima neanche quindicenne: “nel cortile in cui abitavo tutte le famiglie erano iscritte al PCI”. Peraltro, in quegli anni i confini fra il sindacato, la CGIL e il Partito comunista erano, soprattutto, in alcune regioni e città italiane, molto permeabili. L’Emilia-Romagna, ma ancor più Bologna, che stava diventando la vetrina del comunismo italiano, erano i luoghi dove i rapporti sindacato/partito risultavano più stretti e benefici. Da allora, i cambiamenti sono stati tali che Adriana si limita a farci sapere che nel 2013 non ha rinnovato la tessera del partito successore perché non si è più “sentita riconosciuta nel partito”. Non posso trattenermi dall’affermare che nel non troppo degno successore del PCI di persone come Adriana non se ne trovano molte e che il cursus honorum dei dirigenti democratici non è neppure minimamente comparabile con quello dei dirigenti e dei parlamentari del PCI.
Nel 1960 l’esperienza maturata e le attività svolte da Adriana la resero visibile e molto apprezzata tanto che fu candidata al Consiglio comunale e le fu affidato l’assessorato all’Anagrafe nella giunta del popolarissimo sindaco Dozza e, in seguito, ai servizi sociali. Per approfondire queste tematiche Lavorando alla fondazione degli asili nido Adriana fu inviata ad una Conferenza internazionale a Copenaghen. Ne approfittò, grazie ad un cugino per andare a Stoccolma (di qui il titolo, non del tutto scherzoso, della mia prefazione) a vedere come funzionavano gli asili nido. In verità, i comunisti italiani avevano sempre snobbato le esperienze socialdemocratiche del Nord. Non potevano ovviamente negare che in quei paesi ci fossero molte cose che funzionavano benissimo, che consentivano a uomini e donne di avere ottime condizioni di lavoro e un vita resa più facile da un’efficiente e ampia offerta di servizi: dalla culla alla tomba. Ma, insomma, sostenevano i comunisti italiani, quelle politiche socialdemocratiche non miravano a cambiare il capitalismo, a fuoruscirne. Al contrario, lo rafforzavano, lo rendevano più solido e efficace. Era, dunque, giusto che il PCI cercasse in autonomia una terza via, fra la socialdemocrazia e il comunismo sovietico, del quale si parlava il meno possibile e rispetto alla cui natura e struttura in privato i dirigenti del PCI manifestavano non poche preoccupazioni. Quella terza via, se c’era, non condusse da nessuna parte.
Ad Adriana le non proprio sottili, spesso pesanti dispute paraideologiche non interessavano affatto. Il suo forte era un altro, schiettamente e serenamente riformista: individuato un problema che complicava la vita delle donne, dei bambini, delle famiglie, degli anziani, di coloro che avendo lavorato a lungo in condizioni difficili si meritavano di vivere gli ultimi anni con una pensione dignitosa, era (continua a essere) imperativo trovare, non una qualsiasi soluzione, ma quella più adeguata. Parafrasando Che Guevara (nel testo è riportato uno scambio di lettere fra Adriana, nominata fra i rappresentanti italiani che tenevano i rapporti fra Italia-Cuba, e Fidel Castro): “il dovere di qualsiasi riformista [rivoluzionario] è fare le riforme [fare la rivoluzione]”. Come assessore e come parlamentare Adriana ha adempiuto pienamente al suo dovere.
Giunta per la prima volta alla Camera dei deputati nel 1969 subentrando a Luciano Lama che aveva dovuto lasciare il seggio per l’incompatibilità stabilita dai sindacati con le cariche nelle loro organizzazioni, l’on. Lodi è stata rieletta cinque volte terminando la sua esperienza nel 1992. Probabilmente, non si accorse mai di essere entrata a far parte di quella che è oggi impropriamente e inopportunamente definita Casta! In verità, il PCI aveva la sua regola dei due mandati. Farne solo uno significava che ci si era dimostrati inadeguati, ma farne tre significava che il giudizio dei dirigenti del gruppo parlamentare e, in ultima e decisiva istanza, quello decisivo degli organismi del Partito era più che positivo. Lascio ai lettori valutare che significato abbia essere eletti e ri-eletti per cinque volte! Forse, ma Adriana non lo scrive e non lo direbbe mai, è il riconoscimento che le proprie competenze sono ritenute non surrogabili, ovvero che non ci sono altre plausibili candidature in grado di svolgere in maniera altrettanto efficace il compito di elaborare le politiche sociali e di contrastare, emendare, migliorare le politiche del governo. Con la mannaia burocratica dei due mandati e quindi la sua esclusione dal Parlamento già alla fine degli anni Settanta del secolo scorso, non sarebbe stato soltanto il PCI a rimetterci, ma anche il Parlamento italiano, privato di una deputata con molte più conoscenze specifiche e specialistiche e, naturalmente, ancor più, gli elettori, con i quali Adriana manteneva rapporti intensi e frequenti. Avrebbero perso una rappresentante brava, esperta, disponibile che davvero si curava di loro, delle loro aspettative, dei loro problemi.
In più di un passaggio questo libro di memorie suscita una legittima e nient’affatto deplorevole nostalgia di molte cose dei tempi passati, di quella che impropriamente viene definita Prima Repubblica. Non di tutte, e molte le abbiamo già variamente criticate. Giustificata è in special modo la nostalgia non dei tempi passati che non torneranno, ma dei tempi che verranno, soltanto se li sapremo costruire. L’autobiografia di Adriana Lodi non pretende affatto di insegnarci che cosa fare e come, quali comportamenti tenere e in che modo tradurli in pratica. Ma, seppur in tono dimesso, gli insegnamenti sono molti. La politica si impara facendola. L’impegno politico serve a migliorare la vita degli altri/e, ma offre anche a ciascuno di noi molte opportunità e molte gratificazioni. Alcune attività, scelte, compiti sono inevitabilmente individuali e personali, ma, oggi forse più che ieri, sentiamo che è con la condivisione dei compiti e dei rischi che è possibile migliorare. Per concludere, vorrei, anche da parte di Adriana, mandare a dire due cose a John Donne (1572-1631), il grande poeta inglese in questi tempi duri per la sua frase “No man is an island”. Primo, “no woman is an island” e certamente Adriana, non femminista, ma sempre al lavoro per conseguire la parità donne-uomini, non ha mai pensato di essere isolata. Secondo, quello che conta è proprio sapere connettere quelle isole, quegli uomini e quelle donne in un’impresa condivisibile e condivisa. Alla quale vale la pena dedicare una vita.
Bologna, 4 ottobre 2020
Italia, Santiago
da il Mulino n. 501, pp. 156-163
Sono andato a vedere il docu-film di Nanni Moretti. Mi ha fatto riemergere una pluralità di ricordi che, probabilmente, non hanno interesse e valenza esclusivamente personali. Li metto qui in ordine cronologico con qualche riflessione che serve a puntualizzare e a rischiararli.
La prima volta che incontrai il Cile fu nel settembre 1970. Nella sua strategia di attivare nelle Facoltà di Scienze Politiche corsi che avessero riferimento con la Scienza politica come madre di tutte le discipline politologiche, Giovanni Sartori mi chiese (sic!) di andare a Firenze come professore incaricato di Storia e istituzioni dei paesi dell’America latina. Naturalmente, aggiunse, avrei potuto insegnare il corso nella versione Sviluppo politico che era il mio argomento di ricerca di quel periodo. Nel dicembre 1970 uscì il mio primo libro Modernizzazione e sviluppo politico (Il Mulino). Grazie alla presenza di un numero relativamente ridotto di studenti, una ventina circa, il corso si tenne in forma seminariale con gli studenti che leggevano di volta in volta alcuni brevi testi che assegnavo loro e che discutevamo ampiamente, approfonditamente e con grande soddisfazione in classe. In un certo senso, gli studenti si erano auto reclutati: un giovanissimo professore con credenziali di sinistra, un corso tutto meno che paludato dove, ricordo che siamo nel 1970, riusciva a fare la sua (ri)comparsa persino Che Guevara (e Cuba), la possibilità di scambiare idee senza peli sulla lingua. Studiando intensamente acquisii conoscenze sufficienti a comprendere e trasmettere l’evoluzione politica di quattro paesi latino-americani: Argentina, Brasile, Cile, Perù. Tre di quei quattro erano già caduti sotto governi militari, e bisognava spiegare perché, affrontando il tema dei militari in politica (uno degli aspetti indispensabili di qualsiasi analisi dello sviluppo politico e/o della decadenza politica nonché della formazione e del funzionamento dei regimi autoritari). Controtendenza, il socialista Salvador Allende era diventato Presidente del Cile in maniera pienamente costituzionale il 24 ottobre 1970, ma attraverso una procedura complessa che avrebbe potuto dare un esito molto diverso. Nelle elezioni presidenziali Allende aveva ottenuto di pochissimo la maggioranza relativa: 1.075.616 voti (36,63%) contro Jorge Alessandri , già Presidente del Cile dal 1958 al 196, il candidato della destra, 1.036.278 Voti (35,29%), terzo piazzato Radomiro Tomic, candidato del Partito Democratico Cristiano, 824.849 voti (28,08%).
Non avendo nessuno dei candidati ottenuto la maggioranza assoluta dei voti popolari, la decisione passò al Congresso. La Democrazia cristiana cilena, trovatasi ago della bilancia fra Allende e Alessandri, si spaccò con la maggioranza che, votando insieme ai parlamentari di una variegata sinistra consegnò la Presidenza ad Allende (che era candidato per la terza volta). Costituzionalmente corretta, la procedura che portò all’elezione di Allende non poteva cancellare il fatto politicamente rilevante che due terzi dei cileni non avevano votato per lui. Ne seguirono tre anni molto turbolenti nei quali Unidad Popular non riuscì ad ampliare il suo consenso, mentre, da un lato, la destra politica, sociale ed economica sostenuta dagli Stati Uniti, ostacolava in ogni modo l’attuazione del programma del Presidente Allende, dall’altro, sarò drastico, molti intellettuali di sinistra europei, fra i quali, in particolare, Régis Debray e Rossana Rossanda, lo incitavano irresponsabilmente ad avanzare verso il socialismo (attraverso le nazionalizzazioni, a cominciare dalle miniere di rame e di settori industriali). L’11 settembre 1973, com’era prevedibile (ed era stato previsto da uno studioso delle Forze Armate cilene), i comandanti dell’Esercito, dell’Aviazione, della Marina e dei Carabineros eseguirono un sanguinoso colpo di Stato chiedendo le dimissioni di Allende. Il Presidente si rifiutò e decise di morire togliendosi la vita nella Moneda, il Palazzo presidenziale. L’episodio è riferito anche nelle testimonianze raccolte nel film di Moretti (di più sotto).
In fretta e furia scrissi un articolo che sintetizzava quanto avevo fino ad allora imparato sul Cile e cercai una rivista che mi garantisse la pubblicazione più rapidamente possibile. Giorgio Galli mi mise in contatto con Giuseppe Faravelli , socialista turatiano, Direttore di “Critica Sociale” che molto gentilmente pubblicò il mio articolo: Militarismo e imperialismo contro “Unidad Popular”, 20 ottobre 1973, pp. 482-485 (con note a seguire).
Il mio corso dell’anno accademico 1973-74, ridenominato “Teoria e politica dello sviluppo” cominciò all’inizio di novembre. Naturalmente, la sconfitta politica di Unidad Popular e il golpe di Pinochet ebbero spazio notevole in chiave comparata, vale a dire collegandoli alle difficoltà dei partiti di sinistra negli altri paesi latino-americani e ai governi militari già esistenti, specialmente in Argentina, Brasile e Perù. Fin dalla elezione in Congresso di Allende, Sartori che aveva cominciato la sua collaborazione al “Corriere della Sera” allora diretto dal suo collega di Facoltà Giovanni Spadolini, guardò con preoccupazione all’esperimento di Unidad Popular e ne fu fortemente critico in alcuni durissimi editoriali. Tuttavia, non interferì in alcun modo, neppure chiedendomi il contenuto delle lezioni e i testi di riferimento, nel mio corso. Non ricordo più i particolari, ma, da un lato, alcuni studenti, dall’altro, alcuni esuli cileni mi avvicinarono per chiedermi se fosse possibile, alla luce dei drammatici avvenimenti cileni, organizzare qualcosa sul Cile. Ci accordammo per una Tavola Rotonda a conclusione del mio corso nel maggio 1974. In qualche modo ottenemmo la disponibilità di alcuni esuli cileni: da me coordinati e sotto la mia supervisione, un socialista, un comunista, un esponente del MAPU (Sinistra cristiana) avrebbero analizzato la situazione. Naturalmente, per quell’attività, definita extracurriculare (e assolutamente straordinaria non solo alla Facoltà di Scienze Politiche “Cesare Alfieri” di Firenze, ma in quasi tutte le Facoltà di Scienze politiche in quel periodo) dovetti chiedere l’autorizzazione al Preside, il Professore di Sociologia Luciano Cavalli che, comprensibilmente, era molto preoccupato. Mi fu concessa. Seppi poi che decisivo fu Sartori che, dagli USA dove era Visiting Professor, interpellato da Cavalli, rispose: “se la responsabilità se la prende Pasquino, lo si autorizzi”.
In un pomeriggio soleggiato e tiepido di fine maggio, in un’aula affollata da duecentoventi studenti circa (questa era la capienza), con la gradita presenza di Forze dell’ordine sia davanti all’aula sia all’ingresso della Facoltà, Via Laura 48, per tre ore e mezza si discusse pacatamente, ma con passione, della situazione in Cile. Ricordo che nessuno degli esuli s’immaginava che la Giunta militare sarebbe rimasta al potere per quindici lunghi anni. Nel mio libro Militari e potere in America latina (Bologna, Il Mulino, 1974) pubblicato proprio in maggio, avevo argomentato che un conto sono i governi militari che possono durare poco meno o poco più di un anno, un conto sono i colpi di Stato effettuati unitariamente dalle Forze Armate che intendono, come già stavano facendo da quasi dieci anni i militari brasiliani, ristrutturare il sistema politico dando vita a un vero e proprio regime militare.
Non posso seguire la complessità degli avvenimenti sulla scia del golpe dell’11 settembre 1973, ma, come dovrebbe essere notissimo, il segretario del Partito Comunista Italiano, Enrico Berlinguer, con tre lunghi e densi articoli su “Rinascita” lanciò la strategia del compromesso storico. Argomentandolo variamente, che vuole dire in più luoghi e in più modi, formulai il mio dissenso, più compiutamente in un testo pubblicato nella rivista “il Mulino”. Sartori, che aveva seguito con grande apprensione quanto era successo in Cile, criticò duramente la proposta di compromesso storico, un grande accordo fra le due maggiori forze politiche destinato a durare nel tempo, si configurava, naturalmente, come una violazione delle regole di una democrazia liberale, fondata sulla competizione fra partiti e/o fra coalizioni, con possibilità di alternanza al governo. Dunque, qualsiasi compromesso storico, che non si configurasse come alleanza straordinaria per un periodo di tempo predeterminato e breve, era, in via di principio, inaccettabile. Nella tragedia cilena, le cui responsabilità addebitava ampiamente alla sinistra stessa, Sartori vide anche, a ragione, una conferma della validità del modello di competizione partitica, “pluralismo polarizzato”, da lui formulato alcuni anni prima (la cui elaborazione finale si trova in Parties and party systems, Cambridge University Press, 1976). Laddove il centro viene svuotato da due opposizioni anti-sistema –tecnicamente che, se vincono, sovvertono il sistema- il crollo del sistema politico è probabilissimo. Nell’aprile del 1975, la “Rivista Italiana di Scienza Politica” da lui diretta (e della quale ero il Redattore capo, cioè colui che la “cucinava” fino a portarla all’editore, Il Mulino) pubblicò un denso solido documentato saggio di un giovane politologo cileno Arturo Valenzuela, Il crollo della democrazia in Cile, lettura tuttora essenziale.
Passarono non pochi anni prima del mio re-incontro con il Cile. Da tempo molti esuli cileni, stabilitisi in varie zone d’Italia, come documenta il film di Moretti, avevano preso atto che il rovesciamento del regime non era affatto dietro l’angolo. Tuttavia, meritoriamente, molti di loro cercavano in ogni modo di sostenere l’opposizione interna. Alcuni dei più attivi si trovavano a Roma. A loro, sulla base di progetti specifici, la Sinistra Indipendente del Senato offriva sostegno finanziario per le cose da fare. In quanto conoscitore dell’America latina, spesso fui personalmente coinvolto nei rapporti con gli attivisti cileni a partire dalla mia elezione nel 1983. La svolta vera e propria avvenne quando la Giunta Militare cilena, più di tutti lo stesso Pinochet, si sentì tanto sicura di godere del consenso dei cileni da indire un referendum, in realtà un plebiscito sulla persona, per sancire il prolungamento della durata in carica per altri otto anni del loro leader. Ricordo l’effervescenza (e qualche timore) degli esuli cileni a Roma incerti sul da fare, ma consapevoli che il loro ritorno in patria li avrebbe esposti a molti rischi. Passarono pochi mesi nei quali giungemmo alla decisione che sarebbe stata una buona idea, anche come segno di persistente solidarietà dell’Italia, inviare una delegazione di parlamentari come osservatori del corretto svolgimento della consultazione popolare. Andai personalmente a proporlo al Presidente del Senato, Giovanni Spadolini che accettò immediatamente congratulandosi per l’iniziativa. Una dozzina di senatori in rappresentanza dei rispettivi gruppi parlamentari approdarono a Santiago qualche giorno prima della domenica 5 ottobre 1988, data in cui si svolse il referendum. Molto gentilmente e efficientemente, l’Ambasciatore italiano aveva organizzato alcune escursioni e incontri il più importante dei quali alla sede del Parlamento cileno a Valparaiso, non distante dalla bella cittadina turistica Viña del Mar, dove era noto si trovasse la tomba di Salvador Allende. Quando, dopo un rapido consulto con gli altri senatori, chiesi che ci conducessero appunto al Cimitero di Viña del Mar, neppure troppo sorpresi, gli organizzatori-accompagnatori acconsentirono. Il custode del Cimitero disse di non sapere dove era sepolto Allende. Stava a noi cercarne la tomba. Fatti alcuni passi all’interno del Cimitero, fummo avvicinati da un ragazzino che ci fece intendere di saperci condurre a quella tomba (lieto, naturalmente, di ricevere opportune donazioni da parte di tutti noi, anche, ci feci caso, di Cristoforo Filetti, allora capo del gruppo dei senatori del MSI).Non c’era il nome di Allende sul piccolo monumento, ma quello della famiglia Gossens e di sua sorella. Di quei momenti, conservo alcune foto scattate da un collega senatore in una delle quali appaio, mi è stato fatto notare, inaspettatamente commosso.
Al nostro arrivo a Santiago eravamo stati accolti da alcuni rappresentanti dell’opposizione che si rapportarono a ciascuno di noi secondo le nostre appartenenze politiche, dandoci alcune informazioni essenziali e chiedendoci se volevamo effettivamente fare gli osservatori elettorali. La giovane donna di sinistra che si rivolse a me, di origine italiana, mi interrogò sulla mia disponibilità ad andare in una località a una sessantina di chilometri da Santiago. Avuta la mia accettazione, organizzò il viaggio in auto. Fui ricevuto da un uomo più o meno della mia età, rappresentante dell’opposizione. Appresi quasi subito che era un comunista e che possedeva della terra e un orto e con sua moglie e qualche contadino ne traeva il suo sostentamento. Mi chiese, con discrezione e trepidazione, se ero disposto a pranzare a casa sua o se preferivo una trattoria. Fui lieto di condividere il loro pasto, in una piccola cucina con pavimento di pietra, assicurandomi che non avevano preparato nulla di speciale. Subito dopo mi portò a vedere/ispezionare tre o quattro seggi elettorali (mesas: tavolate intorno alle quali sedevano gli scrutatori). Erano otto, uno di loro, era in rappresentanza ufficiale dell’opposizione. Era una bella giornata, con foschia nella prima mattinata, poi soleggiata, sarebbe diventata fresca nel tardo pomeriggio. Ho ancora negli occhi la scheda elettorale di colore bianco-giallastra conteneva nel bel mezzo il quadratino del SÌ che sovrastava quello del NO. Chiesi con le parole di rito se “il procedimento elettorale si sviluppava regolarmente” (frase incessantemente ripetuta da radio e televisioni). Ottenuta una vociante conferma, chiesi se avevano già votato. Riposta unanime alla quale seguì la domanda se mi dicevano per chi avevano votato. Fra le risate sette di quegli otto giovani, nessuno di loro mi pareva avesse più di una trentina d’ anni, mi risposero che avevano votato “per il candidato” –conferma che si trattava effettivamente di un plebiscito. Che cosa avrei votato io? Dichiarai la mia appartenenza politica; aggiunsi che in via di principio ero del tutto contrario a cariche di governo che si prolungassero troppo a lungo; dunque, il mio “No” era assolutamente logico e conseguente; conclusi augurandomi e augurando loro che il Cile tornasse a essere una democrazia. Fu, sotto gli occhi appena preoccupati del mio accompagnatore, uno scambio civile di opinioni favorito dalla convinzione assoluta di quei giovani che Pinochet avrebbe ottenuto quello che voleva.
Al mio ritorno a Santiago, non in albergo, ma alla residenza dell’Ambasciatore, attendemmo le notizie sullo spoglio delle schede ascoltando le radio e guardando la televisione che, ossessivamente, ripeteva che “el proceso electoral tuvo lugar regularmente”. Verso le ore 22, giunsero quasi contemporaneamente due notizie importantissime. La prima segnalava disagio e movimento in alcune caserme della capitale. La seconda pochi minuti dopo riportava una frase dell’Ambasciatore degli USA che si rallegrava per l’alta partecipazione elettorale (l’88,5 per cento) e riconosceva la regolarità del “proceso electoral”. Tutti, a cominciare dall’Ambasciatore italiano, cogliemmo in quelle parole il chiaro messaggio USA agli ufficiali pinochettiani e alla Giunta: l’Amministrazione americana si oppone a qualsiasi tentativo di non riconoscere o di stravolgere l’esito del voto. Terminava dopo quindici lunghi anni la brutale fase della Giunta militare con il 56 per cento degli elettori che aveva votato NO al prolungamento della Presidenza di Augusto Pinochet.
Tutti gli esuli cileni politicizzati con i quali avevamo avuto contatti a Roma come Sinistra Indipendente tornarono il prima possibile in Cile. Era l’inizio della transizione democratica. Anche ad alcuni di noi senatori, di nuovo grazie al Presidente Spadolini, fu data l’opportunità di ritornare come osservatori delle elezioni presidenziali il 14 dicembre 1989. Fin dai primi sondaggi fu chiaro che il democristiano Patricio Aylwin, candidato della Concertación Democratica (schieramento ampio nel quale i due partiti più grandi erano la Democrazia Cristiana e il Partito Socialista) avrebbe sconfitto il candidato delle destre già al primo turno (3.850.571, 55.17 %). Non soltanto il Cile tornava alla democrazia, ma lo faceva ponendo termine alla spaccatura fra democristiani e socialisti. No, non era la realizzazione del compromesso storico, ma l’inizio di una competizione bipolare. Ai festeggiamenti per Aylwin incontrai dopo dieci anni Genaro Ariagada, potente segretario della DC cilena che avevo conosciuto dieci anni prima nel 1978 quando entrambi eravamo Fellows al Woodrow Wilson International Center for Scholars. Tre dei “nostri” esuli entrarono al governo, due come ministri, uno sottosegretario.
Il trait-d’union fra quei fatti e la mia visita successiva fu rappresentato da un esule cileno, che, comunista, aveva sostenuto come giovanissimo militante l’esperienza di Unidad Popular. Esule in Italia, aveva vissuto e lavorato a Modena, nutrendo molte perplessità su un suo ritorno in patria. Non più giovane si era iscritto a Scienze politiche, aveva seguito il mio corso di Scienza politica e deciso di “fare” la tesi con me. In estrema sintesi, l’argomento era: “che cosa è andato storto: la ‘pratica’ di Unidad Popular o la teoria?” Vale a dire, forse né i politici di Unidad Popular né gli intellettuali loro vicini avevano capito lo stadio di sviluppo del Cile e le sue possibilità di cambiamento, a quale ritmo? Tesi ambiziosissima, con una componente di riflessione personale e di autocritica. Furono diverse le stesure, insoddisfacenti per lui e per me. Poi, un giorno del 2006 venne a dirmi che aveva deciso di tornare in Cile. Quindi, dovevamo scegliere una stesura affinché potesse laurearsi in tempi brevi, cosa che avvenne rapidamente. Qualche tempo dopo mi scrisse da Santiago. Aveva trovato un lavoro come grafico. Si era sistemato, ma non aveva risolto nessuno dei suoi dubbi politici. Sapendo che insegnavo a Buenos Aires, al Master in Relazioni Internazionali organizzato dall’Università di Bologna e che ero stato invitato dalla Associazione degli studenti cileni a Santiago mi chiedeva di riservargli un pomeriggio-una serata per un incontro con i suoi amici per discutere a tutto campo della sinistra. Sì, il Cile era cambiato, ma la democrazia, disse, riecheggiando forse inconsapevolmente le parole di Bobbio, non manteneva le sue promesse, in particolare non riduceva le diseguaglianze. Sì, sapevano che non c’era scorciatoia, ma lui e i suoi amici non potevano nascondere il loro disamoramento per le sinistre che non trovavano e, forse, neppure cercavano più il bandolo della matassa. Le mie parole di conforto riformista le ascoltarono con grande scetticismo. Di recente, mi ha scritto che vuole lanciare una rivista tutta centrata sulla politica che desidera la mia collaborazione. Ho dato la mia disponibilità e gli ho fatto molti sinceri auguri.
Dal 12 al 16 luglio 2009 tornai in Cile in un’occasione molto diversa dalle precedenti: il XXI Congresso Mondiale della International Political Science Association (IPSA). Su invito dell’organizzatore cileno Manuel Antonio Garretón, Professore di Scienza politica, pluripremiato, socialista, già oppositore del regime militare, presentai un paper The Theory of Political Development (riflettendo sul tema del mio primo libro pubblicato nel 1970) e partecipai a una Tavola Rotonda in assemblea plenaria sull’Unione Europea. L’evento più importante e del tutto inaspettato fu l’invito (con il mio nome immagino suggerito dall’amico Garretón) da parte della Presidenta del Cile, la socialista Michelle Bachelet, padre generale dell’Aeronautica morto in seguito alle torture dei golpisti, lei stessa, allora poco più che ventenne, detenuta, torturata e costretta all’esilio, a una cena in piedi alla Moneda, palazzo presidenziale. Mi trovai, lo debbo proprio scrivere, poiché sto ancora gongolando adesso, fra i quaranta più importanti scienziati politici del mondo. La Presidenta ci salutò uno per uno, affabilmente, chiedendo informazioni su ciascuno di noi. Tenne un breve discorso sulla democrazia in Cile. Infine, ci regalò una visita da lei guidata delle sale a disposizione del Presidente. Giungemmo allo studio usato da Allende, una stanza modesta non grande con una finestra dalla quale erano giunti spari e bombe, una scrivania, escritorio, piccola e spoglia, alla quale il Presidente era solito lavorare e alla quale, così ci raccontò Michelle Bachelet, con voce ferma,parlando lentamente, con un velo di affettuosa commozione, trascorse i suoi ultimi attimi di vita. Dal nostro totale silenzio e dai volti di quei miei colleghi politologi, mi resi improvvisamente conto che, con tutta probabilità, rappresentavamo, forse casualmente, l’ala progressista dell’International Political Science Association.
Tutti questi ricordi, che mi legano al Cile, in maniera che non pensavo fosse tanto stretta e tanto significativa, sono comparsi alla mia mente in maniera graduale e continua mentre guardavo il docu-film “Santiago, Italia”. Ricordi di esperienze importanti, non solo per me, di politica e di vita. Ricordi che, mi pare, valeva la pena esplicitare, raccontare, condividere.
I poteri forti sono nel passato
Appena sceso nella stazione dell’Alta Velocità di Bologna, il viaggiatore chiede: “chi comanda?”. Perplesso, il cittadino bolognese ricorda che, qualche tempo fa, avrebbe avuto la risposta pronta e sicura: il Partito Comunista Italiano, grande, rappresentativo, popolare che controllava generosamente tutto quello che si muoveva, o no, in città. A seconda dei casi, le decisioni le prendeva il “suo” sindaco, ma, più spesso, il segretario della Federazione, e nessuno neanche si poneva il problema di quali fossero i poteri forti. Incuriosito, il viaggiatore vorrebbe saperne di più. Dunque, domanda (ha letto qualche bel libro di scienza politica): la città è oramai caratterizzata da un sano pluralismo competitivo? All’insegna dell’innovazione e del confronto c’è chi vince, mai tutto, e c’è chi perde, mai tutto, e la città cresce, si trasforma migliora? Alquanto rattristato il cittadino risponde che: no, non è proprio così.
Ciascuno dei gruppi che contano, in verità, pochi, si sono ritagliati degli spazi di discrezionalità: dalle cooperative ai sindacati, dalla Chiesa agli industriali, dalle Fondazioni bancarie all’Unipol, persino l’Università e i suoi collettivi. Di decisioni “forti”, però, la città non ne ricorda nessuna almeno da una ventina d’anni. Qualche volta sbucano mecenati senza nessun legame con la politica i quali con impegno e visione prendono iniziative importanti e le attuano. Di tanto in tanto, la città sembra appesa alle parole del vescovo e di colui che fu Presidente del Consiglio per due volte. Entrambi centellinano il limitato potere di cui dispongono e lo usano in alcune poche occasioni, sapendo che se lo facessero troppo spesso lo sciuperebbero. Quanto ai partiti non è come altrove questione di particolare discredito delle loro fatiscenti ed evanescenti strutture. Piuttosto è in dubbio, questo sì davvero forte, la loro capacità di reclutare, di selezionare, di promuovere personale politico adeguato.
Del sindaco in carica, del Commissario governativo che l’ha preceduto, del sindaco paracadutato, il cittadino un po’ si vergogna e tace. Alla fine, al viaggiatore che ancora non ha ricevuto risposta soddisfacente, fa notare, piuttosto rattristato, che in città nessuno ha nemmeno il potere di rendere agibile la piazza davanti al Teatro comunale e di tenere puliti i muri. Altro che poteri forti! Quello che tiene banco in città sono i veti reciproci, incrociati che bloccano qualsiasi decisione di rilievo. Nostalgia del passato, chiede il viaggiatore? No, preoccupazione, forte, risponde il cittadino, per un presente di immobilismo e per un futuro che nessuno sta costruendo.
Pubblicato il 18 maggio 2017