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The Donald è sconfitto ma il “trumpismo” resta @fattoquotidiano

Liquidata la Presidenza Trump, ma con molte apprensioni per quelli che saranno i suoi velenosi colpi di coda, è più che opportuno riflettere sul trumpismo. Donald Trump è il produttore del trumpismo oppure a produrre Trump e la sua presidenza è stato un grosso onnicomprensivo grumo di elementi già presenti nella politica e nella società USA? Settantun milioni di elettori, nove milioni più del 2016, segnalano che Trump non era un marziano, un misterioso ittito (che occupa l’Egitto/Casa Bianca senza lasciare nessuna traccia), un fenomeno (sì, nel doppio significato) passeggero. Esistono alcuni elementi del “credo americano”, come identificati dal grande sociologo politico Seymour M. Lipset, che costituiscono lo zoccolo duro del trumpismo: l’individualismo, il populismo e il laissez-faire che interpreto e preciso come insofferenza alle regole -per esempio, a quelle che servono a limitare i contagi da Covid. A questi è più che necessario aggiungere un elemento ricorrente: l’aggressione alla politica che si fa a Washington (swamp/palude nella terminologia di Trump) e un elemento sottovalutato e rimosso (anche viceversa): il razzismo. Con tutti i suoi molti pregi, il movimento Black Lives Matter non può non apparire come una risposta di mobilitazione importante, ma tardiva. Le uccisioni di uomini e donne di colore continuano e misure per porre fine alla “brutalità” della polizia sono, da un lato, inadeguate, dall’altro, contrastate da Trump, ma anche dal trumpismo profondo.

    La critica sferzante, di stampo populista, alla politica di Washington ha radici profondissime che probabilmente non saranno mai estirpate del tutto. La sua versione contemporanea, che non è stata sufficientemente contrastata, trovò espressione nella famosa frase del Presidente repubblicano Ronald Reagan: “Il governo non è la soluzione; il governo è il problema”. Il terreno favorevole all’innesto e alla espansione del trumpismo è stato abbondantemente concimato dal Tea Party Movement e dagli evangelici. Il primo ha, da un lato, formulato una concezione estrema della libertà individuale per ottenere uno Stato minimo che, naturalmente, non deve in nessun modo intervenire nelle dinamiche sociali, per chiarire: né affirmative action né riforma sanitaria. Dall’altro, ha usato della sua disciplina e del suo potere di ricatto sia nelle primarie repubblicane sia nei collegi uninominali per spostare a destra, radicalizzare il Partito repubblicano nel suo complesso. Dal canto loro, le potenti e ricche confessioni religiose evangeliche hanno provveduto a finanziare le campagne elettorali di un molto grande numero di candidati ottenendone in cambio i loro voti al Congresso, non da ultimo per la conferma dei giudici nominati da Trump. Nominati a vita questi giudici sono in grado di garantire per almeno trent’anni che nella Corte ci sarà una maggioranza conservatrice misogina, indifferente alle diseguaglianze dei neri, contraria a politiche sociali. Le molte centinaia di giudici federali nominati da Trump (molti altri probabilmente riuscirà a nominarne nella frenesia dei suoi ultimi giorni alla Casa Bianca) faranno il resto del lavoro, cioè perpetueranno il trumpismo.    Da idee diffuse nel vasto campo trumpista sono discese le politiche di Trump: ambiente, commercio, sanità. Soltanto in parte, però, politiche diverse ad opera del Presidente Biden saranno in grado di incidere sul nucleo forte, sul core del trumpismo. Non è soltanto che nella sua lunga carriera politica Biden non ha proceduto a particolari innovazioni. È che, come gli hanno rimproverato i suoi avversari politici nelle primarie, a cominciare proprio dalla sua Vice-presidente Kamala Harris, la moderazione spesso finiva per mantenere lo status quo o per fare qualche piccolo passo inadeguato, come per quel che riguarda la condizione dei neri e, in parte, delle donne. Non voglio arrivare fino a sostenere che in Biden si annida una componente di trumpismo soft. Sono, però, convinto che non pochi cittadini-elettori democratici pensino che l’individualismo è ottima cosa, che il governo non deve svolgere troppe azioni troppo incisive, che una volta eletti i rappresentanti non si occupano più di gente come loro. Questi sono timori condivisi anche dai commentatori USA progressisti (ad esempio, gli eccellenti collaboratori della Brookings Brief). Da parte mia, non vedo neppure fra gli intellettuali più autorevoli l’inizio di una riflessione su una cultura politica che travolga trumpismo e trumpisti dando una nuova anima agli USA.

Pubblicato il 10 novembre 2020 su il Fatto Quotidiano

Io, il popolo. Come il populismo trasforma la democrazia di #Urbinati #23gennaio #Bologna @nadiau87 @edizionimulino

Giovedì 23 gennaio 2020 alle ore 18
Libreria La Feltrinelli di Piazza Ravegnana 1

presentazione del volume

Nadia Urbinati

Io, il popolo. Come il populismo trasforma la democrazia

dialogano insieme all’autrice

Paul Blokker

Gianfranco Pasquino

Che tipo di democrazia è la democrazia populista? Da non confondersi con i regimi dittatoriali e autoritari, il populismo – nella prospettiva dell’autrice – va considerato una variante del governo rappresentativo, basata sul rapporto diretto tra un leader e il “suo popolo”, rivendicato come “vero” contro l’establishment. Il rischio democratico non risiede allora nella domanda di espansione della democrazia, o nell’enfasi posta sul richiamo al popolo, ma nella selettività con cui il leader individua il suo popolo, facendone un’arma di parte da brandire contro l’altro. Il popolo dei populisti di fatto rifugge dall’inclusività e dalla generalità del popolo sovrano. Un contributo illuminante alla comprensione di un atteggiamento e di una prassi politica segnati da un crescente successo.

 

 

 

Come valutare la produttività dei parlamentari @rivistailmulino

Il già apprezzato presidente dell’Inps Tito Boeri ha scritto un articolo (Non solo questione di numeri, “la Repubblica”, 31.12.2019), alquanto confuso, inteso a dimostrare che è possibile ridurre il numero dei parlamentari senza che ne discendano conseguenze negative sul funzionamento del Parlamento. Il suo punto di partenza è che i parlamentari attualmente esistenti, pure inspiegabilmente numerosi (rispetto a che cosa, a chi? agli elettori Boeri non offre nessun elemento di valutazione comparata), risultano molto poco produttivi. Per definire e misurare la produttività dei parlamentari l’articolo utilizza due criteri. Il primo è la presenza alle votazioni in aula; il secondo è la stesura di disegni di legge. Entrambi i criteri sono inadeguati e fuorvianti.

Quanto al primo, chi studia i parlamenti e il loro funzionamento sa che, tranne qualche significativa eccezione, tutti i disegni di legge che arrivano alla votazione finale in aula sono stati ampiamente discussi, talvolta emendati (in effetti, ottima cosa sarebbe contare e valutare quali e quanti emendamenti di successo sono stati introdotti dai singoli parlamentari anche in aula) e, infine, votati nelle commissioni di merito. Un numero notevole di parlamentari ha partecipato attivamente a quelle discussioni e approvazioni. A tutti è noto che molte, se non addirittura la maggior parte delle votazioni in aula non presentano nessun conflitto e avverranno senza sorprese. Dunque, la loro presenza non è politicamente richiesta, senza contare che molti parlamentari sono occupati in cariche di governo e molti possono essere in missione. Le foto delle aule vuote del Parlamento in occasione di discussioni generali, che molti quotidiani pubblicano e che scandalizzati commentatori, più o meno inconsapevolmente “populisti”, stigmatizzano, sono del tutto fuorvianti. Oscurano il fatto che molti parlamentari stanno lavorando in Commissione, studiando nei loro uffici, dando interviste di politica a quegli stessi quotidiani, tenendo rapporti con i loro elettori. Per quel che riguarda il secondo criterio, la stesura e presentazione dei disegni di legge, è da tempo che gli studiosi del Parlamento sanno che il compito principale di qualsiasi e di tutti i parlamenti (tranne quelli delle Repubbliche presidenziali) non è affatto quello di “fare le leggi”. Nelle democrazie parlamentari, sono i governi (se si preferisce, le maggioranze che sostengono i governi) che fanno le leggi. All’incirca fra l’80 e il 90% delle leggi approvate dalla maggioranza dei Parlamenti contemporanei sono di origine (iniziativa) governativa. D’altronde, è giusto che sia così.

Infatti, quei governi e i partiti che ne fanno parte hanno non soltanto il potere di fare approvare i loro specifici disegni di legge, ma hanno anche il dovere di farlo. Hanno ottenuto voti anche, in qualche caso, soprattutto, poiché hanno promesso agli elettori di attuare determinate politiche. Una volta al governo è loro compito tradurre le promesse in progetti di legge sui quali chiederanno l’approvazione dei parlamentari che anche su quei programmi sono stati eletti. La disciplina di voto che ne consegue è parte del complesso circuito di responsabilità istituzionale richiamata anche nel discorso di fine d’anno del presidente Mattarella. Se fossero i singoli parlamentari a fare le leggi assisteremmo al caos, nel quale la Terza Repubblica francese, definita la République des députés, si trovò a lungo con scambi dei più vari e incontrollabili tipi fra gruppi di deputati. Non è un dettaglio marginale il crollo come un castello di carta di quella Repubblica di fronte alla comparsa dei carri armati tedeschi nel giugno 1940. Quindi, invece di considerare positivamente come indicatore di produttività il numero dei disegni di legge scritti dai singoli parlamentari (incidentalmente, mai i più noti e neppure quelli che godono di maggiore prestigio fra i colleghi, a richiesta sono in grado di fare i nomi!), è opportuno preoccuparsi e interrogarsi su quali ne siano le motivazioni anche alla luce dell’altissima improbabilità che quei disegni di legge siano presi in considerazione e, meno che mai, giungano all’approvazione. No, è completamente sbagliato misurare la “produttività” di un parlamentare contando i disegni di legge da lui/lei “sfornati”. Praticamente, nessuno di quei disegni di legge ha la minima possibilità di essere preso in considerazione; giustamente, poiché, da un lato, sono semplici messaggi, oramai abbastanza rari, mandati agli elettori, ma più spesso sono “favori” restituiti a qualche gruppo di interesse che, in effetti, è il vero autore di quel disegno di legge. Comunque, se produttività è produrre disegni di legge, allora Boeri dovrebbe essere fermamente contrario alla riduzione del numero dei parlamentari. Infatti, quanti più sono i parlamentari tanti più saranno/sarebbero i disegni di legge. Se, poi, ci fosse competizione fra un numero elevato di disegni di legge sullo stesso tema, allora alla produttività in termini di quantità si affiancherebbe anche l’incremento di qualità [sic!]. Ciò detto, propongo a Boeri e a chi come lui si dice favorevole alla riduzione del numero dei nostri parlamentari che la produttività venga misurata con riferimento non alla moltiplicazione dei disegni di legge che neppure arrivano alla votazione, ma con riferimento al molto più complesso ma molto più significativo ed esigente criterio della rappresentanza.

Che cosa fanno i parlamentari per dare rappresentanza agli interessi, alle preferenze, alle aspettative, persino agli ideali dei loro elettori, degli elettori in generale? In democrazia si ha rappresentanza politica soltanto quando i rappresentanti sono eletti, possono essere rieletti indefinitamente, con buona pace dei teorizzatori del limite ai mandati, e, naturalmente, anche sconfitti. Se la rappresentanza è elettiva non si può, come sembra suggerire Boeri, non (pre)occuparsi delle leggi elettorali, procedendo unicamente alla rozza, ma reale, distinzione fra leggi maggioritarie e leggi proporzionali. Già l’uso del plurale indica che è indispensabile guardare proprio alle technicalities di ciascuna legge. Non lo farò qui. Almeno in prima approssimazione è giusto affermare che esistono leggi elettorali capaci di collegare più efficacemente gli elettori al parlamentare che hanno eletto/a e spingerlo a dare buona rappresentanza.

Qui si apre il discorso relativo alla misurazione della qualità della rappresentanza. Ci sono alcuni indicatori facili: la residenza nel collegio nel quale il rappresentante è eletto; se non residente, il numero di volte che il rappresentante torna nel collegio e quanto tempo vi rimane; il numero di iniziative pubbliche svolte; il numero di elettori che riceve nel suo ufficio nel collegio; la quantità di posta che riceve e il numero di risposte che invia; i suoi interventi in Parlamento, magari distinguendo, come fatto più di duecento anni fa dal più autorevole interprete di ciò che è e che può essere buona rappresentanza politica, l’inglese Edmund Burke (1729-1797), fra rappresentanza del collegio, del partito, della nazione. C’è molto da fare per trovare e affinare i criteri più adeguati, non causali, non occasionali per la valutazione della produttività dei parlamentari soprattutto in chiave specifica di rappresentanza politica. Sappiamo che il paracadutaggio in liste bloccate e le candidature multiple non sono modalità propedeutiche (Burke esprimerebbe apprezzamento per questo mio very British understatement) alla buona rappresentanza politica Per il momento mi fermo qui suggerendo, anche a Boeri, la lettura di qualcosa che è più di un’approssimazione come risposta, come il mio Minima Politica. Sei lezioni sulla democrazia (Utet, 2020), delle quali una è sulle leggi elettorali e un’altra proprio sulla rappresentanza.

Pubblicato il 4 gennaio 2020

 

Il governo durerà ma i 5S si liberino di Di Maio #intervista @ildubbionews

Intervista raccolta da Giulia Merlo
“Le sardine? Apprezzo sempre la partecipazione e dico che un movimento nella fase nascente ha bisogno di tempo per trovare uno sbocco”.

I sondaggi dicono il vero, secondo il politologo Gianfranco Pasquino: l’Italia, per ora, è un paese che si è orientato verso il centrodestra. Ma l’attuale quadro politico è in subbuglio: con il movimento delle sardine ma anche con la variabile ancora incalcolabile sul futuro del premier Giuseppe Conte.

Professore, quale è il suo giudizio sulle sardine?

Io apprezzo sempre quando le persone si mettono insieme con un obiettivo comune e risvegliano la partecipazione, soprattutto quella giovanile. Sono favorevole anche quando l’obiettivo è la protesta, a maggior ragione se fatta contro Matteo Salvini e il populismo.

La critica maggiore è che si tratta di protesta senza proposta.

Che significa? Quelli che oggi sbandierano proposte spesso si riempiono la bocca di parole solo retoriche oppure di offese nei confronti di qualcuno. Io dico di dare tempo al tempo: per citare Weber, il movimento delle sardine è ancora nella fase di stato nascente. Poi la mobilitazione si estenderà ancora, infine si deciderà che farne e se darle sbocco.

Di solito le mobilitazioni sono contro il governo, mentre in questo caso sono contro il populismo salviniano, quindi l’opposizione.

Sulla base di questo ragionamento, non avrebbe senso nessuna manifestazione contro il fascismo, visto che è stato sconfitto. Invece ha senso, perché si manifesta contro un pericolo che si percepisce come attuale e questo fa parte della conversazione democratica. Io non trovo nulla di male nel protestare contro un’opposizione che agisce in modo scomposto e propaganda notizie false. E poi la protesta delle sardine non è solo contro Salvini, ma anche contro l’eccessiva timidezza del governo, ovvero di chi dovrebbe fargli da contraltare.

Esiste spazio per uno sbocco elettorale di questo movimento?

Esiste se la sinistra partitica rimane statica. Se le sardine avranno voglia, allora avranno anche lo spazio per organizzarsi. Del resto, abbiamo visto succedere qualcosa di simile con i 5 Stelle, anche se in quel caso a capo c’era un leader forte come Beppe Grillo.

Altrimenti il consenso delle sardine si riverserà nel centrosinistra?

È possibile, ma non è un meccanismo automatico. Il Pd deve cercare quel consenso, dicendo alcune cose o candidando determinate persone, per esempio. Insomma, deve esserci una trattativa e un accordo preelettorale tra i dem e le sardine.

I 5 Stelle sono in netto tracollo, è una parabola invertibile?

Lo spazio di protesta nei confronti del sistema politico che il Movimento intercettava esiste ancora, ma ora c’è la concorrenza sia di Salvini e, a loro modo, anche delle sardine. Il problema dei 5 Stelle è uno solo: la leadership. Luigi Di Maio è debole, inadeguato e fa perdere voti. Per recuperarli, tornando non certo al 32% del 2018 ma a un buon 20%, bisogna fare una buona campagna elettorale ma soprattutto trovare un nuovo leader: Beppe Grillo, per esempio, recupererebbe molto consenso.

Il Pd, ieri, ha chiesto una «verifica» di questo governo. È segno che i dem vogliono staccare la spina?

Io trovo normale che si chieda di fare il bilancio, perché questo è un governo strano e la verifica fa parte delle necessità di tutte le coalizioni, in cui può sorgere la necessità di sostituire qualche ministro o trovare una nuova linea politica.

Nessun rischio di crisi, quindi?

Se questo governo nasce per contrastare Salvini, allora deve rimanere in carica finché può e dimostrare che la sua politica funziona adoperando tutto il tempo a disposizione, quindi fino al 2023. Per durare, però, i partiti devono smettersi di farsi concorrenza interna. Altrimenti sarà un fallimento di tutto il governo e farà crescere l’opposizione, quindi Salvini.

I sondaggi sono veri e il nostro è un paese di centrodestra?

I sondaggi raramente sbagliano, ma fotografano una situazione hic et nunc. Però la campagna elettorale può cambiare tutto: qualcuno fa errori, qualcuno individua la tematica vincente oppure qualcosa di imprevedibile accade. Nelle ultime elezioni alcuni milioni di italiani hanno cambiato comportamento elettorale. Inoltre, esiste una variabile ancora imponderabile.

Quale?

Il premier Conte. Secondo i sondaggi è il più popolare, ma non si sa ancora cosa farà. Lui dice che non si candiderà, ma chissà: potrebbe stare coi 5 Stelle, farsi un partito personale … Oppure, forse, si sta preparando a diventare il prossimo presidente della Repubblica.

Pubblicato il 10 dicembre su ildubbionews.it

Diseguaglianze, più o meno inaccettabili

Sento confusamente che ridurre il problema, che è tale, delle diseguaglianze, alle sole diseguaglianze economiche, rischia, da un lato, di essere fuorviante, dall’altro, di risultare di impossibile soluzione. Di più: temo che alcuni tentativi di soluzione finirebbero per entrare in un vortice di autoritarismo: stesso livello di reddito/guadagno imposto dall’alto con misure forzate e forzose che, probabilmente, condurrebbero al pauperismo. Nessun ricco, tutti poveri, ma se qualcuno, com’è probabile, si troverà in situazioni di potere politico lo utilizzerà certamente per trarne vantaggi, magari occulti, non necessariamente monetizzabili.

Davvero è così importante che la distanza fra i più ricchi e i meno abbienti sia cresciuta da, grosso modo venti fino a cinquecento volte? Se i meno abbienti hanno visto le loro condizioni di vita comunque migliorate nel corso del tempo, quella accresciuta distanza, pur disturbante, potrebbe essere meno grave dei numeri che la rilevano e la fotografano. Naturalmente, resta fermo che qualsiasi società che aspiri a un minimo di giustizia sociale deve guardare ai servizi non monetari (ancorché monetizzabili) che riesce ad offrire ai suoi cittadini –e, forse, anche a coloro che hanno deciso di andare a vivere là. Se anche coloro che guadagnano poco sono protetti da un sistema sanitario al quale hanno accesso gratuito o quasi, possono mandare i loro figli alle scuole che preferiscono e possono vederli completare il ciclo dell’istruzione superiore e universitaria, e sanno di potere contare su una pensione che consenta una vita decente, allora le diseguaglianze di reddito, per quanto enormi, sono o dovrebbero essere tollerabili e tollerate. Debbono, però, essere accompagnate dal riconoscimento dei compiti essenziali che lo Stato svolge per offrire quei servizi, ovvero per garantire eguaglianze (plurale) di opportunità attraverso una tassazione progressiva che è lo strumento più “egualitario” di cui è possibile disporre per andare verso una società giusta.

Fin qui, credo di non avere detto nulla di particolarmente nuovo, tutto o quasi facilmente riscontrabile nelle esperienze e nelle politiche di governo etichettabili come socialdemocratiche. Contrariamente a opinioni poco informate, quelle esperienze non sono né fallite né superate. Sono sfidate nei paesi che le hanno vissute da coloro che, già favoriti da quelle politiche, oggi pensano che, dato il loro livello di istruzione e di reddito e le loro capacità professionali, potrebbero farne a meno e non vogliono più pagarne il prezzo. Fermo restando che le diseguaglianze economiche provocano molto più che un semplice disagio e che, se non vengono contrastate da un adeguato livello di servizi, si trasformano in sfide politiche, spesso improntate da populismo, sono di recente giunto ad un’altra duplice conclusione provvisoria e problematica. Da un lato, conta molto come quei servizi vengono erogati. Vale a dire sono sussidi, donazioni, esborsi che vanno ai settori svantaggiati delle società facendo loro sentire il peso della sconfitta nella competizione? Siete stati degli incapaci (deplorable disse memorabilmente Hillary Clinton), colpevoli delle vostre (in)azioni, ma noi vi veniamo incontro ugualmente incontro in maniera generosa.

Oppure, in una società giusta quanto viene dato a chi ha difficoltà di qualsiasi tipo derivanti da qualsiasi avvenimento riceve quei servizi in quanto cittadino? Qui sta quello che molti studiosi ritengono sia il messaggio più importante: non la colpevolizzazione, ma il riconoscimento sociale. Dall’altro lato, le diseguaglianze economiche risultano della massima rilevanza poiché con il denaro, lo scrivo con la massima nettezza di cui sono capace, si comprano le decisioni politiche, economiche, sociali, culturali più importanti. Si comprano altresì i decisori. Da qualche tempo, gli studiosi USA sono quasi unanimemente giunti a sostenere che la loro democrazia ha forti componenti di ingiustizia; parla con l’accento delle classi più affluenti; non è neppure più in grado di comprendere le domande sociali e, quando le sente, decide di respingerle e può farlo perché quei decisori sono essi stessi parte delle classi elevate. Le diseguaglianze economiche mantengono e producono diseguaglianze politiche e sociali. Il circolo si chiude.

Laddove le diseguaglianze sono grandi e addirittura crescenti le conseguenze su tutti gli altri tipi di diseguaglianze sono gravissime. Quello che è molto di più che un semplice malessere sociale si traduce in propensioni e spinte populiste, non soluzioni, ma sfide che esondano dalla democrazia.

Pubblicato il 21 novembre su paradoxaforum.com

La salute della Repubblica #recensione #NuovaInformazioneBibliografica @edizionimulino

In “Nuova informazione bibliografica”, n. 3, Luglio-Settembre 2019, pp. 598-605

Guzzetta, G., La Repubblica transitoria. La maledizione dell’anomalia italiana che fa comodo a tanti , Soveria Mannelli, Rubbettino, 2018, pp. 237.

Teodori, M., Controstoria della Repubblica. Dalla Costituzione al nazional-populismo , Roma, Castelvecchi, 2019, pp. 223.

Interrogarsi su che cosa è andato storto nella storia italiana del secondo dopoguerra è del tutto legittimo. Rileggere quella storia, vale a dire le “storie” variamente scritte su un periodo lungo, caratterizzato tanto da stabilità e crescita quanto da alcune svolte/rotture particolarmente significative (l’irruzione politica di Berlusconi nel 1994, l’avvento di un governo “populista” –ma c’è di più- nel 2018) e da vent’anni di difficoltà economiche può essere utile ad una migliore comprensione. Riscriverla, quella storia, senza mai archiviarne gli avvenimenti più sgradevoli, è possibile soprattutto quando l’autore si propone ed è in grado di darne una interpretazione originale, fuori dal coro, suffragata da documenti, avvenimenti, altre interpretazioni convergenti con la sua, ma non ancora sfociate in una coerente visione complessiva che possa servire anche a prefigurare il futuro possibile oppure, quantomeno, individuare le condizioni di futuri possibili. Naturalmente e inevitabilmente operazioni di questo genere approdano ad una valutazione complessiva di quella che ho scelto di chiamare “la salute della Repubblica”.

Quella salute non è buona, ha già risposto Andrea Capussela intitolando Declino. Una storia italiana (Roma, LUISS University Press, 2019) il suo denso, solido, importante percorso analitico concentrato soprattutto sugli aspetti economici. Però, in un’intervista (Declino? L’antidoto c’è, “Corriere della Sera”, 28 aprile 2019, p. 28) ha poi preferito lasciare la porta aperta alla “possibilità di migliorare le cose” (p. 29). Da molti autori quel declino è stato variamente addossato a due macrofattori: da un lato, la cultura politica e i partiti; dall’altro, l’assetto istituzionale e la Costituzione. Naturalmente, frequente e complessa, quasi inestricabile, è stata (e continua a essere) l’interazione fra i due insiemi di macrofattori, ma analiticamente li si può distinguere anche al fine di valutarne l’impatto specifico sulla Repubblica e il suo declino.

Con il suo saggio, già a partire dal titolo, Controstoria della Repubblica. Dalla Costituzione al nazional-populismo , Massimo Teodori segnala la sua intenzione prevalente: andare contro la storia della Repubblica raccontata come il prodotto degli incontri/scontri fra democristiani e comunisti, fra cultura cattolica e cultura social-comunista, recuperando quanto la cultura laica, in senso lato liberale, ha dato e quanto avrebbe potuto dare se i suoi dirigenti fossero stati più capaci e se DC e PCI non avessero deliberatamente tolto spazio ai “liberali”. La post-fazione di Giuliano Ferrara, che è facile e appropriato definire dissacrante, rimprovera ai laici e, di conseguenza va contro l’interpretazione di Teodori, il loro opportunismo, i loro adattamenti compromissori, la loro scarsa o nulla attitudine a combattere per le loro idee, i loro valori. “I laici hanno voluto essere quel che erano, avanguardie o mosche cocchiere, non hanno mai aspirato alla manovra di società e di Stato imperniata sul consenso democratico, preferendo l’intercapedine liberale … senza vere contaminazioni, senza affrontare i weberiani paradossi etici” (p.255, che personalmente interpreto come il conflitto fra l’etica della convinzione e l’etica della responsabilità). Ben scritto, ma, in buona sostanza, la ricostruzione di Teodori oscilla tra la storia che è effettivamente stata e quella che lui avrebbe desiderato per andare contro una egemonia e mezza, rispettivamente, dei democristiani e dei comunisti, e sconfiggerla. In corso d’opera, attraverso alcune originali e brillanti digressioni e approfondimenti, da lui definite “cronache”, Teodori disvela e travolge alla radice le teorie complottistiche sulla P2 e mette fine, a mio parere convincentemente, alla leggenda che il sequestro di Moro non sia stato totalmente ideato, effettuato e portato alla sua tragica conclusione dalle Brigate Rosse. Ottima anche, fin dal titolo: Perché i grillini sono tanto ignoranti e presuntuosi, la digressione conclusiva che, in buona sostanza, comunica che la salute della Repubblica in mano a quei governanti non soltanto non è affatto buona, ma rischia di peggiorare sensibilmente.

In effetti, Teodori ritiene molto preoccupanti le pratiche dei movimenti populisti italiani che (cito dalla quarta di copertina) “preannunciano il deterioramento della democrazia rappresentativa e l’avvio di una democrazia illiberale”. Però, è piuttosto sorprendente che l’analisi delle tematiche elettorali e istituzionali che hanno segnato momenti importanti nella storia della Repubblica trovino pochissimo spazio nella Controstoria della Repubblica. Una paginetta e mezza per la legge elettorale del 1953, che truffa sarebbe certamente stata nelle sue prevedibili conseguenze se fosse scattata, e praticamente nulla sul cruciale referendum per la preferenza unica 1991 e poche righe sui referendum antipartitocratici radicali e per la legge elettorale tre quarti maggioritaria nel 1993 sono assolutamente insufficienti a rendere conto dell’importanza e dell’asprezza dello scontro fra posizioni alternative spesso divaricatissime. Teodori non fa meglio fa nella ultrasintetica contrapposizione fra il “partito costituzionale immobilista” che, secondo lui, aveva tra i suoi maggiori sostenitori i comunisti, e quella che definisce, in maniera per me sorprendente e non condivisibile, mossa “intraprendente e lungimirante” di Renzi, peraltro “digiuno di una visione matura della riforma costituzionale e privo di sensibilità su questioni come il bilanciamento dei poteri istituzionali per prevenire gli abusi” (p. 199). Teodori ne conclude che la personale sconfitta di Renzi al referendum (da lui erroneamente definito “confermativo” e che, infatti, si dimostrò, “avversativo”), segnò “un’altra tappa nel deterioramento della democrazia rappresentativa” (p. 199). Purtroppo, la Controstoria di Teodori non risponde all’interrogativo cruciale su che cosa avrebbero dovuto e dovrebbero fare gli esponenti della cultura liberale a fronte della “questione istituzionale”.

Anche se non disponiamo di nessuna analisi complessiva e approfondita, il cui spazio è prevalentemente occupato da un misto di più o meno pii desideri e certamente non pii anatemi, sappiamo, però, come l’hanno pensata e la pensano i cosiddetti –qualcuno potrebbe preferire l’aggettivo sedicenti– riformatori costituzionali. Non è un gruppo omogeneo. Anzi, per capirne di più, potrebbe essere rivelatore risalire alle origini del loro pensiero costituzionale, soffermandosi su quello che hanno poi scritto, sulle riforme che hanno sostenuto/osteggiato, sulle motivazioni, spesso collegate e dipendenti dai loro rapporti con i loro leader “di riferimento” . Da quel che ho letto e so per molti la coerenza non è mai stata la stella polare, mentre per pochissimi è valso il principio che le riforme, qualsiasi riforma costituzionale deve essere proposta e valutata con riferimento al suo probabile impatto sul sistema politico, facendo essenziale ricorso alla comparazione (per tutto questo l’irrinunciabile testo di riferimento è Sartori, Ingegneria costituzionale comparata, Bologna, Il Mulino, 2005, 5a edizione).

Quel che non ha fatto lo storico Teodori è, invece, oggetto esclusivo della ricostruzione del giurista Giovanni Guzzetta, La Repubblica transitoria. La maledizione dell’anomalia italiana che fa comodo a tanti. Obietto fin dal titolo e dall’interpretazione che lo sottende e che viene argomentata nel corso della esposizione. No, la Repubblica italiana non è affatto transitoria. No, non è affatto esistita una “fondamentale anomalia di sistema”. No, i Costituenti, pur perfettamente consapevoli dei tempi e dei luoghi, non fecero per niente scelte contingenti, legate a “condizionamenti della situazione storica congiunturale” (p. 9). Tutt’al contrario. Ebbero un mandato popolare, che, comunque, rifletteva le loro preferenze, per la costruzione di una democrazia parlamentare e quel tipo di assetto istituzionale disegnarono tenendo in grandissima considerazione i principi classici del liberal-costituzionalismo: separazione dei poteri, freni e contrappesi, rappresentanza, responsabilizzazione dei governanti e dei rappresentanti. Né provvisoria né precaria la Repubblica democratica e parlamentare italiana è stata talmente forte e, con l’auspicabile approvazione dei lettori, scrivo anche resiliente, da obbligare gli sfidanti, comunisti e neo-fascisti, aventi dosi diverse di atteggiamenti anti-democratici e anti-sistema ad accettare il quadro, le regole e le procedure del sistema. Qualcuno potrebbe aggiungere che anche l’ascesa al governo dell’imprenditore Silvio Berlusconi, con il suo conflitto d’interessi, e della sua maggioranza dal centro alla destra estrema fu una sfida che la Costituzione ha puramente e semplicemente, vinto.

Lungo tutto l’arco della sua analisi, il costituzionalista Guzzetta sostiene che la Costituzione, frutto di più o meno occasionali compromessi, ha prodotto “una Repubblica transitoria e incompiuta” (p. 16) che fornisce alibi a chi governa il paese. La tesi dell’autore è che addirittura i Costituenti stessi furono consapevoli che l’eccezionalità italiana richiedeva la transitorietà della Repubblica: un progetto da sviluppare “sia sul piano sostanziale (le politiche da mettere in campo) che sul piano istituzionale (il modo di funzionare della politica” (p. 17). Questa affermazione, drastica e impegnativa, meriterebbe di essere suffragata con riferimenti a situazioni e paesi nei quali non siano (più o mai) in discussione né le politiche da mettere in campo né il modo di funzionare della politica. Purtroppo, l’analisi comparata non è fra gli strumenti a disposizione di Guzzetta che ripiega sulle chiavi narrative della Repubblica transitoria definendole retoriche della transizione (c.vo dell’autore, p. 20).L’autore elabora un certo numero di “retoriche”: dell’eccezione, della provvisorietà, dell’emergenza, paternalistica, unanimistica, palingenetica a sostegno della sua tesi dell’incompiutezza della Repubblica italiana. Qualche citazione di qualche uomo politico viene selettivamente utilizzata per “dimostrare” che, sì, i Costituenti e i leader erano, da un lato, consapevoli dei problemi del sistema politico italiano, dell’assetto istituzionale, dei partiti; dall’altro, che li sfruttavano come alibi per le proprie incapacità di risolvere i problemi e/o di fare dell’Italia una democrazia compiuta, identificata con una democrazia dell’alternanza. Qui viene ovviamente citato Moro, ma anche il moroteo Roberto Ruffilli, purtroppo erroneamente definito professore dell’Università di Ferrara p. 100 e non di Bologna.

Neppure in un momento di distrazione fa capolino nell’analisi di Guzzetta una qualche comparazione, per esempio con la Francia. La Quarta Repubblica francese (1946-1958) non ebbe alternanza alcuna; nella Quinta Repubblica, fondata nel 1958,la prima alternanza avvenne 23 anni dopo, nel 1981. Sembra che in Italia il male assoluto, peraltro non credibilmente attribuibile alla Costituzione, sia l’esistenza di governi di coalizione: “che il problema italiano sia storicamente quello dei governi di coalizione è noto fin dalle origini” (p. 118). Forse Guzzetta non sa, sicuramente non scrive mai, che tutte le democrazie dell’Europa occidentale sono state governate praticamente da sempre e continuamente da coalizioni di due, tre, quattro, persino cinque partiti. Una sbirciatina comparata consente di vedere in un attimo tutti i governi di coalizione e, naturalmente, anche di capire che gli accordi e i compromessi sono elemento essenziale della democrazie contemporanee. Sostanzialmente, Guzzetta auspica una democrazia maggioritaria che meriterebbe una approfondita discussione per evitare che si identifichi con la vittoria elettorale di un solo partito al quale viene consegnata una maggioranza più che assoluta di seggi grazie ad un qualche furbesco meccanismo elettorale.

La sua rassegna delle leggi elettorali italiane perde di vista l’obiettivo da conseguire che in nessuna democrazia (ahi, ancora la mancanza di prospettiva comparata) è l’elezione del governo, ma l’elezione di un’assemblea rappresentativa e il cui criterio di valutazione è il potere degli elettori, quanto e come. La sua preferenza va ai “governi di legislatura” e, certo, la stabilità e la durata sono elementi positivi purché accompagnati dall’efficienza e efficacia decisionale sulle quali Guzzetta non ha nulla da dire. Invece, dice qualcosa di ambiguo sui checks (plurale) and balances il cui richiamo “esprime spesso il riflesso condizionato di una cultura consociativa e assemblearistica” poiché “non sono interpretati come meccanismi di controllo costituzionale e politico, in vista di una della ‘competizione’, ma come strumenti di blocco e paralisi che alludono a una nostalgia della codecisione” (p.115). Questa critica severa ad una delle componenti fondative delle democrazie liberal-costituzionali non è purtroppo accompagnata da nessun esempio concreto e preciso.

Rimanendo nel vago, Guzzetta attribuisce buona parte della responsabilità di avere mantenuto transitoria la Repubblica e di non avere proceduto a dare vita ad una democrazia maggioritaria, bipolare, compiuta, dell’alternanza (sono tutte specificazioni che ricorrono nel libro e fanno parte del dibattito pubblico, ma dovrebbero essere sottoposti ad un vaglio severo) alla “persistenza di una cultura dei partiti mediamente ancora arretrata” (p. 116). Immagino che il giudizio riguardi la cultura istituzionale dei partiti poiché oramai di cultura politica i partiti italiani sono privi da una ventina d’anni, ma anche in questo caso riferimenti più puntuali, riguardanti anche quello che hanno detto e scritto gli intellettuali fiancheggiatori di quei partiti, renderebbero la critica più incisiva e più feconda. Quanto ai partiti stessi, Guzzetta sembra preoccuparsi della loro, certamente problematica (è un eufemismo) democrazia interna piuttosto che del sistema dei partiti, del suo formato, della sua meccanica (per usare la appropriata terminologia di Sartori), degli esiti della loro competizione.

È da tempo accertato che le democrazie nascono con e grazie ai partiti e che i partiti nascono con e grazie alle democrazie. Il quesito contemporaneo è duplice: 1. Possono esistere democrazie senza partiti?; 2. Se muoiono i partiti moriranno anche le democrazie? (chiaro è che la morte di una democrazia implica la morte dei suoi partiti). Se i partiti sono così importanti, allora la loro evoluzione/trasformazione può essere molto importante, talvolta decisiva per la periodizzazione della dinamica di qualsiasi sistema politico. Guzzetta fa spesso riferimento alla numerazione delle Repubbliche. La Prima Repubblica (1948-1994) è stata superata da una Seconda Repubblica (1994-2018) e, in seguito alla estromissione di alcuni partiti, in particolare, il Partito Democratico e Forza Italia, e alla formazione del governo giallo-verde (Cinque Stelle-Lega), saremmo entrati, trionfantemente a sentire parole pronunciate dal noto costituzionalista, capo del Movimento 5 Stelle e vice-presidente del governo, Luigi Di Maio, nella Terza Repubblica. Credo che la terminologia in corso, in parte accettata e usata da Guzzetta e da molti altri, sia, in assenza di criteri che consentano di capire quando si passa da una Repubblica ad un’altra, sostanzialmente sbagliata e fuorviante.

Per passare (transitare…) da una Repubblica a un’altra è necessario quello che definisco un cambiamento di regime, vale a dire delle istituzioni, delle norme e delle procedure, se si preferisce della Costituzione. In Italia, non è affatto avvenuto questo passaggio. In Francia, sì: dalla Quarta alla Quinta Repubblica si passa da una democrazia parlamentare classica/tradizionale ad una democrazia semi-presidenziale sostanzialmente nuova (qualcuno sostiene, con prove abbastanza convincenti che la Repubblica di Weimar configurò una democrazia semi-presidenziale) e moderna. Invece, la riunificazione tedesca nel 1990, pure fenomeno di enorme importanza e significato, non ha portato a nessuna nuova Repubblica. La Costituzione tedesca del 1949, definita Legge Fondamentale (Grundgesetz), ha brillantemente accolto e assorbito quell’evento epocale senza nessun mutamento di rilievo nelle istituzioni, nelle regole e nelle procedure, neppure quelle elettorali. Per quanto riguarda l’Italia, la Repubblica rimane quella “vecchia”, magari, secondo sia molti critici sia i suoi sostenitori, traballante e barcollante (tutto da provare), certamente scossa, forse squilibrata da attacchi e aggressioni di varia portata . Personalmente, non utilizzerei nessuno dei vari aggettivi per la Costituzione italiana vigente che mi pare, al contrario, meritare di essere definita: flessibile, adattabile e lungimirante (presbite nelle parole di Piero Calamandrei). Potrei aggiungere anche riformabile, ma non nel senso che deve essere riformata, ma che, a determinate condizioni, sapendolo fare, può essere riformata.

Guzzetta è stato uno dei sostenitori pancia a terra delle riforme Renzi-Boschi. Qui dedica poche righe a quelle riforme e praticamente nessuna riflessione sulla loro sconfitta nel fatidico referendum costituzionale tenutosi il 4 dicembre 2016 (che, dunque,ripeto, l’aggettivo “confermativo” non è proprio riuscito a meritarselo). Purtroppo, continuano in maniera alquanto insipiente le recriminazioni, i rimpianti, i rancori e le critiche tanto severe quanto sommarie nei confronti di coloro che quelle riforme con buoni motivi e molte argomentazioni criticarono, combatterono, sconfissero. Non si può che rimanere non solo sconcertati, ma anche irritati, leggendo una frase come questa (in un articolo che si occupa di tutt’altro): “i grandi giuristi che si schierarono per il ‘no’ al referendum, i difensori della Costituzione più bella del mondo minacciata non si sa da chi e per come, dove diavolo si sono cacciati? Hanno perso la voce? O prendersela ieri con Renzi era più eccitante che contestare oggi Salvini e Di Maio? L’attendismo prudente degli intellettuali: ecco un’altra costante della nostra storia plurisecolare” (Guido Melis, Come nasce una classe dirigente, in “il Mulino”, LXVIII, n. 501, 1/19, pp. 109-110).

Vinsero i professoroni e i gufi (molti dei quali sono, non proprio incidentalmente, ma coerentemente, limpidi e assidui critici delle politiche del governo giallo-verde), che si rivelarono inaspettatamente capaci di mobilitare un elettorato le cui caratteristiche sembravano farne un improbabile ascoltatore di raffinate argomentazioni. Secondo il padre gesuita Francesco Occhetta, “gli elettori del No sono stati quelli del ceto medio impoverito dalla crisi mentre tra i giovani digital democratici [in questa citazione manca qualcosa, forse un’aggiunta di questo tenore: “si manifestò una maggioranza per il ‘Sì’”], l’identikit dell’elettore del No è soprattutto una donna, mediamente colta, con un lavoro precario, e non impegnata direttamente in politica. A loro è mancato un ‘perché’ condiviso che diventasse un orizzonte e un nuovo sogno politico” (Ricostruiamo la politica. Orientarsi nel tempo dei populismi, Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo, 2019, pp. 120-121). Non so quale fosse il “nuovo sogno politico” di quei giovani, ma le ricognizioni post-voto dicono che anche i giovani digitali fra i 18 e i 34 anni hanno dato alte percentuali al No e che gli uomini votarono No in percentuali superiori a quelle delle donne: A. Pritoni, M. Valbruzzi, R. Vignati (a cura di), La prova del NO. Il sistema politico italiano dopo il referendum costituzionale, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2017, p. 133.

Non sono neppure sicuro di avere capito come Guzzetta vorrebbe chiudere l’imprecisata transizione italiana dando vita a quale regime, a quale Repubblica –nella quale, credo, interpretandolo in maniera corretta, Teodori desidererebbe un elevato tasso di liberalismo soprattutto politico, ma anche culturale e sociale. I suggerimenti formulati da Guzzetta, peraltro complessivamente piuttosto vaghi, sotto forma di analisi di “vicende paradigmatiche della Costituzione parallela”, non riguardano direttamente l’assetto istituzionale tranne quello contenuto nel capitoletto sul presidenzialismo strisciante che conclude che l’elezione popolare diretta del Capo dello Stato sarebbe “l’unico possibile antidoto” alle “possibili degenerazioni autoritarie” (p. 151). Senza attribuzione di poteri di governo, vale a dire, senza una effettiva transizione a una Repubblica presidenziale oppure semi-presidenziale, con l’elezione popolare diretta del Capo dello Stato avremmo sì un elemento di grande novità, ma non ancora una nuova Repubblica. Comunque, chi vuole il presidenzialismo stile USA oppure il semi-presidenzialismo alla francese ha l’obbligo di ridisegnare l’intero circuito istituzionale e di indicare quale legge elettorale. Peccato che Guzzetta non eserciti la sua fantasia in questa commendevole direzione.

Concludo. Qualsiasi controstoria della Repubblica è chiamata e obbligata a dare grande spazio alle tematiche istituzionali. Alcune sono già (ri)comparse, in maniera disordinata, nell’agenda del governo Di Maio- Salvini: referendum propositivi, riduzione numero dei parlamentari, autonomie regionali differenziate. Non è affatto detto che, quand’anche le riforme annunciate fossero approvate, porterebbero ad un’altra Repubblica, a una Repubblica migliore. Appare molto probabile, invece, che inciderebbero negativamente, squilibrandola, sulla democrazia parlamentare e, quindi, inevitabilmente sullo stato di salute, attualmente non buono, della Repubblica, quella congegnata e riflessa nella Costituzione del 1948, quella che, nient’affatto transitoria, ha, comunque, accompagnato, non ostacolato, nell’arco di più di settant’anni, quanto l’Italia è riuscita finora a conseguire e che gli ultimi vent’anni non hanno cancellato del tutto. Del doman non v’è certezza.

“Los argentinos y los italianos tienen el sistema político que se merecen” #Entrevista @clarincom

El politólogo italiano opina que países como el nuestro e Italia tienen el sistema político que se merecen. Le preocupan Trump, Bolsonaro, Maduro, Putin y Salvini.

 

Gianfranco Pasquino: “No puede ser que un país democrático, no sepa cómo resolver algunos problemas de una manera estructural, tomando decisiones y disfrutando de momentos favorables, y que no pueda construir algo que se proyecte en el futuro”. Foto: Juano Tesone. Entrevista: Hector Pavon

La democracia, los partidos políticos, la filosofía política, los sistemas de muchos países, están en ebullición, en crisis. Todo puede ser preocupante y al mismo tiempo excitante para un politólogo de jornada completa como lo es el italiano Gianfranco Pasquino. El ex senador y referente global de la ciencia política estuvo la semana pasada en Buenos Aires abriendo, con una conferencia, las jornadas “Debatiendo la democracia: política, filosofía y derecho”, a 110 años del nacimiento del filósofo Norberto Bobbio, realizadas en la Facultad de Derecho de la UBA dentro del ciclo “Grandes pensadores italianos” organizadas por el Centro Ítalo Argentino de Altos Estudios.

“Bobbio fue uno de los tres o cuatro filósofos políticos italianos de la segunda mitad del siglo veinte más importantes. Al mismo tiempo, Giovanni Sartori ha sido uno de los más grandes cientistas políticos del mundo. Es difícil decir cuál es la herencia. Porque hay una fragmentación general del pensamiento político del mundo tal que resulta difícil encontrar autores capaces de iluminar lo que ocurre. Sartori y Bobbio tienen las herramientas necesarias para comprender el mundo. Pero no veo que haya quienes sepan hoy cómo hacerlo”, interpreta un Pasquino cansado por la agenda intensa en Buenos Aires y un tanto escéptico por el presente político en Occidente. “¿Vamos al punto?”, le pregunto. Responde resignado: “Y… si hay un punto”

–En relación al estado de la democracia usted citó en una nota en Clarín la cifra de 90 países que viven en una democracia “realmente existente”. ¿Qué características tienen esos países para integrar ese grupo?

–La estadística viene de una organización que se llama Freedom House. Hay dos elementos cruciales para definir una democracia. Un conjunto importante de derechos que son indispensables. Y también hay elementos que pertenecen al funcionamiento de las democracias reales, es decir, las instituciones, la separación de los poderes, la responsabilidad de los que gobiernan y representan, los frenos y contrapesos dentro de un sistema político: nadie puede decidirlo todo. Y hay una necesidad de que exista un sistema judicial autónomo

independiente del poder político, y un sistema de medios que también sea independiente, capaz de controlar lo que los gobiernos hacen. Y aún así las democracias reales tienen problemas porque hay una erosión de derechos, de la autonomía del sistema judicial, y una erosión de la libertad de los medios.

–¿Qué países de América Latina integran esta lista?

–La Argentina integra la lista, BrasilColombiaUruguayChileMéxico con un aceptable nivel de funcionamiento. Sabemos que hay problemas en Perú, verdaderos problemas en Venezuela.

–Usted dijo en la UBA que “los argentinos y los italianos tienen el sistema político que se merecen”. ¿Qué implica esta frase?

–Que hay una competencia libre entre partidos y entre líderes. Existe la posibilidad para los electores de elegir a los que quieren. Entonces si los gobiernos funcionan mal, el problema es de los que lo han elegido. Los ciudadanos de la Argentina y de Italia no participan muy activamente. En algunos casos, no se interesan en la política. “La política no me interesa porque es una cosa sucia, la política es de los que tienen dinero”, se dice. Es verdad, la política algunas veces es sucia, es verdad que el dinero cuenta, pero si los ciudadanos no participan no pueden cambiar el sistema. Por ejemplo, hay un 25% de italianos que no votan. Y yo creo que se da el mismo porcentaje en la Argentina. Entonces se merecen lo que tienen.

–¿Usted cree que el gobierno italiano actual tiene un plan?

–El gobierno italiano (de Sergio Mattarella) tiene, creo, dos planes. El primero es sobrevivir. Sobrevivir y continuar gobernando hasta 2023. Hay un adversario, un enemigo muy fuerte, que se llama Matteo Salvini que puede ganar las elecciones si el gobierno no sobrevive. Este es un gobierno de supervivencia contra un adversario que en realidad tiene bastante poder, pero no tiene un plan. Solo tiene un plan de seguridad, con algunos componentes autoritarios. El segundo plan del gobierno italiano es hacer algunas reformas –los dos partidos comparten algunas posiciones–. Reformas que puedan producir un crecimiento económico, que es lo que falta en Italia porque hace diez años que no crece. Hay un único elemento que crece: la deuda pública. No podemos continuar así. No es verdad; podemos continuar así, pero con consecuencias negativas. Es decir, poco crecimiento o ninguno porque no hay dinero para invertir. Europa

tiene los recursos para ayudar a Italia porque tiene un plan, es decir, de integrar no solamente los mercados sino de utilizar mejor los recursos para invertir en algunos países, y producir un proceso decisional que sea más respetuoso de las preferencias de los diferentes países, y no solo de Alemania Francia que son los más poderosos.

–Y a usted como analista político, ¿no le parece interesante el presente de la política italiana?

–Para los analistas políticos, la política italiana siempre es interesante. Me mantiene ocupado. Porque hay algo que puedo explicar, como cientista político, como analista, participo de conferencias, escribo artículos. Pasquino el analista político está muy satisfecho. Pasquino el ciudadano no está satisfecho, está muy deprimido, porque yo sé que el

país podría mejorar, pero no lo hace. Entonces, eso me deprime, porque es un gasto del propio futuro, de la situación actual de los que no tienen bastantes recursos, y que podrían tenerlos si existiera una política que funcione mejor.

–Tanto en América como en Europa se habla de la amenaza populista. Para algunos populismo es una mala palabra. ¿Y para usted?

–No, populismo no es necesariamente una mala palabra. Lo que yo sugeriría es no utilizar populismo para definir todo lo que no nos gusta, es decir, si no nos gusta la Juventus, no es porque la Juventus sea populista. Si no nos gustan los que dicen que debemos cambiar el parlamento italiano, eso no significa automáticamente que sean populistas. Pueden tener ideas para cambiar el sistema del parlamento. Debemos definir claramente lo que es populista y lo que no es populista. Y debemos tener en cuenta que un poco de populismo existe en todas las democracias. Si democracia es poder del pueblo, hay un elemento de populismo. El problema es cómo traducir el populismo en prácticas democráticas. Se dice que hay un líder que puede interpretar las preferencias, los intereses, los deseos del pueblo. No es así. En ningún sistema político puede existir un líder capaz de interpretar todo. No es así, porque hay grupos, asociaciones, que participan, hay compromisos, hay decisiones que representan a la mayoría de la población. Cuando hay un líder que dice “yo interpreto las necesidades, las preferencias del pueblo”, el líder va a muy

rápidamente va a decir que los que no aceptan su interpretación son los enemigos del pueblo. Esa es necesariamente, definitivamente, una situación populista.

–¿Qué análisis le despierta la política argentina en este entretiempo eleccionario, donde aparentemente habrá un cambio de rumbo pero donde persisten problemas muy viejos?

–Sí, hay problemas viejos. Eso me preocupa. No puede ser que un país democrático, no sepa cómo resolver algunos problemas de una manera estructural, tomando decisiones y disfrutando de momentos favorables, y que no pueda construir algo que se proyecte en el futuro. Las expectativas que despertó Mauricio Macri fueron muy altas. Pero Macri no las ha cumplido. ¿Por qué? Porque sus colaboradores no son lo suficientemente capaces:no tenía un plan y eso puede explicar por qué digo que los argentinos merecen el sistema político que tienen. Es evidente que la presidencia de Macri no ha sido un éxito. El elemento que los italianos y que yo tampoco comprendo pero intento explicar –incluso si no lo comprendo–, es el peronismo. Mi frase sería “peronismo para siempre”. En todos los momentos el peronismo existe y cuando hay elecciones libres, si los peronistas no han gobernado pueden ganar, porque representan evidentemente una mayoría que cuando se une gana. Pero para unirse debe buscar una posición compartida y una vez que ha ganado las tensiones, las diferencias dentro del peronismo producen algunas dificultades en el gobernar.

–¿Pero el peronismo no es ya otra cosa, un partido que muta constantemente? Hubo menemismo, kirchnerismo, ya no hay símbolos, cambian los nombres para rearmarse…

–Es muy difícil analizar todas los cambios. Aun con transformaciones, el núcleo interno del peronismo continua siendo el elemento importante, que permite a todos los diferentes grupos unirse cuando es necesario ganar. Luego, gobernar es siempre difícil, pero cuando los grupos han ganado intentan transformar la preferencia del grupo en una política pública. Y eso produce tensiones y conflictos. Y después, mucho depende de las personas, de los líderes. Hay tendencias autoritarias en el peronismo. Menem evidentemente lo fue, pero ganó la reelección, entonces es un fenómeno complejo, ¿Cómo se llama hoy la coalición?

–Todos. Y la “o” es un sol que es todos, todas.

–Pero los votantes comprenden que “todos”, son los peronistas.

–Sí, sí. Sin duda. ¿Y los partidos políticos siguen siendo la columna vertebral de la democracia?

–Lo fueron.Las democracias han aparecido junto con los partidos. En el pasado cualquier transición de un régimen autoritario a la democracia, necesitaba partidos, y si existían los partidos, la transición tenía éxito. Entonces, democracia y partidos fueron el elemento central de la política de todos los países que son democráticos hoy. ¿Si los partidos se debilitan, se debilita también la democracia? Sí. Entonces, los problemas que vemos en las democracias son los que los partidos no saben resolver, porque los partidos hoy son débiles prácticamente en todo el mundo. Pero no son débiles en todos los países. ¿Cuál es el problema de la democracia estadounidense? Que el partido republicano no es más un partido, es un vehículo que Trump conquistó. ¿Cuál es el problema de Italia? Que no existen más los partidos. Simplemente. Es decir, hay un partido que se llama Partido Demócrata, que es un partido débil. Todos los otros han rechazado el nombre de partido. La lega, Movimiento 5 estrellasForza ItaliaFratelli d’Italia. Pero partido, no. ¿Cuál es el problema de España? Que los dos grandes partidos se derrumbaron y hoy hay otro que es un sucesor, Podemos. También hay un movimiento de derecha, Vox. ¿Cuál es la situación

favorable de Portugal? Que los partidos existen, y que crean coaliciones, producen gobiernos. Portugal hoy funciona bastante bien, Alemania también, aún si hay nuevos partidos, y hay un partido de derecha que desafía todo el sistema político. ¿Cuál es probablemente la situación más estable de América Latina? La de Chile donde la derecha sabe cómo organizarse, la centro izquierda es una coalición. En muchos lugares hay problemas de ofrecer a los votantes un plan, de ofrecer a los electores, líderes que sepan qué hacer.

–¿El politólogo hace circular su palabra, tiene resonancia en la sociedad, es valorado, tanto en Italia, en la Argentina y en los escenarios que usted más conoce?

–En algunos países, los politólogos son bastante visibles, no sé si valorados, pero participan en el debate público. Y si son buenos politólogos, producen ideas, propuestas, pero la traducción concreta siempre está en manos de los políticos, de los que tienen poder. En AlemaniaInglaterra, algunos politólogos son bastante importantes. En EE.UU. hay algunos poquísimos, porque han perdido a todos los que yo llamo intelectuales públicos. Diría que Bobbio y Sartori han ejercido una influencia importante sobre los análisis políticos, en escribir la agenda de los problemas políticos, en sugerir soluciones. Hoy hay un debate público bastante intenso en Italia, yo participo allí, algunas ideas penetran, pero la situación política nunca es estable, el debate continúa, las decisiones son

raramente tomadas. Hay problemas.

–¿Y hoy existe el papel del politólogo, cerca del político, del gobernante?

–¿Qué tan cerca?

–¿Cómo intelectual orgánico?

–Orgánico no. Creo que no existen más y sería un problema serlo. El intelectual público debería hablar al público y los políticos son parte del público. La relación con el eventual público y con el político no debe ser como consejero. Debe ser como crítico. Entonces, si usted político quiere cambiar la ley electoral, la que podemos utilizar aquí, en los próximos treinta años y se logra y si después, usted dice algo

diferente, yo lo critico y explico por qué lo critico. Hoy hay un intenso debate público en EE.UU:, entre los politólogos, sobre la victoria de Trump, y ahora sobre el impeachment. Es interesante. Pero los politólogos que pueden ejercer un poco de poder lo ejercen escribiendo en los grandes medios como el The New York Times o van a la televisión. Así se expresan.

El mapamundi imperfecto de los gobiernos

Brasil Tiene dos elementos muy negativos. El presidente que es un hombre blanco con mucho bagaje reaccionario. Otro problema es el papel, la influencia de la religión. Los evangélicos tienen demasiado poder.

Venezuela Es un desastre. Venezuela es una situación autoritaria, no consolidada, si no hay cambios, va a continuar produciendo consecuencias muy negativas para la población. Hay tres millones de venezolanos en el extranjero. No se puede aceptar una situación ese tipo.

Estados Unidos Es una democracia que tiene problemas no solo de funcionamiento, sino también estructurales. El federalismo hoy es un problema estructural. Y el poder del presidente, por ejemplo, para nombrar a los jueces de la Corte Suprema, me parece un problema estructural.

Gran Bretaña Yo diría lo mismo de Gran Bretaña que de Italia. Es muy interesante desde el punto de vista del analista político, debe ser tremendamente deprimente desde el punto de vista del ciudadano, pero debemos interrogarnos sobre Gran Bretaña porque tiene una constitución que no está escrita, es muy flexible y pueden resolver problemas. Gran Bretaña nos hace muy evidente que aún en un gran país, en una gran democracia debe colaborar con otras democracias. Es decir, los problemas hoy de Gran Bretaña son los problemas que dependen del Brexit. Los ingleses están enseñando al mundo y a los europeos, que la Unión Europea es una solución y no un problema. Y si usted deja la Unión Europea crea un problema.

Rusia Es una situación autoritaria con un líder evidentemente autoritario. No hay democracia, las elecciones no son libres, porque los opositores no pueden participar, hay control sobre los medios, nunca los jueces ejercen bastante poder, porque son nombrados por el líder. Pero es un país bastante rico y entonces cuenta sobre la política europea y la política mundial. Las armas nucleares existen.

04/10/2019 Clarín.com

 

 

 

Populismo: la sfida e la risposta

I fattori economici, vale a dire disoccupazione, redditi bassi, disagi personali e familiari contano abbastanza nel produrre e nel sostenere leader e movimenti populisti. Più importanti, però, forse addirittura decisivi, sono i fattori culturali: persone e comunità che temono che gli immigrati scombussolino e turbino i loro stili di vita, i loro valori, i loro rapporti sociali e violino impunemente le regole scritte e non scritte. Questi timori non debbono essere “deplorati”, ma capiti. Meritano una risposta alta e convincente.

 

Continuiamo a combattere, per quanto morbosi siano i tempi #SintomiMorbosi” di Donald Sassoon

“La crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati”. Donald Sassoon, professore emerito di Storia Europea Comparata alla Queen Mary University di Londra, ha scelto questa molto nota frase di Gramsci come l’epigrafe del suo più recente libro (Sintomi morbosi, Milano, Garzanti 2019, pp. 322). Il sottotitolo: Nella nostra storia di ieri i segnali della crisi di oggi, mi pare poco appropriato poiché, in effetti, ieri , vale a dire, tanto nel lungo dopoguerra di sviluppo, di miracoli economici, di costruzione dell’Unione Europea quanto nel periodo immediatamente successivo alla caduta di Berlino e, quindi, alla democratizzazione dell’Europa centro-orientale, le cose non sono poi andate così male. Le tre sfide problematiche annunciate dalla fascetta del libro: nazionalismo, immigrazione, populismo sono davvero fenomeni dell’oggi. È qui, infatti, che situerei i sintomi morbosi brillantemente evidenziati e spesso sarcasticamente stigmatizzati dall’autore. Peraltro, Sassoon scoraggia subito qualsiasi tentativo di comparazione dei nostri anni con un eventuale ritorno del fascismo né vecchio, che in molti luoghi non è morto e mantiene tracce, né nuovo che non riesce a rinascere compiutamente.

Purtroppo, il vecchio che sta morendo è probabilmente la più grande conquista dell’Europa occidentale nel corso della sua storia: lo Stato sociale diventato economicamente insostenibile e politicamente sfidato con persin troppo successo dal neo-liberalismo. C’è anche un vecchio che rinasce e avanza: una miscela fastidiosa e pericolosa di xenofobia, antisemitismo compreso, e di nazionalismo, che neppure il processo di unificazione politica dell’Europa è riuscito a mettere sotto controllo. Al proposito, Sassoon si esercita in severe critiche a quelle che chiama “narrazioni europee” fino a porre l’interrogativo cruciale: L’Europa implode? “… il progetto europeo non è riuscito a conquistare i cuori e le menti di molti. Per diventare centrale nella vita politica, in effetti, l’Unione Europea avrebbe bisogno di maggiori poteri, che non potrà mai avere senza il sostegno degli europei, che non glielo daranno prima che l’Unione abbia conquistato i loro cuori e le loro menti: ecco il palese circolo vizioso in cui si trova l’Unione Europea” (p. 241). Opportunamente, Sassoon mette in evidenza che “gli europei sanno poco gli uni degli altri. … L’unico paese che ciascun cittadino europeo conosce meglio di tutti gli altri sono gli Stati Uniti” (p. 247). Creata intorno alla decisione di sfruttare al meglio le risorse economiche, secondo Sassoon, l’Europa ha sì fatto grandi passi economici avanti, ma attraverso notevoli squilibri cosicché “solo quando il gap economico tra i paesi più avanzati e i ritardatari si sarà ristretto potrà esserci un’Europa sociale più equilibrata. Quel giorno è lontano” (p. 250).

L’altro vecchio che sta morendo e in qualche caso, nella maniera più evidente in Italia, è effettivamente scomparso è un sistema di partiti relativamente stabili, rappresentativi, efficienti. Molto brillantemente Sassoon offre al lettore un excursus sui sistemi di partiti europei evidenziando la comparsa di partiti xenofobi e populisti un po’ ovunque sul territorio europeo e, in particolare, l’indebolimento della socialdemocrazia “tradizionale”. Se, come sostiene, a mio modo di vedere, in maniera molto convincente, una corrente di pensiero politologico, i partiti nascono con la democrazia e le democrazie sono inconcepibili senza i partiti, allora se i vecchi partiti muoiono e i nuovi sono oscuri grumi di xenofobia, nazionalismo, neo-nazismo, le preoccupazioni per le sorti dei diversi sistemi politici democratici non possono che essere enormi.

Fra i morituri Sassoon colloca, se ho capito bene, con qualche riserva, anche l’egemonia americana. Nel passato, “in realtà nessuno ha mai ‘guidato il mondo” e i poteri egemoni lo erano, al massimo, in una regione determinata” (p. 193). Inoltre, l’egemonia richiede leadership politiche all’altezza e Sassoon ritiene che nessuno dei Presidenti USA del dopoguerra abbia avuto le qualità necessarie. “Kennedy fu un presidente di notevole incompetenza” e “Eisenhower … fu un mediocre presidente” (p. 201). Lyndon Johnson fu un disastro in politica estera. “Ultimo, ma non meno importante in questa triste sequela [di incompetenti, in particolare in politica estera], è Donald Trump, che non capisce nemmeno i limiti del potere presidenziale e resterà uno zimbello universale a meno che non scateni la terza guerra mondiale” [eccolo il pericolo adombrato da Papa Bergoglio] (p. 207). Talvolta nel suo irrefrenabile slancio critico, Sassoon va forse troppo in là. Per esempio, quando afferma “gli interventi militari americani, quasi tutti inutili dal punto di vista dell’interesse nazionale del paese, si sono risolti quasi sempre … in disastri” (p. 210), dimentica, credo sbagliando, i due interventi decisivi nella Prima e nella Seconda Guerra Mondiale.

Lungo tutto il libro corrono valutazioni durissime e senza sconti ai leader, capi di governo, Presidenti di Repubbliche, ministri di un po’ tutti i paesi. Prevalentemente ignorati, gli unici che se la cavano sono i comunisti cinesi. Per quel che riguarda l’Europa si salva,ovvero Sassoon salva, Jeremy Corbyn che finisce per essere l’unico lodato non soltanto in quanto persona di principi, ma anche per le sue proposte che si collocano in una versione moderata di socialdemocrazia. Naturalmente, al suo confronto, tutti i leader inglesi dai laburisti Tony Blair e Gordon Brown, ma anche Ed Miliband, ai Conservatori, in particolare David Cameron e Theresa May, e soprattutto l’ex-sindaco di Londra e ex-ministro degli Esteri, il Brexiter Boris Johnson (un “buffone”) fanno una figura pessima che non è finita proprio perché la Gran Bretagna continua a sprofondare nella confusissima liquidissima Brexit e non si sa quando e quanto tristemente e costosamente ne emergerà. Fatto un lungo elenco di vecchi leader che ritiene grandi, fra i quali, obietto fortemente all’inclusione di Giulio Andreotti in una compagnia che va da Willy Brandt e Felipe Gonzalez a Helmut Kohl e François Mitterrand, mentre mi spiace di non scorgere Alcide De Gasperi, Sassoon ne trae una considerazione condivisibile: “bisognerebbe dedicare più tempo a esaminare come mai la qualità del personale politico in Occidente sia tanto scaduta”e una valutazione durissima e centrata: “questa è un’epoca di pigmei che dei giganti non hanno alcuna memoria” (p. 240).

Giunto alle ultime pagine di questo libro spumeggiante e stimolante mi sono ritrovato con un interrogativo giustificato anche dalla citazione fatta da Sassoon di un giornalista inglese: “L’ordine internazionale globale sta crollando in parte perché non soddisfa i membri della nostra società” (p. 282). Confesso (mi pare il verbo più appropriato) che i pontefici non sono i miei politologi di riferimento. Papa Bergoglio non fa eccezione neppure quando annuncia, come se fosse un esperto di relazioni internazionali, che “siamo entrati nella Terza guerra mondiale, solo che si combatte a pezzetti, a capitoli”. Sassoon dà pochissimo spazio, quasi nullo ai rapporti fra gli Stati. Però, la sua valutazione della mediocrità, del narcisismo, dell’ignoranza dei dirigenti politici contemporanei fa temere che fra i “sintomi morbosi” si annidi anche quello che potrebbe inopinatamente portare per futili motivi ad un conflitto devastante dal quale non riesco proprio a intravedere quale “nuovo” farebbe la sua comparsa. Comunque, accetto l’invito conclusivo, fra il Sessantottismo francese e l’attualissimo gramscismo, di Sassoon: “continuiamo a combattere, per quanto morbosi siano i tempi” (p.283).

Pubblicato il 19 marzo 2019 su casadellacultura.it

Il populismo nel cuore (delle democrazie)

Nessuna nostalgia per il passato, nessuna paura per il futuro. Capire il presente per costruire il futuro. Queste sono le due considerazioni che hanno guidato la mia lettura del denso, stimolante, efficace volume di Ferruccio Capelli, Il futuro addosso. L’incertezza, la paura e il farmaco populista (Milano, Guerini e Associati, 2018). Ho anche pensato che il presente è il prodotto del passato, di scelte, errori e responsabilità personali che bisogna individuare e criticare, superare. Differentemente da Capelli, credo che il presente non sia tutto populismo. È molto diversificato, non ha bisogno del “farmaco” populista, ma di politica e già contiene non pochi anticorpi che debbono e possono essere sollecitati. La grande trasformazione degli ultimi trent’anni è stata innescata, secondo Capelli, da due possenti motori: la globalizzazione (finanziaria e delle comunicazioni) e l’innovazione tecnologica. È stata giustificata e sostenuta dall’ideologia neo-liberale. Si è manifestata in tre ambiti, ovvero secondo tre modalità: la disintermediazione, la solitudine (involontaria) e lo spaesamento (culturale). L’esito complessivo è stato quello di aprire grandi spazi – vere e proprie praterie – alle incursioni populiste. Il populismo, o meglio, i populisti offrono una risposta che definirò ricompositiva: mettono insieme il loro popolo (gli altri, quelli che non ci stanno a farsi mettere insieme e continuano a essere molti, si meritano la definizione di “nemici del popolo” e come tali sono trattati), lo utilizzano contro le élite (l’establishment che Capelli sembra identificare con i potenti che si riuniscono a Davos, con coloro che definisce il “Senato virtuale”, ma – di volta in volta – bisognerebbe specificare quale sia loro presenza e influenza dentro ciascun sistema politico e coglierne anche le contraddizioni), applicando politiche escludenti. Nazionalisti, forse, sovranisti di sicuro, quasi tutti i populisti, anzi, le élite (!) populiste appartengono a un passato del quale, però, non rivelano particolare nostalgia, tranne quella per un’omogeneità etnica, sicuramente non più recuperabile.

Disintermediazione vuole dire, secondo Capelli – e sono d’accordo – la scomparsa di capacità associative e, al tempo stesso, l’indebolimento di tutte le associazioni intermedie che avevano costituito il tessuto connettivo dei processi di democratizzazione e di consolidamento delle democrazie. A sostegno di ciò potrei citare alcuni importanti politologi che hanno scritto e argomentato che le democrazie sono inconcepibili senza partiti. Preferisco ricordare che – secondo Palmiro Togliatti – i partiti sono “la democrazia che si organizza”. Giustamente, Capelli chiama in causa Alexis de Tocqueville e il suo elogio con sorprese delle propensioni associative degli americani, forse sottovalutando il pericolo del conformismo che l’aristocratico francese intravedeva in democrazie basate sull’uguaglianza di condizioni. Sotto dirò di più su uguaglianza e disuguaglianze.

Certo, la solitudine non conduce a interesse politico, a partecipazione politica, a solidarietà. La folla solitaria del sociologo americano David Riesman, pubblicato nel 1950, con un sottotitolo rivelatore: A study of the changing American character, precede di quasi cinquant’anni il – forse triste forse no – “andare a giocare a bowling da soli” (ossia senza una squadra di amici), best seller di Robert Putnam relativo al capitale sociale, vale a dire alle reti di rapporti sociali e affettivi che rendono la vita migliore. Naturalmente un conto è rimanere/ritrovarsi soli, un conto è il volere essere soli e non curarsene poiché si è convinti di possedere le risorse intellettuali, culturali, professionali per cavarsela senza l’aiuto di nessuno e per attivarsi esclusivamente con l’obiettivo di proteggere e promuovere i propri interessi. Sono i “post-materialisti” intelligentemente individuati e studiati da Ronald Inglehart, prodotti e produttori di una rivoluzione silenziosa nei costumi e nei comportamenti.

“Lo spaesamento del cittadino, senza mediazioni e senza cornici culturali, è un altro volto della solitudine dell’uomo [e della donna!] contemporaneo. Egli è libero, svincolato dalle tradizioni e da vincoli predefiniti con gli altri esseri umani, ma l’esercizio della sua libertà si rivela quanto mai problematico” (p. 177). Nel 1941, il grande psicologo Erich Fromm colse nel desiderio di fuggire dalla libertà – ossia dalla necessità di scegliere e dalla corrispondente responsabilizzazione – una delle ragioni per le quali uomini e donne si assoggettarono ai fascismi e al nazismo. Oggi, forse, è il leader populista a offrire questa protezione dalla libertà che, però, il cittadino esercita “nella galassia infinita del mercato” (p. 117).

Dietro o intorno a tutto questo stanno, da un lato, l’irresistibile globalizzazione, cioè un processo forse ingovernabile, certamente non governato; dall’altro, la vittoria su tutta la linea, sostiene Capelli, dell’ideologia neo-liberale. Le capacità di ciascuno e di tutti si misurano attraverso la competizione nei mercati. Il merito viene premiato. Gli sconfitti sono responsabili della loro condizione. Al massimo, lo Stato deve adempiere al compito di regolatore e valutatore. Non deve mai intervenire a favore di chicchessia, ma noi sappiamo – o forse no, sostiene Capelli – che esiste un Senato virtuale, fatto dai potenti in ciascun settore, che squilibra tutta la competizione e, quindi, che incide sugli esiti facendo diventare più ricchi i ricchi e più poveri i poveri. “Il populismo è il sintomo [sosterrei, piuttosto, che è l’esito] più evidente della crisi della politica ridotta nella stagione neoliberale a tecnica di adattamento al mercato e di gestione del contingente” (p. 150).

Secondo Capelli, il populismo indica “un umore, uno stile, una mentalità” (p. 165). È mia opinione, invece, che il populismo debba essere letto e analizzato come un modo, uno dei modi possibili di fare politica nelle democrazie (Orbán è certamente un populista, mentre Putin e Erdogan praticano modalità populiste, ma sono due capi di regimi autoritari, nel caso turco con una spruzzata di fondamentalismo islamico). Dirò di più. In tutte le democrazie è insita una “striscia” di populismo, nel caso italiano accompagnata e pervertita da un cocktail di antipartitismo, antiparlamentarismo e anti-politica. Nelle democrazie più disintermediate – solitarie e spaesate – quella striscia s’ingrossa e confluisce nelle organizzazioni populiste. Non tutto quello che in politica non ci piace è populismo, ma il populismo non può piacere a chi ritiene che la democrazia abbia forme e limiti nei quali si esprime il popolo, funzioni tenendo conto di freni e di contrappesi, protegga e promuova diritti di tutti, delle minoranze di vario tipo, delle opposizioni. Ciò detto, non concordo con Capelli su un altro punto rilevante. La democrazia non ha mai promesso eguaglianza, meno che mai eguaglianza economica (né uguale soddisfacimento di aspettative, preferenze, obiettivi, bisogni). Sartori ha scritto che democrazia è soltanto, ma è moltissimo, isonomia: eguaglianza di fronte alla legge. Dal canto mio, sosterrò che la democrazia promette al popolo (demos) che potrà esercitare potere (kratos), nulla di più. Quel popolo e i singoli cittadini otterranno/eserciteranno influenza sulle decisioni politiche in base alla loro capacità di organizzarsi e di convincere – di volta in volta – le maggioranze. Quel popolo e i singoli cittadini hanno spesso chiesto uguaglianze (plurale) di opportunità e le socialdemocrazie sono spesso riuscite a dare e ridare quelle eguaglianze. Non ho qui lo spazio per indagare se la promessa di eguaglianze di opportunità non possa essere riproposta opportunamente riformulata.

Sostiene Capelli che la crisi della democrazia contemporanea dipenda da un elemento specifico: “mai tante promesse di eguaglianza e mai tante disuguaglianze”. Non credo che sia così. La crisi affonda le radici proprio nei tre fattori da lui abilmente delineati all’inizio della sua analisi: disintermediazione, solitudine, spaesamento e in un quarto fattore da lui stesso accennato: il declino della rappresentanza politica. La soluzione sta in più democrazia, ma sicuramente nient’affatto in quella proclamata come “uno vale uno” (incidentalmente, in nessun ambito uno vale uno) che fa tutt’uno di masse disintermediate che si affannano ad osannare (qualc)uno. Più democrazia non significa neppure che tutte le decisioni di qualsiasi genere debbano essere sottoposte sempre a votazioni popolari attraverso Internet. Significa, invece, che è diventato imperativo esplorare tutte le potenzialità della democrazia deliberativa, delle modalità di istruzione di una decisione, di discussione di un problema, di diffusione delle conoscenze, di apprendimento, di coinvolgimento della cittadinanza fino alla decisione motivata. Qui s’incrociano la politica (“tutte le cose che succedono nella polis”) e la democrazia (il potere dei cittadini sempre più istruiti in materia). No, il populismo non ha vinto e non vincerà. Altri futuri sono possibili.

Pubblicato il 22 febbraio 2019 su casadellacultura.it