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Meno non significa meglio #tagliodeiparlamentari
L’obiezione più rilevante alla riduzione di un terzo del numero dei parlamentari non può essere che il risparmio sarà minimo, forse il prezzo di un caffè per ciascun italiano. Non può neppure essere che se gli italiani confermassero con il referendum quella riduzione sarebbe indispensabile scrivere una nuova legge elettorale poiché una legge elettorale migliore di quella vigente è comunque assolutamente auspicabile. Farla senza conoscere il numero dei parlamentari da eleggere è uno spreco di tempo e di energie. La vera obiezione è che meno parlamentari non significa automaticamente un parlamento migliore. Anzi, ci sono alcune buone ragioni per pensare che, in assenza di altre riforme, gli italiani avranno parlamentari scelti male e costretti a operare in condizioni peggiori.
Il guaio grosso non è affatto che meno parlamentari implica anche, probabilmente meno disegni di legge. Piuttosto è che, poiché quasi il 90 per cento delle leggi sono di origine governativa, né potrebbe essere altrimenti in quanto il governo ha il dovere di tradurre in politiche pubbliche le promesse elettorali, meno parlamentari non riuscirebbero a valutare le molte leggi del governo o lo farebbero in maniera approssimativa e superficiale. Inoltre, in qualsiasi emergenza, il governo procederebbe alla decretazione d’urgenza intasando il parlamento e superandone il controllo con il ricorso al voto di fiducia. Già, anche a causa delle scandalose candidature multiple e bloccate (cioè, senza possibilità per gli elettori di scegliere il candidato preferito), poco rappresentativi dell’elettorato, i parlamentari lo diventerebbero ancor meno non potendo, in collegi necessariamente più grandi degli attuali, confrontarsi con gli elettori. I sostenitori della riduzione del numero dei parlamentari replicano che sarà la tecnologia a rendere irrilevanti questi problemi obbligando una istituzione ottocentesca, il Parlamento bicamerale paritario, a diventare finalmente moderno. Purtroppo, da un lato, non c’è traccia dei provvedimenti specifici, comunque già introducibili, che modernizzerebbero il Parlamento; dall’altro, dovremmo avere imparato che lo smart working presenta molti inconvenienti anche per altre attività che si basano su rapporti fra persone, come l’insegnamento scolastico e universitario.
La politica e la rappresentanza politica sono di qualità migliore quando elettori e eletti hanno modo di incontrarsi, vedersi, interagire fisicamente. Meno sono gli eletti che avranno fatto campagna elettorale per informare e convincere gli elettori al fine di dare loro rappresentanza maggiore sarà l’insoddisfazione degli elettori nei confronti di persone che non conoscono e che non sono in grado di valutare. Una buona legge elettorale, le attuali proposte non sono apprezzabili, risolverebbe in parte alcune carenze della rappresentanza che in un democrazia parlamentare è lo snodo cruciale. Allo stato attuale del dibattito, però, la riduzione del numero dei parlamentari è più un salto nel buio che un positivo passo avanti.
Pubblicato AGL il 9 agosto 2020
Caro Zingaretti, di legge elettorale parla quando saprai quanti saranno i parlamentari da eleggere @HuffPostItalia @nzingaretti
Scrivere una qualsiasi legge elettorale senza conoscere con precisione il numero dei rappresentanti da eleggere è un’operazione azzardata. Due punti, però, possono essere decisi subito in prospettiva di una buona rappresentanza politica: nessuna candidatura bloccata, nessuna possibilità di candidature multiple. L’elettore deve potere scegliere il/la suo/a rappresentante. Quindi, o collegi uninominali o almeno un voto di preferenza.
Non impossibili, i collegi uninominali se i deputati e i senatori da eleggere saranno rispettivamente 400 e 200 avranno come minimo, rispettivamente, circa 125 e circa 250 mila elettori. Lieviteranno i costi delle campagne elettorali, conteranno anche altre risorse, sarà molto difficile per gli eletti “conoscere” i loro elettori, preferenze e esigenze. Sarebbe auspicabile che una legge elettorale proporzionale avesse circoscrizioni relativamente piccole: 40 per la Camera e 20 per il Senato con dieci eletti per circoscrizione. La soglia implicita è poco meno del 10 per cento dei voti. Premierebbe quei candidati che nelle rispettive circoscrizioni hanno ottenuto molti voti e dunque rappresentano una parte di elettori/trici anche se il loro partito non avesse superato un’eventuale soglia percentuale nazionale.
Questi relativamente semplici calcoli non dicono nulla sulla qualità della rappresentanza. La riduzione di un terzo del numero dei parlamentari non può essere giustificata soltanto con un risparmio modesto di soldi, quando poi si avrebbero spese potenzialmente “folli” nelle campagne elettorali e negli uffici da mantenere fra una campagna e l’altra. Un buon parlamento e buoni parlamentari debbono svolgere due compiti di assoluta importanza in un democrazia parlamentare: dare rappresentanza ai cittadini, controllare le attività del governo, criticarlo, stimolarlo, eventualmente sostituirlo. I parlamentari saranno tanto più liberi e efficaci in entrambi i compiti se sono debitori della elezione alle loro capacità di ottenere il consenso degli elettori e non alla cooptazione ad opera dei dirigenti dei partiti e delle correnti. È anche probabile che per svolgere soddisfacentemente quei compiti, ad esempio, valutando le leggi e i decreti legge del governo e il loro impatto e l’operato dei ministri e della burocrazia, i parlamentari debbano distribuirsi i compiti.
Un numero ridotto di parlamentari avrebbe molto probabilmente conseguenze negative sul funzionamento del Parlamento spostando potere nelle mani dei governanti. Qui, l’azzardo è palese: meno (parlamentari) non significa meglio (migliore rappresentanza politica e miglior funzionamento del Parlamento e dei rapporti Parlamento/Governo). Anzi, è più probabile che meno significhi peggio, un peggio al quale nessuna legge elettorale potrebbe ovviare, anche se alcune potrebbero ridurre rischi e danni.
Post Scriptum Un minimo di prudenza politica suggerirebbe (anche al segretario del PD Nicola Zingaretti e agli strateghi di riferimento) il silenzio, strategico, sulle indicazioni di fondo relative alla prossima (la legge Rosato è, comunque, da cancellare) legge fintantoché non si sa quanti saranno i parlamentari da eleggere.
Pubblicato il 4 agosto 2020 su huffingtonpost.it
Un’altra legge elettorale è possibile. Pasquino spiega come @formichenews
Potere degli elettori e rappresentanza politica sono i due criteri che propongo di utilizzare per valutare qualsiasi legge elettorale, compresa, naturalmente, quella alla quale si lavora adesso in Parlamento (sperabilmente senza battezzarla in latino). Il commento di Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza politica
Non possiamo e non dobbiamo schiacciarci ad analizzare qualsiasi testo di legge elettorale sia in discussione in Parlamento. Meno che mai dobbiamo affannarci a spiegare perché questa clausoletta perché questa percentuale perché questi criteri per le candidature. È ora di cambiare il campo di gioco. Cominciamo dai fondamentali. Il criterio dominante, ancorché non l’unico, per valutare la bontà (non la perfezione) di una legge elettorale è quanto potere e quale dà agli elettori. La legge Calderoli e la legge Rosato sono diversamente esemplari. Nella Calderoli il potere degli elettori stava tutto in una crocetta. Che, poi, con quella crocetta gli elettori sapessero vagamente quale candidato ce l’aveva fatta era, a causa delle pluricandidature, sostanzialmente impossibile. La Rosato faceva appena meglio. Mantenute le pluricandidature, ma aggiunto il voto di preferenza di genere (che, peraltro, è suscettibile di notevoli manipolazioni), dava un minimo di potere agli elettori.
Chini sui numeri e sulle percentuali che per molti di loro e dei loro partiti sono questione di vita e di morte, i facitori di leggi elettorali neppure più si ricordano che le modalità con le quali si elegge un Parlamento hanno conseguenze di enorme impatto sulla rappresentanza politica. Da tempo sostengo, in buona compagnia che va da Edmund Burke a Giovanni Sartori, che non è possibile avere nessuna governabilità decente se si riduce la rappresentanza (incidentalmente, tagliare il numero dei parlamentari italiani è riduzione di rappresentanza) invece di migliorarla qualitativamente.
Per quel che attiene alle leggi elettorali, il requisito di residenza nel collegio/circoscrizione per i candidati è il minimo. Soltanto chi vive laddove viene candidato/a e poi eventualmente eletto/a conosce i problemi, ma anche le risorse e le opportunità del luogo e delle persone e sarà in grado di rappresentarle adeguatamente, efficacemente. Le pluricandidature, oltre ad ingannare gli elettori, incidono pesantemente sulla rappresentanza del territorio che è rappresentanza di persone, delle loro attività, delle loro preferenze, delle loro speranze e, ebbene, sì, anche delle loro emozioni.
È giusto porsi l’obiettivo di evitare la frammentazione (di quel che rimane) del sistema dei partiti. Non bisogna mai premiare in qualsiasi forma i “frammentatori”. Tuttavia, credo che, nell’ottica della rappresentanza, esista una soluzione migliore delle clausole percentuali di accesso al Parlamento. In un partito escluso dal Parlamento perché non ha superato quella clausola, possono esserci candidati/e che nelle rispettive circoscrizioni hanno ottenuto notevole successo perché radicati, competenti, molto rappresentativi, ma rimarranno fuori. Meglio allora ricorrere al disegno di circoscrizioni di medio-bassa dimensione che eleggano 15-10 parlamentari (senza recupero dei resti!). Se quindici, allora la soglia sarà all’incirca 7/8 per cento; se dieci la soglia potrebbe essere 8/9 per cento. Complessivamente un partito potrà anche non raggiungere il 4/5 per cento dei voti su scala nazionale, ma alcuni suoi candidati/ saranno comunque eletti perché capaci di esprimere le esigenze di quel territorio. Ne gioverà la rappresentanza parlamentare.
Potere degli elettori e rappresentanza politica sono i due criteri che propongo di utilizzare per valutare qualsiasi legge elettorale, compresa, naturalmente, quella alla quale si lavora adesso in Parlamento (sperabilmente senza battezzarla in latino).
Pubblicato il 21 luglio 2020 su formiche.net
Due e forse più cose che so sulle leggi elettorali @formichenews
Il vero test della validità di una legge elettorale è basato su due criteri: il potere degli elettori e la qualità della rappresentanza politica. Quando gli elettori possono esclusivamente tracciare una crocetta sul simbolo di un partito hanno poco potere. Il commento di Gianfranco Pasquino, professore di Scienza politica e autore, tra gli altri testi, di “I sistemi elettorali”, (Il Mulino, 2006)
No, non chiedete di sapere tutto sui sistemi elettorali. Soprattutto non chiedetelo né ai sedicenti riformatori elettorali né ai loro consulenti. Limitatevi ad alcuni pochi punti. Primo, a chi vi dice che non esiste legge elettorale perfetta rispondete subito che quell’affermazione è banale e persino un po’ manipolatoria. Per di più, cela il fatto che esistono alcuni sistemi elettorali che funzionano meglio, molto meglio di altri. Guardatevi intorno. Leggete qualche libro, almeno qualche articolo. Secondo, ricordate che nelle democrazie parlamentari, in TUTTE le democrazie parlamentari, le leggi elettorali servono a eleggere un Parlamento, mai un governo. Il pregio delle democrazie parlamentari è la loro flessibilità proprio per quanto riguarda il governo. Nasce in Parlamento, si trasforma, cade, può essere ricostituito. Terzo, eleggere un parlamento è operazione diversa dall’eleggere un sindaco o un presidente di regione. Dimenticate lo slogan “sindaco d’Italia”. Chi vuole il presidenzialismo oppure il semipresidenzialismo lo argomenti e lo proponga. Poi, comunque, dovrà anche suggerire una legge elettorale decente.
Leggi decenti e talvolta, anche buone possono essere sia maggioritarie sia proporzionali. Qui: Tradurre voti in seggi in maniera informata, efficace e incisiva. Si può, si deve, Lezione n 1 del Video Corso Il racconto della politica, Casa della Cultura di Milano agosto 2018, segnalo gli elementi essenziali da conoscere. Il plurale è d’obbligo poiché esistono interessanti varianti sia delle leggi maggioritarie sia, ancor più, delle leggi proporzionali. Un punto, però, deve essere chiarito subito –mi piacerebbe scrivere per sempre, ma con i riformatori/manipolatori italiani nulla può mai darsi assodato e accertato per sempre: i premi di maggioranza di qualsiasi entità e comunque congegnati non consentono di definire maggioritaria quella legge elettorale. Semmai, bisognerebbe parlare di sistema misto a prevalenza proporzionale o maggioritaria.
Mi affretto ad aggiungere che il doppio turno di coalizione non soltanto è una proposta pasticciata e pasticciante, ma non ha praticamente nulla in comune con il maggioritario a doppio turno in collegi uninominali di tipo francese. Il doppio turno chiuso ovvero riservato a due soli candidati si chiama ballottaggio. Il doppio turno “aperto” ha clausole che lo disciplinano e che consentono operazioni politiche brillanti fra le quali desistenze, che servono ad accordi di governo, e “insistenze” che misurano la forza di candidati e di partiti e che testimoniano qualcosa (non posso essere più preciso).
Last but not least, il vero test della validità di una legge elettorale è basato su due criteri: il potere degli elettori e la qualità della rappresentanza politica. Quando gli elettori possono esclusivamente tracciare una crocetta sul simbolo di un partito hanno poco potere. Quando, per di più, i candidati/le candidate sono paracadutati in liste bloccate e con la possibilità di essere presentati in più collegi, la rappresentanza politica (che, comunque, richiede un discorso più ampio che ricomprenderebbe il non-vincolo di mandato e il non-limite ai mandati) non sarà sicuramente buona. La coda è tutta italiana.
Come si fa a scrivere una legge elettorale senza sapere quanti rappresentanti dovranno essere eletti: 200 o 315 senatori; 400 o 630 deputati. Se il referendum chiesto dalla Lega portasse a un ripristino del numero attuale dei parlamentari, qualsiasi legge elettorale nel frattempo elaborata dovrebbe essere riscritta e non sarebbe un’operazione semplice. Fin qui le mie proteste. La proposta è che si scelga fra il maggioritario francese con pochissimi adattamenti e senza nessun “diritto” (?) di tribuna e la proporzionale personalizzata (si chiama così) tedesca senza nessun ritocco, meno che mai la riduzione della clausola nazionale del 5 per cento per accedere al Parlamento. Dunque, non finisce qui.
Pubblicato il 18 dicembre 2019 si formiche.net
L’antiparlamentarismo ha eroso la democrazia parlamentare. I ventilati correttivi potrebbero anche peggiorare la situazione #tagliodeiparlamentari
In Italia, l’antiparlamentarismo ha una storia lunga e ingloriosa. La drastica riduzione del numero dei parlamentari è il più recente, non ultimo, episodio di questa storia. Lentamente, gradualmente, attraverso riviste, quelle di Prezzolini, editoriali, quelli di Montanelli , libri, La casta di Stella e Rizzo, balorde riforme, prima Renzi, poi, con più successo, Di Maio et al. l’antiparlamentarismo ha eroso la democrazia parlamentare. I ventilati correttivi potrebbero anche peggiorare la situazione.
Meno NON è meglio #tagliodeiparlamentari
La (buona) rappresentanza politica dipende da una molteplicità di elementi. Di questi fa parte anche il numero dei rappresentanti. Non è affatto detto che, riducendoli, la rappresentanza migliori. Nessuno può sostenere che, diminuiti di numero, coloro che entreranno in Parlamento saranno più capaci, più competenti, più efficaci. Vantare la riduzione di un terzo del numero dei parlamentari italiani come un grande successo per la democrazia, che è quanto stanno facendo le Cinque Stelle, è una esagerazione priva di fondamento. Festeggiare per il risparmio che, comunque, inizierà solo dal prossimo Parlamento (2023), di 500 milioni di Euro significa solleticare gli elettori con una visione da bottegai della democrazia. Meno non è meglio e risparmiare non equivale a democratizzare.
Adesso (quasi) tutti si affannano a sostenere che bisogna fare una nuova legge elettorale che sia tutta proporzionale e a trovare freni e contrappesi, a una maggioranza di governo che, eletta con la proporzionale, sarebbe sicuramente multipartitica. La legge Rosato, già per due terzi proporzionale, è pessima per la rappresentanza politica poiché consente candidature bloccate e multiple che tolgono potere agli elettori. Una proporzionale senza clausole di accesso al Parlamento frammenterebbe quel che rimane del sistema dei partiti e complicherebbe la formazione e il funzionamento dei governi a tutto vantaggio dei partiti piccoli, ad esempio, della neonata Italia Viva. Non è, poi, affatto detto che una legge maggioritaria come il doppio turno francese non offra buona rappresentanza politica ad opera degli eletti in ciascun collegio uninominale che sanno di dovere prestare grande attenzione ai loro elettori se vogliono riconquistare il seggio.
La rappresentanza politica può essere buona e diventare ottima quando i parlamentari non sono nominati dai partiti, ma eletti dai cittadini. Una buona rappresentanza già di per sé costituisce un freno a qualsiasi scivolamento autoritario del governo e un contrappeso all’azione dei governanti. Peraltro, da un lato, nel sistema politico italiano già esistono efficaci freni e contrappesi dati sia dalla Presidenza della Repubblica sia dalla Corte costituzionale, dall’altro, nessuno degli avventurosi riduttori dei parlamenti ha finora saputo indicare con chiarezza quali nuovi freni e contrappesi saranno escogitati e messi in pratica. Quel che sappiamo porta ad alcune poche tristi considerazioni, non conclusioni poiché la saga elettoral-istituzionale è destinata a durare. Cinque Stelle e PD cercheranno di fare una legge elettorale che li protegga dall’assalto di Salvini, quindi, molto proporzionale. La discussione durerà a lungo, garanzia di prosecuzione della legislatura. Nessuno individuerà freni e contrappesi aggiuntivi e i governi continueranno nella deplorevole pratica “decreti più voti di fiducia” che schiaccia il Parlamento. Pur ridotti di numero, i parlamentari continueranno a dare poca e mediocre rappresentanza all’elettorato.
Pubblicato AGL il 8 ottobre 2019
Quale partito per il prossimo segretario del PD?
Dalla rumorosa cavalcata di Veltroni nell’estate-autunno 2007 fino all’inusuale ri-elezione nel 2017 di un ex-segretario sconfitto al referendum costituzionale, le battaglie (impropriamente definite “primarie) per la conquista della segreteria del Partito Democratico hanno regolarmente eluso il tema di “quale partito” debba essere il PD. Tutti i potenziali segretari hanno raccontato qualche storia più o meno credibile, più o molto meno nuova, più o meno infiorettata, sulle “magnifiche sorti e progressive” che avrebbero introdotto nel governo del paese. Con quale partito non si è saputo mai. Con quale successo lo si è visto poi. Nelle democrazie contemporanee, alla faccia di tutte le estemporanee analisi che accentuano la personalizzazione della politica (in Svezia? Norvegia? Danimarca? Finlandia? Germania? Gran Bretagna? tutte democrazie davvero pochissimo “personalizzate”, e altre se ne potrebbero aggiungere), che sostengono che i partiti sono spariti, che trovano, per assolvere gli italiani, inconvenienti simili alla sgangherata politica italiana un po’ dappertutto, i partiti continuano a esserci, in uno stato di salute accettabile, e quelle che chiamiamo crisi della democrazia sono problemi di funzionamento nelle democrazie. Quei problemi sono più evidenti e più gravi proprio laddove i partiti sono più deboli. Incidentalmente, le alternanze al governo non sono mai la causa dei problemi, ma neppure la loro magica soluzione. Marco Valbruzzi mi ha insegnato che quelle alternanze frequenti sono semplicemente il prodotto della competizione fra partiti indeboliti che non riescono a mantenere “fermo” il consenso ottenuto da una elezione alla successiva. La volatilità elettorale è inevitabilmente più alta dove i partiti sono “qual piume al vento” e non dove sono radicati. Sulla volatilità del consenso del PD, se i dirigenti del partito smettessero di raccontarci i loro sogni e studiassero un po’ di analisi elettorali, qualcosa potrebbero imparare. La prima lezione è, come si conviene, tanto elementare quanto fondamentale. Laddove l’organizzazione del partito tiene il consenso elettorale fluttua poco. La seconda lezione è quella operativa. Se i dirigenti del partito si occupano di cariche e di carriere e non della presenza organizzata sul territorio, anche le cariche e le carriere diventano a rischio. Allora, bisogna proteggerle con le candidature multiple e le nomine dall’alto. La legge Rosato ha avuto questo unico esito protettivo che, naturalmente, prescindeva dallo stato del partito ed è andato a scapito della rappresentanza politica.
La campagna per l’elezione del prossimo segretario è sostanzialmente già partita, “sottotraccia” dicono i retroscenisti, ma già narrata in maniera più o meno fake da giornaliste e giornalisti che hanno fonti amiche. Sappiamo di contrapposizioni fra persone, con l’obiettivo prevalente del due volte ex-segretario (e lo scrivo due volte apposta) di bloccare chi è a lui ostile, per un insieme di ragioni che nulla hanno a che vedere con le modalità con le quali sarà ricostruito il Partito Democratico oppure si porranno le premesse per un altro partito. Che Renzi e i renziani siano totalmente disinteressati al PD è lampante. Con grande loro compiacimento personale, hanno nel tempo consentito a Ilvo Diamanti di scrivere tre o quattro articoli su “Repubblica” centrati, pardon, sbilanciati proprio a favore del Partito di Renzi (PdR). Tuttavia, un partito è più di una fazione di carrieristi e, quando i carrieristi perdono, il deflusso di parte di loro, spesso senza un ancoraggio sul territorio (anche perché paracadutati), è fisiologico, alla ricerca di chi offrirà altre opportunità di carriera. Qui sta, naturalmente, il problema di come (ri)costruire il partito sostituendo parte grande di quella classe dirigente. Dal mio allievo Angelo Panebianco ho imparato molto tempo fa che i partiti non possono mai cambiare completamente. Cambiano attraverso spostamenti interni che producono nuove coalizioni dominanti. In questo modo, è nato, frettolosamente e balordamente, nonostante le critiche apertamente rivoltegli, il PD.
Probabilmente, gli spostamenti cominceranno a fare la loro comparsa al momento delle candidature alla segreteria. In particolare, non tanto curiosamente, conteranno le “desistenze” a favore di chi. L’ultimo ex-segretario vorrà certamente continuare, scrivono le giornaliste, a dare le carte, ma quante carte gli saranno restate? Il punto, che dovrebbe preoccupare di più chi pensa che senza partiti e senza un’opposizione strutturata sul territorio nessun sistema politico può funzionare in maniera decente e nessuna democrazia può avere una qualità accettabile, è che i candidati dovrebbero formulare prioritariamente con il massimo di chiarezza possibile la loro idea di partito e non annunciare un programma di governo, per un governo che senza un partito decente non formeranno mai. Schematicamente (estesamente, riflessioni e proposte di notevole qualità si trovano nel volume di Antonio Floridia, Un partito sbagliato. Regole e democrazia interna del PD, di prossima pubblicazione), ecco i temi da trattare: iscritti, sedi, attività, modalità di consultazione e decisione, procedure per la scelta dei dirigenti e dei candidati, e, oso al massimo, “cultura politica” (quindi, anche strumenti per la formazione). Nulla di tutto questo è particolaristico e specialistico. Questa è politica: come rapportarsi alle persone, come rappresentarne idee, preferenze, emozioni, come contribuire alla loro capacità di comprendere e di fare politica. Per rendere meno sgradevole l’inverno del nostro scontento.
Pubblicato il 7 settembre 2018 su PARADOXAforum
La rappresentanza politica è responsabilità

24 maggio 2018 Pubblichiamo uno stralcio dell’intervento di Gianfranco Pasquino “Rappresentanza, competenza, responsabilità” in memoria di Giovanni Sartori che si terrà oggi alle 15:30 alla Biblioteca del Senato a Roma.
“Qual è la sanzione che viene temuta di più: quella dell’elettorato, dell’apparato di partito, o di terzi gruppi di sostegno? Molte cose dipendono e discendono da questo antefatto” (Sartori 1969, p. 375).
Fortemente critico del direttismo, Giovanni Sartori ha variamente e brillantemente analizzato la natura e le modalità di funzionamento della rappresentanza politica indicandone i punti essenziali e evidenziandone problematicità e rischi. Non è detto che le nuove tecnologie comunicative consentano forme di rappresentanza più efficaci, meglio rispondenti alle preferenze dei rappresentati andando oltre tutti gli stadi della rappresentanza classica, come l’abbiamo conosciuta, utilizzata, criticata e posta in atta. È sicuro, invece, che la rappresentanza politica e parlamentare costituisce il tramite cruciale fra i cittadini elettori e i detentori del potere in parlamento e, indirettamente, nel governo. Sartori non ha mai avuto dubbi sulla necessità di una buona legge elettorale. Senza cedere alle banalità di coloro che affermano l’inesistenza di una legge elettorale “perfetta” per giustificare la scrittura di leggi molto imperfette, ha costantemente sottolineato la possibilità di formulare leggi elettorali buone, anche ottime, che attribuissero potere agli elettori, che costruissero un sistema dei partiti solido e competitivo e che creassero le condizioni di una efficace rappresentanza politica.
Efficace non può (e non potrà) mai essere la rappresentanza, se ancora la si vorrà definire tale, che contempli un vincolo di mandato. Quale vincolo e quale mandato sono possibili nelle situazioni contemporanee caratterizzate da complessità e da emergenze? Quali elettori sono in grado di vincolare i loro eletti a comportamenti di voto su tematiche che compaiano improvvisamente e imprevedibilmente riguardanti emergenze: disastri ecologici, epidemie, conflitti bellici, situazioni di insicurezza personale? E con quali modalità si troveranno a potere e dovere agire rappresentanti vincolati a preferenze che gli elettori non hanno avuto modo di esprimere? Per Sartori, la rappresentanza si esprime nella opportunità e nella volontà per i rappresentanti di decidere con competenza. Il tanto spesso rivendicato, magari fuori luogo, voto di coscienza, deve essere accompagnato, giustificato, esercitato con scienza, con competenza, con conoscenza di cause e effetti che lo rendano comprensibile e valutabile dagli elettori.
Ubi rappresentanza politica ibi responsabilità. Non c’è rappresentanza politica in assenza di elezioni libere, competitive, periodiche che rendano possibile agli elettori valutare i comportamenti dei loro rappresentanti. Dunque, i rappresentanti eletti, consapevoli che la loro carica dipende degli elettori, cercheranno di rispondere alle preferenze, agli interessi, alle aspettative, agli ideali degli elettori. O, forse, no. Se la loro elezione dipende dai dirigenti dei partiti che li scelgono e, laddove non esistono né i collegi uninominali né il voto di preferenza, praticamente ne determinano la possibilità di essere eletti, è del tutto comprensibile che i rappresentanti rispondano a quei dirigenti, nelle parole di Sartori, agli apparati di partito, molto di più, se non esclusivamente, a scapito degli elettori. Potrebbe anche essere che la presenza di alcuni o molti candidati nelle liste dei vari partiti sia debitrice della richiesta di potenti “gruppi di sostegno”, lobby e simili. Allora, è molto probabile che quei rappresentanti terranno in grande considerazione nelle loro votazioni i “desideri” di quei gruppi a tutto scapito delle preferenze degli elettori.
La rappresentanza politica è un’attività esigente e impegnativa. Richiede che i rappresentanti conoscano la politica e le istituzioni, la Costituzione e le tecniche parlamentari. Non ci si improvvisa rappresentanti anche se lo si può diventare improvvisamente in situazioni di politica fluida e di destrutturazione dei partiti e del relativo sistema. Quando si affermano rappresentanti attenti e competenti, preparati e rispettati, sarebbe un errore grave e un vero e proprio impoverimento impedirne la rielezione con un meccanismo burocratico e populista che ponga limiti invalicabili al numero dei mandati. I puniti non sarebbero soltanto e neppure principalmente i rappresentanti che riuscirebbero a trovare molte alternative anche occupazionali. Sarebbero soprattutto i cittadini-elettori ai quali si precluderebbe la soddisfazione politica di sconfiggere rappresentanti inadeguati e ancor più la possibilità di rieleggere rappresentanti divenuti nel corso del tempo più competenti e più abili, migliori. Senza una buona rappresentanza politica non si avrà mai nessuna governabilità.
Ecco perché è utile oggi tornare a riflettere, grazie agli essenziali contributi di Sartori, sulla natura della rappresentanza nei regimi democratici e sulle sue trasformazioni, più o meno compatibili e apprezzabili, nelle società contemporanee.
Pubblicato il 24 maggio 2018
Ecco come funziona una legge elettorale con il doppio turno

Non si può parlare di doppio turno di collegio e di doppio turno di lista come se fossero quasi intercambiabili. L’intervento di Gianfranco Pasquino

Non si deve permettere neppure ai più acrobatici interpreti dei sistemi elettorali di scrivere, à la D’Alimonte, di doppio turno indifferentemente, che sia di collegio (uninominale) oppure fra partiti/coalizioni come quello previsto nell’Italicum. Faccio, non completamente, grazia ai lettori sottolineando, per l’ennesima, ma non ultima, volta che da nessuna parte al mondo esiste un meccanismo come quello del defunto, da non compiangere e meno che mai resuscitare, Italicum.
I sistemi elettorali servono a tradurre voti in seggi per dare vita a un Parlamento, non, da nessuna parte, tantomeno nelle democrazie parlamentari, a un governo. Il doppio turno francese applicato in collegi uninominali elegge i parlamentari. Al primo turno, giova ripeterlo e sottolinearlo, gli elettori votano in maniera prevalentemente sincera, vale a dire, per il/la candidato/a preferito/a che riuscirà a passare al secondo turno soltanto qualora riesca a superare una certa soglia percentuale (in Francia, attualmente, il 12,5 per cento degli aventi diritto). Pur nella consapevolezza che il suo preferito non supererà la soglia, l’elettore decide di votarlo per rafforzarne il potenziale di contrattazione al secondo turno. Quei suoi voti, una volta contati, potrebbero essere decisivi per fare vincere il seggio a un altro candidato di un partito con il quale è possibile, da un lato, contrattare i voti in un altro collegio, dall’altro, eventualmente, formare una coalizione di governo. Al secondo turno, che è sbagliato definire ballottaggio poiché nella grande maggioranza dei collegi vi saranno più di due candidati, alcuni elettori avranno la possibilità di votare il loro candidato preferito, altri finiranno per scegliere il candidato meno sgradito. Fra il primo e il secondo turno, tutti gli elettori avranno avuto l’opportunità di acquisire un numero aggiuntivo di informazioni politicamente rilevanti prodotte e diffuse dai candidati, dai partiti, dai mass media.
Invece, il doppio turno previsto dall’Italicum avrebbe dovuto svolgersi fra due partiti e/o coalizioni (il significato di “lista” non fu mai furbescamente precisato). Dunque, era sostanzialmente un ballottaggio. In maniera molto accondiscendente e supponente, i suoi laudatores riconoscevano che il premio attribuito al vincitore, anche qualora fosse stato soltanto del 15 per cento, distorceva la rappresentanza politica a favore di quella che, impropriamente, chiamavano governabilità. Certo, quel premio avrebbe dato modo allo schieramento maggioritario di godere di una confortevole maggioranza assoluta in Parlamento. Che questa fosse governabilità, se quella maggioranza non avesse poi avuto la capacità di prendere decisioni e di farle applicare, è evidentemente tutto da dimostrare.
Ad ogni buon conto, rimane la differenza verticale fra il doppio turno di collegio e il doppio turno Italico. Il primo serve a eleggere i parlamentari, il secondo a dare vita a un governo. Sono, palesemente, incomparabili e, altrettanto palesemente, non sono affatto intercambiabili. In particolare, il doppio turno Italico incide sulla forma di governo fuoriuscendo dalla democrazia parlamentare ed entrando in terra incognita.
Al di là delle preferenze personali, meglio se sorrette dalle conoscenze scientifiche, le differenze fra i due doppi turni sono profonde. Chiunque le cancelli sta manipolando, più o meno consapevolmente, a spese di tutti, il dibattito pubblico e non dà nessun contributo alla formulazione di una legge elettorale migliore, non è difficile, della pessima Legge Rosato.
Pubblicato il 2 maggio 2018 su Formiche.net
Politologia e politica del renzismo
Sostiene il noto politologo Lorenzo Guerini, membro della segreteria del Partito Democratico: “il ruolo che ci hanno assegnato gli elettori è quello dell’opposizione”. Attendiamo un rapido endorsement di Romano Prodi. Con qualche sorpresa, rileviamo che, a sua insaputa, l’on. Guerini, debitamente rieletto grazie alla generosa legge Rosato, resuscita il vincolo di mandato, quello, curiosamente, che vorrebbero i pentastellati. Ovvero, addirittura sa, dopo un’intensa campagna elettorale di ascolto sul territorio, che gli elettori lo votavano poiché volevano mandarlo all’opposizione. Sì, visti gli esiti elettorali, è probabilissimo che l’ottanta per cento degli elettori italiani abbia voluto proprio questo, ma anche gli elettori del Partito Democratico lo hanno votato per mandarlo (e tenerlo) all’opposizione? Non ci posso credere, però, capisco che con queste rudimentali conoscenze il Guerini fosse entusiasta delle riforme costituzionali bocciate solo dal 60 per cento degli elettori. E se quegli elettori che, certo tormentatamente, hanno alla fine deciso di votare PD volessero, invece, cercare di mantenerlo in una coalizione di governo, persino farne il partito che desse le carte del prossimo governo? No, il Guerini ne sa di più ed esclude che questo fosse l’obiettivo degli elettori del PD. Tuttavia, un problema lui e il suo segretario dimissionario autosospeso potenziale sciatore dovrebbero porselo: e se quegli elettori del PD volessero, comunque, essere rappresentati?
Andarsene sull’Aventino, ahi, errore: sto sondando le conoscenze storiche di Guerini, Renzi e chi sa quant’altri, sarebbe una buona accettabile modalità di rappresentanza politica da offrire, mantenere, garantire per quei 6 milioni e 135 mila elettori ed elettrici che, nonostante tutto, hanno tentato disperatamente di salvare il PD? Eh, no, afferma il Guerini, noi quella rappresentanza gliela daremo stando all’opposizione. Starete all’opposizione anche, si chiedono gli elettori, se si verificasse una situazione nella quale i vostri voti risultassero non solo necessari, ma decisivi per dare vita a un governo, per renderlo operativo e credibile sulla scena e nelle istituzioni europee (quei voti che, fra l’altro, lo scrivo per il Guerini, non per il Renzi che toglieva la bandiera dell’Unione prima di una sua conferenza stampa, sono l’ultimo nucleo forte di europeisti)? Lascerete così campo libero agli euroscettici, se non, addirittura, ai sovranisti Meloni-Salvini? Qui, con grande perplessità del Guerini (e di Renzi, Lotti, Boschi, Richetti e compagnia forse non più tanto danzante), fa la sua ricomparsa il dettato costituzionale relativo alla rappresentanza della Nazione “senza vincolo di mandato”.
Esiste, sicuramente, un vincolo di lealtà e persino di disciplina nei confronti del partito che candida e fa eleggere per il quale, in primo luogo, hanno votato gli elettori che, ancora più sicuramente, non gradiscono i trasformisti, e hanno ragione. Però, esistono anche una teoria e una best practice della rappresentanza che si traduce nella acuta consapevolezza che bisogna mettersi a disposizione per servire i superiori interessi della nazione. Hai visto mai che fra questi interessi ci sia un governo capace di durare e di agire, operativo (che è il termine che ho già variamente usato), che tale non potrebbe né esistere né produrre effetti senza una convinta partecipazione dei parlamentari del PD? Questa si chiama rappresentanza politica più responsabilità. No, la sinistra, che non è affatto la stessa cosa del PD, non si ricostruisce andando a collocarsi sterilmente all’opposizione e “gufando” (ho già sentito questo verbo, ma non ricordo più chi lo ha utilizzato spesso, senza successo). Si ricostruisce sui punti programmatici che saprà imporre a una coalizione di governo nata con il suo appoggio, efficace grazie al suo sostegno, riformista grazie alle sue proposte.
I dirigenti di un Partito Democratico (vorrei che la “p” e la “d” potessero essere al tempo stesso maiuscole e minuscole) consentirebbero ai loro iscritti di scegliere democraticamente la strada che desiderano che i loro parlamentari imbocchino e percorrano, magari facendo loro (agli iscritti) ascoltare qualche voce diversa dai renziani che sono tutti parte del problema e che non hanno finora saputo elaborare neanche un brandello di soluzione. Anche per questo hanno perso più di quattro milioni di voti.
Pubblicato 8 marzo 2018 su PARDOXAforum




