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Le accuse dell’epoca? Il Pd non seppe reagire ma il M5S ora si scusi #Bibbiano #Intervista @ildubbionews

Intervista raccolta da Giacomo Puletti

Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza Politica a Bologna, descrive il “caso Bibbiano”

«Una delle vicende peggiori di mala informazione dell’Italia nella seconda parte della seconda Repubblica». Così Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza Politica a Bologna, descrive il “caso Bibbiano”, sul quale deve essere «il M5S a riconoscere gli errori e a chiedere scusa».

Professor Pasquino, dopo che il caso Bibbiano è stato smontato, crede che il Pd dovrebbe avere uno scatto d’orgoglio e ricordare le terribili accuse del M5S dell’epoca?

Credo che il cosiddetto “caso Bibbiano” sia stata una delle vicende peggiori di mala informazione dell’Italia nella seconda parte della seconda Repubblica. Le scuole in Emilia Romagna sono buone, spesso ottime, c’è impegno, partecipazione, istruzione. Il Pd all’epoca si è fatto cogliere di sorpresa e non ha saputo reagire in maniera efficace a quelle accuse. Sono contento che si sia arrivati a una rettifica della situazione ma capisco anche la ritrosia del Pd nel tornare su quelle vicende. Dovrebbe invece essere il M5S a riconoscere gli errori e a chiedere scusa.

Pensa che la ritrosia del Pd sia dovuta anche al cambiamento dei rapporti intercorso nel frattempo con il M5S?

Diciamo che allora sembrava che fosse il M5S a dettare le carte, visto che era in ascesa. Oggi non è più così, anche se sta cercando di aggrapparsi a quel 15- 17% di voti che ha. Ma ormai sono tutti arrivati alla conclusione che se vogliono tornare a governare il Paese è inevitabile accordarsi con il Pd. Conte pensa che questo accordo si troverà nel momento in cui i rapporti di forza saranno riequilibrati e il Pd riconoscerà che è lui il candidato alla presidenza del Consiglio. Riconoscimento che non arriverà mai, visto che il Pd ha più voti e soprattutto più classe dirigente, mentre sulla capacità di governo del M5S è d’obbligo avere molte riserve.

Eppure Conte sta mettendo all’angolo Schlein, chiedendole in sostanza di abbandonare i cosiddetti cacicchi e capibastone. Ci riuscirà?

Chiariamo subito un fatto. Nel Pd non ci sono né capibastone né cacicchi. Ci sono casomai capicorrente che forse sono lì da troppo tempo e forse sono troppo immobilisti. Qualche volta poi ci sono dei signori delle tessere ma ereditati da una precedente situazione, visto che a Torino quel tale Gallo sembra essere un erede della tradizione socialista, non certo comunista. Nel Pci non c’erano signori delle tessere semplicemente perché non ce n’era bisogno. Contava insomma il partito.

Cosa sta succedendo al Pd di Bari e Torino?

È successo che sia a Torino che a Bari, quindi in realtà molto distanti sia geograficamente che politicamente, il partito non ha avuto la capacità di controllare adeguatamente chi entrava e si accasava, o ancora con quali gruppi esterni stabilire relazioni durature e concrete. E quando questo accade è un grosso problema, perché il partito si sfalda. E non si tratta di rimuovere o declassare quattro o cinque persone, ma di ricostruire il partito. Ho l’impressione che Schlein non abbia ancora colto il punto rilevante, cioè che è bene rifare il partito, non andare avanti a colpi di movimentismo. Se un movimento non si struttura, evapora.

Il M5S ha perso milioni di voti proprio perché inesistente o quasi sui territori?

Il M5S non ha mai capito l’importanza della presenza sul territorio perché voleva fare politica online e basta. E questo è un errore grave perché non consente stabilità e produce situazioni altalenanti e di grande debolezza. Non penso che oggi Conte stia pensando di strutturarsi ma deve imparare alcune lezioni. Alessandra Todde, ad esempio, ha vinto in Sardegna perché esiste, ha una sua accountability, ha radicamento sul territorio. Altrove il M5S perde perché i candidati non sono presenti sul territorio.

Eppure quello zoccolo duro attorno al 15% resiste. Crede che sfruttando i guai giudiziari del Pd Conte possa incrementare i consensi?

Per alimentare consenso servono buone politiche, in questo caso una buona opposizione, che si fa con buoni parlamentari. Il M5S ne ha alcuni, ma la regola dei due mandati finisce per indebolire il partito e impedire la crescita di tali elementi. E così rimane solo Conte, che ha dei pregi ma non tali da poter aspirare a prendersi l’elettorato Pd, che è distante da quello grillino. L’unica cosa che Conte può fare è tentare di riguadagnare l’elettorato del 2018, che oggi si astiene. A quell’elettorato dovrebbe fare un’offerta vicina a quella del M5S della prima fase.

A leggere i dati anche l’elettorato M5S è molto distante da quello dem, anzi, fosse per la base grillina forse neanche si costituirebbe il cosiddetto “campo largo”…

È vero che l’elettorato M5S è più disponibile a cercare alternative diverse a quella del Pd e questo lo rende pertanto abbastanza inaffidabile. Ma la verità è che basta ragionare per rendersi conto che il M5S può tornare al governo soltanto attraverso il Pd. E solo Conte può prendere l’iniziativa di sposare in toto l’alleanza con i dem, con tanto di strutture adeguate e un’idea comune di Paese.

Al momento l’unica cosa che sembra fare Conte è mettere in difficoltà Schlein, basta pensare al caso Bari.

Sul caso Bari, mettere in difficoltà il Pd significa consegnare la città alla destra. Poi certo, io non sono giustizialista ma sono molto severo e penso che quando si verificano situazioni di questo genere occorra epurare. Non si può aspettare l’esito di un processo che dura sette o otto anni. Bisogna prendere atto che qualcosa non ha funzionato e cambiare. Il che significa parlare con l’alleato e trovare soluzioni gradite a entrambi..

Talvolta aspettare l’esito di un processo significa abbattere la carriera politica e la vita di una persona, che magari poi viene assolta: i partiti non dovrebbero avere più coraggio nel difendere la presunzione d’innocenza dei loro esponenti?

Le dimissioni di un politico dipendono molto spesso dalla propria sensibilità. Un tale assessore può essere assolutamente convinto della propria innocenza ma in quel preciso momento magari le dimissioni giovano di più al partito. In questo caso l’interesse del partito deve essere superiore agli interessi personali di breve periodo. Poi è chiaro che i partiti dovrebbero sapere molto di più delle attività lecite o non lecite svolte da qualcuno che ha cariche locali.

Pubblicata il 12 aprile 2024 su Il Dubbio

Il voto di scambio infetta l’essenza della politica. La questione morale è politica. @Domanigiornale

La buona notizia è che gli italiani, forse, non si sono ancora assuefatti alle questioni immorali e non sono rassegnati al non accertamento delle cause e alla non ricerca di soluzioni. Da sempre credo che bisogna stare con i moralisti, coloro che, come Norberto Bobbio e con lui, ritengono che nessun comportamento politico debba mai essere svincolato dall’etica. In politica, lo sanno tutti, anche coloro che violano il principio, esistono molte attività che semplicemente non si debbono fare. Non sono soltanto attività che vanno contro le leggi e le regole, ma attività poco lecite che corrompono la competizione, che coinvolgono i cittadini-elettori in reti di malaffare, che danno indebiti vantaggi a quei politici che vi ricorrono. In politica, forse più che in altre attività tranne che nel mercato, la moneta cattiva scaccia quella buona.

   Chi usa la corruzione nelle sue più varie e fantasiose forme produce vantaggi per se stesso e per i suoi sostenitori inquinando tutto il sistema. Tempo fa, ma credo che le convinzioni siano poco cambiate, veniva effettuata un distinzione fra chi con i suoi comportamenti scorretti e corrotti mirava a avvantaggiare il suo partito e chi procurava vantaggi solo per se stesso, per i suoi amici/collaboratori, per la sua corrente. Ai primi si condonava molto; i secondi erano da condannare (insomma, senza esagerare …). Al contrario. Ritengo che la corruzione orientata a favorire il proprio partito, senza contare che chi la pratica saprà come farsi ricompensare in termini di ruoli e cariche, sia peggiore degli arricchimenti personali, perché corrompe l’intero sistema politico.

Fatta la premessa necessaria e non ipocrita che le responsabilità civili e penali vanno rigorosamente accertate, quello che si sa di Bari e di Torino, che coinvolge il Partito Democratico appare non particolarmente originale, ma piuttosto grave. Poiché le elezioni sono lo snodo attraverso il quale in democrazia si attribuisce e distribuisce il potere politico, comprare voti e preferenze sfregia e sbrega la democrazia. Poiché, gli eletti e le elette in maniera truffaldina si sentiranno obbligati/e a reciprocare in qualche modo, ne risentirà l’intero processo decisionale condizionato da reti di relazioni corrotte. Anche i vari gruppi e le diverse associazioni interessate alle decisioni politiche saranno costrette a fare i conti con un contesto corrotto e a posizionarsi contribuendo al mantenimento di una situazione chiaramente malata, da molti conosciuta, non adeguatamente rigettata.

Nonostante le molte (sì, lo so che debbo immediatamente aggiungere “purtroppo, anche non positive”) trasformazioni della politica, quel che rimane dei partiti continua a svolgere compiti cruciali: reclutamento e promozione di candidati/e, nomine a una pluralità di cariche, non solo politiche, rapporti con la società, più o meno civile. Dove e quando le strutture partitiche sono deboli e, quindi, permeabili, risulta più facile per alcuni gruppi conquistare spazi e ottenere compiti di rilievo. Quasi sicuramente, il Partito Democratico deve interrogarsi su come è stato possibile che le sue strutture siano state penetrate da persone e gruppi spregiudicati in grado di utilizzare mezzi e strumenti deplorevoli, esecrabili, senza nessuna moralità. La cosiddetta “questione morale” è, non solo, ma nei due casi clamorosi sopra citati, soprattutto per il Partito Democratico, una questione propriamente politica. Un partito che, per qualche ansia di ingrandimento, di potere, forse di sopravvivenza, rinuncia a mettere in atto controlli rigorosi su coloro che ne fanno parte e lo utilizzano, è il primo responsabile della questione morale, della immoralità nell’azione politica. La risposta è: controllare, imporre regole, sfoltire, epurare. Da subito. 

Pubblicato il 10 aprile 2024 su Domani

L’alternativa non è più una chimera. Costruire coalizioni è l’arte della politica @DomaniGiornale

C’è qualcosa di nuovo, anzi di antico sotto lo splendido sole della Sardegna. Per conquistare una carica monocratica, la Presidenza della Regione, assegnata in un solo turno elettorale, è decisivo costruire preventivamente una coalizione a sostegno della candidatura prescelta. Ferme restando le loro personali preferenze politiche, gli elettori rispondono valutando l’offerta dei partiti, della coalizione, della candidatura, in parte dei programmi e della capacità di governare. La vittoria di Alessandra Todde in Sardegna è il prodotto virtuoso di questo pacchetto di elementi. La grande soddisfazione di dirigenti e attivisti dello schieramento del centro-sinistra che ha vinto è comprensibile (e da me, per quel che conta, condivisibile). Procedere a generalizzazioni assolutistiche, “la sinistra unita non sarà mai sconfitta” (“il governo Meloni è indebolito”) e proiettare automaticamente la possibilità/probabilità di un esito sardo anche sulle altre elezioni regionali e sulla elezione dell’Europarlamento (che è tutta un’altra storia) è esagerato, sbagliato, rischia di risultare controproducente.

Ciascuna regione, a cominciare dall’Abruzzo, la prima a votare prossimamente, ha le sue peculiarità di storia politico-partitica, di governo, di problematiche socio-economiche. Se la lezione generale è che le coalizioni si costruiscono di volta in volta, saranno i dirigenti politici di quella regione a decidere se, come, con chi, attorno a quale candidatura costruire un’alleanza. La buona notizia, non so quanto importante per l’Abruzzo, è che Calenda ha twittato che l’esito sardo “è una lezione di cui terremo conto”. Traduzione “correre” come polo autonomo è perdente. Aggiungo che rischia sempre di fare perdere il polo più affine (ma qualcuno proprio quelle sconfitte vuole produrre).

Stare insieme in coalizioni elettorali che possono diventare di governo porta ad una più approfondita condivisione di obiettivi, di preferenze, di soluzioni programmatiche. Il discorso sui valori è, naturalmente, molto più complesso. Parte dalla Costituzione e porta all’Europa, tema che riguarda anche i governi regionali. Rimarranno sempre differenze programmatiche e politiche nella schieramento di centro-sinistra. Meglio non esaltarle e neppure seppellirle additando le profonde divisioni esistenti nel centro-destra. Infatti, quei partiti e i loro dirigenti sembrano avere maggiore consapevolezza del fatto che, separati e divisi, perdono e che il potere è un collante gradevolissimo, generosissimo. Inoltre, i loro elettorati sembrano socialmente più omogenei. Alla eterogeneità e diversità, sociale e, forse, più ancora culturale, dei rispettivi elettorati di riferimento, non basta che i dirigenti del centro-sinistra esaltino le differenze come risorse. Debbono ricomporle attorno a obiettivi e a candidature comuni il più rappresentative possibili.

Le elezioni per il Parlamento europeo, poiché si vota con una legge proporzionale con clausola di esclusione del 4 per cento, suggeriscono due comportamenti. Primo, evitare la frammentazione nel e del centro-sinistra. Secondo, poiché i partiti, a cominciare dal Partito Democratico e dal Movimento 5 Stelle, giustamente vogliono misurare il loro consenso correndo separatamente, dovrebbero evitare di scegliersi come bersagli reciproci. La sfida è delineare una visione per l’Unione Europea dei prossimi cinque anni, non criticare la visione dei propri alleati nazionali. La critica va indirizzata agli opportunismi, alle contraddizioni, ai patetici resti di sovranismo provinciale, dello stivale, dei tre partiti del centro-destra. L’obiettivo di fondo non è la mission al momento impossible di fare cadere il governo e sostituirlo, ma di dimostrare che esiste un’alternativa di centro-sinistra all’altezza della sfida. Adelante con juicio.

Pubblicato il 28 febbraio 2024 su Domani

Il terzo mandato e i peccati di una riforma ad personam @DomaniGiornale

“Un lavoro sono in grado di trovarmelo da solo”. No, non sono parole di Luca Zaia, Presidente della Regione Veneto; non di Stefano Bonaccini, Presidente della Regione Emilia-Romagna; neanche di Matteo Ricci, attivissimo sindaco di Pesaro. Tutti al termine del loro secondo e ultimo mandato, da un lato, sperano che venga eliminato il limite ai due mandati, dall’altro, attendono che qualcuno, il partito, trovi un lavoro per loro. Nessuno di loro è in grado di pronunciare le parole di Mario Draghi. L’attaccamento alla (no, non scriverò “poltrona”) carica è evidente. Non è etichettabile come passione. Qualcuno, non chi scrive, direbbe “occupazione”, forse, un po’ meglio, “professione”. Certamente, è non osservanza delle regole istituzionali notissime a chi si candidò a quelle cariche una decina di anni fa. Zaia ha dichiarato che a decidere della continuazione dei mandati, a cominciare dal suo, dovrebbero essere gli elettori. Questa dichiarazione ha un retrogusto populista. Fa parte del problema che la legge che contempla il limite ai mandati voleva contrastare e risolvere, vale a dire, evitare la cristallizzazione del potere di sindaci e poi di presidenti a lungo in carica, diventati molto popolari e in grado di sfruttare, spesso inevitabilmente, le relazioni intessute del corso del tempo e anche, altrettanto inevitabilmente, la capacità di distribuire in maniera selettiva le risorse.

   Il ricambio nelle cariche, tecnicamente la circolazione delle elites politiche, è (quasi) sempre positivo anche per la circolazione delle idee, delle proposte, delle soluzioni. Un buon ricambio caratterizza le democrazie meglio funzionanti. Naturalmente, in democrazia è sempre possibile cambiare le leggi. Anzi, una delle caratteristiche politiche più apprezzabili delle democrazie è che tutti i protagonisti e il regime stesso sono in grado di imparare, di risolvere gli errori, di individuare soluzioni migliori. Fu un errore mettere un limite ai mandati di governo dei sindaci e poi dei Presidenti di regione? L’abolizione di quei limiti può essere presentata e giustificata come una soluzione istituzionale preferibile all’esistente?

Però, l’appassionante (sic) dibattito attuale non verte su questi punti problematici. Premesso che le regole istituzionali possono essere cambiate come si è fatto in Italia da quarant’anni ad oggi, e ancora si farà, purtroppo non proprio con miglioramenti epocali (scusate l’eufemismo), la regola delle regole, non solo in politica, è che non debbono mai essere cambiate, in corsa, di corsa, durante il gioco. E, se vengono cambiate quando il gioco è in corso, le nuove regole non possono valere se non trascorso un certo periodo di tempo, in questo caso, almeno tutto un mandato. Alcuni sindaci, terminato il doppio mandato, sono tornati campo, con successo, ma anche no, dopo avere saltato un turno. 

Detto che le regole possono essere cambiate, bisogna aggiungere, ma non dovrebbe essere necessario, che è imperativo che le motivazioni siano assolutamente di natura istituzionale: la possibilità di svolgere un terzo mandato implicherebbe/rà un salto di qualità nei governi locali; darebbe un contributo decisivo al buongoverno degli enti locali, potenzialmente di tutti quegli enti dalle Alpi alla Sicilia. Invece, l’estensione del terzo mandato viene giustificata con riferimento agli occupanti e ai loro partiti, ragioni personali e partitiche. La Lega è favorevole perché senza Zaia “perderebbe” il Veneto. Nel Partito Democratico qualcuno sostiene, forse, l’estensione perché teme di non sapere come sostituire alcuni governanti locali e come e dove “piazzare” gli uscenti. Fratelli d’Italia ha dalla sua l’osservanza della legge sull’esistenza dei limiti ai mandati e della loro applicazione senza eccezioni anche perché ne deriverebbe un notevole riequilibrio del potere locale a suo vantaggio. Ho l’impressione che questa brutta storia finirà con la vittoria dell’opportunismo variamente declinato piuttosto che delle regole esistenti. Se perdono coloro che sostengono che regolae sunt servandae , saranno sconfitti anche i molti cittadini democratici che ritengono che la democrazia è rule of law, governo della legge.

Pubblicato il 21 febbraio 2024 su Domani

Make Europe Great Again (MEGA). Quel che dobbiamo fare per l’Europa, ovvero per noi @formichenews

Immigrazione, Patto di Stabilità e Crescita, nuove e numerose adesioni, sicurezza e pace sono le sfide che, se troveranno soluzioni condivise tra il 2024 e il 2029, promettono di cambiare per il meglio l’Unione europea e la vita dei cittadini/e europei/e con effetti positivi anche sulla costruzione di un nuovo ordine internazionale. La riflessione di Gianfranco Pasquino, europeo nato a Torino, professore emerito di Scienza politica nell’Università di Bologna e Accademico dei Lincei.

Non c’è soluzione specificamente italiana ai problemi che in qualche modo riguardano l’Unione Europea e gli altri Stati-membri e i loro cittadini. Chiamarsi fuori significa per l’Italia non soltanto dovere provvedere da sé, ma rendere più difficile, quasi impossibile prendere decisioni che per funzionare richiedono accordi e concordia europea. Due esempi sono sufficienti: l’immigrazione e la revisione del Patto di Stabilità e Crescita, ma all’orizzonte si staglia l’adesione di nuovi stati a completamento geografico (e politico) dell’Unione Europea. Questa mia premessa è indispensabile per capire quanto alta è e possa diventare la posta in gioco dell’elezione del Parlamento europeo il 9 giugno 2024.

Anche se è giusto rammaricarsene, è inevitabile, comunque, impossibile da proibire, che i dirigenti dei partiti italiani pensino a sfruttare l’esito delle elezioni europee per rafforzare le loro posizioni in Italia. Assisteremo sicuramente ad un consistente travaso di voti e seggi dalla Lega, più che dimezzata, a Fratelli d’Italia che quadruplicherà i suoi voti e i suoi seggi. Lungi da me affermare che questo esito fortemente positivo per quei Fratelli servirà a poco o nulla se non incidesse sulla formazione della prossima maggioranza nel Parlamento europeo. Certo, dirigenti e eletti del Partito dei Conservatori e Riformisti, di cui Giorgia Meloni è presidente, non saranno davvero soddisfatti se mancheranno l’obiettivo di sostituire i Democratici e Socialisti dando vita ad una nuova maggioranza con Liberali, Verdi e Popolari. Poiché in democrazia, e l’Unione Europea è il più grande spazio di libertà, di diritti, di democrazia mai esistito al mondo, i voti contano, anche la, al momento probabile, prosecuzione della maggioranza attuale sarà consapevole della necessità di tenere conto della nuova distribuzione di seggi. Ma i seggi senza idee e proposte non fanno cambiare le politiche, forse neppure le cariche come, per esempio, quella della Presidenza della Commissione.

Spetterà alla campagna elettorale andare oltre i temi nazionali e la conta nazionale, pur, gioco di parole, tenendone conto. Finora non si è visto praticamente nulla di concreto, nulla di nuovo, nulla di affascinante. Peggio. La discussione sulle candidature a capolista e in quante circoscrizioni di Giorgia Meloni e di Elly Schlein (e giù per li rami delle altre liste con la lodevole eccezione di Giuseppe Conte che si è chiamato fuori) segnala la persistenza di una fattispecie di malcostume, politico e etico. C’è incompatibilità fra la carica di europarlamentare e quella di parlamentare nazionale. Dunque, poiché, naturalmente, né Schlein né, meno che mai, Meloni rinuncerebbero alla carica nazionale, è troppo poco denunciare che la loro presenza come capolista è uno “specchietto per le allodole”. Si tratta di un vero e proprio inganno a danno degli elettori, inganno che tutti i commentatori/trici e tutti i media dovrebbero, non assecondare con toto nomi e probabili desistenze a favore di fedelissimi/e, ma denunciare ad alta voce misfatti e misfattiste.

  Poiché le decisioni europee nel prossimo parlamento si annunciano molto importanti, la composizione delle liste dovrebbe rispecchiare competenze e esperienze, non solo affidabilità personale e politica che, pure, è giusto che contino. La presenza di europarlamentari capaci è da considerarsi ancor più necessaria e significativa se la maggioranza sarà risicata. Talvolta, una argomentazione convincente riesce a spostare voti, a diventare vincente. Immigrazione, Patto di Stabilità e Crescita, nuove e numerose adesioni, sicurezza e pace sono le sfide che, se troveranno soluzioni condivise tra il 2024 e il 2029, promettono di cambiare per il meglio l’Unione Europea e la vita dei cittadini/e europei/e con effetti positivi anche sulla costruzione di un nuovo ordine internazionale.

Pubblicato il 31 12 2023 su Formiche.net

La finanziaria la fa il governo (e la sua maggioranza). La versione di Pasquino @formichenews

Tutti i governi di coalizione che ottengono e mantengono la fiducia del loro Parlamento hanno il diritto, ma anche il dovere, di cercare di tradurre le promesse elettorali fatte dai loro partiti in politiche pubbliche. Il commento di Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza politica e socio dell’Accademia dei Lincei

La Finanziaria fa il governo la cui coalizione ha il diritto di respingere tutti gli emendamenti con un minimo di discussione.

La non emendabilità della Legge Finanziaria è il proposito fortemente espresso e ripetuto da Giorgia Meloni. Un cattivo proposito, ma non è né improponibile né incostituzionale. Al contrario. Tutti i governi di coalizione che ottengono e mantengono la fiducia del loro Parlamento hanno il diritto, ma anche il dovere di cercare di tradurre le promesse elettorale fatte dai loro partiti in politiche pubbliche. Su quelle promesse i partiti divenuti coalizione di governo hanno fatto la campagna elettorale ed è lecito pensare che, entro (in)certi limiti, gli elettori abbiano deciso di dare il loro voto con riferimento proprio ad una o più delle politiche promesse. Altresì, è probabile che buona parte di quegli elettori baserà il suo voto prossimo venturo proprio tenendo conto dell’attuazione o meno da parte del governo delle politiche da lui/lei preferite. Su questi presupposti, largamente confermati da tutte le ricerche sulle motivazioni del voto, la richiesta di Meloni è più che plausibile; è corretta e comprensibile. Naturalmente, ciascuno dei partiti di governo potrà, da un lato, cercare di “appropriarsi” di una o più tematiche specifiche; dall’altro, prendere le distanze da alcune altre, sperabilmente poche tematiche, preferite da altri partiti.

   Ad ogni buon conto, Meloni non può imporre disciplina di voto e astinenza da emendamenti tranne che ai parlamentari del suo partito. Primo, saranno i capi degli altri partiti a chiedere/imporre determinati comportamenti ai loro parlamentari. Secondo, saranno questi parlamentari, individualmente, personalmente, a decidere come comportarsi (remember art. 67: “ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato” c.vo mio). Cercheranno con competenza di migliorare testo e sostanza? Con i loro emendamenti vorranno comunque mandare un messaggio a determinati gruppi di elettori, a qualche potente lobby? Si proporranno soprattutto di ottenere visibilità personale e politica? Il dibattito sugli emendamenti, meglio non tranciarlo bruscamente e d’imperio, potrà/dovrebbe risultare chiarificatore con giovamento di tutti.

L’emendamento, a mio parere assolutamente da escludere, ma già “ventilato” nella versione “maxi”, è quello formulato dal governo che, per chiudere la faccenda, ingloberebbe tutte le eventuali variazioni, la cui approvazione verrebbe probabilmente affidata ad un voto di fiducia. Questo significherebbe calpestare l’autonomia del Parlamento, che dovrebbe essere difesa in primis dai Presidenti delle due camere, ma anche, non soltanto con la delicatezza e la riservatezza della moral suasion, dal Presidente della Repubblica. Proprio chi (come il grande studioso della Costituzione inglese Walter Bagehot e il consapevolmente meno grande docente di scienza politica qui scrivente) riconosce e attribuisce al governo il potere di fare la finanziaria e di ottenerne l’approvazione come desidera, è legittimato a criticare qualsiasi forzatura e a chiedere che sia sanzionata.

Accettabile e encomiabile è il tentativo del Partito Democratico di cambiare alcuni punti, di prospettare politiche diverse, di dimostrare che è possibile scegliere strade che portano più lontano. Tuttavia, mi pare improbabile che i 1.103 emendamenti preparati dai parlamentari del PD consentano di scrivere una finanziaria alternativa. Il loro numero, anche qualora non fossero, com’è probabile, tutti ammessi, comporterebbe inevitabilmente illustrazioni sommarie e frettolose e bocciature pregiudiziali. La forma sarà salvata, ma la sostanza non avrà nessuna chance di successo. La cultura dell’emendamento, come la definì 50 anni fa il Sen. Filippo Cavazzuti, mio collega nella Sinistra Indipendente, ha le gambe corte (e storte). Non serve a costruire nessuna alternativa.

Pubblicato il 28 novembre 2023 su Formiche.net

La condizione di una alleanza Pd-5 Stelle secondo Pasquino @formichenews

Se il Movimento 5 Stelle non è d’accordo con le posizioni che derivano dall’articolo 11 della Costituzione, che mi paiono e mi auguro essere centrali nella visione del Partito democratico e con le prospettive anche operative che ne derivano, è improbabile che nasca un’alleanza di governo dotata di senso sulla scena europea e internazionale. Sull’ambiguità non si costruisce nulla di buono, nulla di solido, nulla di accettabile. Il commento di Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza Politica e accademico dei Lincei

Come elettore sarei molto esigente. Credo che non riuscirei a convincermi a votare per una coalizione che includesse in posizioni dominanti due partiti che sulla politica internazionale si collocano su fronti opposti, incompatibili. Probabilmente, un sistema elettorale proporzionale, grazie al quale i partiti possono consentirsi il lusso di andare in ordine sparso, mi permetterebbe di sfuggire ad una scelta comunque dolorosa. Però, quel che un elettore può evitare i partiti coalizzati in un’alleanza di governo dovrebbero affrontare di petto. Visibilmente. Responsabilmente.

   Di fronte ad alcune alternative: dare armi all’Ucraina o no; sostenere Israele o dirsi equidistanti dai terroristi di Hamas, e altre simili che potrebbero (ri)presentarsi, le furbizie al/di governo sarebbero paralizzanti o distruttive. Per di più, poiché l’Italia fa parte di non poche organizzazioni sovranazionali, quelle furbate metterebbero inevitabilmente in discussione il suo ruolo, politico e economico, la sua affidabilità, la sua lealtà. Tutto questo appare sufficientemente chiaro e preoccupantemente delicato quando si confrontano le posizioni del Partito Democratico e del Movimento 5 Stelle sull’Ucraina e, in buona misura, anche sul conflitto Hamas/Israele.

Non so se la mia posizione personale: “sto sempre dalla parte delle democrazie” meriti di essere definita non negoziabile. Sicuramente, costituisce la mia preziosa scorciatoia cognitiva e etica alla quale non intendo rinunciare. Prodotto delle mie conoscenze storiche e delle mie preferenze politiche, la mia posizione si appoggia sulla lettura della Costituzione italiana e ne trae alimento e guida.

 Articolo 11

L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.

Grazie alla loro conoscenza storica e alle loro esperienze personali, per non pochi drammatiche, nella stesura di questo articolo i Costituenti si sono rivelati anche preveggenti. Ripudiare qualsiasi guerra di offesa significa anche riconoscere il diritto alla difesa di Stati e cittadini che vengono aggrediti. Significa agire insieme con altri Stati democratici per difendere i diritti degli aggrediti e ristabilire, con fondi e, quando, spesso, necessario, con armamenti, l’indipendenza, la sovranità, la vita.

Se il Movimento 5 Stelle non è d’accordo con queste posizioni, che mi paiono e mi auguro essere centrali nella visione del Partito Democratico e con le prospettive anche operative che ne derivano, è improbabile che nasca un’alleanza di governo dotata di senso sulla scena europea e internazionale. Sull’ambiguità non si costruisce nulla di buono, nulla di solido, nulla di accettabile.

Professore Emerito di Scienza politica, socio dell’Accademia dei Lincei, kantiano.

Pubblicato il 16 ottobre 2023 si Formiche.net

Troppa competizione tra Pd e M5s danneggia il centrosinistra @DomaniGiornale

Dove condurrà la competizione in atto fra Elly Schlein e Giuseppe Conte? Può essere positiva per lo schieramento anti-governo Meloni oppure è un ostacolo alla convergenza su programmi, proposte, prospettive? Altrove, per intenderci, dalle democrazie scandinave al Portogallo, alla Spagna e, fino all’avvento di Macron, alla Francia (ma il sistema istituzionale e elettorale fa molta differenza), nell’ambito della sinistra e del centro-sinistra, spesso esiste un partito chiaramente più grande in termini di voti e di consenso. A quel partito spetta indicare la leadership dello schieramento che, se vittorioso, verrà premiata con la conquista della carica di capo del governo. Al momento, secondo i sondaggi e in base ai voti del settembre 2022, la distanza in termini percentuali fra il Partito Democratico e il Movimento Cinque Stelle non consente al primo di rivendicare in maniera inoppugnabile la guida dello schieramento più ampio. Inoltre, impegnato nell’estendere il più possibile il suo appello politico elettorale, Conte si dimostra maggiormente orientato a competere con il PD piuttosto che a convergere. Quello che è successo con il sostegno comune al salario minimo appare un’eccezione sicuramente raccomandabile e istruttiva, da valorizzare (anche se, temo, che verrà il momento delle bandierine di rivendicazione). Quello che, invece, è finora mancato ad entrambi (di “+Europa” e “Azione” non parlo poiché mi paiono molto carenti quanto a capacità di mobilitazione) è un disegno di recupero di quel 40 percento di elettorato che per varie ragioni non è andato alle urne.

   La competizione Schlein/Conte non appare l’argomento di maggiore attrattività per quegli astenuti. Anzi, da altri luoghi e da altre elezioni, sappiamo che gli scontri nella sinistra smobilitano specialmente la parte di elettori che vogliono sì un’alternativa di governo al centro-destra, ma, al tempo stesso, vogliono che quel governo sia sufficientemente coeso, con il minimo di tensioni interne e credibilmente capace di attuare le sue promesse. Altrimenti, starsene, pur tristemente, a casa per loro rimane un’opzione preferibile.

Naturalmente, la competizione Partito Democratico/Movimento Cinque Stelle è nelle cose, nei fatti, nello stato del paese. Personalmente, non sono un cantore della necessità assoluta e prioritaria di ridurre le diseguaglianze soprattutto quelle economiche. So, però, che è ai ceti svantaggiati che la sinistra, non soltanto in Italia, sembra avere perso la capacità di parlare e, talvolta, persino, la volontà di andarli a cercare. La questione dovrebbe essere posta in termini di opportunità: aprire spazi di accesso alla buona istruzione, alla buona sanità, alle buone pensioni che possono seguire ad un mercato del lavoro accessibile anche in seguito a procedure di qualificazione e di reinserimento dei lavoratori/trici. Questa, sulle idee, sui progetti, sulle soluzioni, è la buona competizione nella sinistra. Il momento giusto è ora poiché il governo annaspa nel PNRR, colpisce malamente le banche, non ha ricette di ristrutturazione del welfare. Il non originale mantra dei centrodestri è che i problemi sono stati creati dai governi precedenti. La risposta dei due partiti che in quei governi erano le componenti più importanti, oltre a mettere in questione affermazioni infondate, deve consistere in singole proposte chiare, condivise, solidariamente sostenute, quello che si può chiamare “la pratica dell’obiettivo”. Valutando i contributi agli obiettivi conseguiti, PD, M5S e coloro disposti a collaborare saranno in grado di meglio scegliere la leadership più promettente per vincere le prossime elezioni.

Pubblicato il 17 agosto 2023 su Domani

Marciare divisi e colpire uniti. La mobilitazione che serve al Pd @DomaniGiornale

Marciare divisi colpire uniti. Vecchia massima che le opposizioni italiane non sembrano conoscere. Cercare le convergenze su alcuni elementi programmatici, ad esempio, il contrasto al precariato, non danneggia certamente chi converge. Allo stesso modo, accordarsi su quali punti della sedicente riforma della giustizia ad opera di Nordio è imperativo proporre soluzioni alternative, per esempio, recuperando tutto o quasi quello già fatto dall’allora Ministro Orlando, è raccomandabile. Certo, le convergenze vanno comunque costruite. Non basta andare in piazza con i pentastellati senza neppure preoccuparsi di come quella manifestazione è costruita e senza sapere chi parlerà. Poiché non credo alla smania di protagonismo di Elly Schlein e neppure ad un suo desiderio di fuga in avanti, penso sia stata ingenuità. In questo caso da valutare come un errore che l’intendenza correntizia del Partito Democratico non poteva appoggiare giulivamente.

   Mi pare che la consapevolezza che, numericamente, i parlamentari e gli elettori del Movimento Cinque Stelle sono essenziali ad una qualsiasi alternativa al centro-destra di Meloni, non sia ancora stata pienamente raggiunta. Poi, naturalmente, si pone il problema della compatibilità politica. Su alcuni aspetti cruciali, il sostegno all’Ucraina aggredita dalla Russia e i rapporti con l’Unione Europea, le distanze sono tali da rendere praticamente impossibile la formazione di una coalizione che si candidi al governo. Senza escludere strascichi, sperabilmente non rancorosi, l’Ucraina potrebbe non essere più un problema fra qualche, breve, tempo. Sarà la campagna per l’elezione del Parlamento europeo nel giugno 2024 a dire quanto distanti/vicini possono trovarsi il PD e le Cinque Stelle. Al momento, le premesse non sono entusiasmanti.

Poco entusiasmo anche in casa del Partito Democratico che la segretaria Schlein ha chiamato alla mobilitazione estiva dalle montagne alle spiagge, dalle Alpi alla Sicilia. Al proposito, il problema non è tanto che la maggior parte dei dirigenti e forse persino dei militanti sono da tempo disabituati alla mobilitazione (una lezione di vita politica) quanto, piuttosto, che non è chiaro con quali attrezzi concettuali e ideali si presentino agli italiani/e. Schlein sostiene che bisogna accentuare (forse scoprire, forse darsi) l’identità del Partito Democratico. Allora di questo dovrebbe prioritariamente discutere negli organismi dirigenti. Dubito, lo scriverò in politichese, che la gente si appassioni all’identità. Quello che ho imparato è che la grandissima maggioranza dei cittadini nel mondo democratico vuole conoscere le priorità che un partito sceglie e le soluzioni che propone. Le une e le altre per essere trasmesse e spiegate necessitano del vigoroso e convinto apporto delle minoranze interne al Partito Democratico. In spiaggia, sui monti, nelle città d’arte.     

Pubblicato il 21 giugno 2023 su Domani

Pasquino: «Pd, che errore avere tenuto ai margini la cultura politica socialista» #intervista @Avantionline

Intervista raccolta da Giada Fazzalari

“Solo restando ancorati all’Europa la sinistra e il Pd possono trovare ispirazione per creare una cultura riformista “vera”, anche radicale, che oggi manca nello scenario politico italiano” – dice Gianfranco Pasquino, Professore Emerito di Scienza Politica all’università di Bologna, uno dei più intelligenti e acuti pensatori e intellettuali italiani del secondo dopoguerra. Per Pasquino, che tratteggia un affresco dell’Italia politica, il Terzo Polo, vicino alla rottura, è “una cosa poco interessante, un accordo di potere tra Renzi e Calenda che è servito a qualcuno di loro per rientrare in parlamento e per far perdere la sinistra e il Pd alle elezioni”, mentre il Governo, fatto di persone “con poca esperienza e spesso poca competenza, pratica misure che gettano fumo negli occhi ma sostanzialmente non ha fatto nulla che rimanga”.
“Il lavoro intellettuale
Cos’è, come si fa, a cosa serve”
(Ed. Utet) è il libro di Gianfranco Pasquino in uscita il prossimo 2 maggio 2023