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Il ritorno delle coalizioni

“Sconfitto il populismo” annunciano trionfanti le prime pagine di alcuni quotidiani e i titoli dei telegiornali. Chini sui dati alcuni pensosi commentatori dicono che sì, è vero, il populismo è stato pesantemente colpito. Fermo restando che nessun populismo deve mai darsi per soccombente in seguito al voto di cinque milioni o poco più di italiani, il fatto è che non tiene l’identificazione assoluta fra Movimento Cinque Stelle e populismo. Da un lato, il populismo abita anche nei toni, nei modi, nello stile di fare politica di Matteo Salvini, della Lega e di non pochi suoi candidati. Fa anche la sua comparsa nelle proposte renziane di rottamare e tagliare poltrone e senatori. Dall’altro, l’affermazione fondante del Movimento Cinque Stelle: “uno vale uno”, primo è sbagliata; secondo è stata rapidamente sostituita nei fatti da “uno vale uno, ma c’è uno che vale di più”. Infatti, quell’uno, cioè Beppe Grillo, è il vero sconfitto del primo turno delle elezioni amministrative. A Genova il candidato da lui imposto (con una frase inquietante:”fidatevi di me” -con il non detto: “che ne so più delle regole democratiche”) contro la vincitrice di regolari primarie è andato malissimo. I due sindaci da lui osteggiati e ostracizzati, quello di Comacchio ha ri-vinto al primo turno; quello, più noto, di Parma arriva al ballottaggio con il vento in poppa. Altrove, nei pure sgangherati raggruppamenti italiani qualcuno chiederebbe un rendiconto. Invece, il verticistico Movimento Cinque Stelle rimane consegnato a Grillo e a Casaleggio figlio. C’è la loro convinzione, non del tutto malposta, che, andate male queste elezioni, rimane uno zoccolo duro sul quale ricostruire il consenso in vista delle elezioni politiche. Quello zoccolo di voti, intorno al 25 per cento, è costituito dai molti italiani, prevalentemente giovani, che accettano e condividono la critica radicale della politica e dei politici. Sull’antipolitica Grillo ha costruito il suo successo. Cercherà di rivitalizzarlo e, poiché è improbabile che a livello nazionale ci siano impennate di miglioramenti (a cominciare dall’elaborazione di una legge elettorale quantomeno decente), il tesoretto, poco populista, molto antipolitico, dei voti grillini non sarà dilapidato.

Grillo non è mai stato l’unico “uomo solo al comando”. Prima di lui Berlusconi, che il comando non intende mollarlo e che di successori ne ha già bruciati non pochi, e, naturalmente Renzi. Andato a sbattere contro il muro dei no al referendum del 4 dicembre, Renzi non ha affatto rinunciato, almeno a parole, alla sua idea centrale, la riverniciatura della “vocazione maggioritaria”. Tuttavia, clamorosamente, gli esiti del primo turno, le cui propaggini arriveranno fino al secondo turno, dicono alto e forte che è tornata la politica delle coalizioni. Dappertutto, il centro-destra si rivela competitivo perché, nel silenzio di Brerlusconi, riesce a mettere insieme le sue sparse e, spesso, anche conflittuali, membra. Il “sogno” maggioritario del Partito Democratico annega in una varietà quasi infinita di liste civiche di sinistra, di centro, di quant’altro a suo sostegno. Altro che correre da soli. Invece di costruirlo dal governo, grazie ad offerte di posti e di (ri)candidature, il Partito della Nazione si materializza sul territorio dove sono state confezionate liste persino con i tanto bistrattati scissionisti, i quali, da soli, ovviamente, non sarebbero andati da nessuna parte, meno che mai nei consigli comunali in lizza.

La coerenza renziana e piddina svanita per ineludibili considerazioni di bottega dovrebbe spingere a rivalutare le coalizioni, la modalità più diffusa con la quale si fa politica nelle democrazie parlamentari. Dovrebbe anche fare riflettere i tuttora improvvisati apprendisti stregoni delle riforme elettorali buone per una sola stagione. La legge per i sindaci, approvata dal Parlamento nel 1993 sotto una possente spinta referendaria, è ottima e funziona poiché fu pensata per dare potere, non a qualche partito o leader, ma agli elettori. Così dev’essere anche per la necessaria legge elettorale nazionale. Il resto ce lo diranno i ballottaggi.

Pubblicato il 13 giugno 2017

Sartori, il teorico della democrazia che portava la logica nella politica

Intervista raccolta da Alessandro Lanni per RESET 

«La scienza politica deve essere rilevante, non è lo studio delle farfalle». E il tentativo di trovare la teoria nella realtà è quello che ha cercato di fare per tutta la vita Giovanni Sartori, il politologo fiorentino scomparso il 1 aprile a quasi 93 anni. La battuta è di Gianfranco Pasquino, anch’egli scienziato della politica, ex senatore, ma qui soprattutto allievo e grande conoscitore di Sartori fin da quando frequentava le aule dell’università “Cesare Alfieri” di Firenze negli anni Sessanta. Nel teorico che cerca la “rilevanza” delle sue idee nella realtà sta l’originalità di Sartori, spiega Pasquino. Reset gli ha chiesto di tratteggiare un ritratto a partire dai ricordi personali per arrivare collocare quello che definisce un “gigante della scienza politica mondiale” nella giusta prospettiva.

Come inizia la carriera di Giovanni Sartori come scienziato della politica?

Sartori scriveva moltissimo in numerose riviste nelle quali faceva di tutto, anche il direttore. Scrive e scrive, dal 1950 al ’64 che è l’anno in cui vince un concorso non di scienza politica ma di sociologia. E si tratta di un concorso celebre perché, se non sbaglio, i vincitori dei tre posti furono: Franco Ferrarotti, il secondo Sartori e il terzo Alessandro Pizzorno. Insomma, un concorso di giganti.

E così arriva a insegnare alla “Cesare Alfieri”.

A questo punto, quando l’università di Firenze lo chiama, chiede che il suo posto sia trasformato da sociologia in scienza della politica, una cattedra nuova fatta per lui. In quegli anni però era già famoso all’estero, in particolare negli Stati Uniti perché la scienza politica europea fino all’inizio degli anni Sessanta era piuttosto modesta.

Un grande intellettuale invisibile all’opinione pubblica italiana?

Sartori diventa molto famoso in Italia quando comincia a scrivere sul Corriere della sera nel 1969, quando arriva alla direzione Giovanni Spadolini. Ero a Firenze nel corso che teneva per i giovani allievi – a dicembre del 1967 – non aveva visibilità pubblica in Italia. In quegli anni Sartori era esclusivamente dedito a studiare, a frequentare università e convegni molto lontani dall’Italia. La sua presenza pubblica fino al 1969 era quasi inesistente.

Qual era la situazione della scienza politica in quegli anni in Europa?

C’era un solo personaggio, il norvegese Stein Rokkan che era soprattutto un grande organizzatore culturale. E poi c’erano Maurice Duverger e Raymond Aron che erano visibili, direi, perché “parigini”. Non ricordo un tedesco o un inglese vero scienziato della politica agli inizi degli anni Sessanta. Un grande storico della politica inglese scrisse un libro molto cattivo contro la scienza della politica americana. Bernard Crick era un personaggio importante nella cultura anglosassone e che scrisse in seguito una bellissima biografia di George Orwell.

E Sartori come si collocava in questo panorama?

Sartori era famoso perché andava ai convegni internazionali e scriveva e parlava l’inglese molto bene. È lui stesso a tradurre il suo libro Democrazia e definizioni (Il Mulino 1967) e lo pubblica in America nel 1960 in una versione da lui tradotta e adattata Democratic Theory (1962). Proprio in quegli anni viene invitato a Yale.

In che modo ha segnato la scienza politica?

L’originalità vera era la sua grandissima capacità di scrivere in maniera efficace e brillante e in maniera molto precisa. La costruzione dei concetti di Sartori e l’uso delle parole sono incredibili. E poi l’uso della logica in scienza politica con un atteggiamento positivistico ovvero il contrario dell’idealismo. Sartori aveva iniziato insegnando filosofia e aveva scritto anche su Croce. Ma fu comunque sempre un positivista. L’altro elemento di originalità è che lui conosceva la storia filosofica di questi concetti, quello di rappresentanza e di democrazia in primo luogo.

In Italia che ruolo ha svolto?

Da un lato, c’era la scienza della politica alla Norberto Bobbio, che era un filosofo, che era l’ala sinistra e che io definirei “azionista” anche se Bobbio era molto vicino anche ai socialisti. Sartori era il contrappeso, era la cultura politica liberale classica. Torino, quella di Bobbio, era una facoltà di scienze politiche spostata a sinistra, Firenze invece era piuttosto ortodossa e di destra, destra liberale in quel periodo. I due sapevano di essere diversi e sfruttavano queste differenze. Sartori ha scritto di democrazia molto prima che ne scrivesse Bobbio che pubblica Il futuro della democrazia nel 1984, Sartori aveva scritto il suo addirittura nel 1957. La versione definitiva, una vera e propria summa, fu The Theory of Democracy Revisited (1987, in due volumi), recensita dal filosofo torinese nella rivista “Teoria Politica”.

Un concetto chiave della democrazia liberale è quello di “élites”, oggi uno dei principali bersagli dei movimenti populisti di destra e di sinistra nel mondo.

Sartori ha scritto sulle élites. Ha studiato Mosca, Michels e Pareto. Quel concetto di élites Sartori lo tiene presente in particolare perché la sua teoria della democrazia è largamente ispirata a quella di Schumpeter ovvero l’idea che gli elettori scelgono tra gruppi in competizione tra di loro e chi vince e dovrà governare è di fatto un’élite politica. Si tratta di una teoria competitiva della democrazia tra gruppi che dovrebbero avere competenze e capacità. Una buona democrazia secondo Sartori è quella governata da élites politiche e non conquistata da élites economiche.

E come pensava che la democrazia potesse raggiungere questo obiettivo?

Sartori vuole che la democrazia sia governante, ma non si impicca a questo aggettivo. Quello che importa sono le procedure e le modalità con cui vengono scelti i governi. E qui c’è la valutazione positiva del sistema tedesco dopo il 1949 che ha saputo produrre élites governanti.

Un’altra definizione sartoriana è quella di “poliarchia del merito”.

“Poliarchia” è un termine utilizzato da Robert Dahl che Sartori conosceva e frequentava perché un periodo ha insegnato a Yale nel 1966 o ’67, credo. Il punto fondamentale – su cui Sartori è d’accordo con Bobbio – è che la democrazia c’è quando c’è pluralismo.

“Pluralismo polarizzato”. Con questa espressione Sartori definisce la democrazia italiana, in particolare quella della “Prima repubblica”.

In verità, il caso italiano lo ha attratto solo in un secondo tempo. Sartori ha sempre voluto fare della politica comparata e l’Italia era solo un caso, e nemmeno tra i più importanti. Chi voleva confrontare sistemi politici sessant’anni fa doveva inevitabilmente studiare gli Usa, la Gran Bretagna e la Germania. Ma poi doveva studiare la Francia che presenta una transizione di regime politico dalla Quarta alla Quinta repubblica nel 1958. E Sartori l’ha detto ripetutamente: per capire l’Italia bisogna soprattutto aver studiato altri sistemi. Chi conosce solo l’Italia non è neanche in grado di spiegare l’Italia.

E da dove è partito per capire l’Italia?

Il pluralismo polarizzato si trovava nella Germania di Weimar, nella Spagna che poi diventerà franchista, nella Francia della IV repubblica e nel Cile di Allende. Dove ci sono due opposizioni estreme, anti-sistema, l’una di destra e l’altra di sinistra comunista non è possibile avere coalizioni stabili. In tutti i casi di pluralismo polarizzato il sistema è crollato. Solo in Italia si è salvato grazie al fatto che il centro era molto grande. Questa spiegazione comparata mi sembra ancora molto brillante.

Quella descrizione del caso italiano funziona ancora?

Oggi si potrebbe dire che non essendoci più fascisti e comunisti quel tipo di sistema politico è scomparso. Eppure la polarizzazione può ancora esserci. Se esistono partiti che si collocano all’estrema destra e sinistra che non possono collaborare tra di loro, è chiaro che il sistema si blocca di nuovo al centro. Sartori diceva che questo è un caso classico in cui non c’è alternanza e nel centro si scaricano tutte le contraddizioni e quindi anche la corruzione si rivolge verso il centro che governando sempre diviene il catalizzatore di chi vuole privilegi. Dove non c’è alternanza non si mandano mai via i “mascalzoni” dal potere. E questo è stato il caso italiano.

Ma esistono oggi in Italia destra e sinistra estrema?

Il problema vero – e questo lo ha scritto anche Sartori – è che il sistema italiano è destrutturato. I partiti ci sono e non ci sono, spariscono, si fondono e si scindono e il sistema non è consolidato. Il sistema del “pluralismo polarizzato” ha resistito perché tra il 1946 e il 1992 nascono pochissimi partiti, praticamente solo la Lega. Mentre nel periodo post-92 è successo di tutto. Un sistema nel quale si producono sbalzi, inconvenienti, rotture che quindi non garantisce la governabilità, parola cara ai renziani, ma che Sartori usa pochissimo, è destinato all’instabilità .

Sartori e Bobbio sono stati due giganti della filosofia e della scienza politica.

Norberto Bobbio è stato un grande filosofo della politica. Di lui rimane il tentativo di creare una teoria generale della politica, sempre smentita, ma i cui elementi si possono trovare nei suoi scritti. Il libro Destra e sinistra rimane un tentativo importante di definizione delle due polarità politiche. Il profilo ideologico del Novecento è il miglior libro di Bobbio, un libro straordinario. Bobbio apprezzava molto Sartori, malgrado criticasse alcuni aspetti delle sue posizioni politiche e a sua volta Sartori ha apprezzato molto Bobbio. C’era anche un rapporto personale buono. Sartori parlò alle Lezioni Bobbio l’anno successivo alla morte del filosofo e scrisse un bellissimo necrologio nella “Rivista Italiana di Scienza Politica” (che aveva fondato nel 1971), dichiarando senza mezzi termini : “era il migliore di noi”.

E qual è l’eredità che Giovanni Sartori ci lascia oggi?

Di Sartori rimane un libro insuperato, forse insuperabile, sui partiti e rimane la teoria della democrazia. La democrazia partecipativa, deliberativa oppure in rete, si possono pur fare, ma prima bisogna aver costruito la democrazia nei termini delineati da Sartori. Altrimenti queste sono “corsette” fatte su un filo sull’abisso. E soprattutto di Sartori rimane l’idea che la scienza politica debba essere applicabile, che deve essere applicata. Le conoscenze sono migliori nel momento in cui sono applicabili alla realtà. La scienza politica serva a capire i meccanismi e le istituzioni, ma, soprattutto, a trasformare quei meccanismi e quelle istituzioni per migliorare la vita. E lo studio di come gli uomini e le donne si comportano in politica secondo certe regole. Questa parte del pensiero di Sartori, enunciata nel libro Ingegneria costituzionale comparata (più volte pubblicata dal Mulino, da ultimo 2004) è potentissima, anche quando si è in disaccordo. E’ il migliore esempio di come si possa fare scienza politica rilevante.

Pubblicato il 10 aprile 2017 su 

 

Caso Minzolini, se il voto dei senatori sta al di sopra delle leggi

Il voto della maggioranza dei senatori che hanno impedito la decadenza dalla carica del collega Augusto Minzolini, componente del gruppo parlamentare di Forza Italia, non deve essere derubricato ad un qualsiasi episodio di omertà a buon rendere. Non è stato soltanto la ripetizione di un fenomeno che viene da lontano e un segnale di quello che può ancora succedere in questa legislatura. Più o meno consapevolmente, con il loro voto, contorto quanto si vuole – favorevoli, contrari, assenti, usciti dall’aula-, i senatori hanno mandato un messaggio terribile, purtroppo non rilevato e non stigmatizzato da giornalisti e commentatori. Quando incappano nelle maglie della giustizia, i politici per lo più procedono a una sequela di frasi fatte tanto retoriche quanto ipocrite. Per loro, la giustizia è sempre a orologeria poiché cerca di influenzare l’andamento della politica. Nessuno che dica che la politica ha tempi non prevedibili cosicché i magistrati dovrebbero avere poteri quasi magici per arrivare puntuali. Poi, a seconda dei casi, i politici annunciano che gli “avvisati di garanzia” e gli indagati sono innocenti fino alla condanna, cosa che non dovrebbe automaticamente significare che possono restare nella loro carica come se non fosse successo niente. Non c’è da stupirsi se i rari casi in cui gli inquisiti si sono dimessi vengono ricordati da tutti. Segue, naturalmente, la solenne dichiarazione di fiducia nella giustizia. La conclusione consiste nell’unanime invito alla magistratura a fare il suo corso. Quando, però, come in questo caso, la condanna di Minzolini per “peculato continuato” è definitiva, troppi parlamentari s’affannano a non darle seguito.

Secondo la legge che porta il nome di Paola Severino, competente ministro della Giustizia del governo Monti, il condannato in via definitiva decade, com’è già avvenuto con Silvio Berlusconi, dalla sua carica. I Senatori avrebbero semplicemente dovuto rispettare e ratificare quanto deciso dai giudici. Il loro voto di salvataggio ha una valenza grave e implicazioni preoccupanti. In estrema sintesi, un certo numero di rappresentanti del popolo ha deciso che le leggi della Repubblica possono essere disattese e che il loro voto deve contare più delle sentenze emesse dai tribunali italiani. Invece, le leggi debbono essere pienamente osservate e rigorosamente applicate. Qualora i parlamentari ritengano che una legge sia sbagliata, pericolosa, controproducente, essi hanno non soltanto il potere, ma il dovere di cambiarla, se non, addirittura di abolirla, mai di disattenderla né di violarla, nella lettera e nello spirito.

Con il loro voto i senatori “assolutori” di Minzolini hanno anche comunicato qualcosa che ha regolarmente fatto parte del bagaglio di espressioni e valutazione di Berlusconi. Il voto degli eletti dal popolo si colloca al di sopra delle leggi. Però, poiché la legge elettorale vigente nel 2013 contemplava liste bloccate (delle quali neppure la sentenza della Corte Costituzionale sull’Italicum ha imposto l’abolizione), nessuno dei senatori è stato “eletto dal popolo”, tutti sono stati nominati dai capi dei loro partiti e a quei capipartito continuano a rispondere. I senatori hanno anche finito per dire che la magistratura deve essere subordinata alla politica e al parlamento, E’ un’affermazione chiaramente, totalmente, irrimediabilmente populista poiché, nelle democrazie, sono i cittadini e i parlamentari a essere subordinati alle leggi. Nel caso di reati, la magistratura ne valuta la sussistenza e procede a giudicare gli accusati proprio “in nome del popolo”. Ponendo il popolo che loro presumono di rappresentare al di sopra delle leggi, i senatori hanno introdotto il virus populista nel funzionamento e nei rapporti fra le istituzioni. Un brutto piano inclinato.

Pubblicato AGL il 21 marzo 2017 

PD, non serve una nuova ribollita

L’ex-segretario del Partito Democratico, Matteo Renzi lancerà la campagna per la sua possibile ri-elezione da un luogo simbolo: il Lingotto di Torino. Da lì il 27 giugno 2007 partì in maniera vertiginosa la corsa di Walter Veltroni all’insegna di un manifesto programmatico “Un’Italia unita, moderna e giusta” che aveva molto poco a che vedere con il partito nascituro, ma fin troppo con il governo del paese. L’esito che quasi nessuno, meno che mai Veltroni e Dario Franceschini, il suo accompagnatore nel ticket come imprevisto (la carica non sta nello Statuto) vice-segretario, volle vedere, fu l’inevitabile indebolimento del già traballante governo Prodi II. Con la sua vocazione maggioritaria e il rifiuto di fare coalizioni, Veltroni avrebbe poi perso alla grande le elezioni del 2008. È del tutto evidente che Renzi ha intrapreso lo stesso, sbagliato e pericoloso, percorso. Del partito, in realtà, gliene importa poco o nulla, se non come veicolo per raccogliere voti. Tuttavia, il problema da affrontare, che qualcuno, a cominciare dai suoi concorrenti, se non cadono nello stesso errore, dovrebbe ricordare a Renzi, è come (ri)costruire il Partito Democratico.

Dopo anni di gestione verticistica e personalistica, con una maggioranza che ha irriso e schiacciato le minoranze interne, che non si è mai curata né degli iscritti né delle organizzazioni locali del PD né della formazione di un cultura politica del partito (le passerelle dei ministri alla Scuola di politica sono state esercizi di non brillante propaganda), è venuto il tempo di una vera svolta. Per usare un lessico della vecchia “ditta” del passato, la “rivoluzione copernicana” si avvererebbe se i candidati alla segreteria, a cominciare da Renzi, narrassero sia agli iscritti sia a chi si prepara ad andare a votare, per lui o per gli altri, sia a coloro che se ne sono andati sia, più in generale, agli italiani che si occupano di politica, che tipo di partito sarà il PD prossimo venturo. Sarà ancora un partito di centro-sinistra, disposto a cercare alleati? Oppure si sposterà di più verso il centro inseguendo il cosiddetto Partito della Nazione? Accetterà al suo interno posizioni diversificate, aperto al dissenso e al flusso di idee diverse, seppur non divergenti? Vorrà caratterizzarsi come contenitore di una sinistra inevitabilmente, ma spesso anche fecondamente, plurale? Sarà il partito del leader che comunica al popolo, all’Italia e al mondo (chiedo scusa: all’Europa) oppure promuoverà la partecipazione degli iscritti, si doterà di chiari criteri per la selezione dei dirigenti, degli amministratori, dei rappresentanti e valorizzerà le personalità, le loro esperienze, le loro competenze, le loro ambizioni?

Lo spazio di elaborazione politica originale è enorme. È anche esigente poiché se il prossimo segretario del Partito Democratico non si sforzerà di dare finalmente vita e corpo a un partito come comunità di persone che vogliono cambiare la politica italiana, sarà impossibile ristrutturare il sistema dei partiti (anche grazie a una legge elettorale che dia potere ai cittadini e offra rappresentanza), vera garanzia di buon funzionamento e di qualità in tutte le democrazie nelle migliori delle quali costituisce l’argine più solido contro l’antipolitica e il populismo. Snocciolare un elenco di riforme fatte, più o meno bene, di riforme da fare, più o meno credibilmente, di nemici da sconfiggere, non serve a tonificare il PD. Soltanto un Partito davvero democratico al suo interno può raccogliere le istanze di cambiamento, anche con la rivalutazione di scelte fatte nel passato, e riuscirebbe a governare in maniera decente l’Italia. Dal Lingotto bisogna pretendere sopra tutto la risposta su che tipo di partito deve diventare il PD (di Renzi oppure di Orlando oppure di Emiliano). Altrimenti, si udirà solo propaganda, come direbbero i toscani, “ribollita”.

Pubblicato AGL il 10 marzo 2017

I feticci della riforma elettorale

La terza Repubblica

Senza riforme presidenziali, le strade si riducono. Ma si semplificano

Chiunque voglia scrivere una buona legge elettorale in Italia oggi deve sconfiggere tre feticci espressi sotto forma di necessità assoluta di: 1. conoscere il vincitore la sera stessa delle elezioni; 2. produrre Il governo direttamente con il voto del popolo; 3. evitare la formazione di governi di coalizione.

Il fatto che questi feticci siano adorati in maniera diffusa e persino crescente non li rende accettabili. Quanto al primo feticcio, non è neppure chiaro che cosa significhi esattamente “conoscere il vincitore delle elezioni”. Forse chi ha avuto più voti? Chi ha vinto più seggi? Chi ha ottenuto il maggior incremento percentuale/numerico rispetto alle elezioni immediatamente precedenti? Ma, poi, è davvero questa la preoccupazione principale dell’elettorato? Probabilmente, no. Comunque, non esiste nessuna ricerca in materia, nessuna evidenza.

Il secondo feticcio è molto pericoloso per due ragioni. Da un lato, in nessuna democrazia parlamentare il popolo, gli elettori, i cittadini votano per il governo. In tutte le democrazie parlamentari, che sono democrazie rappresentative, i voti dei cittadini servono ad eleggere i loro rappresentanti al Parlamento. Contati i voti e i seggi, quei rappresentanti, che probabilmente conoscono le preferenze dei loro elettori e hanno molte informazioni sugli eletti degli altri partiti, cercheranno accordi programmatici per dare vita a un governo stabile, duraturo, efficace. Dall’altro lato, il feticcio “il popolo elegge il governo” legittima e incoraggia la critica populista, antiparlamentare, e nega ai rappresentanti qualsiasi spazio di manovra.

Il terzo feticcio “evitare i governi di coalizione” è, per quel che riguarda le democrazie parlamentari, fattualmente sbagliato e non esiste post-verità che lo renda nemmeno plausibile. Agitando quel feticcio si oscurano due elementi importantissimi per tutti coloro che hanno a cuore la governabilità, non come arma propagandistica, ma come esito. I governi di coalizione sono maggiormente rappresentativi dell’elettorato, delle sue preferenze e dei suoi interessi. Sono anche più “moderati”, vale a dire che nessuno dei partiti potrà tradurre in politiche pubbliche le sue promesse più estreme, spesso fatte soltanto per conquistare un pugno di voti in più, ma tutti i partiti dovranno moderare le loro proposte programmatiche per renderle compatibili con le preferenze degli altri partners, ciascuno costretto a rinunciare a qualcosa.

Coloro che vogliono ottenere la traduzione pratica di tutt’e tre i feticci non possono accontentarsi di nessuna legge elettorale né maggioritaria né proporzionale. Debbono proporre il mutamento della forma di governo: da parlamentare a presidenziale. Sì, la sera delle elezioni sapranno chi le ha vinte (a meno che non siano stati denunciati brogli elettorali); sì, il Presidente eletto darà rapidamente vita ad un governo; sì, è molto probabile, ma non sempre possibile, che quel governo sia espressione di un solo partito, quello del Presidente. Naturalmente, come sanno gli studiosi dei presidenzialismi e come hanno imparato gli elettori, nelle Repubbliche presidenziali quello che conta è l’esistenza di freni e contrappesi al potere del Presidente, ma questo è un problema/inconveniente che nessuna legge elettorale può affrontare, meno che mai risolvere.

Una volta chiarito che in Italia praticamente nessuno propone esplicitamente un modello presidenziale e buttati a mare i feticci creati ad arte, la discussione sulla legge elettorale può ripartire con il piede giusto. Può andare in Francia a pescare il doppio turno (non ballottaggio) in collegi uninominali con clausola di passaggio al secondo turno, oppure visitare la legge elettorale proporzionale personalizzata con clausola di accesso al Parlamento funzionante in Germania. Scegliendo un sistema elettorale già sperimentato si riducono i rischi e si potrebbe persino ovviare a qualche loro inconveniente. Tutto il resto è melina, inconcludente, fastidiosa, persino pericolosa.

Pubblicato il 1°marzo 2017

La sfida populista fra analogie e specificità #Firenze

vie-nuove

 

Lunedì 27 febbraio 2017 – ore 21.15

Circolo Vie Nuove
Viale Giannotti, 13 – Firenze

Intervengono

Gianfranco Pasquino 
Tommaso Nencioni 

Il populismo ha colpito per primo in America e si propone come alternativa anche nelle prossime elezioni in alcuni paesi europei decisivi come Francia e Inghilterra. Il precedente americano potrà avere qualche influenza? Sarà un incentivo per i movimenti anti-sistema o un deterrente? Gli stessi paesi dell’Europa orientale anticipano o imitano alcuni degli atteggiamenti che, con qualche improprietà vengono definiti “populisti”, ciascuno in effetti con proprie caratteristiche storiche e nazionali.

Info e iscrizioni al tel 055.683388. vienuove@vienuove.it Incontri presso Vie Nuove - Viale D. Giannotti, 13 Firenze Iscrizioni riservate soci ARCI-UISP

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Incontri presso Vie Nuove – Viale D. Giannotti, 13 Firenze
Iscrizioni riservate soci ARCI-UISP

Trump no sabe nada de Europa #Página12

pagina-12

Entrevista. Por Elena Llorente

Página|12 En Italia
Desde Roma

Europa está preocupada por saber cómo marcharán sus relaciones con Estados Unidos a partir del 20 de enero, día de la asunción del flamante presidente Donald Trump. Pese a que luego de la sorpresiva victoria del candidato republicano algunos gobiernos que se habían manifestado abiertamente a favor del presidente Barack Obama y los democráticos hicieron un pequeño paso atrás, las preguntas siguen en pie. ¿Qué sucederá? ¿Se verán afectadas las relaciones entre la Unión Europea y Estados Unidos, incluso dentro de la OTAN? ¿Podrá el magnate inmobiliario de Nueva York alterar los equilibrios internacionales conseguidos hasta ahora poniendo en juego antes que nada su amistad con el presidente ruso Vladimir Putin? ¿Favorecerá esto el avance de la derecha en el mundo?. En una entrevista con PáginaI12 el prestigioso analista y profesor emérito de Ciencias Políticas, Gianfranco Pasquino, respondió a estas preguntas.

¿Cuáles son las posibles consecuencias de la elección de Donald Trump en la Unión Europea?

Es difícil decirlo. Trump no conoce nada de Europa. No tiene ninguna información, a no ser que encuentre algún consejero competente… Trump dirá muchas cosas que luego no sabrá hacer. Europa debe quedarse tranquila, debe tratar de definir qué tipo de relaciones quiere establecer con Estados Unidos y a ese punto se tratará de encontrar algunos acuerdos. Pero todo esto es muy poco claro todavía. Como es poco claro cómo será la presidencia de Trump. Trump está muy interesado por un lado en México y por el otro en China, pero poco interesado en Europa.

¿El escaso interés de Trump en Europa y su acercamiento al presidente ruso Putin, podría tener efectos negativos en la Organización del Atlántico Norte (OTAN)? (N. de la R: la alianza militar de la que participan Estados Unidos y Europa, entre otros, y que nació después de la Segunda Guerra Mundial para contrarrestar el poder soviético)

Podría haber consecuencias sobre la OTAN si Trump decide, por ejemplo, que los estados europeos no aportan suficiente dinero a la OTAN para la propia defensa. Y esto podría ser un problema. Pero no sabemos aún cómo será. Ha dicho cosas que ciertamente debilitan a la OTAN. Ha dicho por ejemplo que no hay necesidad de antagonizar a Putin, incluso ha recibido una carta de felicitaciones después de su elección de parte del presidente ruso. La OTAN debería prestar mucha atención a esto. Porque Putin es de todas maneras un adversario. Si Trump decide tratar directamente con Putin, indirectamente la OTAN se debilita.

¿Cómo puede cambiar el ajedrez mundial ahora que los dirigentes de los dos países, que en principio se odiaban, parecen grandes amigos?

El problema es que Putin es un autócrata, un hombre que controla de manera no democrática los organismos de Rusia, que tiene una política internacional que no puede ser aceptada por los Estados Unidos. Trump debe pensar dos veces antes de asumir una actitud condescendiente respecto de Putin. El otro problema es que en realidad los europeos están divididos. Algunos tienen una posición suficientemente dura contra Putin. Otros en cambio, como Italia, mantienen una actitud ligeramente más blanda porque tienen absoluta necesidad de conservar buenas relaciones comerciales y recibir el gas ruso.

Hay quien decía que después de Brexit y de Trump, el próximo golpe de la derecha iba a ser la victoria del NO en el referendo que sobre la Constitución se hizo en Italia el 4 de diciembre.

Esto es un error gravísimo porque el NO no estuvo solo apoyado por la derecha, sino que hubo componentes de izquierda muy relevantes, como yo mismo. Por lo cual, es una mentira decir que una victoria del NO es una victoria de la derecha. Tampoco hay ninguna razón para decir, como algunos afirman, que Italia saldrá de la Unión Europea. Esto es una mentira en la que han caído algunos medios de difusión europeos. Me preocupa este tipo de análisis porque significa que los periodistas que escriben eso, no conocen suficientemente Italia.

¿El populismo está avanzando de manera incontrolable en Europa después de la elección de Trump en su opinión?

El populismo ha crecido en Europa. Pero yo no diría que se trata de una avanzada incontrolable. Ha crecido, algunos gobiernos tienen matices populistas. En Europa el populismo no ha ganado en ningún lado. Hay tentaciones, en Hungría, en Polonia. Decir que Europa ha sido arrasada por el populismo es un error. Estamos en una fase, tanto Estados Unidos como Europa, en la que ha disminuido la cultura política de los ciudadanos pero también la cultura política de los líderes. Podemos decir que hay una crisis en materia de liderazgo. Tal vez la única en condiciones de proyectarse como líder es la canciller alemana Angela Merkel.

¿Qué dice en cambio del avance de la derecha? ¿No será más fácil con Trump en el gobierno?

No. A la derecha europea no le será más fácil avanzar ahora. Trump es único, por suerte. Un hecho que lo demuestra en parte es que en las primarias presidenciales francesas del centroderecha, el más votado fue el gaullista François Fillon, no Nicolas Sarkozy, que está más a la derecha y tiene algunos matices a la Trump.

 

El resultado refleja una crítica al gobierno, no una protesta

la-nacion

Entrevista Elisabetta Piqué LA NACION martes 06 de diciembre de 2016

ROMA.- Es un error clamoroso considerar la derrota deRenzi una victoria del populismo. Palabra de Gianfranco Pasquino, politólogo italiano de gran prestigio internacional, que tuvo entre sus maestros a Norberto Bobbio y Giovanni Sartori.

En una entrevista con LA NACION, Pasquino, profesor de Ciencia Política en la Universidad de Bologna y defensor del no en el referéndum constitucional, también destacó que Europa hace bien en tenerle miedo al Movimiento Cinco Estrellas, del cómico Beppe Grillo, el gran ganador de la cita electoral que hundió a Matteo Renzi.

-¿Se esperaba un resultado tan imponente?

-Así de imponente no. Habiendo hecho campaña por el no, esperaba el rechazo a la reforma constitucional, pero el resultado fue más allá de mis expectativas.

-¿Cree que los italianos votaron en contra de la reforma constitucional o que fue un voto de protesta?

-No, no fue un voto de protesta. Ha sido un no a las terribles reformas que el gobierno de Renzi pretendía llevar a cabo en la Constitución. Ha sido un no a la horrible campaña electoral que ha acompañado el casi plebiscito personal en el que Renzi ha tratado de convertir este referéndum. Ha sido un rechazo frontal a las reformas sociales y económicas que ha llevado a cabo, y que atañen sobre todo al mercado laboral y a la escuela. Y ha sido también un no a los pequeños regalitos que Renzi ha hecho a los jóvenes y a las mujeres. Todo junto provocó un no sonoro y rotundo.

-¿No considera entonces que en este resultado también ha jugado un papel importante la protesta de la clase media

-No entiendo por qué debe protestar la clase media. Si se trata de protestar, todos los que no están demasiado bien tienen motivos para protestar, y se trata de un número importante de italianos. Pero tampoco hay que exagerar. En Italia no existe un grandísimo malestar, al menos no tan difundido como en otros países, porque el Estado de Bienestar sigue funcionando bastante bien. El resultado refleja más una crítica al gobierno que una protesta.

-Esta derrota de Renzi es vista en medio mundo como una nueva victoria del populismo. ¿Usted comparte esta opinión?

-No, me parece un error clamoroso. Hay populismo en algunos aspectos de hacer política de la Liga Norte. E incluso en Renzi: en los mensajes que ha lanzado de cara a este referéndum, en su insistencia en que lo que estaba en juego era reducir cargos y disminuir los costos de la política y mensajes parecidos. Son todos llamamientos populistas realizados por el jefe de gobierno que, como se ha visto, han sido rechazados por la gran mayoría de los italianos.

-Pero es evidente que en Europa hay terror ante la posibilidad de que el Movimiento Cinco Estrellas (M5E) que lidera Beppe Grillo, y que Bruselas y mucha cancillerías tachan de populista, pueda llegar al poder.

-Europa hace bien en tenerle miedo al M5E, porque es un movimiento muy fuerte y que no está salpicado por ningún escándalo. Pero Europa hace mal en considerarlo populista. Es un movimiento de crítica de la política y de los políticos, pero no tiene características como las que, por ejemplo, puede tener la extrema derecha en Austria, algunas formaciones en Holanda, organizaciones como los suecos democráticos o los así llamados Verdaderos Finlandeses. El M5E representa una parte importante del electorado italiano, cuenta con el apoyo de muchísimos jóvenes que quieren cambiar la política, y no es un movimiento de tipo xenófobo.

-¿Ganará el M5E las próximas elecciones generales, como dicen los sondeos?

-Eso no lo sé. Dependerá en parte de los votantes italianos y en parte del tipo de ley electoral que se haga.

-Tras el Brexit muchos predecían una hecatombe financiera en Italia en caso de que saliera el no en el referéndum. Pero no ha habido esa reacción.

-Porque los mercados son sabios, porque han entendido que el resultado no genera ningún apocalipsis. Provocará un cambio de gobierno, pero los italianos estamos habituados a los cambios de gobierno y sabemos muy bien cómo administrarlos. La economía italiana probablemente sea lenta, pero aún es bastante sólida.

Es un error clamoroso decir que ha sido una nueva victoria del populismo

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Entrevista IRENE HDEZ. VELASCO Enviada especial ROMA 06/12/2016

Habiendo sido alumno de gigantes del tamaño de Norberto Bobbio y Giovanni Sartori, no es extraño que Gianfranco Pasquino (Trana, 1942) sea uno de los más reputados politólogos italianos. Especializado en Política Comparada, ha dado clase en la Universidad de Harvard, en la de Florencia, en la de California y, sobre todo, en la Bolonia. Y como Pasquino, la célebre estatua de Roma en la que desde el siglo XVI los ciudadanos tienen por costumbre dejar mensajes escritos con sus críticas a personajes públicos, este otro Pasquino tampoco tiene problemas en meterle el dedo en el ojo al poder…

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¿Se esperaba un resultado tan clamoroso?

No. Así de clamoroso no. Obviamente, habiendo hecho una larga y fatigosa campaña a favor del No, esperaba que el rechazo a la reforma constitucional ganase con un buen resultado. Pero esto va mucho más allá de mis expectativas.
¿Los italianos han rechazado realmente la reforma constitucional o el suyo ha sido un voto de protesta?
No ha sido un voto de protesta. Ha sido un No a las terribles reformas que el Gobierno Renzi pretendía llevar a cabo en la Constitución. Ha sido un No a la horrible campaña electoral que ha acompañado el casi plebiscito personal en el que Renzi ha tratado de convertir este referéndum. Ha sido un No al Gobierno Renzi, un rechazo frontal a las reformas sociales y económicas que ha llevado a cabo, y que atañen sobre todo al mercado laboral y a la escuela. Y ha sido también un No a los pequeños regalitos que Renzi ha hecho a los jóvenes y a las mujeres. Todo eso, junto, ha provocado un No sonoro y resonante, rotundo.

¿Qué ocurrirá ahora? ¿Se formará un nuevo Gobierno y en unos meses habrá elecciones?

Espero que haya un nuevo Gobierno y que sea un Gobierno político, no técnico, al frente de cual haya un exponente del Partido Demócrata. Nuestra Constitución contempla que el presidente de la República nombre al primer ministro, que el primer ministro nombre a sus ministros y que el Gobierno pase una votación de confianza en las dos cámaras. Si Renzi, secretario general del Partido Demócrata, no se opone en esa votación de confianza, el nuevo Gobierno obtendrá luz verde tanto de la Cámara de los Diputados como del Senado. Cuando haya Gobierno, será necesario aprobar una ley electoral. Ahora tenemos una ley electoral para la Cámara de los Diputados que se debe que reformar y hay que hacer una ley nueva para el Senado. Y luego hay que aprobar los presupuestos generales. Hay cosas que hacer, cosas que llevan tiempo. Creo que es absurdo hacer un Gobierno nuevo para sólo unos meses, el nuevo Ejecutivo debe agotar la legislatura y llegar a 2018, a su conclusión natural.

Esta derrota de Renzi ha sido interpretada como una nueva victoria del populismo después del Brexit y en las elecciones presidenciales estadounidenses. ¿Comparte esa opinión?

No, me parece un error clamoroso. Hay populismo en la Liga del Norte. Y si acaso hay populismo en Renzi, en los mensajes que ha lanzado de cara a este referéndum, en su insistencia en que lo que estaba en juego en esta consulta era reducir los cargos públicos, disminuir los costes de la política y otros mensajes parecidos… Todo eso son llamamientos populistas realizados por el jefe del Gobierno y que, como se ha visto, han sido rechazados por la gran mayoría de los italianos.

Pero es evidente es que en Europa hay terror ante la posibilidad de que Cinco Estrellas, el movimiento que lidera Beppe Grillo y que muchos tachan de populista, pueda llegar al poder…

Europa hace bien en tener miedo de Cinco Estrellas, porque es un movimiento muy fuerte y que no está salpicado por ningún escándalo. Pero Europa hace mal en considerar a Cinco Estrellas un movimiento populista. Es un movimiento de crítica de la política y de los políticos, pero que no tiene características populistas como las que por ejemplo puede tener la extrema derecha en Austria, algunas formaciones en Holanda, organizaciones como los Demócratas Suecos o los así llamados “Verdaderos Finlandeses”… Cinco Estrellas representa una parte importante del electorado italiano, cuenta con el apoyo de muchísimos jóvenes que quieren cambiar la política y desde luego no es un movimiento de tipo xenófobo.

Muchos predecían una hecatombe financiera en Italia si ganaba el NO. Pero no ha sido así.

Porque los mercados son sabios, porque la victoria del NO no genera ningún apocalipsis. Provocará un cambio de Gobierno, pero los italianos estamos habituados a los cambios de Gobierno y sabemos cómo administrarlos. Los mercados financieros hacen bien en no atacar a Italia, si lo hicieran perderían. La economía italiana probablemente sea lenta y perezosa, pero en conjunto aún es bastante sólida.

¿Fue un error por parte de Renzi jugar la carta del miedo?

Renzi ha jugado a meter miedo para tratar de vencer, trataba de amedrentar a los italianos haciéndoles creer que sólo él podía resolver la situación y que todos los demás era amasijo de inútiles. Sin embargo, en ese amasijo estaban la mayoría de los italianos y muchas organizaciones que lo único que querían era evitar unas nefastas reformas constitucionales.

Si tuviera que apostar, ¿quién cree que será el próximo primer ministro?

No quiero apostar sobre nombres. Pero creo que será alguien con experiencia política, con una biografía, con presencia en el Parlamento y miembro del Partido Demócrata. Hay cuatro o cinco personas que reúnen estas características. Y creo también que debe ser alguien no muy distante a Renzi. Muchos hablan de Dario Franceschini (en la actualidad ministro de Cultura). En realidad son demasiados los que hablan de Franceschini, y tal vez por eso no será él el elegido. Podría ser también Delrio (ministro de Infraestructuras y Transportes), pero es una figura menos incisiva. Otros creen que podría ser el turno de una mujer, como Roberta Pinotti, la ministra de Justicia. Y hay quien sostiene que el nuevo primer ministro será alguien con un cargo institucional, algo que yo espero que no ocurra porque ni la presidenta de la Cámara de Diputados ni el presidente del Senado tienen experiencia política previa.

Muchos dan en cabeza al ministro de Economía, Pier Carlo Padoan…

Creo que no sería una buena elección. Si es bueno como ministro de Economía es justo que siga siendo en ese cargo, y si no es bueno no veo por qué habría que ascenderlo. Además Padoan es un técnico, y yo considero que el nuevo primer ministro debe de ser un político.

 

Cervello, pancia, cuore

Larivistailmulino

«Invero, la politica si fa con il cervello, ma non con esso solamente» (Max Weber, Il lavoro intellettuale come professione, Einaudi, 1971, p. 118). In un certo senso, ma molto chiaramente, Weber suggeriva che chi vuole fare politica non può appellarsi sempre semplicemente e rigidamente alle sue convinzioni, ma deve comportarsi in maniera responsabile. Non si riferiva alla «pancia»; anzi, quasi in un preventivo rigetto di pratiche populiste, stigmatizzava l’eventuale adesione a «sensazioni romantiche».

Nel tripudio di critiche a coloro, questa volta non soltanto i classici intellettuali di sinistra, che non sanno parlare alla pancia degli elettori, ma addirittura la disprezzano, mi sembra che si sia andati troppo in là. Direi che moltissimi contro-commentatori hanno esagerato spingendosi ai limiti del populismo, se non, addirittura cadendoci a loro volta dentro. In effetti, sono proprio i leader populisti che mirano a parlare alla pancia del popolo. La risposta del popolo è sempre, soprattutto quando si tratta di elezioni, da ascoltare, che non significa apprezzare né, meno che mai, approvare. I popoli che hanno risposto con la pancia ai messaggi populisti non hanno mai ottenuto un miglior funzionamento del loro sistema politico. Neppure le loro condizioni di vita sono migliorate. Da ultimo, basterebbe chiederlo ai venezuelani che plaudirono a Chavez.

Certo, le critiche, anche di pancia, dei popoli vanno ascoltate poiché comunicano qualcosa di rilevante per le condizioni di vita di una collettività. Vanno anche comprese poiché segnalano disagio, spesso reale, insoddisfazione, spesso derivante da malgoverno e corruzione, preoccupazione per il futuro che la politica sta costruendo. Però, i politici democratici non possono e, arriverei a sostenere, non debbono mai rispondere con la loro pancia. Blandire la pancia del popolo, assecondandone critiche, spesso superficiali e infondate, divisive e xenofobe, addirittura suscitarle e esaltarle non è una risposta politica né tantomeno democratica.

Non era soltanto un sogno quello di Aristotele e di Pericle, di un popolo informato e partecipante, di cittadini che imparano a essere democratici e a comportarsi in quanto tali, riconoscendo le difficoltà della politica e cooperando – senza affidarsi a promesse palingenetiche di un uomo solo che sostiene di averli capiti, di avere capito tutto – alla ricerca di soluzioni il più possibile condivise, ma non unanimistiche. Le soluzioni condivise hanno maggiori probabilità di essere attuate con successo. Ovviamente, ciascuno dei politici potrà scegliere se parlare prevalentemente alla pancia o alla testa degli elettori, assumendosi consapevolmente tutta la responsabilità di esporsi, e in quale misura, nell’una o nell’altra direzione. Tuttavia, neppure quando, non molto frequentemente, vince chi parla alla pancia degli elettori, non merita di essere elogiato per i suoi messaggi e per il suo successo.

Dimenticare completamente le emozioni, i timori, le aspettative, anche gli ideali, degli elettori, soprattutto ad opera di leader che fanno parte dell’establishment, anche se vi sono entrati con merito, è certamente un errore, talvolta decisivo, che si paga con la sconfitta elettorale. È giusto parlare al cuore degli elettori. Bisogna saperlo fare con passione. I leader che hanno cercato di parlare al cervello dell’elettorato e lo hanno fatto anche con il loro cuore, se hanno chiarito le problematiche e spiegato la difficoltà delle soluzioni, se hanno «predicato», più o meno credibilmente, la buona politica, pur finendo sconfitti, meritano molto più rispetto che biasimo e critiche.

Una società cresce e migliora proprio quando i leader parlano al cervello dei loro concittadini, mirando addirittura a educarli. Mi spingerei fino a concludere che in tutte le attività umane il richiamo e il ricorso al cervello debbono essere più frequenti e più elaborati degli appelli alla pancia. Questo è il minimo che i cittadini democratici conseguenti hanno il diritto di pretendere dai politici. La pancia non va esorcizzata, ma il cervello unitamente al cuore, ovvero la responsabilità insieme alle convinzioni, Weber sarebbe d’accordo, deve porsi l’obiettivo di educarla e di guidarla. Altrimenti, sarà deriva populista di basso profilo.

Pubblicato il 23 novembre 2016 su rivistailmulino.it