L’identità di un partito riformista non comincia dal buongoverno, come pensa qualche presunto politologo di strada, ma dalla visione e dalle proposte con le quali arriva al governo. Il commento di Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza politica e socio dell’Accademica dei Lincei
Nella autorevole persona di Francesca Scaringella, Formiche mi chiede di scrivere sulla ricerca dell’identità perduta del Partito Democratico. Mission impossible. Il Partito Democratico, il PD realmente esistente, non ha mai avuto nessuna identità. Oserei affermare che è nato programmaticamente per cancellare l’identità dei comunisti, che ci avevano già messo moltissimo da parte loro, con successo, erano anche riusciti a tenere fuori qualsiasi identità socialista, mentre i cattolici democratici si accontentarono dell’áncora di salvezza loro offerta dal seminuovo partito, si accomodarono nei posti di governo ai quali erano abituati e non sentirono nessun bisogno di rielaborare la loro identità né di contribuire a una identità nuova, riformista/riformatrice. Qualche fiancheggiatore, la cui cultura economica, più o meno ampia e valida che sia, non può supplire alla carenza assoluta di cultura politica, disegnava una identità liberal-socialista, con liberali inesistenti e senza socialisti ingombranti. Adesso, sembra che l’identità del PD, a sentire quei qualcuno, si possa definire tenendo lontani i pentastellati di ogni ordine e grado e avvicinandosi, anzi prostrandosi ai renziani e ai calendiani, della cui cultura politica e costituzionale è peraltro non solo lecito, ma imperativo dubitare.
L’identità di un partito riformista non comincia dal buongoverno, come pensa qualche presunto politologo di strada, ma dalla visione e dalle proposte con le quali arriva al governo. Per ora, meglio che i piddiccini (sic) si (pre)occupino del Manifesto dei Valori. Attualmente, l’incipit è sconfortantemente similberlusconiano : “Noi, i Democratici, amiamo ‘Italia”. Forse, un partito riformista dovrebbe subito dare a sé e agli italiani, patrioti o no, una prospettiva limpida: “Noi, i Democratici, desideriamo una Italia migliore” e poi indicare in ordine di priorità in che modo, con quali politiche, con il sostegno di quali ceti, miglioreranno l’Italia. Non è il mio compito, ma nessuna Italia sarà mai migliore se si allontana dall’Europa.
Quello che vedo è che, comunque, il dibattito sull’identità è una cortina fumogena per nascondere e salvare le correnti, chiedo scusa, le diverse “sensibilità” che, insomma, lo abbiamo imparato tutti (meno chi scrive), sono una ricchezza, un patrimonio prezioso, l’Eden del pluralismo gioioso. Infatti, esistono correnti nella SPD, nel Partito Laburista e, prova provata e definitiva, nel Partito Democratico USA dove, utile a sapersi, i Rappresentanti sono eletti, mai paracadutati, in collegi uninominali. Davvero quelle correnti sono in qualche modo assimilabili alle correnti nel PD? E quali sarebbero poi le brillanti idee che sono emerse dalle correnti e che vengono più o meno periodicamente a occupare il centro del dibattito politico? Possibile che nello splendore e nel clamore del dibattito di idee e di identità non trovino lo spazio che (non) meritano le idee delle donne del PD? Benvenuta Elly Schlein, verso quale identità orienterai il PD? Credi che esista una identità “movimentista” che qualcuno ti attribuisce? Che cosa sai di come si organizza e funziona un partito politico? ritieni utile imparare qualcosa in materia oppure chiederai a Bonaccini, il ticket sarà Schlein-Bonaccini, giusto? E l’indicazione del ticket si trova nello Statuto vigente?
Care Formiche, un giorno a vostra insistita richiesta risponderò anche alle mie domande. Comunque, almeno l’inizio di tutte le risposte is, come cantò Bob Dylan, blowing in the wind. Sarà ad ogni buon conto troppo tardi e, forse, troppo poco. Tuttavia, don’t worry. Non l’istinto quanto la feroce determinazione delle correnti assicura la sopravvivenza di questo PD: diritti, Europa, lotta alle diseguaglianze. Avanti popolo (delle sedicenti primarie).
Il Partito Democratico non si lascia abbattere dalla situazione attuale nella quale il governo Meloni non sembra in nessun modo indebolito dai suoi errori di comunicazione e di azione, dalla disciplina del rave party allo schiaffo ricevuto dai francesi sull’immigrazione. Annunciata una opposizione dura, ovvero la faccia feroce, il Pdi continua sulla strada che lo porterà a febbraio 2023 al Congresso e all’elezione, curiosamente definita “le primarie”, del nuovo segretario. Donna o uomo, sarà l’ottavo dal 2007 e di nessuno di loro si ricordano imprese memorabili, salvo Renzi che non solo portò il partito al suo maggiore insuccesso elettorale, ma poi se ne andò con un non piccolo bottino di parlamentari che era riuscito a fare eleggere.
Sono sbagliate le politiche che il PD ha promosso e sostenuto nei suoi molti lunghi anni di governo oppure a destare preoccupazione è la struttura di un partito organizzato in correnti i cui capi e seguaci tornano regolarmente in Parlamento anche se il partito perde voti e elezioni? Davvero il problema è che il PD non guarda al lavoro (ma l’ultimo ministro del lavoro era un autorevole parlamentare del partito) e non affronta le disuguaglianze? Ma c’è qualcuno, leader politico, partito, studioso, in Italia e altrove che ha formulato adeguate politiche egualitarie? Curiosamente, secondo me sbagliando alla grande, coloro che si sono candidati alla segreteria del partito, si sono variamente esibiti su quali politiche farebbero se vincessero, sul programma del loro partito. Anzi, i due uomini, il presidente dell’Emilia Romagna e il sindaco di Pesaro, battono sulla loro capacità e le loro esperienze amministrative, mentre la donna attualmente in lizza sottolinea l’importanza del ruolo svolto come Ministro.
Discutere della struttura che dovrebbe avere il PD per svolgere al meglio oggi l’opposizione domani compiti di governo può non essere entusiasmante, ma è essenziale. Un partito che non ha una presenza territoriale reale e diffusa difficilmente riuscirà a capire il disagio di elettori che dovrebbe rappresentare e a accoglierne le domande più significative. Da quegli ambiti, poi, saprebbe selezionare persone e candidature alle quali gli elettori si rapporterebbero con fiducia e con frequenza. Questa politica che parte dal basso promette di essere molto più efficace di quella dei capicorrente seduti a Roma. Addirittura, è probabile che la politica fatta sul territorio indebolirebbe i capicorrente obbligandoli a impegnarsi anche loro a quel livello e a produrre idee e soluzioni sotto l’impulso e la guida del segretario. Nulla di tutto questo si è finora sentito dalla voce di coloro che sono scesi in campo. Addirittura, due di loro pensano di cumulare il ruolo politico con la carica amministrativa che già ricoprono senza inconvenienti di tempo e di energie: supermen. Il PD sopravviverà, ma senza un salto di qualità nel pensiero prima che nell’azione, continuerà soltanto a galleggiare nella politica italiana.
Fra le numerose problematiche del Partito Democratico, vecchie, fin dall’origine, e recenti, ma non nuovissime, presentatesi in corso d’opera, c’è quella del suo essere partito, del suo modello. Nella campagna, che è molto sbagliato definire “primarie”, per l’elezione del segretario, nessuno dei contendenti, coperti e scoperti, ha finora fatto qualche cenno significativo del modo con il quale il PD dovrà (ri)strutturarsi. Già, l’argomento non è affatto trascinante, sexy (ma forse potrebbe diventarlo). Tuttavia, mi pare cruciale proprio per riuscire a mettere dirigenti e rappresentanti a tutti i livelli a contatto con gli iscritti e con i simpatizzanti. Allora, invece di limitarsi saccentemente a affermare che gli elettori sono (diventati) volubili, cambiano spesso opinione e voto, fenomeno che riguarda al massimo un terzo dell’elettorato, gran parte dei cambiamenti avvenendo nella stessa area politica fra partiti limitrofi(ssimi), il segretario si porrà il compito non soltanto di trattenerli, ma anche di andare a cercarli. Un tempo, ben prima che lo dicessero i comunisti, neanche tutti, il grande Maurice Duverger sostenne che compito dei migliori fra i partiti era quello di trasformare i simpatizzanti in iscritti e gli iscritti in attivisti. Non è facile dire quando il compito fu silenziosamente abbandonato dai dirigenti del PDS e DS. Sappiamo che il reclutamento democristiano stava solidamente nelle mani dei capicorrente per i quali il numero degli iscritti (alla corrente) era il più potente strumento al tavolo dei negoziati per l’attribuzione di qualsiasi carica: di partito, nelle amministrazioni, al governo. Qualcosa del genere è rimasto anche nel PD, poco virtuosamente esercitato dai leader delle “sensibilità” e mai contrastato dallo stesso segretario che preferisce accontentare i “sensibili” che lo sostengono. Naturalmente, sarebbe/sarà molto difficile per chi diventerà segretario/a del partito combattere alcune pratiche deteriori già fortemente consolidate. Potrebbe cominciare a chiarire a coloro che andranno ai cosiddetti gazebo che vuole radicare il partito sul territorio e che cercherà di collocare le sedi, i circoli, non nelle zone, comunque, pochissime, dove il partito è elettoralmente forte, ma dove c’è maggiore disagio sociale e minore presenza di associazioni dei più vari tipi. Lo slogan potrebbe essere: “fuori dalla ZTL dentro le periferie” (non solo geografiche). Lì, gli iscritti e i dirigenti instaureranno relazioni operative, altro che disintermediazione!, con le associazioni esistenti, faranno “battaglie” comuni, tenteranno di portare cultura politica. Se, come disse un grande speaker democratico della Camera dei rappresentanti USA, “all politics is local politics”, il radicamento territoriale porterà molti buoni frutti: capire meglio il sentiment di quegli elettori, individuare chi ha voglia di politica e ha talento, favorire la crescita sociale dei più bravi, dare migliore rappresentanza ai territori. Certo, nessuna rappresentanza politica del PD diventerà migliore se continuerà la deprecabile pratica di paracadutare candidati/e che poi non faranno politica sul territorio e non potranno essere portatori delle esigenze neanche dei loro elettori che lui non conosce e loro non conoscono lui (che se ne andrà in un altro collegio sicuro, se ne rimarranno, senza mai rendere conto di quel che ha fatto, non fatto, fatto male). In coda sta il mio leit-motiv: di quale cultura politica deve dotarsi il Partito Democratico? Gramsci, direbbero i sostenitori della cancel culture, è un uomo bianco morto, ma forse il suo pensiero su quanto importante è la/una cultura per acquisire consenso mantiene validità. Caro/a futuro segretario/a, prima che sulle bollette, esprimiti su una visione di partito.
“Sto con Letta. Ha fatto bene a presidiare la piazza di Roma”
Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza Politica a Bologna spiega che «il governo va contrastato con le idee, non con il cambio di segretario» e che quindi il problema del Partito democratico «non è accelerare i tempi del Congresso ma produrre delle idee». Secondo Pasquino «finora il dibattito è stato deludente» perché «i candidati parlano di politiche ma si tratta di ricostruire il partito dalle fondamenta» .
Professor Pasquino, Letta ieri ha scritto che l’opposizione sta contrastando le politiche del governo sull’immigrazione, ma a Catania c’è Aboubakar Soumahoro e non qualche dirigente del Pd. Trova che i dem stiano sbagliandostrategia?
Il problema dell’immigrazione non riguarda i partiti o i dirigenti ma l’intero paese, e quindi chiunque sia al governo dovrebbe riuscire a coinvolgere l’opposizione. Il problema è che non abbiamo la soluzione in casa e che è un problema europeo. È l’unico caso in cui mi sento di dire che l’Ue porta una responsabilità pesante. Non riesco a immaginarmi un segretario di partito, peraltro dimissionario, che va li per risolvere la situazione. Anzi, farebbe solo peggio.
Dunque i politici che sono lì in questo momento sbagliano?
Sbagliano e penso che lo facciano solo per un po’ di popolarità e visibilità. Che Sinistra italiana abbia una posizione diversa dal Pd lo sappiamo, ma “accogliere tutti” non è la soluzione. Apprezzo la bontà di Soumahoro, ma la sua non è una soluzione politica.
Torniamo a Letta, che domenica è stato contestato alla manifestazione di Roma. Pensa abbia sbagliato ad andare?
Letta ha fatto benissimo ad andare per portare a quella manifestazione la posizione del Pd, che io condivido totalmente e che peraltro non tutti nel Pd condividono. Si è preso una responsabilità importante perché ci crede. Quella non è solo la sua posizione personale ma spero della maggioranza del partito. Non doveva lasciare la piazza agli equidistanti, che non fanno parte del Pd.
Eppure nelle stesse ore a Milano c’era un’altra manifestazione molto più vicina alle posizionidi Letta, non poteva andare lì come hanno fatto altri esponenti dem?
Bisogna andare dove c’è una posizione opposta o comunque diversa dalla tua, per testimoniarne l’esistenza. A Milano Calenda e Renzi avrebbero comunque controllato la manifestazione e messo Letta in una posizione difficile. Quella era una manifestazione molto vicina alla linea del Pd, è vero, ma proprio per questo Letta non avrebbe portato nulla di utile.
Il segretario dem ha auspicato ieri un’accelerazione sui tempi del Congresso, condivisa da Bonaccini. Crede che anche da questo passi un’opposizione più dura al governo Meloni?
Non penso, perché il governo va contrastato con le idee, non con il cambio di segretario. Il problema non è accelerare ma produrre delle idee. Finora il dibattito è stato deludente. I candidati parlano di politiche ma si tratta di ricostruire il partito dalle fondamenta. E bisogna sapere che tipo di partito si vuole costruire. Si vuole o no un partito socialdemocratico che riscopra il rapporto con i sindacati così da riportare indietro milioni di voti? In queste settimane non ho visto idee, solo persone che si candidano. L’unica che ha proposto qualcosa è Paola de Micheli, ma in generale il dibattito è cominciato male e non finirà bene.
La ricostruzione passa anche dal voto in Lazio e Lombardia: quale futuro vede per il Pd dopo il “caso Moratti”?
Non sono un astrologo ma è chiaro che in Lombardia la mossa di Renzi e Calenda fa perdere il Pd. Se il Pd aveva una minima possibilità di vincere, con Moratti che portava via voti al centrodestra, questa mossa invece lo farà perdere. Nel Lazio bisogna che Pd e M5S giungano a un accordo. Se Calenda e Renzi vanno su Alessio D’Amato, indeboliscono l’eventuale alleanza tra dem e grillini ma al tempo stesso la facilitano perché chiariscono le idee agli elettori. Ma Pd e M5S o si mettono insieme o rinunciano a vincere le regionali.
Il centrodestra è davvero compatto? Certamente, il potere, la ricerca e l’esercizio del potere costituiranno una potente pomata rassodante e compattante, mai tale, però, da evitare scontri anche palesi e rumorosi, persino rischiosi, non soltanto per il governo, ma soprattutto per il Paese. Il commento di Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza politica e accademico dei Lincei, autore di Tra scienza e politica. Una autobiografia (Utet) e curatore di Fascismo. Quel che è stato, quel che rimane (Treccani)
Dimenticheremo presto, spero, i discorsi, meno i trascorsi, dei neo-Presidenti di Senato (Ignazio La Russa) e Camera (Lorenzo Fontana). Li aspettiamo alla prova mentre nei nostri occhi sono rimaste le memorabilia fasciste gelosamente custodite e generosamente esibite da La Russa e nelle nostre orecchie risuonano le affermazioni omofobe e (filo)putiniane di Fontana. Il centro-destra poteva fare meglio, ma almeno già sappiamo che il prossimo Presidente della Repubblica non verrà dalle due più alte cariche del Parlamento. Abbiamo anche visibilmente imparato che sui nomi il centro-destra è tutto meno che compatto. Va a prove di forza e a scontri finendo, seppure in maniera involontaria, di inserire qualche puntuto cuneo nei ranghi delle opposizioni. Queste, Partito Democratico, Movimento del Conte, Calenda e Renzi (i cui protagonismi non stanno nella stessa stanza per ragioni di stazza), promettono di essere dure, intransigenti, ad oltranza, ma qualcuno pensa che il suo voto potrà valere un incarico a futura memoria. Questa è la politica, commenta un ex-dalemiano su twitter. No, questo è soltanto una delle incarnazioni della cattiva politica che infanga la politica e dà la colpa ai populisti che, irresponsabili, incassano, gongolano e passano oltre. L’incasso non tarderà.
Il quesito è, ma doveva già essere stato sollevato dai commentatori troppo spesso genuflessi, se le due elezioni parlamentari, in misura diversa, non segnalino che il centro-destra è tutto meno che compatto. Certamente, il potere, la ricerca e l’esercizio del potere costituiranno una potente pomata rassodante e compattante, mai tale, però, da evitare scontri anche palesi e rumorosi, persino rischiosi, non soltanto per il governo, ma soprattutto per il paese. Fra breve vedremo più acutamente alcuni di questi scontri sui nomi dei ministri, anche donne. Politici e tecnici per me mai pari sono, ma in una democrazia decente entrambi verrebbero nominati con riferimento a competenza, esperienza e lealtà (elemento da non trascurare mai) politica che per me va al capo del governo e al programma sottoscritto, non ai capi dei partiti che, invece, a loro volta, dovrebbero essere impegnati e giudicati sul programma. Ne vedremo delle belle (sic) e delle brutte (ri-sic), ma è giusto esigere motivazioni articolate per entrambe. Poi, naturalmente, i voti contano e, temo, conteranno anche alcuni ricatti.
Lascio i ricatti alle loro nefaste traiettorie, e concludo con i ricordi. Il ricordo più bello è quello di una elegante signora novantenne che rappresenta un pezzo di storia d’Italia e d’Europa, del fascismo e della nazismo, dell’antisemitismo e delle discriminazioni, della democrazia. La senatrice a vita Liliana Segre, nominata da Mattarella, ha sintetizzato in poche precise e ammirevoli parole che cosa i politici (e i cittadini) dovrebbero fare per un’Italia migliore: applicare la Costituzione, seguendola anche, anzi, soprattutto, se la si vuole riformare (art. 138). Metaforicamente, il dito della Sen. Segre, che non sarebbe stata lì se il fascismo non fosse stato sconfitto, indicava la luna, ma non guardate solo la luna, guardate anche di chi è quel dito. Di una grande donna che testimonia che è possibile combattere, con perseveranza e grazia, odio e ingiustizie e vincere.
I ringraziamenti espliciti, quasi plateali rivolti dal neo-eletto Presidente del Senato Ignazio La Russa ai senatori/senatrici che non fanno parte della maggioranza per averlo votato mandano due segnali politicamente molto significativi. Da un lato, comunicano a quei senatori/senatrici che sono benvenuti e che, quando ci sarà l’occasione, saranno adeguatamente ricompensati. Che i loro voti, palesi e segreti, continueranno ad essere più che bene accetti. In estrema sintesi, dietro l’angolo è nata quella che potremmo definire una maggioranza eventuale. Dall’altro, le parole del Presidente La Russa fanno sapere a Berlusconi, che ha imposto la scheda bianca/astensione ai parlamentari di Forza Italia, che i “buchi” da lui/loro lasciati possono essere riempiti rapidamente e in maniera abbondante con appoggi esterni. In un modo da non sottovalutare, i ringraziamenti di La Russa indeboliscono grandemente il potere di ricatto che Berlusconi strenuamente tentava di utilizzare sulla formazione del governo Meloni con la richiesta di un Ministero importante per la sua fedelissima (parola non mia di cui confesso non capire fino in fondo il significato) Licia Ronzulli.
Per quel che riguarda il centro-destra, il resto, vale a dire altre trame, vantaggi, reazioni, altri ricatti, altre convergenze più o meno inaspettate, lo si vedrà quando (e se) e con quanti voti verrà eletto il Presidente della Camera, che dovrebbe essere un deputato della Lega. Chi siano i senatori/senatrici che più o meno generosamente hanno deciso l’elezione di La Russa precisamente non lo sappiamo. Tuttavia, potremo avere qualche elemento conoscitivo e esplicativo in più, forse persino decisivo, quando verranno eletti gli uffici di Presidenza della Camera e del Senato.
Partito Democratico e Movimento 5 Stelle, in quanto rappresentanti i due gruppi più numerosi non hanno nessuna intenzione di cedere le vicepresidenze a Azione. Dunque, se il voto segreto premiasse un candidato/a espressione dell’area Calenda-Renzi diventerà fin troppo facile sostenere che si è prodotto uno scambio. La moralità non è il terreno su cui si fonda la politica né in Italia né, in maniera minore, altrove. Molte altre cariche istituzionali sono disponibili a cominciare dalle prestigiose e potenti Presidenze delle Commissioni. Altri scambi sono possibili e probabili dai quali, però, le opposizioni in ordine sparso risulteranno inevitabilmente e imprevedibilmente indebolite.
Al tempo stesso, però, l’imminente governo del centro-destra avrà al suo interno una componente (Forza Italia) amaramente insoddisfatta, non convinta, a meno di avere ottenuto molto nella formazione del governo, dell’obbligo politico di agire in maniera disciplinata e solidale. Poiché sono note anche le mire di Salvini per un Ministero, gli Interni, per il quale la Presidente del Consiglio in pectore ha già fatto sapere di preferire un’altra, non specificata, personalità, se ne può concludere che sul governo Meloni già si addensano non pochi pesanti nuvoloni.
Revisionare. Ricostruire. Rifondare. Rigettare. Rifare da capo. Ex novo. Si moltiplicano i verbi e hanno già fatto la loro comparsa coloro che quanto più sono platealmente candidati alla segreteria del Partito democratico tanto più dichiarano che non è il momento di fare nomi. E allora chi scrive non farà loro nessuna pubblicità. Fra l’altro sono nomi che non mi piacciono e non mi convincono.
Per capirne di più bisogna risalire alla fase in cui il Pd nacque e a come nacque. Quel 21 aprile 2007 c’ero anch’io a Campo di Marte, Firenze, al congresso di scioglimento dei Democratici di sinistra. Nella mia qualità di iscritto di base (unico partito di cui ho avuto la tessera in seguito all’invito del segretario regionale dell’Emilia-Romagna Antonio La Forgia, che mi piace ricordare qui), avevo persino portato in giro e promosso la mozione tre: “Un Partito democratico? Non subito, non così”.
Con Gavino Angius e Mauro Zani volevamo che si cominciasse a discutere, collaborare, mischiarsi a livello locale attraendo anche altre energie, altre persone interessate a quanto di nuovo sapessimo e potessero fare, altri saperi ed esperienze. Venni, lo metto sul personale, sonoramente sconfitto e più o meno elegantemente sbattuto fuori. Nella celebrazione dell’evento fra le lacrime e i sogni della grande maggioranza di coloro che già dirigenti erano e che a lungo lo sarebbero rimasti, le mie orecchie ascoltarono inadeguatezze, manipolazioni, errori.
Era ora che il Partito democratico diventasse il luogo di incontro delle migliori culture riformiste del paese: cattolicesimo democratico, gramscismo, ambientalismo, ecc. ecc.. Non trovò posto il socialismo e meno che mai i socialisti, non voluti né dai cattolici né dagli ex comunisti che avevano tenuto alte le loro critiche alle socialdemocrazie del nord Europa: inadeguate, incapaci di cambiare il capitalismo, logore, superate. Sì, c’era proprio di che piangere di fronte alla fusione fredda, senza entusiasmo, di due gruppi dirigenti.
FONDERE CULTURE POLITICHE
Nessun tentativo ad opera di nessuno di suggerire come le culture politiche fondanti vetuste e esauste potessero dare vita ad un nuova cultura politica.
Il Manifesto dei Valori, per me un documento della massima importanza, iniziava “Noi, I Democratici, amiamo l’Italia”, uno scimmiottamento deprimente dell’incipit della berlusconiana discesa in campo: “L’Italia è il paese che amo”.
Tutte le volte che ci penso riscrivo la prima fase in chiave riformista: “Noi, i Democratici vogliamo migliorare l’Italia.
Certamente non avrebbero potuto essere i due elementi che i “novisti” introdussero nel partito: “contendibilità” e “primarie” a costruire un partito nuovo, dinamico, progressista.
Se davvero democratico nel suo funzionamento, le cariche importanti di quel partito sarebbero state inevitabilmente e giustamente contendibili.
Quanto alle primarie, che, incidentalmente non sono mai le modalità con le quali si elegge il segretario del partito, ma sono strumenti utili per selezionare le candidature alle cariche elettive al tempo stesso mobilitando anche i simpatizzanti, furono subito piegate da Walter Veltroni a veicolo per la sua cavalcata estiva dal Lingotto alla segreteria del partito.
Ponendo l’accento quasi esclusivamente sulle politiche da fare, e nulla dicendo su quale partito volesse costruire, Veltroni portò più di una mina per fare saltare in aria il già periclitante governo Prodi.
Poi annunciò che il Pd era un partito “a vocazione maggioritaria”, da un lato, senza stupire coloro che sanno che i partiti cercano di ottenere il maggior numero possibile di voti, ma, dall’altro, preoccupando molto coloro che sanno che nelle democrazie parlamentari i governi sono di coalizione.
In seguito, soltanto due segretari del Pd scelsero di trovare parole d’ordine incisive: Pierluigi Bersani e Matteo Renzi.
Il primo annunciò di “voler dare un senso a questa storia”. Immagino il riferimento fosse alla storia del Partito comunista, con l’accento sulla variante riformista di governo di stampo emiliano.
Nessun tentativo di elaborazione e/o revisione di una nuova cultura politica.
Non da Matteo Renzi è plausibile attendersi una visione politica ispirata ad una qualsiasi cultura.
Infatti, la parola d’ordine “rottamazione” fa parte della cassetta, non delle idee, ma degli attrezzi populisti.
Funzionò almeno in parte. Il Renzi governante vi aggiunse un’altra parola populista: “disintermediazione”.
Nessuna associazione, nessun gruppo d’interesse, nessuna categoria professionale s’interponga fra il capo del governo e il popolo.
Non ricordo critiche e repulse interne a queste parole d’ordine e nemmeno elaborazioni alternative.
In verità non mi pare che dai Democratici siano stati fatti sforzi di comprensione delle sfide da affrontare e dei problemi da risolvere.
Appoggiarsi ai governi non-politici, sostenerne l’azione fino ad identificarsi con l’agenda del capo di quel governo significa non impegnarsi in nessuna attività di rinnovamento e di elaborazione culturale.
I segretari passano. Quelli che non passano sono i capi corrente, scusate, i coordinatori delle “sensibilità” all’interno di un partito plurale, cioè caratterizzato da oligarchie neanche troppo mutevoli. La disattenzione alla cultura politica rimane diffusa e alta.
IL PARTITO IRRIFORMABILE Sì, questo Partito democratico è irriformabile. Non sarà riformato da tutti coloro che ne hanno tratto prestigio, cariche e sostentamento per almeno un paio di decenni.
Non sarà riformato semplicemente sostituendo i “vecchi” con i giovani, riducendo il numero degli uomini per ampliare gli spazi politici a favore delle donne che, spesso, sarebbero quelle che si sono accodate agli uomini potenti.
I riformatori potrebbero volere guardare a due casi interessanti.
Primo caso: come François Mitterrand in Francia riuscì a incoraggiare e attrarre tutte, o quasi, le associazioni e club variamente capaci di elaborazioni riformiste (sì, lo so che, da un lato, il semipresidenzialismo, dall’altro, la legge elettorale maggioritaria a doppio turno in collegi uninominali imponevano di aggregarsi per non scomparire) per dare vita al Parti socialiste.
Secondo caso: l’Ulivo, il grande incompiuto. Fu la mobilitazione di un ampio schieramento di associazioni che intravedevano lo spazio per fare politica, non come professione, ma come vocazione temporanea, che sospinse al successo elettorale.
Poi, però, neppure gli ulivisti vollero, si dedicarono, seppero impegnarsi nella attività indispensabile per cambiare questo paese: elaborare una cultura politica all’insegna di una società giusta, europea e europeista, che riduce le eguaglianze e amplia le opportunità. Domani è un altro giorno.
Professor Pasquino, come lo vede il Pd in questo momento, verso il congresso?
«È un partito che si è accomodato al 20%, poi di tanto in tanto si tortura, dicendo di aver sbagliato per aver perso la rappresentanza di questi o di non riuscire più a parlare con quelli. Ma sono lacrime di coccodrillo; non fanno nulla per rimediare a una situazione che per me è insoddisfacente».
Che fare allora?
«Il partito è stato costruito male. Noi (Mauro Zani ed io), nel 2007, dicemmo che non bisognava farlo così, che si poteva giungere a un accordo tra ex-democristiani, ex-comunisti e altri. Ma che andava fatto lentamente, collaborando nelle zone locali, creando soprattutto un pensiero nuovo. Mancò la cultura politica. Possiamo raccontarci tutto quello che vogliamo sui leader, ma nessuno sarà mai adeguato se non è in grado di produrre e diffondere una nuova cultura politica».
Cosa significa?
«Che del Movimento 5 Stelle non ci interessa nulla, di Calenda e di Renzi non ci interessa nulla, che bisogna guardare a come si costruisce un partito progressista, socialdemocratico. C’è spazio in Europa per un partito socialdemocratico e laburista, bisogna pensare a come costruirlo in Italia. Questa operazione, invece, non è nemmeno ancora cominciata».
Dalle sue parole emerge un certo pessimismo.
«Sì. Vedo persone che si candidano, però io voglio sapere cosa vorrebbero fare, che cosa pensano di un partito socialdemocratico, socialista, progressista, laburista. E che idea abbiano della giustizia sociale, il rapporto tra merito ed eguaglianza, cosa debba essere la democrazia nei prossimi 10 anni in Italia, se toccare o meno la Costituzione».
Che risposte dovrebbero arrivare?
«Siamo un partito che è fermamente democratico, ma che sa che la democrazia di tanto in tanto deve essere riformata. Pensiamo che una società giusta sia quella in cui tutti i cittadini hanno opportunità e quindi vogliamo intervenire a ogni livello della vita: dai bambini, con scuole efficienti, consentendo a chi è bravo di andare avanti, evitare che i cervelli se ne vadano all’estero. Il Pd del prossimo futuro è un partito di opportunità, che si possono sfruttare al meglio attraverso lo Stato, con l’utilizzo di una burocrazia efficiente. Ci sono situazioni che richiedono interventi di riduzione delle disuguaglianze, ma non vogliamo una società di eguali, bensì di persone che vengano valutate anche sulla base del loro merito, che deve essere ricompensato. Quindi bisogna chiamare in causa i sindacati».
Perché?
«Un partito di questo genere deve sfidare i sindacati, che fra l’altro non si prendono nemmeno la responsabilità del fatto che un sacco di loro iscritti votino per la Lega e probabilmente per Fratelli d’Italia. Vorrei sentire parole di autocritica, perché sono loro che hanno perso i voti, non tanto il partito, ma loro».
Alcuni sostengono che il partito debba tornare a sinistra… lei?
«Non c’è mai stato. Non vuole dire niente tornare a sinistra. Ci si valuta sulle politiche che si fanno, non sulla collocazione geografica».
E sul tema dell’unità?
«Il partito non deve essere di correnti. Deve essere plurale, può accogliere tante posizioni, purché si sappia che una volta presa una decisione a quella si collabora o quanto meno non la si ostacola».
Un lavoro difficile.
«Certamente. Dopo di che rimarrà al 20%, inchiodato lì. E alcuni saranno anche soddisfatti; entrano in Parlamento, ci stanno una o due legislature, magari tornano sul territorio e si fanno un’attività di consulenza. Il Pd, soprattutto quello di Bologna e quello dell’Emilia-Romagna, è un datore di lavoro straordinariamente generoso».
Le primarie per il segretario? Sì o no?
«Intanto, l’elezione del segretario di un partito non è una primaria. Quando Letta dice: “solo 2 candidati” sbaglia, debbono essercene molti di più. Alcuni di noi pensano che il segretario di un partito debba essere eletto solo dagli iscritti».
Chi vedrebbe alla leadership? Bonaccini?
«Ripeto. Nessuno mi ha detto che partito vuole costruire, magari guardando come sono costruiti i partiti di sinistra in Europa. Non so che idea abbia, ma se è l’idea di partito che aveva Renzi credo che sia inadeguata».
Nostalgia del partito che fu?
«Certo, perché nel Pci, a cui io non fui mai iscritto ma i cui elettori mi votarono in Parlamento, c’era un dibattito serio, argomentato; c’era gente che leggeva libri e articoli, si faceva una sua opinione. Qua al massimo leggono qualche tweet e si presentano in qualche talk show televisivo».
Pubblicato il 7 ottobre 2022 su Il Corriere di Bologna
“Faremo un’opposizione dura, senza sconti, intransigente. Costruiremo un partito aperto, inclusivo, plurale.” Sono questi i propositi, nient’affatto originali, dei dirigenti del Partito Democratico. Alcuni di loro, poi, candidandosi alla carica di segretario del partito, aggiungono, forse soprattutto per scaramanzia e per non “bruciarsi”, che non è il momento di fare i nomi. Sbagliato. I nomi comunicano molto, a cominciare dalla biografia politica (raramente c’è anche una biografia professionale), dall’appartenenza correntizia (pluralismo di “sensibilità”) e da quanto detto e fatto nel passato. Quello che dai nomi che “scendono in campo” non è possibile sapere sono le idee, le prospettive, le visioni, non del mondo che verrà, ma del tipo di partito che ciascuno/a degli aspiranti ha in cuor suo. Il fatto è che nessuno è in grado di definire che cosa è oggi il Partito Democratico. Certamente, non è mai diventato quello che i suoi frettolosi fondatori, fra lacrime e sogni, annunciarono nel lontano 2007: il luogo dove si incontravano le migliori culture riformiste del paese, dal gramscismo al cattolicesimo democratico, dall’ambientalismo all’antifascismo. Che mancasse il socialismo e che i loro migliori interpreti fossero assenti da queste grandi contaminazioni e ibridazioni sembrò non preoccupare più di tanto. D’altronde, i successori del comunismo all’italiana avevano dichiarato inadeguate, inefficaci, in crisi, logore tutte le esperienze socialdemocratiche che avevano dato un contributo grandioso alla politica e alle società dell’Europa non solo del Nord. Però, esperienze laiche che non piacevano neanche ai cattolici, non avevano cambiato e meno che mai abolito il capitalismo (sic). Ne seguì un organismo sostanzialmente privo di una cultura politica, che non è mai soltanto una bussola per orientarsi nella folla dei partiti. Una cultura politica è lo strumento per mettere insieme una comunità di persone intorno a principi e valori non solo costituzionali, e per offrire all’elettorato la certezza o quantomeno l’indicazione affidabile del tipo di società che quel partito si impegna costruire, con chi, ad esempio, con le altre democrazie europee, con quale visione di giustizia sociale. Chi, se non un partito democratico, può assumersi questo nobile obiettivo politico? Stati generali, primarie delle idee, agorà e altre modalità di incontro (no, elaborazione non posso proprio scriverlo) non hanno mai preso di petto la necessità di formulare, certo in un mondo che cambia, una cultura politica progressista. Il professore suggerirebbe, da un lato, che esistono molti libri da leggere e, dall’altro, molte esperienze da studiare. Cinque anni di opposizione offrono il tempo adeguato per studiare. Lo potrebbero, anzi, dovrebbero fare, se ne hanno le capacità, i (non)candidati e le (non)candidate alla segreteria del PD. Se non ora, quando?
Intervista raccolta da Francesco Spagnolo. Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza Politica, in esclusiva a ‘Notizie.com’: “La storia del Pd è molto triste”.
Professor Pasquino, si aspettava una vittoria così netta di Fratelli d’Italia?
“Non mi aspettavo un successo così schiacciante della Meloni, ma una vittoria sì. Ha vinto alla grande e peraltro portando via voti a Salvini e a Berlusconi. Il Centrodestra grossomodo è dove lo davano le previsioni con Fratelli d’Italia più avanti perché ha strappato voti agli altri due partiti“.
Lei ha parlato di voti strappati a Salvini e Berlusconi. Questo potrebbe portare tensioni all’interno della coalizione?
“Qualche tensione ci sarà inevitabilmente perché Salvini è irrequieto, molto nervoso e invidioso e rimane con la sua ambizione. Sente che la sua carriera politica è in difficoltà e cercherà di appropriarsi di qualche tematica, essere molto presente mediaticamente. Ma penso che Giorgia Meloni abbia abbastanza larghe per controbattere, ma qualche tensione me l’aspetto. Berlusconi è in declino totale, la sua classe dirigente si sta liquefacendo e quindi non è un grosso problema“.
Possiamo parlate di Salvini e Letta come grandi sconfitti?
“Salvini sicuramente sì, secondo me Letta non è un grande sconfitto. Ha perso perché pensava di arrivare sopra il 20%, ma lo ha fatto in maniera elegante. E’ un uomo competente, che conosce la politica e non ha mai esagerato. La sconfitta non è sua ma del Pd perché i dirigenti non fanno quello che dovrebbero fare. Dopodiché Letta ha preso atto della sconfitta ed ha detto che si dimette però continua una brutta storia che si chiama Partito Democratico, che non riesce a radicarsi, trovare delle tematiche, non riesce a darsi una unità e una visione“.
Chi potrebbe essere il nome giusto per rilanciare il Pd?
“Non c’è nessun nome giusto. Credo che ci sono molti uomini ambiziosi, ma presumo che faranno un tentativo di trovare una donna. Sembra che questa sembra Elly Schlein sia chissà che cosa, ma io penso di no. Dovrebbero fare delle primarie vere e non contrattate in anticipo. La storia del Partito Democratico è molto triste“.
Il M5s ha avuto una crescita importante al Sud. Un risultato inaspettato alla vigilia per i pentastellati.
“Il fatto del reddito di cittadinanza è molto importante al Sud e quindi hanno cercato di difenderlo sostenendo Conte, ma questo non basta. Un partito che arriva al 17% può essere contento, ma ricordo che quattro anni fa era al 33% e quindi ha perso il 16% dei suoi elettori. Possono festeggiare di non essere andati malissimo, ma non possono dire di aver ottenuto un grande risultato“.
Delusione invece per il Terzo Polo e Di Maio.
“Di Maio evidentemente non si è radicato, ma nella zona di Napoli aveva dei concorrenti molto agguerriti iniziando dal fatto che il presidente della Camera non lo sosteneva. Il Terzo Polo non è mai esistito. Era una riunione degli ego di Calenda e Renzi visto che il vero Terzo Polo sono i pentastellati. Hanno anche utilizzato una caratterizzazione sbagliata e illusoria per cercare di catturare gli elettori“.