Home » Posts tagged 'populismo'
Tag Archives: populismo
Meloni ferita nell’orgoglio dal caso Almasri si (ri)legga Montesquieu @DomaniGiornale

Molta acqua è passata sotto i ponti di Parigi, di Londra, di New York e Washington, certamente anche di Roma, da quando nel 1748 il barone di Montesquieu formulò e argomentò uno dei principi fondamentali delle democrazie: la separazione dei poteri. Per evitare il despotismo, allora, monarchico, è indispensabile che il potere esecutivo ceda il potere legislativo e il potere giudiziario ad organismi appositi che eserciteranno quei poteri con grande, rispettata autonomia. Passarono pochi anni e sull’altra sponda dell’Atlantico nelle originali e preziose riflessioni de Il Federalista (1787-1788) Hamilton e Madison si espressero a favore di “istituzioni separate che condividono i poteri” con nessuna istituzione posta in condizione di prevalere sulle altre, se non temporaneamente e, comunque, in maniera, entro certi limiti, controversa e controvertibile.
Abitualmente nelle democrazie i contrasti più frequenti si svolgono fra i detentori del potere esecutivo e gli operatori del potere giudiziario. I primi che, pure dovrebbero essere consapevoli che i loro atti sono sempre suscettibili del controllo di legalità, di conformità alla Costituzione e alle leggi vigenti, si fanno sempre forti del consenso elettorale. Hanno vinto le elezioni. Traducono e eseguono un mandato politico. Il popolo è con loro, non con i magistrati che di voti non ne hanno e, probabilmente, non ne otterrebbero. Questa giustificazione di chiara impronta populista è molto frequentemente utilizzata, ma non per questo più convincente e accettabile. Né è possibile sostenere che le decisioni assunte in sede giudiziaria contraddicendo quanto fatto dai detentori del potere esecutivo configurino una situazione di governo dei giudici i quali, non eletti, usurperebbero il potere degli elettori, del popolo, quindi sovvertendo la democrazia.
Pulsioni populiste e scivolate in direzione autoritaria sono apparse anche nell’ambito del mondo “progressista” italiano, espresse e alimentate, ad esempio, dai variegati sostenitori della democrazia “decidente”. Ridurre i lacci e i lacciuoli a chi avendo vinto le elezioni ha (avrebbe) non soltanto il potere, ma anche il dovere di decidere secondo le sue preferenze e il programma sottoposto all’elettorato e, in qualche modo e misura, approvato fu l’obiettivo sbagliato di quei terribili semplificatori.
Una concezione, alquanto schematica, di questo tipo porta inevitabilmente, da un lato, a criticare pesantemente tutti coloro che chiedono il rispetto rigoroso delle regole e ritengono corrette le sanzioni contro chi le viola. Dall’altro, implica che esista una gerarchia di decisori in base al potere politico di cui dispongono. Dunque, le decisioni, appunto, più importanti debbono essere prese dai detentori delle cariche di governo più elevate. Da qui, fermo restando che lasciare libero il generale libico Almasri è stata, sostengono, una decisione politica con la quale i magistrati europei e italiani non dovrebbero interferire, proviene la rivendicazione della Presidente del Consiglio Meloni della sua responsabilità politica. Mandare al giudizio del Tribunale dei Ministri soltanto i Ministri dell’Interno e della Giustizia e un sottosegretario significa riconoscere che tutt’e tre hanno uno spazio decisionale autonomo e una specifica responsabilità politica. Questo riconoscimento turba profondamente Giorgia Meloni che lo sente e lo interpreta come una grave diminutio della sua autorità e autorevolezza. Non è lei che controlla tutto e decide tutto.
Il suo dispiacere e la sua irritazione, immediatamente condivisi dai suoi sostenitori, rivelano una brutta e sgradevole concezione della democrazia. Potere politico concentrato nel vertice, potere dell’esecutivo che non deve essere sottoposto al controllo della legge sono entrambe posizioni che si scontrano, lo scrivo con un po’ di retorica democratica, con i principi formulati da Montesquieu e da Hamilton e Madison. Quella strada porta in una direzione sbagliata, pericolosa.
Pubblicato il 6 agosto 2025 su Domani
La democrazia al tempo di X, fra polarizzazione, intelligenze artificiali e fake news #ParliamoneOra #5aprile #Bologna


Nell’ambito delle iniziative congiunte di ParliamoneOra e dell’Università di Bologna su temi della contemporaneità, venerdì 5 aprile dalle 17 alle 19:30 presso l’aula Prodi complesso di San Giovanni in Monte.
Nel 2024 andranno al voto 4 miliardi di persone. Andranno al voto alcuni dei paesi più popolosi al mondo e alcune delle democrazie storicamente più robuste.
Il sistema di rappresentanza attraverso i partiti politici è ancora un modello valido per organizzare il consenso rispetto alle “bolle” di mono-pensiero dei “social”? L’elezione diretta dei capi di governo garantisce l’espressione della volontà popolare? Fino a che punto gli strumenti di comunicazione di massa, lo sviluppo dell’intelligenza artificiale, l’uso sistematico della disinformazione, possono influenzare se non determinare gli esisti elettorali?
Ne discutiamo con
Fulvio Cammarano (Storia Contemporanea)
Donatella Campus (Scienza Politica, Università di Bergamo),
Giovanna Cosenza (Filosofia e Teoria dei Linguaggi),
Andrea Morrone (Diritto Costituzionale),
Gianfranco Pasquino (Professore emerito di Scienza Politica),
coordina Dario Braga (presidente onorario di ParliamoneOra)
E’ possibile anche seguire in collegamento da remoto collegadosi a
ID riunione: 363 457 587 166
Passcode: a3aXYm
Ma quali due mandati. Pasquino sulla proposta dei 5 Stelle @formichenews

Secondo il professore emerito di Scienza Politica e accademico dei Lincei, il limite di due mandati elettivi per i parlamentari non è solo populista, ma anche illiberale e antidemocratico. Aprire su questo un serio dibattito all’interno del Movimento sarebbe una buona notizia
Il limite a due mandati elettivi per i rappresentanti del “popolo” in Parlamento e altrove non è soltanto una misura populista. È una misura sbagliata, illiberale (contro la libertà) e sostanzialmente anti-democratica. No, non esagero e, prima che mi si opponga, che esiste in altri contesti, ad esempio, in America latina, dalla Costa Rica al Messico, presento per esteso la mia argomentazione. Premessa: imporre un limite ai mandati dei capi degli esecutivi eletti direttamente dal “popolo” ha un senso molto diverso. Significa, se non impedire, quantomeno rendere molto difficili la costruzione e la manutenzione di reti di potere ad opera del sindaco, del governatore, del Presidente. Nessun singolo parlamentare potrà mai essere assimilato al capo di un esecutivo né potrai ma accumulare tanto potere e esercitarlo direttamente.
Primo, il limite del doppio mandato è populista perché soddisfa le esigenze di una parte, difficile dire quanto grande, di elettori che nutrono la convinzione che i rappresentanti si fanno gli affari loro e non si occupano dei problemi della gente. Quindi, bisogna impedire loro di continuare nell’andazzo, fare finire la pacchia. D’altronde, uno vale uno e chi seguirà non sarà peggiore, anzi, c’è il rischio che, occasionalmente, sia migliore. Tutti possono fare politica e poi come valutare le competenze e gli apprendimenti? Qui sta, naturalmente, una batteria di errori. Il parlamentare deve avere un tot di conoscenze iniziali, superiori a quelle di un artigiano (il famoso/igerato idraulico), e se frequenta il Parlamento, le commissioni, l’aula, può imparare molto riguardo la lettura e la valutazione dei testi di legge, la stesura di emendamenti, la comunicazione politica a cominciare da quella con i suoi elettori (peraltro, operazione non facile con le recenti leggi elettorali italiane).
Secondo, il limite ai mandati è illiberale. Infatti, limita la libertà dei parlamentari di ripresentarsi a loro piacimento. Dunque, se imposto, violerebbe un loro diritto politico fondamentale che sta all’inizio della storia delle democrazie liberali e vi si accompagna quasi dappertutto.
Infine, il limite ai mandati è antidemocratico ovvero incide negativamente sul potere del popolo sovrano, quel potere che consente ai cittadini non soltanto di scegliere (eleggere) senza previe discriminazioni attraverso una impersonale mannaia burocratica, ma anche di giungere attraverso una valutazione politica di quello che il parlamentare ricandidato/si ha fatto, non ha fatto, ha fatto male, ad una sua bocciatura.
Vadano le Cinque Stelle al rispetto di una loro regola tanto fondamentale quanto sbagliata e produttiva di conseguenze pessime, come sembra adombrare la più recente dichiarazione del Ministro Di Maio, uno dei più autorevoli decapitabili, oppure no, renderebbero comunque un significativo servizio alla democrazia parlamentare, alla sua funzionalità, alla sua rigenerazione, se aprissero un trasparente dibattito pubblico sul pro e sul contro al limite di due mandati.
Pubblicato il 18 giugno 2022 su Formiche.net
INVITO “Europeismo che c’è e che verrà” #Pesaro #14maggio @ApritiPesaro @UtetLibri
Sabato 14 maggio ore 16.30
Galleria degli specchi Hotel Alexander
Viale Trieste 20 – Pesaro
Apriti Pesaro
Futuro con vista
Europeismo che c’è e che verrà
In occasione dell’uscita dei suoi più recenti lavori
Libertà inutile. Profilo ideologico dell’Italia repubblicana, (UTET 2021)
Tra scienza e politica. Una autobiografia, (UTET 2022)
Apriti Pesaro incontra di nuovo il professor Gianfranco Pasquino per dar seguito al lavoro già svolto su “Populismi e sovranismi”

I populisti si riconoscono ma fanno fatica a unire le forze @DomaniGiornale


Non serve a nulla, ed è sbagliato, criticare alcuni politici, italiani e francesi (mi limito a questi due contesti) perché usano toni e argomenti populisti, al tempo stesso rimproverando partiti (il Partito Democratico, ad esempio) e leader (il Presidente Macron, altro esempio) per avere, più o meno deliberatamente o per incapacità, abbandonato il popolo. Quasi esistesse una contrapposizione netta fra chi va, populisticamente, verso il popolo (i narodniki nostri contemporanei) e chi si muove nelle Zone a Traffico Limitato. Maggiore sofisticatezza analitica offrirebbe un quadro più composito e realistico degli elettorati nei sistemi politici democratici e riuscirebbe a rendere conto di situazioni in cambiamento segnate oggi più di ieri, anche a causa di grandi migrazioni, da fattori culturali.
Prendo le mosse da una considerazione che ritengo imprescindibile. In tutti i regimi democratici esiste sempre una striscia, più o meno grande e visibile, di populismo. D’altronde, senza popolo non è possibile parlare di democrazia. Poi, sicuramente, quello che fa la differenza sono le modalità con le quali gli uomini e le donne in politica fanno appello al popolo, affermano di interpretarlo (“la gente non ci capirebbe”) cercano di mobilitarlo, in special modo, contro i “nemici del popolo”. Al popolo, però, fanno riferimento anche i nazionalisti che vogliono guidarlo, utilizzarlo e contrapporlo ad altri popoli, spesso considerati inferiori, addirittura non-popoli. Quando questo nazionalismo appare frusto e oramai privo di slancio, gli subentra, in particolare nell’ambito del processo di unificazione politica federale dell’Unione Europea, il richiamo allarmato al pericolo della perdita di identità e di sovranità. Con qualche sorpresa dei dirigenti populisti, non sembra vero che tout se tient. Di qui alcune battute d’arresto, alcuni ri-orientamenti, alcuni riposizionamenti in Italia e in Francia accompagnati da alcune regressioni elettorali.
I populisti di tutto il mondo spesso si riconoscono, ma altrettanto spesso fanno fatica a unire le loro forze. Proprio non possono dare vita a una ininterrotta rivoluzione identitaria e ripiegano nel “sovranismo in un solo paese” (il loro). Anzi, almeno i più accorti fra loro evitano di impegnarsi, se non a parole e a distanza, in troppi entusiastici riconoscimenti e approvazioni. Per alcuni populisti il richiamo al popolo viene subordinato, magari anche solo di poco, all’idea di nazione che mi pare il caso di Marine Le Pen. Altri hanno di recente provato ad accentuare il sovranismo subito “puniti” dalla necessità in caso di pandemia di cooperare per soluzioni che non si riescono a trovare negli asfittici confini nazionali. Quale nazione da sola si sentirebbe al sicuro dalle mire espansionistiche di un paese, per esempio, come la Russia?
Sapendolo leggere, il voto di milioni di cittadini “democratici” rivela qualcosa che non può mai essere spiegato da un unico fattore e per ciascuno degli elettori possono esserci differenti scale di priorità. Tanto nel voto per Jan-Luc Mélenchon quanto nel voto per Marine Le Pen esistono motivazioni populistiche, “noi, popolo dimenticato dalle élite”, ma ne segue una divaricazione immediata. L’ex-socialista Mélenchon si preoccupa, politicamente e elettoralmente, della crescita delle diseguaglianze, certamente, non al primo posto nell’agenda neo-centrista del Presidente in carica. La candidata del Rassemblement National vuole più potere per il popolo dei francesi autoctoni. Forse, populismi entrambi; certamente non coalizzabili.
Pubblicato il 13 aprile 2022 su Domani
Democrazie nella pandemia: nonostante populismo, negazionismo e antiscientismo nessuna democrazia ha ceduto
State ancora piangendo sulla morte delle democrazie annunciata alcuni anni fa con grande fanfara? Sursum corda. Tutte colpite dalla pandemia, nessuna democrazia è crollata. Ci sono state normali elezioni competitive. Il populista negazionista quasi golpista Trump ha perso. La democrazia USA ha reagito ed è in via di miglioramento qualitativo. Le democrazie apprendono; avranno sempre qualche inconveniente e problema, ma rimbalzano. Yes, they can.
Perché Giorgia Meloni piace tanto e non solo a destra @DomaniGiornale
Cedo subito alla tentazione di un paragone significativo. Mentre noi italiani guardiamo con interesse e maggiore o minore preoccupazione all’ascesa di Giorgia Meloni, a fare notizia in Germania è la crescita di consensi per la verde Annalena Baerbock. Fratelli d’Italia, guidata da Meloni, si avvia al 18 per cento; i Verdi di Baerbock sono arrivati al 28 per cento e sembrano destinati ad essere il partito che deciderà il prossimo governo della Germania. Quel governo, sicuramente e fortemente europeista, non piacerà a Meloni che, tutte le volte che può, dichiara la sua preferenza per la variante ungherese rappresentata da Orbán. Saldamente insediata alla guida dei Conservatori e Riformisti Europei, in larga misura contrari all’Europa che c’è, ma anche sostanzialmente irrilevanti, Meloni afferma di essere “per un’Europa confederale, che decide le grandi cose, e sulle altre lascia libertà agli Stati”. Iniziata la Conferenza sul Futuro dell’Unione Europea, la leader di Fratelli d’Italia ha un’occasione propizia di fare valere le sue idee in maniera del tutto trasparente e di sottoporre a critica quanto quegli europei, che desiderano un’Unione ancora più stretta, sapranno proporre.
Ciò detto, il consenso italiano per Fratelli d’Italia dipende solo in piccola parte dalle posizioni anti-europee: l’elettorato non è tenuto a cogliere le sottili distinzioni fra l’UE com’è e l’Europa eventualmente confederale. L’ascesa di Giorgia Meloni è una storia tutta italiana. Nel degrado e nel declino complessivo dei partiti, Fratelli d’Italia ha comunque saputo mantenere un prezioso aggancio con quello che era stato un partito piccolo, ma con radicamento: il Movimento Sociale Italiano. Meloni lì nasce e lì cresce meritandosi i complimenti per avere conquistato spazio personale e agibilità politica in un organismo di uomini (tuttora) maschilisti. Il resto sembra in misura quasi eguale un misto fra doti di carattere e intelligente sfruttamento delle opportunità. Il carattere è quell’elemento, importante e nella politica italiana abbastanza poco frequente, che spiega la coerenza finora espressa da Meloni. Nessuna impennata nessuna giravolta nessun inseguimento di novità: Meloni è rimasta fedele alle sue idee, destra nazionale e, in fondo, tradizionale (che ha troppa contiguità con Casa Pound e Forza Nuova). Un po’ di sovranismo, che è il nazionalismo trasferito a Bruxelles, ma quasi niente populismo, consegnato largamente a Salvini (ma che, talvolta, fa capolino nei berluscones). In una certa misura, è lo stesso Salvini che, con il suo marcato opportunismo e esibizionismo, continua ad offrire opportunità di crescita a Giorgia Meloni. Le critiche salviniane al governo di cui fa parte sono tanto frequenti e tanto simili a quelle di Meloni che una parte dell’elettorato pensa che allora è meglio confluire su Fratelli d’Italia. Altri elettori in uscita dal Movimento 5 Stelle trovano nei Fratelli d’Italia l’organizzazione più credibile per esprimere sia l’insoddisfazione per la politica italiana sia il dissenso nei confronti del governo Draghi. Poiché, coerentemente, Giorgia Meloni non è entrata nella fin troppa ampia coalizione di governo, gode adesso di quella che chiamo “rendita d’opposizione”. Ė una rendita che si sta rivelando cospicua e che è destinata a durare. So che dovrei concludere mettendo in guardia dai rischi di un governo prossimo venturo guidato dalla non europeista Giorgia Meloni. Sarebbe inevitabilmente e preoccupantemente un governo di centro-destra i cui guai, a mio parere, verrebbero dalle ambiguità e dalle ambizioni di Salvini, anche e soprattutto se la competizione per la leadership fosse vinta, seppur risicatamente, proprio da chi guida Fratelli d’Italia.
Pubblicato il 12 maggio 2021 su Domani
Ma la realpolitik sarà sufficiente? #FormicheRivista n° 168 #Aprile2021 Elogio del Pragmatismo @formichenews
Aprile 2021 Elogio del pragmatismo
Ma la realpolitik sarà sufficiente?
L’insorgenza populista e sovranista sembra terminata. Un po’ dappertutto la pandemia sembra avere richiamato il popolo, pardon, i cittadini-elettori, e i dirigenti politici a atteggiamenti e comportamenti più sobri. Non sono in vista miracoli, ma riflessioni, in parte, purtroppo, in piccola parte, ispirate dalla consapevolezza che la scienza conta e che, dunque, bisogna contare anche sulla scienza. Qualcuno, forse, è andato audacemente e ardimentosamente oltre, vale a dire, pensa e sostiene che la politica possa e debba essere sostituita dalla scienza, persino, attribuendo capacità taumaturgiche agli economisti. Più fragorosamente che altrove, ma anche prima e più lungamente che altrove, è in Italia che la politica, intesa in senso molto lato, ha mostrato gravi inconvenienti. Tuttavia, non sarà affatto la tecnocrazia, neppure nella versione Draghi e i suoi boys, a risolvere le difficoltà di lungo corso dei partiti italiani e dei loro dirigenti. Ricorrerei ad una comparazione che fa leva sulla retorica. Per risolvere i problemi della democrazia ci vuole più democrazia proprio come per risolvere i problemi della politica ci vuole più politica. Sappiamo, è una certezza, che l’anti-politica in Italia è da sempre forte. Ė stata ingabbiata da partiti veri e seri per un periodo di cui è giusto essere fieri, dal 1945 a, scusatemi, ma non trovo una data convincente per segnalare la fine di quell’esperienza, forse al 1989. Poi l’antipolitica è tornata in forza sulle ali prima di un imprenditore, poi di un comico ed è rimasta alimentando copiosamente le Stelle.
Altrove, la situazione era diversa in partenza ed è rimasta diversa per tutto il tempo con la clamorosa eccezione degli USA e la Presidenza Trump (il Bolsonaro del Brasile è esperienza peculiare, con minor impatto internazionale). Mi viene regolarmente la tentazione di interrogarmi su che cosa rileverebbe Tocqueville come, al tempo stesso, una sorpresa e una correzione rispetto alle sue acutissime osservazioni dell’America degli anni trenta del XIX secolo. Poi, avendo letto le analisi di Robert Putnam sul capitale sociale, capisco che cosa è successo negli USA per aprire la strada a Trump (molto machismo, persistenza del razzismo, terribili semplificazioni che un elettorato con basso livello di istruzione ha dimostrato di sapere e volere apprezzare). Il trumpismo non è, naturalmente, finito, ma è improbabile che negli USA riconquisti i fasti del passato proprio come il populismo europeo non riuscirà ad ergersi come alternativa al ritorno di una politica non urlata, non stravolta. Dagli USA è venuta anche la lezione che le istituzioni e le regole della democrazia costituiscono un baluardo. Ricorderemo l’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio 2021 come il canto di un brutto cigno, ma anche come la sconfitta di quei “patrioti” bianchi insurrezionisti. Joe Biden è, in effetti, qualcosa di più dell’impossibile ritorno ad una normalità pre-2016. Il Presidente democratico è old, ma, consentitemi di aggiungere subito, giocando con le parole, ha dimostrato di essere bold, ovvero audace. Se Biden proseguirà tenacemente la strada del riformismo, economico e culturale, di ampliamento delle opportunità che è il meglio del “sogno americano”, l’impatto si avrà anche sui sistemi politici europei, sull’Unione Europea.
Oggi è impossibile dire se stiamo assistendo soltanto al ritorno del pragmatismo. Non sappiamo se il pragmatismo sarà sufficiente. Certamente, però, tenere conto dei fatti, delle prassi, costituisce la premessa indispensabile di qualsiasi costruzione di idee e di ideali. Temo che la pandemia offrirà ai politici, agli esperti, all’opinione pubblica nelle sue differenziate espressioni, ai cittadini ancora molto tempo per progettare. Ė un auspicio basato su segni ancora relativamente deboli che con l’impegno potranno rafforzarsi. Insomma, all’orizzonte si prospetta una nuova stagione nella quale politica e conoscenza, potere e sapere avranno modi di interagire liberamente. Voilà.
VIDEO Libertà inutile. Profilo ideologico dell’Italia repubblicana @UtetLibri
Perché l’Italia è tanto malmessa? Più di cinquant’anni fa la risposta Norberto Bobbio la offrì nel suo Profilo ideologico del Novecento italiano. Per molto tempo mi sono posto l’ambizioso compito di analizzare le idee che hanno circolato in Italia dopo il libro di Bobbio. Le mie risposte sono ora in Libertà inutile. Profilo ideologico dell’Italia repubblicana (UTET 2021). La libertà di cui gli italiani hanno comunque goduto non ha fatto, proprio come temeva Bobbio, migliorare le idee e i comportamenti collettivi. È risultata complessivamente inutile. Il mio libro cerca di spiegare perché.
Libertà inutile
Profilo ideologico dell’Italia repubblicana
Quando scelse la repubblica, il popolo italiano, appena uscito dalle rovine di una dittatura e di una guerra mondiale, affidò all’Assemblea costituente l’impegnativo compito, condiviso da tutti (o quasi), di costruire un paese migliore. Ma la repubblica che ne è uscita è stata all’altezza di quelle speranze?
Se lo chiedeva già Norberto Bobbio nel suo fondamentale Profilo ideologico del Novecento italiano, fermandosi però sulle soglie del 1968, e se lo chiede oggi Gianfranco Pasquino, raccogliendo l’eredità del grande filosofo torinese e provando a impostare nuovamente una riflessione che riesca a cogliere l’accidentato percorso della nostra mutevole e inquieta storia repubblicana.
A partire dalle fondamenta costituzionali, Pasquino sismografa gli smottamenti culturali, gli umori e i contrasti che, di decennio in decennio, hanno attraversato la nazione e coinvolto i suoi protagonisti. Così ci immergiamo nelle contraddizioni delle tre grandi culture politiche del Novecento: il liberalismo, fondamentale durante la Resistenza e sminuito nella ricostruzione del dopoguerra; il comunismo, lacerato all’interno dal dibattito fra i desideri di riformismo parlamentare e le pulsioni semirivoluzionarie, negli anni caldi delle contestazioni di piazza; l’area democristiana, appesantita dal troppo potere politico, economico e sociale accumulato senza controlli, fino alla resa dei conti di Tangentopoli.
E poi ancora i mutamenti delle stagioni recenti: la personalizzazione della politica propiziata dal berlusconismo e l’affermarsi di nuove culture che strizzano l’occhio all’antipolitica e al populismo.
Il quadro che ne viene fuori è un’inedita biografia della nazione: un paese di passioni ideologiche ed enormi contraddizioni, in cui le fortune dei leader durano il tempo di una stagione. E allora, attraversando le riflessioni di Pareto, Calamandrei, Gramsci, Sartori, prende forma il dubbio di Pasquino: la democrazia italiana ha disatteso le promesse costituzionali? Quella conquistata con tanta fatica è stata forse una Libertà inutile?
Gianfranco Pasquino (Torino, 1942), allievo di Norberto Bobbio e di Giovanni Sartori, è professore emerito di Scienza politica all’Università di Bologna. Associate Fellow alla SAIS-Europe di Bologna, è stato direttore, dal 1980 al 1984, della rivista “il Mulino” e, dal 2000 al 2003, condirettore della “Rivista italiana di Scienza politica”. Dal 2010 al 2013 presidente della Società italiana di Scienza politica, è autore di numerosi volumi, i più recenti dei quali sono Cittadini senza scettro. Le riforme sbagliate (2015), Bobbio e Sartori. Capire e cambiare la politica (2019, tradotto in spagnolo nel 2020) e Italian Democracy. How It Works (2020). È particolarmente orgoglioso di avere condiretto insieme a Norberto Bobbio e Nicola Matteucci per Utet il celebre Dizionario di politica (2016, nuova edizione aggiornata). Per Utet ha inoltre pubblicato La Costituzione in trenta lezioni (2016), L’Europa in trenta lezioni (2017) e Minima politica (2020). Dal luglio 2005 è socio dell’Accademia dei Lincei.

