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Parlamentarismi e (semi)presidenzialismi. Rappresentanza, decisionalità, responsabilizzazione #2marzo #Pavia #CollegioGhislieri @ilGhislieri

Giovedì 2 marzo, il celebre politologo Gianfranco Pasquino affronta un tema di grande attualità con la conferenza Parlamentarismi e (semi)presidenzialismi. Rappresentanza, decisionalità, responsabilizzazione
introduce e modera Ernesto Bettinelli

Per quarantatré anni Professore di Scienza politica all’Università di Bologna, Gianfranco Pasquino è al momento Professore emerito nell’Ateneo felsineo, dopo avere insegnato anche a Washington e a Los Angeles; è fellow del Christ Church College di Oxford e del Clare College di Cambridge; attualmente insegna al Dickinson College, Bologna Program, ed è James Anderson Senior Adjunct Professor alla SAIS-Europe di Bologna. L’incontro, in programma alle ore 18 in Aula Goldoniana, è introdotto dal nostro Alunno Ernesto Bettinelli, Professore emerito di Diritto costituzionale all’Università di Pavia.

Noto al grande pubblico come opinionista politico per Il Sole 24 Ore, l’Europeo e Repubblica, oltre che per la competenza negli interventi nei dibattiti televisivi, il prof. Pasquino è stato anche senatore della Sinistra indipendente dal 1983 al 1992, facendo parte della Commissione Bozzi per le riforme istituzionali, e dei Progressisti dal 1994 al 1996. Ha pubblicato numerosi volumi di politologia, a partire dal classico Modernizzazione e sviluppo politico (Il Mulino, 1970). Fra i suoi ultimi saggi segnaliamo Deficit democratici. Cosa manca ai sistemi politici, alle istituzioni e ai leader (Bocconi, 2018), Minima politica. Sei lezioni di democrazia (Utet, 2020) ,  Fascismo. Quel che è stato, quel che rimane (Treccani, 2022), Italian DemocracyHow It Works (Routledge 2020), Libertà inutile. Profilo ideologico dell’Italia repubblicana, UTET 2021, Tra scienza e politica. Una autobiografia, UTET 2022
Particolarmente significativo un pamphlet sulla sua esperienza diretta di candidato alla carica di primo cittadino a Bologna (Quasi sindaco. Politica e società a Bologna 2008-2010), reso disponibile gratuitamente online.”

A cosa servono le leggi elettorali. Rappresentanza e responsabilità #Forlì #18settembre #Elezioni2022

In presenza al Teatro di Vecchiazzano e in diretta YouTube

ore 20:30

Gianfranco Pasquino

A cosa servono le leggi elettorali. Rappresentanza e responsabilità

ore 21
Confronto tra candidati sul territorio
moderatore Enrico Samorì

Referendum, dal meno al niente @HuffPostItalia

La Costituzione italiana, come tutte le buone Costituzioni democratiche, è una costruzione complessa. Toccando una componente diventa immediatamente necessario intervenire su altre componenti ridefinendole e ristabilendo l’equilibro complessivo. È evidente che in una democrazia parlamentare, il Parlamento costituisce l’elemento fondamentale. Da un lato, è luogo di rappresentanza dei cittadini, delle loro preferenze, esigenze, speranze, aspirazioni. Dall’altro, è l’organismo che dà vita al governo, lo sostiene e, se necessario, lo sostituisce. Qualsiasi intervento sul Parlamento ha, quindi, effetti sia sui cittadini (la rappresentanza) sia sul governo (la sua funzionalità). Ridurre in maniera considerevole, di un terzo, il numero dei parlamentari, è soltanto in apparenza qualcosa di “lineare”, cioè semplice, facile, chiaro, poiché implica l’obbligo di valutarne le conseguenze che sono, invece, molto complesse, non tutte facilmente valutabili. Meno non è (affatto) meglio.

Tagliando “linearmente” non esiste nessuna garanzia che da un Parlamento ristretto saranno automaticamente esclusi, come sostengono i pentastellati, gli assenteisti e i fannulloni, ai quali personalmente aggiungo gli incompetenti, che i pentastellati, chi sa perché?, neppure prendono in considerazione. Le probabilità che assenteisti, fannulloni, incompetenti rimangano anche in un Parlamento linearmente snellito sono ovviamente, statisticamente altissime. Oltre a rimandare ad una nuova legge elettorale, la cui necessità è comunque già oggi imprescindibile, i pentastellati sostengono che se i parlamentari sono ridotti di un terzo ne conseguirà una “migliore selezione”. Però, proprio non si capisce come verrebbe assicurata dagli stessi partiti che oggi selezionano male e perché mai i capipartito e i capicorrente dovrebbero procedere ad una selezione virtuosa visto che il loro potere risiede esattamente nello scegliere chi, cooptato/a, si sentirà in obbligo di rispondere a loro e non agli elettori.

In un dibattito breve e non intenso, tutto meno che brillante, è mancato quasi del tutto il riferimento ad un aspetto cruciale, fondamentale. I compiti e le attività del Parlamento, che sono molte e molto importanti, non vengono in nessun modo toccati dalle riforme. Seicento parlamentari saranno inevitabilmente chiamati a svolgere tutto quello che facevano, stanno facendo novecentoquarantacinque parlamentari. Non è che accorpando qualche commissione il lavoro diminuirà. La nuova commissione avrà la somma del lavoro delle commissioni accorpate.

Infine, i soldi eventualmente risparmiati sul versante delle indennità e altro attinenti a ciascun parlamentare avranno come contropartita i soldi aggiuntivi che ciascun candidato e il suo partito saranno obbligati a spendere per le campagne elettorali in circoscrizioni più ampie per raggiungere un numero di elettori un terzo più grande degli attuali. L’esito dell’eventuale riduzione sarà, almeno in parte, quello voluto, ma solo raramente detto dai pentastellati: un parlamento ridimensionato meno in grado di funzionare che attirerà ancora più critiche e del quale qualcuno richiederà il superamento, s’intende, lineare.

Pubblicato il 17 settembre 2020 su huffingtonpost.it

Minima politica: i meccanismi e le manipolazioni della politica @Rifestival_Bo

A partire da “Minima politica” (UTET, 2020), il Prof. Pasquino, intervistato da Michele Dinichilo, fornisce un’interessante chiave di lettura di alcuni aspetti fondamentali della politica contemporanea – come i meccanismi elettorali, la governabilità e la rappresentanza, il sovranismo, il ruolo delle istituzioni nella complessa architettura della democrazia – per poi rispondere ad alcune domande sull’attualità politica e sul futuro delle democrazie liberali.

RiFestival e Festival dell’antropologia sono ideati e organizzati da Un altro mondo è possibile APS, circolo Arci dal 2018, e sono promossi dall’associazione studentesca, riconosciuta dall’Università di Bologna, Rete degli Universitari.

La democrazia imperfetta #Recensione Minima Politica @UtetLibri su @lasiciliait

Il libro. ”Minima politica” di Gianfranco Pasquino analizza conoscenze politiche che dovrebbero avere tutti i cittadini. La recensione di Paolo fai

«Laddove le persone hanno poco potere sulla politica e lo esercitano limitatamente, si riscontra l’effettiva esistenza di un deficit democratico»

Gianfranco Pasquino, allievo di Norberto Bobbio e Giovanni Sartori, professore emerito di Scienza politica nell’Università di Bologna, ha da poco licenziato alle stampe un libro «Minima politica – Sei lezioni di democrazia», Utet 2019, pp. 175, euro 14,00, il cui titolo – spiega Pasquino – «intende essere il mio modesto omaggio a Theodor Adorno, “Minima moralia” (1951) […], nel convincimento che per arrivare a grandi cose bisogna cominciare dalle piccole cose, impararle e farle il meglio possibile. “Minima politica” contiene, analizza e, spero, illumina il minimo di conoscenze politiche che i cittadini dovrebbero acquisire se desiderano adempiere efficacemente ai loro doveri civili e democratici».

Innervato di rigore scientifico e insieme meritoriamente divulgativo, il libro attraverso sei sezioni (Leggi elettorali, Rappresentanza politica, Presidenti della Repubblica, Deficit democratico, Governabilità, Non liberali, non democrazie) offre al lettore un’analisi, chiara e puntuale, delle problematiche attinenti al funzionamento della forma di governo, la democrazia, in cui, quanto meno per forza di etimologia, il popolo, ovvero la comunità degli individui-cittadini, è il detentore del potere politico.

Intanto, Pasquino non è tra i politologi che cantano la messa funebre alla democrazia. Né è pessimista sul futuro della democrazia. Perché, alle lamentazioni degli apocalittici, per i quali «alle democrazie manca sempre qualcosa», egli ribatte che «le democrazie sono imperfette ed è giusto così. Forse è persino meglio così perché nelle democrazie è possibile continuare a cercare quello che manca, spesso trovandolo».

Allora, dovendo scegliere fior da fiore, troveremo che a Pasquino «pare che, in maniera più appropriata, il deficit democratico meriti di essere riferito al potere dei cittadini, etimologicamente: deficit di potere del popolo. Laddove i cittadini hanno poco potere sulla politica e sui politici e lo esercitano limitatamente, si riscontra l’effettiva esistenza di un deficit democratico». Spesso, tale deficit si avverte quando vanno al potere governi neoconservatori (Tatcher, Reagan, ma anche Trump, che per Pasquino non ha «la benché minima infarinatura di liberalismo»), il cui obiettivo è «comprimere la partecipazione politica, scoraggiare i movimenti collettivi, disincentivare la mobilitazione sociale e reprimerla», al fine di ridurre il “sovraccarico” ovvero «l’accumularsi di un numero eccessivo di domande» da parte dei cittadini, che, secondo Richard Rose, sarebbe la causa della crisi di governabilità.

Il libro si apre e si chiude, ad anello, con due capitoli che si illuminano l’un l’altro: “Leggi elettorali” e “Non liberali, non democrazie”. Le democrazie si fondano sul voto dei cittadini. Ne consegue che «il rapporto tra elettori, da un lato, e rappresentanti e governanti, dall’altro, è accertatamente influenzato dalla legge elettorale che viene utilizzata». Pasquino classifica le riforme elettorali in “partigiane” e “sistemiche”. Fu sistemica quella elaborata nel 1946 dalla Costituente, che riguardava il funzionamento del sistema politico. Tutte quelle venute dopo sono state partigiane, compresa la cosiddetta “schiforma” Renzi-Boschi, su cui Pasquino, caustico, osserva: «Che la stabilità del governo […] dovesse essere affidata al premio di maggioranza ricorda la legge truffa [del 1953], la riabilita e la redime».

Se vengono meno, sostiene con forza Pasquino, i capisaldi delle democrazie liberali moderne, cioè, «da un lato, il riconoscimento, la protezione, la promozione dei diritti dei cittadini, delle persone, e, dall’altro, la separazione delle istituzioni e dei poteri», avremo solo «sistemi politici in cui si tengono elezioni intrinsecamente poco libere», quindi non liberali, non democrazie. Tra i fini di quelle pseudo-democrazie (la Turchia di Erdoğan e l’Ungheria di Orbán, ma anche la Russia di Putin), che Pasquino definisce “democrazie elettorali”, «non si trova praticamente mai quello di dar vita e senso alla “rule of law” (“governo della legge”), o (“stato di diritto), o “nomocrazia”), di tenere separate le istituzioni, di approntare freni e contrappesi, di creare canali e strutture di responsabilizzazione (“accountability”) dei governanti e dei rappresentanti. Questo è il catalogo al quale debbono attingere coloro che vogliono costruire uno stato, una democrazia compiutamente liberale». Da solo, però, il “governo della legge” non basta. Occorre anche una libera stampa e, principalmente, una forte consapevolezza politica nei cittadini. «Le (non) democrazie illiberali –conclude Pasquino – si fondano su cittadini, più o meno consapevolmente, illiberali». E sul silenzio imposto agli oppositori e ai giornalisti. Come nel «caso, esemplarmente tragico, della giornalista Anna Politkovskaja».

Pubblicato il 25 Marzo 2020 sul quotidiano La Sicilia

INVITO Minima Politica. Sei lezioni di democrazia #12febbraio #Bologna @UtetLibri

Mercoledì 12 febbraio 2020 ore 18
La Feltrinelli Libreria
Piazza ravegnana - Bologna

Gianfranco Pasquino presenta Minima politica (Utet). Con il cuore e la testa ai Minima moralia di Theodor Adorno, Gianfranco Pasquino impartisce sei nitide lezioni sui nodi cruciali della politica contemporanea: i meccanismi elettorali, gli speculari spettri di governabilità e rappresentanza, il ruolo e i compiti delle istituzioni nella complessa architettura della democrazia.

Come valutare la produttività dei parlamentari @rivistailmulino

Il già apprezzato presidente dell’Inps Tito Boeri ha scritto un articolo (Non solo questione di numeri, “la Repubblica”, 31.12.2019), alquanto confuso, inteso a dimostrare che è possibile ridurre il numero dei parlamentari senza che ne discendano conseguenze negative sul funzionamento del Parlamento. Il suo punto di partenza è che i parlamentari attualmente esistenti, pure inspiegabilmente numerosi (rispetto a che cosa, a chi? agli elettori Boeri non offre nessun elemento di valutazione comparata), risultano molto poco produttivi. Per definire e misurare la produttività dei parlamentari l’articolo utilizza due criteri. Il primo è la presenza alle votazioni in aula; il secondo è la stesura di disegni di legge. Entrambi i criteri sono inadeguati e fuorvianti.

Quanto al primo, chi studia i parlamenti e il loro funzionamento sa che, tranne qualche significativa eccezione, tutti i disegni di legge che arrivano alla votazione finale in aula sono stati ampiamente discussi, talvolta emendati (in effetti, ottima cosa sarebbe contare e valutare quali e quanti emendamenti di successo sono stati introdotti dai singoli parlamentari anche in aula) e, infine, votati nelle commissioni di merito. Un numero notevole di parlamentari ha partecipato attivamente a quelle discussioni e approvazioni. A tutti è noto che molte, se non addirittura la maggior parte delle votazioni in aula non presentano nessun conflitto e avverranno senza sorprese. Dunque, la loro presenza non è politicamente richiesta, senza contare che molti parlamentari sono occupati in cariche di governo e molti possono essere in missione. Le foto delle aule vuote del Parlamento in occasione di discussioni generali, che molti quotidiani pubblicano e che scandalizzati commentatori, più o meno inconsapevolmente “populisti”, stigmatizzano, sono del tutto fuorvianti. Oscurano il fatto che molti parlamentari stanno lavorando in Commissione, studiando nei loro uffici, dando interviste di politica a quegli stessi quotidiani, tenendo rapporti con i loro elettori. Per quel che riguarda il secondo criterio, la stesura e presentazione dei disegni di legge, è da tempo che gli studiosi del Parlamento sanno che il compito principale di qualsiasi e di tutti i parlamenti (tranne quelli delle Repubbliche presidenziali) non è affatto quello di “fare le leggi”. Nelle democrazie parlamentari, sono i governi (se si preferisce, le maggioranze che sostengono i governi) che fanno le leggi. All’incirca fra l’80 e il 90% delle leggi approvate dalla maggioranza dei Parlamenti contemporanei sono di origine (iniziativa) governativa. D’altronde, è giusto che sia così.

Infatti, quei governi e i partiti che ne fanno parte hanno non soltanto il potere di fare approvare i loro specifici disegni di legge, ma hanno anche il dovere di farlo. Hanno ottenuto voti anche, in qualche caso, soprattutto, poiché hanno promesso agli elettori di attuare determinate politiche. Una volta al governo è loro compito tradurre le promesse in progetti di legge sui quali chiederanno l’approvazione dei parlamentari che anche su quei programmi sono stati eletti. La disciplina di voto che ne consegue è parte del complesso circuito di responsabilità istituzionale richiamata anche nel discorso di fine d’anno del presidente Mattarella. Se fossero i singoli parlamentari a fare le leggi assisteremmo al caos, nel quale la Terza Repubblica francese, definita la République des députés, si trovò a lungo con scambi dei più vari e incontrollabili tipi fra gruppi di deputati. Non è un dettaglio marginale il crollo come un castello di carta di quella Repubblica di fronte alla comparsa dei carri armati tedeschi nel giugno 1940. Quindi, invece di considerare positivamente come indicatore di produttività il numero dei disegni di legge scritti dai singoli parlamentari (incidentalmente, mai i più noti e neppure quelli che godono di maggiore prestigio fra i colleghi, a richiesta sono in grado di fare i nomi!), è opportuno preoccuparsi e interrogarsi su quali ne siano le motivazioni anche alla luce dell’altissima improbabilità che quei disegni di legge siano presi in considerazione e, meno che mai, giungano all’approvazione. No, è completamente sbagliato misurare la “produttività” di un parlamentare contando i disegni di legge da lui/lei “sfornati”. Praticamente, nessuno di quei disegni di legge ha la minima possibilità di essere preso in considerazione; giustamente, poiché, da un lato, sono semplici messaggi, oramai abbastanza rari, mandati agli elettori, ma più spesso sono “favori” restituiti a qualche gruppo di interesse che, in effetti, è il vero autore di quel disegno di legge. Comunque, se produttività è produrre disegni di legge, allora Boeri dovrebbe essere fermamente contrario alla riduzione del numero dei parlamentari. Infatti, quanti più sono i parlamentari tanti più saranno/sarebbero i disegni di legge. Se, poi, ci fosse competizione fra un numero elevato di disegni di legge sullo stesso tema, allora alla produttività in termini di quantità si affiancherebbe anche l’incremento di qualità [sic!]. Ciò detto, propongo a Boeri e a chi come lui si dice favorevole alla riduzione del numero dei nostri parlamentari che la produttività venga misurata con riferimento non alla moltiplicazione dei disegni di legge che neppure arrivano alla votazione, ma con riferimento al molto più complesso ma molto più significativo ed esigente criterio della rappresentanza.

Che cosa fanno i parlamentari per dare rappresentanza agli interessi, alle preferenze, alle aspettative, persino agli ideali dei loro elettori, degli elettori in generale? In democrazia si ha rappresentanza politica soltanto quando i rappresentanti sono eletti, possono essere rieletti indefinitamente, con buona pace dei teorizzatori del limite ai mandati, e, naturalmente, anche sconfitti. Se la rappresentanza è elettiva non si può, come sembra suggerire Boeri, non (pre)occuparsi delle leggi elettorali, procedendo unicamente alla rozza, ma reale, distinzione fra leggi maggioritarie e leggi proporzionali. Già l’uso del plurale indica che è indispensabile guardare proprio alle technicalities di ciascuna legge. Non lo farò qui. Almeno in prima approssimazione è giusto affermare che esistono leggi elettorali capaci di collegare più efficacemente gli elettori al parlamentare che hanno eletto/a e spingerlo a dare buona rappresentanza.

Qui si apre il discorso relativo alla misurazione della qualità della rappresentanza. Ci sono alcuni indicatori facili: la residenza nel collegio nel quale il rappresentante è eletto; se non residente, il numero di volte che il rappresentante torna nel collegio e quanto tempo vi rimane; il numero di iniziative pubbliche svolte; il numero di elettori che riceve nel suo ufficio nel collegio; la quantità di posta che riceve e il numero di risposte che invia; i suoi interventi in Parlamento, magari distinguendo, come fatto più di duecento anni fa dal più autorevole interprete di ciò che è e che può essere buona rappresentanza politica, l’inglese Edmund Burke (1729-1797), fra rappresentanza del collegio, del partito, della nazione. C’è molto da fare per trovare e affinare i criteri più adeguati, non causali, non occasionali per la valutazione della produttività dei parlamentari soprattutto in chiave specifica di rappresentanza politica. Sappiamo che il paracadutaggio in liste bloccate e le candidature multiple non sono modalità propedeutiche (Burke esprimerebbe apprezzamento per questo mio very British understatement) alla buona rappresentanza politica Per il momento mi fermo qui suggerendo, anche a Boeri, la lettura di qualcosa che è più di un’approssimazione come risposta, come il mio Minima Politica. Sei lezioni sulla democrazia (Utet, 2020), delle quali una è sulle leggi elettorali e un’altra proprio sulla rappresentanza.

Pubblicato il 4 gennaio 2020

 

Dare i numeri a proposito di rappresentanza politica @Tboeri @repubblica #tagliodeiparlamentari

Il già apprezzato Presidente dell’INPS Tito Boeri ha scritto un articolo (Non solo questione di numeri, Repubblica, 31 dicembre 2019) alquanto confuso dimostrando di non sapere come misurare la produttività dei parlamentari.

La presenza alle votazioni in aula certamente non è una misura di produttività. Spesso quelle votazioni giungono al termine di un lungo iter in Commissione e su molti disegni di legge non c’è oramai più conflitto. Davvero la produttività di un parlamentare si misura sui disegni di legge da lui/lei “sfornati” che non hanno nessuna possibilità di essere presi in considerazione, giustamente, poiché, da un lato, sono messaggi, oramai abbastanza rari, mandati agli elettori, ma più spesso sono “favori” restituiti a qualche gruppo di interesse che, in effetti, è il vero autore di quel disegno di legge? Comunque, se produttività è produrre disegni di legge, allora Boeri dovrebbe essere fermamente contrario alla riduzione del numero dei parlamentari. Infatti, quanti più sono i parlamentari tanti più saranno/sarebbero i disegni di legge.

Propongo, a Boeri e ad altri, che la produttività venga misurata con riferimento non ai disegni di legge, che è preferibile siano presentati dal governo espresso da una maggioranza parlamentare e quindi legittima/ta, ma con riferimento alla rappresentanza. Che cosa fanno i parlamentari per dare rappresentanza politica ai loro elettori, agli elettori in generale? Allora, sì, Boeri capirà che, in realtà, il problema e la produttività dipendono proprio in larghissima misura dalle leggi elettorali, dalla loro capacità di collegare concretamente gli elettori al parlamentare che hanno eletto. Qui il discorso si fa più complesso e la misurazione richiede criteri adeguati, non causali, non occasionali. Another time, another place. Tuttavia, per qualcosa che è più di un’approssimazione come risposta, suggerisco di leggere il mio Minima Politica. Sei lezioni sulla democrazia (UTET 2020), delle quali una è sulle leggi elettorali, un’altra è proprio sulla rappresentanza.

Come dare rappresentanza democratica a una società “dissociata”?

Lo disse bene Aristotele: l’uomo è un animale politico, ovvero, le persone agiscono in un sistema che è fatto di una (semi)sfera politica e una (semi)sfera sociale che interagiscono, s’incontrano e si scontrano, s’influenzano reciprocamente. In alcuni paesi, dalla Spagna alla Gran Bretagna e, naturalmente, l’Italia, è diventato più difficile rappresentare e governare poiché le società si sono diversificate e hanno scomposto i grandi partiti. Il problema è come, quando, chi riuscirà a effettuare sintesi virtuose?

Il proporzionale non fermerà la Lega #intervista @LaVeritaWeb

AUTOREVOLE Gianfranco Pasquino è docente alla Johns Hopkins school of advanced international studies

 

Intervista raccolta da Alessandro Rico per La Verità

Gianfranco Pasquino è uno dei più noti e stimati professori di scienza politica italiani. È stato tre volte senatore per Sinistra indipendente.

Professore, lei ha criticato la riforma per il taglio dei parlamentari. Perché? Che difetti ci vede?

Quelli che ci vedono gli stessi riformatori, che infatti dicono di voler approvare dei correttivi. Solo che non sanno quali.

Be’, li hanno indicati.

Tutte cose a caso: regolamenti, sfiducia costruttiva, nuova legge elettorale… Non si fanno le riforme dicendo “poi le riformeremo”.

Il principio di rappresentanza ne esce inficiato?

Quello era già stato inficiato dal Porcellum, dalla Legge Rosato e dall’abortito Italicum. E certamente non è stato difeso dall’attuale legge elettorale.

Si riferisce all’abolizione delle preferenze?

Esatto. Gli elettori dovevano scegliere candidati nominati e per di più paracadutati. Questi problemi resteranno se non tornano le preferenze o se non si prevedono collegi uninominali.

Faccio l’avvocato del diavolo. Negli altri Paesi, in rapporto alla popolazione, i deputati sono meno che in Italia.

Be’, si faccia pagare dal diavolo, perché non è vero.

No?

In Germania sono più di 600 i parlamentari nel Bundestag, ma ce ne sono anche 69 nel Bundesrat, che rappresentano davvero i Länder. Il principio di rappresentanza non è affatto intaccato.

E negli Stati Uniti?

Gli Stati Uniti sono una repubblica presidenziale, dove dunque gli elettori votano il presidente. E ci sono 50 Stati con altrettanti governatori e due Camere, tutti eletti.

Sì, ma il Congresso ha 535 deputati totali, per una popolazione di oltre 300 milioni di abitanti.

Però i rappresentanti sono tutti eletti in collegi uninominali. Che sono un altro modo per recuperare il principio di rappresentanza. Allora li diano anche a noi.

Luciano Violante ha rilevato che la riforma italiana creerebbe collegi di 300.000 elettori per un singolo senatore, con enormi aggravi di costi per le campagne elettorali e il rischio che la politica finisca preda delle lobby dei finanziatori.

I senatori americani vengono eletti sulla base di collegi ben più grandi e, naturalmente, le lobby hanno il loro peso. Violante ha ragione a evidenziare questo pericolo. Avrebbe fatto bene a scoprirlo anche prima, quando sosteneva le riforme del governo Renzi.

A proposito di renziani: Roberto Giachetti è uno di quelli che ha votato la riforma e poi ha annunciato l’avvio della campagna referendaria per abrogarla. Siamo così prigionieri dell’antipolitica che dobbiamo inventarci certe circonvoluzioni?

Su Giachetti non commento.

No?

Giachetti e le sue giravolte si commentano da sé.

Ah ecco…

È chiaro che questa riforma ha un alto contenuto antiparlamentare, mascherato da slogan tipo “tagliamo le poltrone”. Il punto è che l’antiparlamentarismo storicamente ha la tendenza a erodere la democrazia.

Vede questo rischio?

Sì, ma d’altronde l’erosione è cominciata da tempo. Quando i grillini dicevano “uno vale uno”… Un parlamentare non vale un cittadino: vale ovviamente molto di più.

Vale di più?

Certo, perché ha il compito di fare le leggi che regolano i comportamenti dei cittadini.

E della ventata giovanilista che pensa? Si parla di voto ai sedicenni. Così non perdiamo quella saggezza antica, che nelle istituzioni prevedeva una sorta di «freno» generazionale?

Chi ha parlato di voto ai sedicenni non avrà fatto tutti questi ragionamenti. Voleva soltanto un attimo di visibilità.

È tutto più prosaico, insomma.

Il voto ai sedicenni lo si dà se si stabilisce che la maggiore età comincia a 16 anni. Altrimenti sarebbe una riforma scombinata.

Quindi lei è contrario?

Qualcuno dice: facciamo votare i giovani perché se no saranno governati dai vecchi, che si ostinano a non morire. Benissimo: ma allora a scuola insegniamola davvero, l’educazione civica. Insegniamola davvero, la storia, non solo fino alla seconda guerra mondiale. Insegniamo che la Costituzione è un documento storico-politico e non solo un insieme di norme.

Citava la repubblica presidenziale. Visto che, alla debolezza del sistema politico e partitico, in questi anni è corrisposto un rafforzamento della figura del capo dello Stato, non sarebbe meglio se potessimo eleggerlo direttamente?

Senza cambiarne i poteri? In Austria il capo dello Stato viene eletto direttamente, ma per certi versi ha poteri persino più limitati del nostro.

Andiamo per ordine. Lei è per l’elezione diretta?

Si può anche fare.

E per quanto riguarda i poteri?

Basta la chiarezza. Bisogna dire se si vuol fare il presidenzialismo all’americana o il semipresidenzialismo alla francese….

Qual è il modello migliore?

Io da anni mi esprimo in favore del semipresidenzialismo alla francese, che prevede anche la figura del primo ministro. Ma sono a favore pure del sistema elettorale francese e contrario al proporzionale, che frammenterebbe il Parlamento, mentre il maggioritario con doppio turno e clausola di accesso al secondo turno incentiverebbe anche la creazione di coalizioni.

La controindicazione: ritrovarsi un presidente di un partito e un premier di un altro.

La coabitazione non mi preoccupa. In Portogallo hanno un primo ministro socialista e un capo dello Stato di centrodestra, ma non ci sono guasti.

I partiti di maggioranza vogliono il proporzionale per neutralizzare il 30% della Lega.

Il 30% della Lega resta il 30% pure nel proporzionale.

Nella prima Repubblica, il Pci, con il 30%, non ha mai governato.

Perché non trovava alleati. La Lega ce li ha. Anzi, sono loro che corrono affannati verso il Carroccio. Per cui, se l’obiettivo del proporzionale è marginalizzare la Lega, è una battaglia persa.

Dice?

Sì. Ma in realtà loro non vogliono il proporzionale.

Che vogliono?

Il proporzionale con qualche premietto. Vogliono pasticciare. Di proporzionali ne esistono diverse varianti. Andrea Orlando ha proposto il modello spagnolo.

Non va bene?

Il punto è che lì inevitabilmente si sono creati due enormi collegi elettorali: Madrid e Barcellona. Da noi sarebbero Roma, Milano e forse Napoli.

Collegi troppo grandi?

Il proporzionale funziona se ci sono collegi medio-piccoli, che non eleggano più di dieci deputati. E se non ci sono giochetti, tipo il recupero dei resti.

E la soglia di sbarramento?

In collegi del genere sarebbe automatica una soglia a circa il 9%. Senza pasticci.

Che pensa di un partito di governo, il M5s, che demanda le decisioni più controverse a una piattaforma Web?

È un segno dei tempi. Ne prendo atto. Credo che gli stessi parlamentari ormai si siano resi conto che qualcosa lì non funziona.

Malumori, defezioni alla festa di partito, onorevoli in fuga…

D’altro canto, non è che altrove il panorama sia migliore.

A che allude?

A un partito personale com’è Forza Italia. A un partito leaderistico, come quello di Giorgia Meloni. A un Capitano della Lega che ha accentrato su di sé poteri enormi, provocando una crisi di governo senza consultare nessuno. Per cui non me la sento di dare addosso solo ai 5 stelle.

Il Pd è percepito come il partito dell’establishment. Governando con il M5s si rifarà una verginità?

In politica le verginità non si ricostruiscono. Il Pd non sa nemmeno che cos’è. Chi ha deciso la svolta giallorossa? C’è stata una discussione aperta? La classe dirigente sa qual’è la sua cultura politica?

Qual è quella di Renzi?

La sua arroganza personale, la sua presunzione, la superficialità, il desiderio di magnificare sé stesso. Però Renzi s’è ritagliato una bella nicchia e ora ha un potere di ricatto sul governo. A lui sì che serve il proporzionale.

Terrebbe in scacco il sistema.

Ma se è vero quello che le ho appena detto sullo sbarramento “naturale”, lui al 9% non ci arriva.

Per giustificare la svolta, invece, Luigi Di Maio aveva parlato di partito postideologico. C’è qualcosa di profondo lì, sul piano della cultura politica? O è trasformismo?

È voglia di restare dove si è arrivati faticosamente. Di ideologia i 5 stelle non sanno nulla. Prendono posizione e la mantengono fin quando sono sulla cresta dell’onda. Sono dei surfisti della politica.

Legge così il loro voto al Parlamento Ue contro la commissione d’inchiesta sulle ingerenze russe, che citava il caso Savoini?

Questa me l’ero persa. La commissione d’inchiesta è passata?

No. E i grillini sono stati decisivi. Hanno votato come il Carroccio.

Mi pare molto grave. Vede? Evidentemente si tengono aperta la porta dell’alleanza con la Lega.

Professore, le devo fare una domanda da un milione.

Le do l’Iban?

Ah ah ah. Era un modo di dire.

Sentiamo.

La globalizzazione ha lasciato dietro di sé ampi strati di malcontento. Gli Stati nazionali sono inadeguati alle grandi sfide geopolitiche. Si rafforzano imperi regionali di carattere autoritario. Dove va questo nostro mondo?

La globalizzazione è un vento fluttuante. Ha accresciuto le diseguaglianze, ma ha pure consentito la democratizzazione e ha ridotto la povertà nel Terzo mondo. Le risposte date al problema delle diseguaglianze sono diverse e ciascuna può funzionare a suo modo.

A cosa pensa?

Ad Australia e Canada. In Australia hanno imposto l’“anglosassismo”. In Canada c’è il multiculturalismo. Una cosa è certa: la globalizzazione dobbiamo imparare a governarla.

Pubblicato il 14 ottobre 2019 su La Verità