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Da Borgo Panigale a Stoccolma (e ritorno) #biografia #Adriana Lodi

Introduzione a:

Adriana Lodi, Laura Branca, Raccontami una favola vera. Adriana Lodi: biografia di una politica, Imola, Bacchilega Editore, 2021, pp. 11-15

Il riformismo viaggia nel tempo e nello spazio sulle gambe degli uomini e delle donne. Il riformismo può essere l’impegno di una vita. Certamente cambia la vita degli uomini e delle donne, in meglio. Adriana Lodi racconta molto sobriamente (ma con qualche reticenza) la sua vita in questa autobiografia, scritta con la preziosa collaborazione di Laura Branca, dando non solo la precedenza, ma la supremazia a quanto ha fatto e a come lo ha fatto cercando per l’appunto di introdurre cambiamenti in un ampio arco di politiche sociali in Italia. Non è una favola, nel senso di avvenimenti immaginari e fantastici, ma sono corposi tasselli di fenomeni reali. Di volta in volta il racconto riguarda e si sofferma su innovazioni importanti che molti pensavano irrealistiche e molti ostacolavano, ma che Adriana perseguiva con ostinazione e convinzione fine a conquistare il sostegno necessario. Temprata nelle circostanze difficili del fascismo e di un contesto caratterizzato da poca disponibilità di mezzi, ma grazie ad un famiglia che la appoggia dalla quale trae affetto e approvazione, l’adolescente Adriana sentì quasi da subito la necessità dell’impegno a migliorare le sue condizioni di vita insieme a coloro che le condividevano. Lo fa perché animata, senza rancori e invidie, senza motivazioni di rivalsa, dal desiderio di trovare rimedi a situazioni di ingiustizia sociale. È un’ingiustizia che colpisce i lavoratori subalterni, i bambini, le donne (ma Adriana non è sicuramente una protofemminista e l’idea della separatezza fra uomini e donne le è del tutto estranea), gli anziani. Lo ha fatto perseguendo, uso un termine appropriato, ma che so essere anacronistico, la pratica dell’obiettivo.

Di volta in volta l’obiettivo da perseguire e, quel che più conta, conseguire scaturiva dalle condizioni reali di lavoro e di vita sperimentate da Adriana e dalle molte altre persone con cui si rapportava, lei era una di loro, nelle varie attività. Lì sentiva, imparava, tentava di trovare le soluzione. Da operaia consapevole a sindacalista “di base” il passo fu relativamente facile. Con il sindacato, grazie alla sua capacità di lavoro, al suo impegno, alle sue doti personali quasi naturalmente iniziò il suo cursus honorum. Immagino che leggendo questa espressione Adriana abbia un moto di leggera insofferenza e allora aggiungo subito convintamente che non v’è traccia nelle sue memorie e in quello che qui rivela di nessuna ambizione personale di puntare ad una carriera di qualsiasi tipo. In effetti, successe ad Adriana e probabilmente a molti altri, uomini più che donne, che, grazie allo stretto legame (forse “cinghia di trasmissione”, ma spesso la “trasmissione” funzionava da entrambi i lati) fra sindacato e partito, i sindacalisti considerati più bravi venissero reclutati dal partito, in cariche interne, ma anche facendoli eleggere nelle amministrazioni comunali e provinciali. In quei luoghi portavano la loro competenza acquisita, le loro esperienze, la loro voglia di fare. Conosciamo i casi di successo, Adriana è uno dei migliori, ma sappiamo poco di quelli/e che mostrarono i loro limiti e che si persero per strada. Infatti, il partito, molto più che il sindacato, sapeva svolgere un’opera di reclutamento e di selezione, consapevole di quanto fosse in gioco che dipendeva proprio dagli uomini e dalle donne alle quali offriva opportunità che dovevano costantemente dimostrare di sapersi meritare.

   Il partito era il Partito Comunista Italiano. Adriana vi si iscrisse giovanissima neanche quindicenne: “nel cortile in cui abitavo tutte le famiglie erano iscritte al PCI”. Peraltro, in quegli anni i confini fra il sindacato, la CGIL e il Partito comunista erano, soprattutto, in alcune regioni e città italiane, molto permeabili. L’Emilia-Romagna, ma ancor più Bologna, che stava diventando la vetrina del comunismo italiano, erano i luoghi dove i rapporti sindacato/partito risultavano più stretti e benefici. Da allora, i cambiamenti sono stati tali che Adriana si limita a farci sapere che nel 2013 non ha rinnovato la tessera del partito successore perché non si è più “sentita riconosciuta nel partito”. Non posso trattenermi dall’affermare che nel non troppo degno successore del PCI di persone come Adriana non se ne trovano molte e che il cursus honorum dei dirigenti democratici non è neppure minimamente comparabile con quello dei dirigenti e dei parlamentari del PCI.

  Nel 1960 l’esperienza maturata e le attività svolte da Adriana la resero visibile e molto apprezzata tanto che fu candidata al Consiglio comunale e le fu affidato l’assessorato all’Anagrafe nella giunta del popolarissimo sindaco Dozza e, in seguito, ai servizi sociali. Per approfondire queste tematiche Lavorando alla fondazione degli asili nido Adriana fu inviata ad una Conferenza internazionale a Copenaghen. Ne approfittò, grazie ad un cugino per andare a Stoccolma (di qui il titolo, non del tutto scherzoso, della mia prefazione) a vedere come funzionavano gli asili nido. In verità, i comunisti italiani avevano sempre snobbato le esperienze socialdemocratiche del Nord. Non potevano ovviamente negare che in quei paesi ci fossero molte cose che funzionavano benissimo, che consentivano a uomini e donne di avere ottime condizioni di lavoro e un vita resa più facile da un’efficiente e ampia offerta di servizi: dalla culla alla tomba. Ma, insomma, sostenevano i comunisti italiani, quelle politiche socialdemocratiche non miravano a cambiare il capitalismo, a fuoruscirne. Al contrario, lo rafforzavano, lo rendevano più solido e efficace. Era, dunque, giusto che il PCI cercasse in autonomia una terza via, fra la socialdemocrazia e il comunismo sovietico, del quale si parlava il meno possibile e rispetto alla cui natura e struttura in privato i dirigenti del PCI manifestavano non poche preoccupazioni. Quella terza via, se c’era, non condusse da nessuna parte.

Ad Adriana le non proprio sottili, spesso pesanti dispute paraideologiche non interessavano affatto. Il suo forte era un altro, schiettamente e serenamente riformista: individuato un problema che complicava la vita delle donne, dei bambini, delle famiglie, degli anziani, di coloro che avendo lavorato a lungo in condizioni difficili si meritavano di vivere gli ultimi anni con una pensione dignitosa, era (continua a essere) imperativo trovare, non una qualsiasi soluzione, ma quella più adeguata. Parafrasando Che Guevara (nel testo è riportato uno scambio di lettere fra Adriana, nominata fra i rappresentanti italiani che tenevano i rapporti fra Italia-Cuba, e Fidel Castro): “il dovere di qualsiasi riformista [rivoluzionario] è fare le riforme [fare la rivoluzione]”. Come assessore e come parlamentare Adriana ha adempiuto pienamente al suo dovere.

Giunta per la prima volta alla Camera dei deputati nel 1969 subentrando a Luciano Lama che aveva dovuto lasciare il seggio per l’incompatibilità stabilita dai sindacati con le cariche nelle loro organizzazioni, l’on. Lodi è stata rieletta cinque volte terminando la sua esperienza nel 1992. Probabilmente, non si accorse mai di essere entrata a far parte di quella che è oggi impropriamente e inopportunamente definita Casta! In verità, il PCI aveva la sua regola dei due mandati. Farne solo uno significava che ci si era dimostrati inadeguati, ma farne tre significava che il giudizio dei dirigenti del gruppo parlamentare e, in ultima e decisiva istanza, quello decisivo degli organismi del Partito era più che positivo. Lascio ai lettori valutare che significato abbia essere eletti e ri-eletti per cinque volte! Forse, ma Adriana non lo scrive e non lo direbbe mai, è il riconoscimento che le proprie competenze sono ritenute non surrogabili, ovvero che non ci sono altre plausibili candidature in grado di svolgere in maniera altrettanto efficace il compito di elaborare le politiche sociali e di contrastare, emendare, migliorare le politiche del governo. Con la mannaia burocratica dei due mandati e quindi la sua esclusione dal Parlamento già alla fine degli anni Settanta del secolo scorso, non sarebbe stato soltanto il PCI a rimetterci, ma anche il Parlamento italiano, privato di una deputata con molte più conoscenze specifiche e specialistiche e, naturalmente, ancor più, gli elettori, con i quali Adriana manteneva rapporti intensi e frequenti. Avrebbero perso una rappresentante brava, esperta, disponibile che davvero si curava di loro, delle loro aspettative, dei loro problemi. 

In più di un passaggio questo libro di memorie suscita una legittima e nient’affatto deplorevole nostalgia di molte cose dei tempi passati, di quella che impropriamente viene definita Prima Repubblica. Non di tutte, e molte le abbiamo già variamente criticate. Giustificata è in special modo la nostalgia non dei tempi passati che non torneranno, ma dei tempi che verranno, soltanto se li sapremo costruire. L’autobiografia di Adriana Lodi non pretende affatto di insegnarci che cosa fare e come, quali comportamenti tenere e in che modo tradurli in pratica. Ma, seppur in tono dimesso, gli insegnamenti sono molti. La politica si impara facendola. L’impegno politico serve a migliorare la vita degli altri/e, ma offre anche a ciascuno di noi molte opportunità e molte gratificazioni. Alcune attività, scelte, compiti sono inevitabilmente individuali e personali, ma, oggi forse più che ieri, sentiamo che è con la condivisione dei compiti e dei rischi che è possibile migliorare. Per concludere, vorrei, anche da parte di Adriana, mandare a dire due cose a John Donne (1572-1631), il grande poeta inglese in questi tempi duri per la sua frase “No man is an island”. Primo, “no woman is an island” e certamente Adriana, non femminista, ma sempre al lavoro per conseguire la parità donne-uomini, non ha mai pensato di essere isolata. Secondo, quello che conta è proprio sapere connettere quelle isole, quegli uomini e quelle donne in un’impresa condivisibile e condivisa. Alla quale vale la pena dedicare una vita.

Bologna, 4 ottobre 2020


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