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Con sviluppi lenti e contorti continua la “Saga di #Bologna” per la scelta del candidato del Partito Democratico #Comunali2021

A Bologna si è riacceso lo scontro. Un partito che si chiama “democratico” deve regolarmente costantemente ripetutamente utilizzare procedure democratiche. Le primarie stanno nello Statuto del PD e valgono anche per il PDB(olognese). Se c’è più di una candidatura a sindaco di Bologna, allora: primarie. Se sono primarie di coalizione debbono potersi presentare tutti i candidati del PD che lo desiderano, cioè, non un solo candidato “ufficiale”. Prima le primarie, non divisive, ma competitive, poi l’unità a sostegno del/la vincente.

Un déjà vu la piccola storia infinita della scelta del candidata/o PD a sindaco a Bologna

Non la chiamerò telenovela. Dovrei definirla “la già vista”, questo piccola, non edificante e non finita storia della scelta del candidata/o PD a sindaco a Bologna. Non si faranno le primarie del partito/nel partito, ma, si fa dire alla mitica asfittica base che vuole “il candidato unico”. Poi, eventuali “primarie di coalizione” che, se ci fosse il “candidato unico” del PD, sarebbero un trucco ai danni dei potenziali alleati.

Come non si scelgono le candidate e i candidati sindaco a Bologna?

La narrazione delle modalità di selezione delle candidature a sindaco di PDS/DS/PD è sconfortante. Non è migliorata. Da ultimo, il “medio” sindaco uscente ha designato il suo successore. Brutt’affare.

Questa è la storia di come non si scelgono le candidate e i candidati sindaco a Bologna

Le virtù della legge elettorale francese @HuffPostItalia

Una buona rappresentanza politica discende da una buona legge elettorale. Ridotti i parlamentari è imperativo intervenire ed è auspicabile si passi a un sistema uninominale a doppio turno

Ridotti i parlamentari è imperativo (ri)pensare la rappresentanza politica e le modalità di controllo del Parlamento sul governo. La rappresentanza politica non è mai solo, ma anche, questione di numeri. Dipende dalle modalità di selezione dei rappresentanti e dai premi e dalle punizioni che i rappresentanti si meritano e ricevono per i loro comportamenti.

Dunque, comprensibilmente, una buona rappresentanza politica discende da una buona legge elettorale. Non è necessariamente la legge proporzionale che, sembra, Nicola Zingaretti, tutt’altro che solo, desidera. Non è affatto vero che più proporzionalità consegue più rappresentatività. Anzi, aumentare il tasso di proporzionalità di una legge elettorale significa incentivare la frammentazione. In parte, mi pare di capire, questa è la preoccupazione di Zingaretti che lo spinge ad affermare che la clausola di esclusione del 5 per cento non è negoziabile.

Neanche per un momento mi pongo il problema lancinante della non-rappresentanza parlamentare di Italia Viva, Azione e Leu. Fra l’altro, da molti di loro ho spesso ascoltato una frase celebre (e impegnativa): “si può fare politica anche fuori del Parlamento”. La clausola del 5 per cento offre loro questa grande opportunità. Sarò lieto se vorranno e sapranno sfruttarla.

Che sia chiaro, però, che se la clausola pone un argine, non insormontabile, alla frammentazione partitica, non migliora in alcun modo la rappresentanza politica. Delega il compito di scegliere buoni rappresentanti, non agli elettori, che dovrebbero esserne i protagonisti in decisiva, istanza, ma ai partiti, ai capi dei partiti e ai capi delle correnti (ah, già, debbo scrivere “sensibilità”).

Stando così, non da oggi, le cose, esprimo il mio profondo dissenso. Potrei limitarmi a sostenere che, insieme a molti, alcuni un po’ tardivamente, è necessario che a elettori e elettrici sia consentito di esprimere un voto di preferenza [in altra occasione spiegherò perché un unico voto di preferenza e perché questo voto non è automaticamente qualcosa che sarà utilizzato dalla criminalità più o meno organizzata e dagli adepti della corruzione].

Continuo a ritenere che le primarie sono uno strumento utile e democratico per scegliere le candidature, ma non ho mai chiuso gli occhi di fronte alla manipolazione delle primarie, soprattutto a livello locale: Bologna insegna.

Credo che sia possibile offrire una sana alternativa complessiva: la legge elettorale francese doppio turno in collegi uninominali. Quanto alla selezione delle candidature il primo turno è ampiamente assimilabile ad un’elezione primaria. Gli elettori scelgono. Al secondo turno eleggono. Naturalmente, conta molto la clausola (o meno) con la quale si acquisisce la facoltà, non l’obbligo, di passare al secondo turno. Anche se pochi lo ricordano (o non lo sanno) il doppio turno, mai ballottaggio, può essere aperto, vale a dire consentire il passaggio al secondo turno a tutti coloro che si sono candidati/e al primo turno.

Il primo turno ha, comunque, la capacità di fornire informazioni: ai partiti, ai loro candidati/e oltre che, soprattutto, agli elettori. La clausola percentuale di passaggio al secondo turno può essere variamente definita. Nel 1958 in Francia fu fissata proprio al 5 per cento con l’intesa che nel corso del tempo sarebbe cresciuta. È arrivata fino al 12,5 per cento degli aventi diritto. A bocce ferme, con quella clausola entrerebbero alla Camera dei deputati i rappresentanti di quattro soli partiti.

Per evitare che i dirigenti di partito si oppongano al doppio turno sulla base di loro calcoli particolaristici si potrebbe, come suggerito tempo fa da Giovanni Sartori, consentire il passaggio in ciascun collegio ai primi quattro candidati. Poi decideranno loro e i loro partiti se “insistere” o desistere, certo anche dopo qualche accordo reciproco che, comunque, sarebbe visibile agli elettori.

Da ultimo, quali conseguenze sulla rappresentanza politica? Vox populi(sti) vuole che “il maggioritario” restringa la rappresentanza. Sbagliato. In qualsiasi collegio uninominale il rappresentante eletto/a sa che deve rappresentare il collegio, vale a dire, le preferenze, gli interessi, gli ideali dei loro elettori, ma anche spingersi fino a tenere in grande considerazione le preferenze degli elettori che quella volta non l’hanno votato/a. Aggiungo che nei collegi, proprio attraverso gli accordi e le desistenze, si pongono le basi delle coalizioni che andranno al governo o si metteranno all’opposizione.

Insomma, c’è davvero molto di buono nella legge elettorale francese doppio turno in collegi uninominali, compresa la flessibilità. Se ricordo bene, tempo fa nel Partito Democratico si votò a grande maggioranza per il doppio turno. O no?

Pubblicato il 2 ottobre 2020 su huffingtonpost.it

M5S-Pd? La Liguria merita una coalizione governante. Pasquino spiega perché

I Cinque Stelle hanno l’obbligo di trovare un alleato, ma siamo cauti. Sarebbe prematuro fare dell’eventuale alleanza in Liguria il primo passo verso un blocco elettorale “organico”, pronto per le prossime elezioni nazionali. L’analisi di Pasquino

Il Movimento 5 Stelle, aveva garantito fin dagli esordi il suo fondatore, avrebbe presto ottenuto il 100 per cento dei voti. In pubblico sostenni platealmente che “no, non più del 97 per cento, poiché, oltre a me, indipendentemente, neppure i mie due figli l’avrebbero mai votato”.”

Poi, lentamente, ma in maniera largamente incompleta, non convinta e sicuramente inadeguata, molti nel Movimento hanno imparato che in una democrazia parlamentare, persino a prescindere dal sistema elettorale (nessuno dei quali, rassicuro i commentatori allarmisti perché incompetenti, porta a Weimar), è preferibile trovare alleati e fare coalizioni. Non è obbligatorio, ma chi non vuole e non sa farle paga logicamente e giustamente un prezzo.

Finora nelle elezioni regionali, i Cinque Stelle alleati non ne hanno cercati e sempre meno voti (ma il trend è nazionale) hanno trovato. Con altre imminenti elezioni regionali sono adesso costretti a decidere se intendono scomparire dalle assemblee regionali circondati da un alone di soffusa purezza, la quale, però, priva di rappresentanza politica molti dei loro attuali e potenziali elettori, oppure formulare con chiarezza una o più proposte alternative. Meglio non affidarsi a Beppe Grillo, neppure nella sua regione. Quella sua intimazione “fidatevi di me”, che travolse l’esito delle primarie pentastellate per imporre la sua candidata al Comune di Genova, non condusse ad un esito propriamente eclatante.

Dal momento che il centro-destra si presenterà tutto a sostegno del suo candidato (naturalmente, nessuno può pensare che l’incumbent, il Governatore in carica, sia sostituibile senza pagare pegno), per ribaltare il pronostico, i Cinque Stelle hanno l’obbligo di trovare un alleato (scriverei anche “possente”), ma poi, dovendo individuarlo nel Partito Democratico mi accorgo immediatamente che esagererei). Il PD non può che dichiararsi disponibile a determinate, poche e chiare, condizioni programmatiche. Aggiungerei subito la cautela di non fare dell’eventuale alleanza in Liguria il primo passo verso un blocco elettorale “organico”, pronto per le prossime elezioni nazionali. Sarebbe prematuro dichiararlo. Potrebbe essere controproducente. Se si voterà con una legge proporzionale, meglio se non obbrobriosa, non sarebbe neanche necessario. Il problema, semmai, questo sì inevitabile, consiste nello scegliere il candidato per la Presidenza della Regione. Dovrebbe essere portatore di un valore aggiunto, vale a dire in grado di raggiungere elettori che, altrimenti, non voterebbero né le Stelle né i Democratici.

“Se sapessero (e volessero, Covid-19 permettendo) farle in maniera decente, suggerirei lo strumento delle primarie, quelle “cartacee” nelle quali gli elettori camminano fino alle urne e le schede possono essere contate e ri-contate. Altrimenti, in partenza né i Cinque Stelle né i Democratici dovrebbero porrebbe veti, ma neanche far circolare candidature “ballons d’essai” per farsele bocciare e poi contrattare il loro second best. La trasparenza serve ad informare gli elettori e ottenere spazi sui media. Concludo affermando senza se senza ma che per governare una Regione è utile candidare qualcuno che abbia già dimostrato di avere qualche competenza politica e amministrativa. Non sto chiedendo troppo. Mi pare il minimo (non sindacale, ma politico).

Pubblicato l’ 8 marzo 2020 su formiche.net

E dopo il trasloco? @pdnetwork

Un milione e mezzo circa di simpatizzanti ha partecipato all’elezione del segretario del PD. Nicola Zingaretti. Delle sue idee di quale PD vorrebbe (ri)costruire poco si sa. In campagna elettorale non ne ha parlato. Adesso sappiamo che vuole “sbaraccare”. Il suo primo atto sarà un trasloco. Il quarto in una decina d’anni. Dal centro alla periferia. Lasciando soli gli elettori piddini che in centro abitano. Alla ricerca degli elettori perduti o mai pervenuti. Nelle periferie. Giusto. Da partito che fu centrale negli allineamenti politici a partito diventato periferico. Per “ribaraccare” lo spazio al pianterreno sarà affidato ai giovani. Reclutati come? Selezionati come? Formati con quale cultura politica? Certo, un partito è un’associazione di uomini e di donne. Anche giovani (ma non “meglio se giovani”). Per presentare candidature. Scelte con le primarie. Anche per le cariche di parlamentari nazionali, e europei. Che cercano di ottenere voti. Con quale programma e sotto quale etichetta se le elezioni sono quelle del Parlamento Europeo? Al nuovo segretario spetta di rivitalizzare l’organizzazione. Pensa di farlo chiedendo nuove elezioni. Subito? Su quale base e con quali prevedibili conseguenze? Con la legge elettorale Rosato? Che esista nel Partito Democratico anche un problema di regole, procedure, compiti, “democratici”? Zingaretti non vi ha fatto cenno alcuno. Per fortuna potrebbe impararlo, non facilmente, ma applicandosi. La lettura del libro di Floridia, Un partito sbagliato, gli sarebbe sicuramente utile. Potrebbe anche servire a distinguere meglio ruoli e potere. A cosa servono gli iscritti? O se ne può fare a meno? Anche rendendoli irrilevanti. Nessun tentativo di trasformare in iscritti coloro che lo hanno eletto segretario? Partito di massa no more vuole dire che conteranno solo i notabili? Pardon, i dirigenti. Regressione a un tempo che fu. Che sappiamo migliore dell’attuale. Conteranno solo gli eletti alle varie cariche? Dove si esprimeranno? Nei gruppi parlamentari? Verranno convocati gli spesso nominati e mai radunati Stati generali? Qualcuno si ricorda più della Conferenza programmatica? PD non più partito personale. Personalistico. Personalizzato. Se non partito fatto di persone, gli iscritti, allora partito degli elettori “primari”? Quali canali avranno questi elettori per esprimersi? Per esercitare influenza. Per valutare le scelte. Fatte, non fatte, malfatte. Come faranno valere la virtù democratica della responsabilizzazione dei decisori, dei detentori delle cariche? A partire dal segretario? Fatte le domande, chi risponderà? E come, e quando? Attendo la narrazione.

Pubblicato il 12 marzo 2019 su larivistailMULINO

Che tipo di partito vogliono costruire? #primariePD

Non sono solo l’entusiasmo e la passione che mancano per una buona elezione del segretario del PD. Manca soprattutto l’idea di quale partito (ri)costruire. Non bastano né un pranzo con Prodi (che del partito non s’è mai occupato) né le confuse esternazioni di Calenda meno che mai le trame dei renziani che il PD lo hanno distrutto, e non è finita.

Come sbagliare le primarie

Quando un partito, i suoi dirigenti, i commentatori politici, persino gli studiosi continuano a definire “primarie” quelle che sono votazioni per eleggere il segretario di quel partito, c’è un problema. Anzi, ce ne sono due. Primo, qualcuno non sa che cosa fa. Secondo, qualcuno ha manipolato senza ritorno il significato di un procedimento di coinvolgimento e di partecipazione di iscritti e elettori ad un avvenimento molto importante nella vita di qualsiasi partito che intenda essere democratico. Secondo, che, in un paese dalla diffusa ignoranza sul funzionamento delle istituzioni, delle procedure, dei partiti, è altamente probabile trovare chi non sa. C’era una volta, però, quando i partiti non solo avevano al loro interno “intellettuali organici”, ma sapevano, anzi, spesso erano lieti di ricorrere al parere degli intellettuali.

Quanto alla manipolazione essa può essere più o meno consapevole. Certo è che nelle votazioni per il segretario del Partito Democratico, essa si manifesta fin dall’inizio. La lunga cavalcata estiva di Veltroni nel 2007 dal Lingotto alle votazioni che lo consacrarono primo segretario del PD con una maggioranza che può essere definita bulgara solo da chi non sa che il sistema partitico bulgaro ha da tempo una dinamica bipolare, delineò il programma di governo che Veltroni desiderava attuare. Non tanto incidentalmente quella “delineazione” costituì una ferita mortale al già malaticcio governo Prodi il cui programma era oggetto di rivendicazioni e di ricatti. Certo, quale partito dovesse sovrintendere al programma di governo Veltroni non lo precisò mai. D’altronde, era in ampia, nient’affatto buona, compagnia.

I fondatori del PD avevano preferito affabularsi sulla contaminazione delle (peraltro, già pallide e esauste) culture politiche riformiste dalle quali nasceva il PD piuttosto che discutere più laicamente della strutturazione del partito che, naturalmente, richiedeva sporcarsi le mani per radicarlo sul territorio. Che quel partito, fatto ad immagine e somiglianza di Veltroni (quando leggo di “partito del leader” mi interrogo su quanto grande è stata la responsabilità del “partito di Veltroni”, a vocazione maggioritaria, nella democrazia bipolare dell’alternanza) non sapesse poi difendere Veltroni dai suoi errori è la logica conseguenza di seguaci che non osano contraddire il leader e del leader che non presta ascolto a parole e interpretazioni difformi dalle sue.

A fronte di capi di partito che controllavano saldamente persone e funzionamenti (Berlusconi e Bossi), il balletto del PD e dei suoi segretari è stato tanto intenso e frequente quanto inadeguato a strutturare un partito che non riusciva a trovare, ma in verità neppure cercava, una via di mezzo fra sezioni (“circoli”) e gazebo. La sequenza è impressionante: dopo Veltroni, Franceschini, poi votazioni dalle quali emerge Bersani a “dare un senso a questa storia” (ma il senso non lo si trovò neanche nella narrazione esplicitata in campagna elettorale), a rappresentare una “ditta” che produceva poco e male e perdeva i suoi “venditori”, e che il suo concorrente voleva addirittura “rottamare” (fenomeno del tutto sconosciuto persino nei partiti di sinistra che più si erano rinnovati: il Parti Socialiste di Mitterrand nel 1971 e il New Labour di Tony Blair nel 1995), poi Epifani a supplire per poco tempo prima della vittoria di Renzi, seguita da dimissioni e immediata rielezione e, per fare le cose in grande, da nuove dimissioni date, sospese, mantenute. In tutte queste fasi è legittimo chiedersi dov’era, se c’era, il partito oppure se quel che esisteva erano soltanto aggregazioni personalistiche, a cominciare dal partito di Renzi.

La situazione non è affatto migliorata nella fase depressiva e deprimente seguita alle seconde dimissioni di Renzi e al congelamento di un PD del tutto imbambolato dopo la pesante sconfitta elettorale del 4 marzo 2018. Stancamente rilanciato senza nessuna riflessione sulla sua inadeguatezza, il rito delle votazioni fra gli iscritti prima di giungere ai gazebo di marzo ai quali affluirà il più basso numero di sempre di elettori (eccezion fatta, azzardo la previsione, per la Campania del molto Democratico governatore De Luca) non è stato accompagnato da nessuna proposta su come (ri)costruire il/un partito degno del suo nome, cioè, anche democratico. La proposta più dirompente e perfettamente inutile è quella di fare a meno del simbolo tanto per cominciare alle elezioni europee. Peso degli iscritti e loro potere, albo degli elettori per cercare di trasformarli in attivisti non occasionali e poi in iscritti partecipanti, nuovi strumenti di formazione e di influenza politica? No, grazie. Il partito sbagliato (titolo di un eccellente pungente libro di Antonio Floridia, Castelvecchi editore) neanche si pone il problema di correggere i suoi errori. Si accontenta, ma oramai non ha più neppure la faccia tosta di vantarsene, di fare eleggere il suo segretario da platee disordinate e faziose (oh, pardon, divise in fazioni). Sic transeunt (quod non fuerunt) primariae

 

[“Questioni Primarie” è un progetto di Candidate & Leader Selection e dell’Osservatorio sulla Comunicazione Politica dell’Università di Torino, realizzato in collaborazione con rivistailmulino.it. In vista delle primarie del Pd, ogni settimana riprendiamo contributi pubblicati nell’ambito dell’iniziativa tutti disponibili anche in pdf sul sito di Candidate & Leader Selection.]

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Quale partito per il prossimo segretario del PD?

Dalla rumorosa cavalcata di Veltroni nell’estate-autunno 2007 fino all’inusuale ri-elezione nel 2017 di un ex-segretario sconfitto al referendum costituzionale, le battaglie (impropriamente definite “primarie) per la conquista della segreteria del Partito Democratico hanno regolarmente eluso il tema di “quale partito” debba essere il PD. Tutti i potenziali segretari hanno raccontato qualche storia più o meno credibile, più o molto meno nuova, più o meno infiorettata, sulle “magnifiche sorti e progressive” che avrebbero introdotto nel governo del paese. Con quale partito non si è saputo mai. Con quale successo lo si è visto poi. Nelle democrazie contemporanee, alla faccia di tutte le estemporanee analisi che accentuano la personalizzazione della politica (in Svezia? Norvegia? Danimarca? Finlandia? Germania? Gran Bretagna? tutte democrazie davvero pochissimo “personalizzate”, e altre se ne potrebbero aggiungere), che sostengono che i partiti sono spariti, che trovano, per assolvere gli italiani, inconvenienti simili alla sgangherata politica italiana un po’ dappertutto, i partiti continuano a esserci, in uno stato di salute accettabile, e quelle che chiamiamo crisi della democrazia sono problemi di funzionamento nelle democrazie. Quei problemi sono più evidenti e più gravi proprio laddove i partiti sono più deboli. Incidentalmente, le alternanze al governo non sono mai la causa dei problemi, ma neppure la loro magica soluzione. Marco Valbruzzi mi ha insegnato che quelle alternanze frequenti sono semplicemente il prodotto della competizione fra partiti indeboliti che non riescono a mantenere “fermo” il consenso ottenuto da una elezione alla successiva. La volatilità elettorale è inevitabilmente più alta dove i partiti sono “qual piume al vento” e non dove sono radicati. Sulla volatilità del consenso del PD, se i dirigenti del partito smettessero di raccontarci i loro sogni e studiassero un po’ di analisi elettorali, qualcosa potrebbero imparare. La prima lezione è, come si conviene, tanto elementare quanto fondamentale. Laddove l’organizzazione del partito tiene il consenso elettorale fluttua poco. La seconda lezione è quella operativa. Se i dirigenti del partito si occupano di cariche e di carriere e non della presenza organizzata sul territorio, anche le cariche e le carriere diventano a rischio. Allora, bisogna proteggerle con le candidature multiple e le nomine dall’alto. La legge Rosato ha avuto questo unico esito protettivo che, naturalmente, prescindeva dallo stato del partito ed è andato a scapito della rappresentanza politica.

La campagna per l’elezione del prossimo segretario è sostanzialmente già partita, “sottotraccia” dicono i retroscenisti, ma già narrata in maniera più o meno fake da giornaliste e giornalisti che hanno fonti amiche. Sappiamo di contrapposizioni fra persone, con l’obiettivo prevalente del due volte ex-segretario (e lo scrivo due volte apposta) di bloccare chi è a lui ostile, per un insieme di ragioni che nulla hanno a che vedere con le modalità con le quali sarà ricostruito il Partito Democratico oppure si porranno le premesse per un altro partito. Che Renzi e i renziani siano totalmente disinteressati al PD è lampante. Con grande loro compiacimento personale, hanno nel tempo consentito a Ilvo Diamanti di scrivere tre o quattro articoli su “Repubblica” centrati, pardon, sbilanciati proprio a favore del Partito di Renzi (PdR). Tuttavia, un partito è più di una fazione di carrieristi e, quando i carrieristi perdono, il deflusso di parte di loro, spesso senza un ancoraggio sul territorio (anche perché paracadutati), è fisiologico, alla ricerca di chi offrirà altre opportunità di carriera. Qui sta, naturalmente, il problema di come (ri)costruire il partito sostituendo parte grande di quella classe dirigente. Dal mio allievo Angelo Panebianco ho imparato molto tempo fa che i partiti non possono mai cambiare completamente. Cambiano attraverso spostamenti interni che producono nuove coalizioni dominanti. In questo modo, è nato, frettolosamente e balordamente, nonostante le critiche apertamente rivoltegli, il PD.

Probabilmente, gli spostamenti cominceranno a fare la loro comparsa al momento delle candidature alla segreteria. In particolare, non tanto curiosamente, conteranno le “desistenze” a favore di chi. L’ultimo ex-segretario vorrà certamente continuare, scrivono le giornaliste, a dare le carte, ma quante carte gli saranno restate? Il punto, che dovrebbe preoccupare di più chi pensa che senza partiti e senza un’opposizione strutturata sul territorio nessun sistema politico può funzionare in maniera decente e nessuna democrazia può avere una qualità accettabile, è che i candidati dovrebbero formulare prioritariamente con il massimo di chiarezza possibile la loro idea di partito e non annunciare un programma di governo, per un governo che senza un partito decente non formeranno mai. Schematicamente (estesamente, riflessioni e proposte di notevole qualità si trovano nel volume di Antonio Floridia, Un partito sbagliato. Regole e democrazia interna del PD, di prossima pubblicazione), ecco i temi da trattare: iscritti, sedi, attività, modalità di consultazione e decisione, procedure per la scelta dei dirigenti e dei candidati, e, oso al massimo, “cultura politica” (quindi, anche strumenti per la formazione). Nulla di tutto questo è particolaristico e specialistico. Questa è politica: come rapportarsi alle persone, come rappresentarne idee, preferenze, emozioni, come contribuire alla loro capacità di comprendere e di fare politica. Per rendere meno sgradevole l’inverno del nostro scontento.

Pubblicato il 7 settembre 2018 su PARADOXAforum

Un Pd da ricostruire oltre le primarie @rivistailmulino @pdnetwork

di Gianfranco Pasquino e Marco Valbruzzi

La storia si ripete, per quelli che non l’hanno studiata, in peggio. No, le votazioni per eleggere il prossimo segretario del Partito democratico non sono “primarie”. Si hanno primarie quando gli elettori sono chiamati a scegliere i candidati a cariche elettive, come il sindaco e il Presidente di regione,e a designare il candidato a capo del governo. Ci fossero i collegi uninominali si potrebbero (non è obbligatorio) svolgere primarie anche per la scelta del candidato/a in quel collegio. No, le primarie delle idee e dei programmi proprio non esistono. Con le primarie si scelgono persone le quali le loro idee le hanno e le esprimono. Anzi, se hanno fatto un qualche percorso politico e professionale quelle idee le hanno già comunicate, sono note, possono essere discusse, fanno parte della conversazione che, però, si arresta con l’elezione. Chi vota un candidato/a vota anche per le sue idee e contro le idee degli altri candidati.

Quando si sceglie il segretario di un partito, la campagna per quelle votazioni deve essere improntata a un tema dominante, che in questi tempi di pseudo-primarie è sempre mancato: che tipo di partito vuole, disegna, costruirà il candidato? Nel caso del Partito democratico è chiaro che, giunto al suo punto più basso, il partito deve essere ricostruito. Ma in che modo, con quali persone, reclutando, selezionando, promuovendo con quali criteri, guardando a quali capacità per quali obiettivi? Sperabilmente, non con riferimento a cerchi e cerchietti che mai si sono rivelati magici, ma neppure con inclusioni ecumeniche – rassemblement, fronti, unioni o quant’altro – che non servono a nulla. Dicano i candidati che tipo di collaboratori desiderano per rifare il Partito democratico.

Due sono le mancanze alle quali sopperire: la prima è il sostanziale stato di abbandono di una presenza organizzata sul territorio; la seconda è la scomparsa, se mai è esistita, di una cultura politica. Dicano allora i candidati come si afferma la presenza sul territorio (ovviamente – suggeriamo – non con parlamentari paracadutati) del partito che intendono guidare. Garantiscano il loro impegno per l’elaborazione di una cultura riformista e progressista, non vagamente multiculturale, non a favore di diritti che spesso sono costose rivendicazioni, ma per doveri e eguaglianza di opportunità. Questi elementi possono diventare parte della cultura politica del partito, ma non devono essere confusi con il programma del prossimo governo.

Per giungere a una cultura politica condivisa dicano i candidati che incoraggeranno la formazione di scuole di politica, anche riconoscendo quelle già esistenti, non facendone passerelle per politici e parlamentari, ma luogo di elaborazione e confronto di idee, non allevamento di galletti e galline da combattimento televisivo, ma palestre alle quali dare il massimo di apertura e di pubblicità/zzazione. Se serve, e crediamo ce ne sia urgente bisogno, si faccia precedere la competizione per la segreteria da un dibattito ampio, interno e attorno al partito, su quattro aspetti che finora sono stati quasi completamente trascurati: 1) un esame profondo e non auto-assolutorio delle cause della peggiore sconfitta elettorale di tutti i tempi della sinistra e del Pd; 2) un’analisi della condizione reale della società italiana, che metta al centro il tema delle crescenti diseguaglianze e trascuri quello vuoto e retorico delle eccellenze; 3) una ridefinizione dei fini (valoriali e ideali) della sinistra che proceda di pari passo con l’individuazione dei mezzi più adatti a raggiungerli; 4) un discorso di verità sull’Europa che c’è, su quella che si vuole costruire, con strategie e alleanze ancora da definire, e, infine, su quella a cui si aspira per rendere il suo funzionamento più democratico e il suo rendimento più giusto ed equilibrato.

Oggi, un compito è fondamentale per il prossimo segretario del Pd: (ri)costruire una comunità funzionante, non omologata, ma capace di convergere e di cooperare sulle scelte più importanti. Se il partito deve essere un partito di iscritti, allora il voto degli iscritti deve valere di più, almeno il doppio, del voto dei simpatizzanti e di coloro che si attivano solo per scegliere saltuariamente fra candidature. L’iscritto deve sapere che il suo ruolo è valorizzato, che conta di più di coloro che entrano in scena in alcune limitate occasioni, ma non intendono spendere energie per la “macchina”. Infine, dicano i candidati alla segreteria del Partito democratico che cosa è per loro un partito davvero “democratico”, in base a quali regole decide, con quali votazioni, con quali maggioranze, con quale riconoscimento e valorizzazione del dissenso, con quali aperture a gruppi esterni. Poi verrà anche la sfida del governo che soltanto un partito aperto, ma saldamente fondato su iscritti consapevoli e attivi, e democratico, sarà nelle migliori condizioni per affrontare. Tutto quello che esula da quanto qui scritto è in parte il prodotto dell’ignoranza, in parte coazione a ripetere errori gravi già visti, in parte manipolazione e certamente non serve a fare un partito. Tanto meno serve alla democrazia.

Pubblicato il 20 luglio 2018 su larivistailMULINO