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Il dopo referendum – E ora il potere torni agli elettori
Quali sono le conseguenze del referendum costituzionale che ha ridotto il numero dei parlamentari? Abbiamo chiesto a Gianfranco Pasquino*, docente di Scienza politica, una riflessione intorno alle decisioni politico-istituzionali necessarie per riconsegnare ai cittadini il potere di scelta dei rappresentanti.
da LiberEtà novembre 2020 (pp. 24-27)
Il risultato del referendum del 20 e 21 settembre segna una tappa, a mio parere, non gloriosa, dell’antiparlamentarismo strisciante italiano la cui bandiera è stata sventolata dal Movimento 5 Stelle. Al tempo stesso, potrebbe diventare l’inizio di un processo riformatore indefinito nella quantità di riforme elettorali e istituzionali e nella sua qualità. Tuttavia, non è affatto scontato che quello che si prospetta di fare sia preferibile a quello che già sta scritto nella Costituzione e che condurrà a migliorare il funzionamento del sistema politico italiano e della qualità della democrazia. Significativamente ridimensionati, i parlamentari italiani avranno certamente delle difficoltà sui due versanti nei quali esplicano i loro compiti essenziali che, in una democrazia parlamentare, sono due: dare rappresentanza politica ai cittadini e controllare l’operato del governo.
Sul primo versante, il Movimento 5 Stelle e, soprattutto, il Partito Democratico hanno annunciato il loro impegno alla formulazione di una nuova legge elettorale di tipo proporzionale. Poiché di leggi proporzionali ne esistono numerose varianti, sarebbe opportuno porre, come direbbero i poco fantasiosi politici, dei paletti. Al di là della formula prescelta, la nuova legge dovrebbe consentire l’espressione di un voto di preferenza e non dovrebbe contenere la possibilità di candidature multiple. Il criterio ispiratore deve essere quello del potere degli elettori. La vigente legge elettorale tedesca, se presa nella sua integrità, risponde a questi requisiti. Quanto al controllo che i parlamentari ridotti di un terzo riusciranno ad esercitare sul governo, non per paralizzarlo, ma per evitarne eccessi e errori, sembra che i revisionisti costituzionale si siano messi sulla strada, anch’essa tedesca, del voto di sfiducia costruttivo. Bene, ma bisognerebbe evitare la eccessiva emanazione di decreti legge sui quali il governo pone la fiducia rendendo impossibile in questo modo non soltanto all’opposizione, ma alla sua stessa maggioranza, qualsiasi miglioramento dei contenuti del decreto.
L’inevitabile tecnicismo delle revisioni costituzionali (e dei regolamenti parlamentari) non deve fare passare in secondo piano i problemi politici contemporanei che inevitabilmente incideranno sulle soluzioni di cui si discute e sull’evoluzione a breve e a lungo termine della vita politica italiana. Insieme alla vittoria referendaria, il Movimento Cinque Stelle ha dovuto registrare un suo serio declino elettorale in tutte le regioni nelle quali si è votato. Continuo a pensare che il voto “politico” delle Cinque Stelle potrà comunque essere superiore al 10 per cento, ma la caduta attuale è preoccupante per il loro futuro e, in una (in)certa misura, per il futuro del governo e del sistema politico. Infatti, anche se il Partito Democratico ha ottenuto buoni risultati in tre importanti regioni, le sue percentuali, poco sopra il 20 percento, continuano ad essere insufficienti a garantire qualsiasi vittoria nazionale prossima ventura. Il PD avrà sempre bisogno di alleati anche qualora riuscisse a delineare un suo “campo largo”. Di qui la proposta di un’alleanza organica con le Cinque Stelle che, però, primo, potrebbe non essere affatto numericamente sufficiente; secondo, al momento non sembra politicamente accettabile ad una parte consistente, peraltro non maggioritaria, degli aderenti pentastellati.
In verità, il governo Conte trae la sua forza dalla popolarità del Presidente del Consiglio il cui operato è apprezzato giustamente da più del 60 per cento degli elettori, per quanto criticato, a mio parere con incomprensibile faziosità e pochezza di argomenti, da “Repubblica” e dal “Corriere della Sera” nonché, ovviamente, dalla stampa di destra. È soprattutto grazie alla intransigenza e alla credibilità di Conte e, in misura leggermente inferiore, del Ministro Gualtieri e del Commissario Gentiloni che l’Italia ha ottenuto dalla Commissione Europea un pacchetto di prestiti e di sussidi di gran lunga superiore a quello di tutti gli altri paesi. Adesso, come giustamente dichiarato da Conte stesso, bisognerà riuscire e spenderli presto e bene su progetti nel solco delle direttive europee per digitalizzare l’Italia, farne un’economia verde, con trasformazioni strutturali nella sanità, nella scuola e nella amministrazione della giustizia. I rapporti con l’Unione Europea sono e possono rimanere il punto di forza di Conte e del suo governo al tempo stesso che sono il vero tallone d’Achille dell’opposizione di centro-destra.
Nessuno può immaginare neppure per un momento che un governo sovranista Salvini-Meloni, o viceversa, sarebbe stato e sarà in grado di negoziare efficacemente con gli europeisti. Al contrario. Naturalmente, se il governo Conte riuscirà a trasformare l’Italia è possibile che il futuro politico-elettorale del Partito Democratico e del Movimento 5 Stelle riservi sorprese positive. Al momento, però, anche se è possibile vedere non pochi scricchiolii in quella che sembrava la potente macchina da guerra di Salvini e della Lega, è indubbio che il centro-destra continua ad essere numericamente e percentualmente più forte del centro-sinistra nelle sue varie articolazioni.
Né le revisioni costituzionali né le alleanze fra partiti possono fare dimenticare quello che, a mio parere, è il vero problema italiano a partire dal crollo del muro di Berlino: la debolezza dei partiti e la disgregazione del sistema dei partiti. Partiti nascono, si trasformano, s’indeboliscono, illudono gli elettori, diventano irrilevanti. Non consentono progetti e azioni di governo di un qualche respiro. Inevitabilmente, gli elettori cambiano i loro comportamenti di voto contribuendo a vittorie improvvis/ate e a declini bruschi. C’è un senso di precarietà nella politica italiana alla quale, per fortuna, anche per la dura della loro carica, si sono contrapposti i Presidenti della Repubblica: Scalfaro, Ciampi, Napolitano, Mattarella. Ecco perché l’elezione del successore di Mattarella all’inizio del 2022 sarà particolarmente importante. Ecco perché i Cinque Stelle e il PD non debbono bruciare la grande opportunità che si offre loro.
*Gianfranco Pasquino è Professore emerito di Scienza politica, Università di Bologna. Il suo volume più recente è Minima Politica. Sei lezioni di democrazia (UTET 2020).
Partiti, movimenti, riforme istituzionali. Diagnosi, in prospettiva comparata, sullo stato di salute della democrazia italiana, delle sue istituzioni e delle forze che ne costituiscono l’ossatura imprescindibile #intervista @Policlic_it
Intervista raccolta da Riccardo Perrone per
“Policlic l’informazione a portata di clic” n 5
Nel pieno di un periodo drammatico, segnato dall’esplosione globale della pandemia di COVID-19, si è svolto in Italia un importante referendum confermativo, inerente alla riforma costituzionale per la riduzione del numero dei parlamentari, che ha sancito la vittoria dei Sì con il 69,6%. Delle conseguenze di questo responso e di molto altro – dall’evoluzione di partiti e movimenti alle riforme istituzionali, con riferimenti all’attualità politica – abbiamo avuto il piacere di parlare con Gianfranco Pasquino, Professore emerito di Scienza politica presso l’Università di Bologna, autore di numerosi e importanti volumi, l’ultimo dei quali – Minima politica. Sei lezioni di democrazia (Utet, 2020) – è da poco nelle librerie
Negli ultimi decenni abbiamo assistito alla nascita e alla proliferazione di una serie di movimenti collettivi, che rappresentano un importante strumento di partecipazione dei cittadini alla vita pubblica: si pensi ad esempio ai movimenti femministi, ambientalisti, o a quelli più recenti quali il movimento “Black Lives Matter” negli Stati Uniti e quello delle “Sardine” in Italia. La nascita e il successo di questi movimenti sono determinati esclusivamente da una spontanea iniziativa di cittadini che si uniscono per perorare una determinata causa, o sono invece dovuti anche all’azione “dall’alto” da parte di qualcuno che dà origine ai movimenti, conferendo loro organizzazione e visibilità?
Ci sono due interpretazioni che considero importanti per analizzare come nascono i movimenti. Da un lato c’è l’interpretazione classica weberiana, secondo cui i movimenti sono in qualche modo il prodotto di insoddisfazioni diffuse, alle quali dà inizio un imprenditore politico, che trasforma questa “effervescenza” – termine utilizzato da Max Weber – in qualcosa di più concreto, in un movimento. Sono persone che si mettono insieme per un qualche scopo. Poi lo scopo può essere preciso, o può essere invece abbastanza vago, e quindi naturalmente può attrarre diverse persone a seconda della chiarezza dello scopo. Questa interpretazione mi pare adeguata. Naturalmente, Weber procede sostenendo che il movimento deve riuscire poi a istituzionalizzarsi, altrimenti o consegue lo scopo e finisce lì, oppure non consegue lo scopo e i suoi componenti si disperdono.
L’altra interpretazione è quella di Alain Touraine, grande sociologo francese, secondo cui in tutte le società vive nascono movimenti. Se una società è viva e vivace, produrrà dei movimenti. Ci sono persone che si incontrano, sulla base di identità, interessi, ideali comuni, e che danno vita a un movimento che può essere più o meno grande. Nel caso di “Black Lives Matter” ci sono alcuni elementi che sono certamente weberiani, nel senso che c’è un’insoddisfazione abbastanza diffusa. È difficile trovare un leader in questo caso, perché l’America è un Paese geograficamente vasto e perché i grandi leader di colore in questo momento non ci sono. Questi sono movimenti che nascono qualche volta all’interno di situazioni specifiche e che vengono rappresentati, per esempio, attraverso la televisione. Non c’è in questo momento un vero e proprio leader del movimento, che è frammentato, cioè si trova in più zone a seconda dei casi, dei contesti, delle sfide.
Con riferimento alla situazione italiana, possiamo osservare come negli ultimi venticinque, trent’anni si sia verificato un sostanziale cambiamento delle caratteristiche e del ruolo dei partiti. Un tempo erano strumenti e organizzatori della vita sociale dei propri iscritti, attualmente invece sono percepiti come “insegne elettorali” o poco più, che contemplano in misura notevolmente minore la partecipazione di iscritti e simpatizzanti alle loro attività. Quali sono a suo parere le cause di questi mutamenti?
I partiti italiani sono declinati in maniera visibile a partire dal 1992-94, ma la loro crisi era iniziata già prima, quando non si erano in nessun modo rinnovati, quando non avevano capito fino in fondo che cosa significasse, non solo per il mondo occidentale, ma soprattutto per l’Italia, la caduta del muro di Berlino. E da allora, soprattutto dopo l’ingresso in politica di Silvio Berlusconi, buona parte dei partiti è entrata in una dimensione di crisi, di difficoltà che non era soltanto organizzativa, ma anche e soprattutto culturale. Oserei dire che è scomparsa la cultura politica di ciascuno di quei partiti, e la maggior parte di essi si è trasformata in partiti personali – cioè sono quello che il leader, popolare nella fase di conquista, è o vuole essere. E oggi ci troviamo di fronte a uno schieramento partitico in cui c’è un unico componente che si chiama partito, il Partito Democratico, mentre tutti gli altri hanno deciso di prendere altri nomi perché l’elettorato non gradisce più i partiti. Questo è il punto fondamentale: nessuno gli ha spiegato a cosa serve un partito, che tipo di compiti svolge, che è indispensabile per la democrazia, perché raggruppa opinioni che si fanno anche politiche pubbliche.
Per di più non c’è più nessuna cultura politica. Adesso vediamo qualcosa che sta maturando, ma è difficile dire che sia già una cultura politica, in particolare sulla destra dello schieramento. Da un lato c’è Salvini, che peraltro ha abbandonato l’idea del federalismo e della indipendenza della Padania, e quindi ha ridotto la sua cultura politica semplicemente ad atteggiamenti anti-europei, anti-migranti – Salvini è contro qualcosa, non è chiaro a favore di cosa sia. Dall’altro c’è un atteggiamento sotterraneo, in Salvini e forse un po’ di più in Giorgia Meloni, che definiamo “sovranismo”; ma che il sovranismo rappresenti una vera e propria cultura politica, è difficile dirlo. Io direi che è improbabile che lo sia in questa fase: deve probabilmente essere meglio declinato, e non vedo nemmeno il teorico del sovranismo.
Vedo anche determinate frange di sovranismo nelle file della sinistra che sta al di fuori del PD. Il PD è coerentemente europeista, e quindi potrebbe vantare quella cultura, se qualcuno la elaborasse. Invece al momento è soltanto un atteggiamento, o meglio una sensibilità. Il PD ha sensibilità europeiste, e questo va benissimo. Che abbia una cultura politica complessiva è difficile dirlo. Quando nacque nel 2007, sostenne che era “il meglio delle culture politiche” e che avrebbe messo insieme ambientalismo, riformismo, cattolicesimo democratico e così via, dimenticandosi ad esempio del socialismo che in questo Paese ha rappresentato una storia di riformisti veri, e non è riuscito a dar vita a una cultura politica. Di volta in volta è “il partito di”: è stato forse il partito di Veltroni, è stato forse un po’ di più il partito di Renzi, fa fatica a diventare il partito di Zingaretti perché quest’ultimo non ha la capacità comunicativa che avevano sia Veltroni sia Renzi.
Questa è la situazione italiana, nella quale i partiti cambiano poco a seconda del tipo di leadership che hanno, ma non riescono in realtà a strutturarsi: sono spesso evanescenti, salgono e scendono dal punto di vista elettorale, vanno al governo o perdono ruoli di governo, ma non lasciano traccia. Siamo in una situazione, come direbbe Bauman, sostanzialmente liquida, e questo naturalmente non è un bene, perché i partiti nascono con la democrazia, e possiamo dire che la democrazia nasce con i partiti, si regge sui partiti; e se i partiti sono deboli, la qualità della democrazia è naturalmente abbastanza bassa.
Per quanto si è appena detto, mi sembra evidente che gli attuali partiti italiani non possano essere definiti “partiti di massa”. Come possiamo definirli, “partiti di quadri”, “partiti pigliatutti”? O invece è necessario teorizzare una nuova categoria ad hoc?
Questi sono partiti personali, che si reggono soprattutto sulle qualità, sulle caratteristiche – perché qualche volta non sono vere e proprie qualità – dei leader, e quindi si spostano a seconda del modo con il quale il leader si sposta, a seconda del successo che ha. E i partiti personali sono inevitabilmente legati alla persona del leader, e quindi possono diventare sufficientemente forti, sempre dal punto di vista elettorale, ma anche perdere consenso in maniera molto rapida. Questa è la situazione di fondo. Non c’è più nessun legame con il passato, con quelle categorie che lei giustamente evocava, perché quelle categorie sono finite. Certamente nessuna delle organizzazioni esistenti oggi in Italia può essere definita di massa. Se c’è un’organizzazione ancora di massa, forse è il sindacato CGIL, e tutte le altre sono organizzazioni al massimo di quadri, peraltro non particolarmente preparati, oserei dire. In qualche caso più che politici direi burocratici; questo è il caso anche della CGIL.
Secondo la fondamentale teoria dei cleavages, elaborata a metà degli anni Sessanta da Rokkan, i partiti politici riflettono “fratture sociali” ben definite. Possiamo considerare tuttora valida questa teoria? Quali sono le divisioni, i conflitti all’interno della società di oggi, che i partiti provvedono a rappresentare e in qualche modo a istituzionalizzare?
Rokkan raccontava una storia europea, che secondo me va bene fino ad un certo punto. Infatti si riferiva all’Europa occidentale: non poteva raccontare quella storia per l’Europa orientale e naturalmente non poteva raccontarla per i Paesi anglosassoni al di fuori del continente europeo – ma in realtà neanche per la Gran Bretagna. Quindi una teoria che era affascinante, ma da parecchi punti di vista limitata geograficamente.
Quello che è successo è che la maggior parte di quei cleavages sono fondamentalmente scomparsi. Oggi non parliamo più, ad esempio, del cleavage città-campagna: semmai il cleavage è nella città, tra i centri cittadini e le periferie; questo possiamo dirlo anche per gli Stati Uniti, ad esempio. Oggi è difficile dire che ci sia un cleavage che riguarda la religione nei Paesi occidentali, perché la religione è diventata molto meno influente dal punto di vista politico. Ci sono ancora partiti che hanno un aggancio alla religione, per esempio i partiti democristiani, che fondamentalmente sono gli ultimi rimasti. Non sono partiti marginali, sia chiaro – si veda su tutti il caso tedesco – però per il resto il cleavage tra i laici e i religiosi in Italia è sostanzialmente inesistente, nonostante i ripetuti richiami alla necessità di un partito cattolico.
Per quanto riguarda i cleavages attuali, a Rokkan contrapporrei Altiero Spinelli, il quale ha sostenuto nel “manifesto di Ventotene” che a un certo punto non ci sarebbe stata più una distinzione classica tra destra e sinistra, ma la vera distinzione sarebbe stata tra i sostenitori di un’Europa politica unificata e federale e coloro che invece sono contrari. Quindi potremmo dire che il cleavage che sta sorgendo, e che potrebbe caratterizzare alcune competizioni politiche, è quello tra i sovranisti, che vogliono mantenere il potere all’interno della propria nazione, e gli europeisti, che sono invece disposti a condividere la sovranità a livello europeo. Questo è quello che mi pare in corso, e mi pare più importante rispetto alla categoria di “populismo”. Marine Le Pen non è una populista, ma è certamente una sovranista.
Anche Orban secondo me è molto meno populista di quel che si dice, ed è invece un sovranista, e così via. Potremmo andare alla ricerca di questo in molti contesti: in Svezia c’è un partito, chiamato “Democratici Svedesi”, che è sicuramente un partito sovranista; in Finlandia, credo si chiamino “Veri Finlandesi”. Credo si possa dire che non ci sono più i cleavages tradizionali, e anche quello economico tra i lavoratori e i proprietari dei mezzi di produzione mi pare molto ridotto nel suo impatto. Oggi dobbiamo preoccuparci più dei finanzieri e dell’accentramento di risorse nelle loro mani.
Quali sono i principali fattori che hanno determinato negli ultimi anni l’ascesa del Movimento 5 Stelle? Quali elementi di novità ha apportato al sistema politico italiano?
In un sistema politico nel quale l’elettorato era già privo di convinzioni molto forti, i 5 Stelle portano un attacco deciso al sistema in quanto tale, alle élites, e da questo punto di vista contenevano ovviamente un corposo grumo di populismo. I 5 Stelle hanno inoltre sfruttato e strumentalizzato l’insoddisfazione nei confronti della politica, che c’è sempre stata in Italia, ma che era ben visibile alla fine degli anni Duemila e agli inizi dello scorso decennio. Naturalmente hanno usato con successo, come abbiamo visto, la loro critica al Parlamento. Tutto questo nasce dalla famosa battuta di Grillo: “Apriremo il Parlamento come una scatola di tonno”, e porta a tutto quello che ne consegue, dal limite dei mandati all’imposizione di un vincolo di mandato. Usavano dunque tutti gli elementi di anti-parlamentarismo, anch’essi molto diffusi nel contesto italiano. Quindi l’insoddisfazione secondo me è il cardine di questo tipo di propaganda, non la proposta di soluzioni, che sono state tutte semplicistiche e, tranne pochi casi, assolutamente inattuabili. Su molti elementi, infatti, i 5 Stelle al governo hanno poi cambiato posizione.
Quest’insoddisfazione è destinata a rimanere. Trovo curiosi i commentatori secondo cui ci sarà una scomparsa del Movimento 5 stelle: non ci sarà una scomparsa, e in realtà non ci sarà neanche una scissione, perché sia Di Maio che Di Battista condividono l’insoddisfazione nei confronti di quelli che i commentatori considerano i due poli, e c’è un’insoddisfazione politica nei confronti del funzionamento del sistema. E allora qui l’elemento paradossale è che Conte – a cui mi riferisco come persona e come capo del governo – riesce a far funzionare il sistema, ma nella misura in cui il sistema funziona, si riduce l’insoddisfazione e quindi si riduce il numero di persone che vanno a votare per il M5S. Il paradosso è che perde voti perché ha successo a livello nazionale, come partito di maggioranza relativa, e ha successo il loro candidato, colui da loro prescelto per guidare il Governo. Però l’insoddisfazione continuerà a rimanere, non più al 33%, che è quello che hanno ottenuto nelle elezioni del marzo 2018, ma intorno al 15-16%, che è quello che i sondaggi danno loro fino a questo momento. Se poi ci fossero altri motivi di crisi, allora forse potrebbe crescere la percentuale di elettori, perché crescerebbe l’insoddisfazione.
Il Movimento, trovatosi alla prova del governo, sta tenendo fede ai propri valori [il termine sia inteso nella sua accezione neutra, NdR] e propositi delle origini?
Non lo so. Non lo so perché faccio fatica a vedere i valori delle origini. Qualcuno dovrebbe riprendersi le 5 Stelle e dirci che cos’erano esattamente, perché non me lo ricordo più. Ma per esempio sull’ambiente – se il Governo finalmente farà un piano ambientale per l’Italia, anche per avere i fondi europei – lì terranno fede alla loro impostazione. Hanno anche tenuto fede a cose che ritengo abbastanza marginali, ad esempio la riduzione del numero dei parlamentari o l’abolizione dei vitalizi – cioè alcune cose che riguardano sì la politica, ma in un certo senso anche la “pancia” dei cittadini italiani. E io non sono mai dell’idea di alimentare la pancia: bisogna alimentare il cervello, qualche volta anche il cuore, la passione, ma non la pancia; è meglio stare a dieta, magri, agili, capaci di cambiare idea, capaci di imparare.
Ciò detto, al governo hanno fatto delle cose che hanno certamente soddisfatto i loro elettori, e altre che non hanno avuto lo stesso effetto. Su alcune cose in realtà si impuntano perché non hanno abbastanza conoscenze: ad esempio sul MES per le spese sanitarie dirette e indirette insistono a dire “No”, e sbagliano sicuramente. Hanno anche cambiato atteggiamento nei confronti dell’Unione Europea, e questo è stato molto positivo. Però non si può dire se abbiano tradito i valori delle origini. Se i valori delle origini consistevano nello scaraventare il sistema nell’abisso, erano valori da non condividere, e soprattutto impossibili da attuare. Per il resto un po’ di cambiamenti li hanno anche introdotti: credo che facciano bene, ad esempio, a rivendicare il reddito di cittadinanza, anche se si poteva tradurre molto meglio in maniera concreta, e probabilmente verrà riveduto. Ci sono alcuni passaggi sui quali possono dire di aver fatto delle cose importanti, altri sui quali possono semplicemente dire: “Questo era impossibile, ce ne siamo resi conto, adesso cambiamo in buona misura quello che avevamo promesso”.
Non molto tempo fa, ho avuto occasione di leggere sul “Corriere della Sera” un interessante editoriale di Paolo Mieli, secondo cui la possibile alleanza strutturale tra Partito Democratico e Movimento 5 Stelle può rappresentare in prospettiva una riedizione del compromesso storico tra Democrazia Cristiana e Partito Comunista Italiano. Nonostante ci siano molte differenze, soprattutto di carattere storico e internazionale, coglie delle analogie tra i due tentativi di avvicinamento?
No, non ne colgo proprio nessuna. Come diceva lei, ci sono delle differenze straordinarie nel quadro internazionale, tra allora e oggi. Non vedo il PD come un vero successore del PCI, è un’altra cosa, molto più disorganizzata. E non credo che i 5 Stelle possano essere definiti come democristiani; sono anzi molto distanti da quel tipo di cultura e da quel tipo di insieme di classe politica che, le ricordo, era comunque una classe politica molto preparata, che arrivava in Parlamento dopo aver fatto un cursus honorum, aver ottenuto cariche, governato a livello locale e così via. No, mi pare un’analogia sbagliata, e soprattutto credo che siamo in un sistema partitico molto diverso. Allora il PCI era tecnicamente un partito anti-sistema che cercava una sua legittimazione attraverso il compromesso storico, mentre il M5S è stato in parte anche anti-sistema, ma non ha bisogno di legittimazione. E quindi siamo in una situazione di una democrazia parlamentare nella quale i partiti fanno alleanze; il M5S ha fatto un’alleanza di un anno con la Lega, dopodiché ha trovato un altro interlocutore e ha fatto un’altra alleanza. Per cui non vedo nulla di organico: in una democrazia parlamentare non ci sono cose organiche, strutturate, che rimangono lì per sempre. Più che al compromesso storico, dovremmo invece guardare per esempio alla Germania, dove i democristiani hanno fatto un’alleanza molto duratura con i liberali, poi questi ultimi si sono alleati con i socialdemocratici, che a loro volta si sono in seguito alleati con i verdi. Quindi le alleanze si fanno in Parlamento, non c’è nulla di organico, tutto è legato a programmi, a persone, a momenti storici, e naturalmente ai voti. Per andare al governo bisogna avere voti e seggi, e questo rende alcuni partiti potenzialmente di governo, mentre altri non ce la faranno mai.
Il recente referendum sulla riduzione del numero dei parlamentari ha decretato la vittoria del Sì. Nella conseguente situazione che si è venuta a creare, quali sarebbero le principali riforme istituzionali da attuare?
È un discorso molto ampio e complesso, che non posso fare in questa sede. Però la premessa è: ci sono alcuni che sostengono che bisogna ritoccare la Costituzione, e altri che sostengono il contrario, perché non c’è una necessità vera in questo senso, e perché i riformatori sono inadeguati e farebbero solo pasticci. Questi ultimi esprimono una posizione alla quale sono sufficientemente vicino. Dopodiché si può fare riferimento a un passaggio che è stato suggerito, cioè accettare la riduzione del numero dei parlamentari in quanto si è in tal modo aperta una breccia nella Costituzione, attraverso la quale passeranno altre riforme. Se qualcuno crede a questo, deve poi naturalmente mettere mano ai guai che ha combinato con la riduzione del numero dei parlamentari. Alcuni dicono che a questi guai si può porre rimedio, ad esempio con la riforma dei regolamenti parlamentari. Mi pare abbastanza ovvio, però non sono convinto che non si potesse fare la riforma dei regolamenti parlamentari anche prima del referendum e della conseguente riduzione dei parlamentari. Se il Senato e la Camera non funzionano bene per colpa dei loro regolamenti, potevano essere riformati a prescindere dalla riduzione del numero dei parlamentari.
Qualcun altro dice che è venuto il momento di intervenire finalmente sul bicameralismo paritario, simmetrico ed indifferenziato; poi sento invece che ci sarà la riduzione dell’età dei votanti che eleggono i senatori, e quindi sostanzialmente l’elettorato sarà lo stesso, e quindi ciò non differenzia un bel niente. Non ho ancora capito se differenzieranno qualche funzione, qualche compito. Ma non vedo la proposta. Sento dire che finalmente la fiducia verrà data da Camera e Senato in una seduta congiunta, per evitare che il Presidente del Consiglio parli prima in un’aula, mandando lo stesso testo nell’altra, con due dibattiti diversi, ma mi pare una “riformetta” da niente. O il bicameralismo lo si prende sul serio, e allora serve per avere una doppia lettura dei disegni di legge, oppure non lo si prende sul serio, e allora si dovrebbe decidere di passare al monocameralismo.
Infine, si apre quella che in latino è detta vexata quaestio, ossia il tema della legge elettorale. La legge elettorale Rosato è pessima, punto. Deve essere riformata a prescindere da qualsiasi altro pasticcio sia successo nel sistema politico italiano. Abbiamo ridotto il numero dei parlamentari, e quindi bisogna modificare la legge elettorale: certo, bisogna cambiare quella legge elettorale, ma qui poi si apre naturalmente il discorso di quali principi, criteri e obiettivi dovrebbero essere alla base di tale riforma, e quello che sento circolare è di nuovo una “riformetta”. Si vuole passare a un sistema elettorale proporzionale che non viene neanche definito bene; qualcuno si esercita nell’utilizzo di termini latini o presunti tali – germanicum, tedeschellum, adesso addirittura brescellum perché il presidente della Commissione Affari costituzionali si chiama Giuseppe Brescia.
In tutto questo c’è il fatto che in realtà i riformatori non vogliono darci una legge elettorale decente, e quindi vanno alla ricerca di questi piccoli meccanismi che favoriranno alcuni e sfavoriranno altri. Ma non sanno bene cosa sia la proporzionale, perché fra l’altro ci sono diverse varianti di sistemi elettorali proporzionali; e ricordo a tutti che quella che abbiamo usato in Italia dalle elezioni del 1946 a quelle del 1992, peraltro modificata con l’introduzione della preferenza unica, non era una brutta legge elettorale proporzionale, anzi era una delle migliori dal punto di vista della rappresentanza. Nessuno prende più in considerazione il maggioritario a doppio turno francese, in collegi uninominali, che invece è un’ottima legge elettorale. E quindi rimango qui contento, perché tutto questo mi consente di criticare, di scrivere articoli, ma come cittadino mi sento esasperato. Datemi una legge elettorale attraverso la quale il mio voto conti qualcosa.
Per quanto riguarda il rapporto tra sistema dei partiti e legge elettorale, ritiene che sia la legge elettorale a dover cambiare ogniqualvolta di registri un mutamento del sistema dei partiti, o viceversa deve essere quest’ultimo a doversi strutturare sulla base di una legge elettorale che resti il più possibile invariata?
Giovanni Sartori diceva che chi conosce un solo sistema politico, non conosce in realtà neppure quello, perché non può dire cosa è eccezionale e cosa è normale, se non è in grado di fare delle comparazioni adeguate. Andiamo allora a vedere quali sono gli altri sistemi politici, quelli di lunga durata, le democrazie che chiamerò ininterrotte. Le democrazie ininterrotte in Europa occidentale usano lo stesso sistema elettorale da quando hanno cominciato a votare: la Svezia, la Norvegia, la Danimarca, usano sistemi elettorali proporzionali da quando hanno cominciato a votare, cioè tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Anche su questo Rokkan ha scritto delle cose memorabili, perché conosceva benissimo la Scandinavia, e conosceva anche la lingua di quei Paesi, dunque era in grado di scoprire molte cose rilevanti per il sistema elettorale e per quello che lui chiamava molto semplicemente “traduzione di voti in seggi”; e poi le varie clausole, dalla D’Hondt alla Hare alla Sainte Laguë e così via, anche qui c’è una varietà notevole.
Ma nella sostanza quei Paesi hanno iniziato a votare con una legge elettorale proporzionale, e continuano ad averla. Qualche volta hanno fatto dei piccoli ritocchi, per esempio alla clausola di esclusione, che in Svezia è del 4%, però non molto di più. La Gran Bretagna ha sempre utilizzato il suo sistema elettorale maggioritario a turno unico, in collegi uninominali. E questo serve naturalmente a dare certezze, sia ai partiti e ai candidati, sia agli elettori. Non richiede lo sforzo di imparare in continuazione come maneggiare un nuovo sistema elettorale che viene dato loro. Dopodiché sappiamo che la proporzionale è sostanzialmente debole dal punto di vista degli effetti che ha; può essere naturalmente rafforzata, non sappiamo però che tipo di impatto abbia sulla struttura dei partiti.
Di impatto notevole è sicuramente il sistema maggioritario inglese a turno unico; impone però l’organizzazione dei partiti? Credo sia sostanzialmente difficile dirlo, ma lo dirò nel seguente modo: i partiti si organizzano sulla base del collegio, è lì che devono essere forti, è lì che devono saper scegliere bene il candidato, è lì che devono saper convincere gli elettori. Diventano quindi dei forti constituency parties. Nel caso inglese i partiti sono relativamente forti perché i constituency parties trovano poi il modo di agganciarsi gli uni agli altri – questo non da adesso naturalmente, ormai è da almeno un secolo che lo fanno.
Nel caso italiano non so cosa succederebbe. Ma se mi si chiede che cosa preferisco, dico che preferisco i partiti organizzati su base locale, perché lì sono in grado di avere un rapporto vero con il loro elettorato. Non riesco a rispondere in maniera molto precisa, perché dovrei analizzare caso per caso. Sappiamo peraltro che i partiti nel resto dell’Europa sono prevalentemente migliori e più forti di quelli italiani: la Francia si è distrutta come sistema partitico, e infatti lì c’è un partito personale, quello di Macron; la Spagna è durata abbastanza a lungo, ma nel frattempo oggi è in una fase di transizione; restando in Europa meridionale, i partiti portoghesi hanno tenuto piuttosto bene, mentre nel caso greco c’è stato un collasso del sistema partitico, ed è ancora evidente il prodotto di quel collasso.
Come spiega il declino o comunque la flessione elettorale che i partiti socialisti hanno conosciuto negli ultimi anni?
Questa è una domanda tremenda. Il problema è molto grave. Non è del tutto corretto parlare di declino. Per fare degli esempi, il partito dei lavoratori svedese continua a essere partito di governo; il partito socialista è al governo in Finlandia, in una coalizione di cinque partiti; il partito laburista norvegese è spesso al governo, così come il partito socialdemocratico danese. Le ricordo che i socialdemocratici tedeschi, pur declinati in maniera considerevole, sono oggi un partito di governo, nella grande coalizione con i democristiani di Angela Merkel. I laburisti stanno probabilmente risorgendo, e oggi potrebbe persino essere che siano competitivi per vincere le elezioni. I socialisti portoghesi sono al governo, ed esprimono il capo del governo. Una parte di socialisti in Francia sono finiti nello schieramento organizzato da Macron, En Marche!. I socialisti in Austria sono un partito potenzialmente di governo.
Quindi i socialisti ci sono ancora. I socialisti e i comunisti sono spariti soltanto in questo Paese, è questo il punto. E la sparizione è stata, come dire, un “omicidio” [ride]. È stato un omicidio causato da coloro che hanno voluto il Partito Democratico. Hanno rinunciato esplicitamente alla tradizione socialista. Qualcuno potrebbe dire che Craxi aveva cooperato molto a far sparire il partito socialista. Però la sostanza è che l’Italia è il Paese che non ha più un partito socialista, di nessun tipo: socialista, laburista, di sinistra, riformista. Non posso contare quelli che un tempo venivano chiamati i “cespugli”, o i “gruppuscoli”, come Potere al Popolo o Rifondazione Comunista. Sono irrilevanti, naturalmente. Anche Sinistra Italiana è fondamentalmente irrilevante. Quindi dovremmo chiederci che cosa è successo qui, e le risposte sono abbastanza chiare. Da un lato i comunisti non si erano rinnovati, e con la caduta del Muro di Berlino si sono trovati in enorme difficoltà. Dall’altra i socialisti hanno subito il contraccolpo del declino del loro leader e del suo trasferimento in Tunisia. Infine, hanno rinunciato deliberatamente al socialismo, coloro che hanno dato vita al Partito Democratico.
Dopo il referendum: legge elettorale e riforme costituzionali #live #29settembre ore 18
I Colloqui de “Il pensiero mazziniano”
Introduce Pietro Caruso
intervengono
Gianfranco Pasquino
Mario Di NapoliConclude Michele Finelli
martedì 29 settembre 2020 ore 18 L'evento sarà trasmesso in diretta facebook su https://www.facebook.com/associazionemazziniana/ https://www.facebook.com/domusmazziniana/
La neolingua che inganna gli elettori sul referendum @domanigiornale
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Il referendum costituzionale sul taglio dei parlamentari non è confermativo, ma al massimo oppositivo.
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Il rapporto tra Camera e Senato non è “perfetto”, ma “paritario”, la riduzione del numero dei componenti non migliorerebbe la situazione.
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Non è affatto vero che un parlamento più piccolo renderebbe inevitabile un sistema elettorale proporzionale puro (anche sulla purezza ci sono idee confuse).
Gli aggettivi servono a chiarire e precisare significati e contenuti dei termini utilizzati. Vanno usati con cautela, appropriatamente, senza esagerazioni e distorsioni.
Le definizioni di un fenomeno debbono soddisfare esigenze di specificazione e di comprensione, ma possono anche mirare a influenzare le preferenze e le valutazioni.
La politica si configura anche, molto spesso, come una modalità di comunicazione orientata a persuadere. Tuttavia, non da oggi, sosterrebbe George Orwell molti politici e operatori dei mass media fanno della comunicazione politica una modalità di manipolazione. Non di rado, Orwell sarebbe stupito dai brandelli di neo-lingua che circolano in Italia non sfidati da nessuno.
Mi limiterò ad alcuni, credo importanti, esempi, ma la casistica è molto più ampia e richiede costantemente attenzione e contrasto.
Non sta scritto da nessuna parte nella Costituzione italiana che il referendum costituzionale è confermativo. Comunque, l’aggettivo non può riferirsi a quel tipo di referendum in quanto tale, ma al suo esito. Qualora la maggioranza dei votanti (non esiste quorum) si esprima per il “sì”, la revisione costituzionale approvata dai parlamentari sarà confermata. Se prevalgono i contrari con il loro no, la revisione sarà bocciata. L’esito, suggerirei, deve essere definito oppositivo (oppure, in subordine, avversativo). Continuare ossessivamente a definire “confermativo” il referendum costituzionale è, una più o meno consapevole, manipolazione convogliando agli elettori che, insomma, si tratta di confermare una revisione non di valutarla e, eventualmente, respingerla.
Ridurre il numero dei parlamentari (espressione che ha pudicamente sostituito “tagliare le poltrone”) è essenziale, si dice, non soltanto per risparmiare, ma per dare un spinta a migliorare il funzionamento del bicameralismo perfetto. Anche questo aggettivo è errato, molto. Se guardiamo alla struttura del bicameralismo italiano l’aggettivo corretto è paritario. Le due Camere hanno gli stessi poteri, a cominciare dal dare e togliere la fiducia al governo, e svolgono gli stessi compiti: rappresentanza politica, controllo sull’operato del governo, conciliazione di interessi, compartecipazione ai procedimenti legislativi. Poi, è quantomeno paradossale che l’aggettivo perfetto venga utilizzato da chi vuole riformare il bicameralismo italiano. Per renderlo imperfetto? Nel frattempo, i ritocchi aggiuntivi che si preannunciano sono marginali, ma renderebbero il bicameralismo italiano ancora meno differenziato e più paritario.
Ridotti di numero i parlamentari, un po’ tutti i sedicenti riformatori annunciano l’imprescindibile necessità di una legge elettorale proporzionale pura. Poi i dirigenti di partito, i parlamentari e troppi commentatori subito aggiungono che dovranno essere introdotti una soglia percentuale di accesso al parlamento e un diritto di tribuna (che non esiste da nessuna parte al mondo: genio italico). È lampante che entrambe le disposizioni rendono il proporzionale piuttosto impuro. D’altronde, un po’ in tutti i paesi che utilizzano leggi elettorali proporzionali (ad eccezione dell’Olanda e di Israele) si fa ricorso a una soglia d’accesso (o esclusione) per quantomeno contenere la frammentazione del sistema dei partiti e della rappresentanza parlamentare. Comunque, approvata la riduzione dei parlamentari non è affatto detto che il “proporzionale” sia una soluzione obbligata. Gran Bretagna e Francia utilizzano leggi elettorali maggioritarie, fra loro diverse, in collegi uninominali. Lo stesso fanno l’Australia: 25 milioni di abitanti, Camera bassa 150 rappresentanti; e il Canada: 37 milioni di abitanti, Camera bassa 308 rappresentanti. Quello che conta, però, è l’ampiezza con riferimento agli elettori dei collegi uninominali.
Lineare è bello (?). Chi può opporsi a un intervento definito e giustificato come lineare ovvero semplice, uniforme, limpido, essenziale? Tagliare le poltrone con una grossa accetta risolve qualche problema di funzionamento oppure sarebbe più opportuno e più efficace utilizzare il bisturi per intervenire in maniera delicata sulle criticità di una struttura tanto complessa come il/un Parlamento? Dove mai e quando mai i Parlamenti e le Costituzioni sono state riformate con tagli “lineari”? In verità, nel passato Gianfranco Miglio, autorevole professore di Storia delle istituzioni politiche e di Scienza politica propose più drasticamente di lanciare una sostanziosa revisione costituzionale facendo uno sbrego alla Costituzione. Il resto avrebbe fatto seguito. Il “sì” servirebbe anche a rompere l’immobilismo, fare una breccia nella Costituzione alla quale, ovviamente, ma anche no, seguirà una nuova costruzione. Lineare!
Pubblicato il 17 settembre 2020 su Domani
Flash mob: La democrazia vale più di un caffè #17settembre ore 18 Piazza Maggiore #Bologna #IoVotoNO
“Il Pd? A volte è un po’ banderuola. Elezioni Regionali: andrà a finire così” #intervista #Affaritaliani @affariroma
Parla con Affari il politologo Gianfranco Pasquino: “Alle Regionali? Do per probabile un 3 -3 e possibile un 4-2 per il centrosinistra”
Intervista raccolta da Paola Alagia
Bolla il pronostico del sette a zero del leader della Lega come “la solita sparata dello sbruffone Salvini” e lo definisce un risultato “improbabile”. Non solo, ma il professore emerito di Scienza politica, Gianfranco Pasquino, intervistato da Affaritaliani.it, si proietta già alla sera del 21 settembre e azzarda: “Do per scontato che il centrosinistra vinca in Campania e in Toscana, li considero risultati quasi sicuri. E non do affatto per perse né le Marche e né la Puglia. Sono contendibili. Almeno questo è ciò che mi dice la mia personale sfera di cristallo”.
Professore, quindi dando i numeri, è possibile un quattro a due per il centrosinistra?
Può benissimo finire 3 a 3, escludendo la Val d’Aosta che è sempre stata una realtà diversa dal resto del Paese. Diciamo che do per probabile un 3 a 3 e per possibile un 4 a 2 per il centrosinistra. Scenario, quest’ultimo, che si realizzerebbe in caso di vittoria, appunto, anche in Puglia e Marche.
In Liguria, dopo l’esperimento fallimentare in Umbria, riparte il laboratorio delle alleanze tra Pd ed M5s. Una sconfitta qui potrebbe causare una battuta d’arresto sul camino delle intese?
Ritengo che nessuna Regione sia un laboratorio perché ciascuna risponde a fattori personali e locali. Detto questo, la Liguria è una sfida difficilissima per il centrosinistra perché qui c’è un presidente, Toti, che è molto popolare e sostanzialmente ha fatto bene. Ecco perché considero l’intesa raggiunta un tentativo apprezzabile, ma non più di un tentativo. Quindi, se il centrosinistra perde, come è probabile, non significa affatto che non debbano più farsi accordi locali tra Pd e Movimento cinque stelle. Dovrebbero, questo sì, partire un po’ prima. Sempre con la consapevolezza che le intese non sono garanzia di vittoria, ma sono garanzia di competitività.
Fa bene quindi Luigi Di Maio che è già proiettato alle comunali del 2021?
Di Maio finalmente agisce in maniera razionale. Peccato però che il M5s abbia già deciso di ricandidare Virginia Raggi a Roma. Questa operazione andava fatta dopo avere raggiunto in qualche modo un accordo con il Pd e non ponendosi subito in posizione antagonista. Comunque, questa è la linea giusta, secondo me, ma senza esagerazioni: sono contrario alle alleanze organiche, bisogna raggiungere intese programmatiche sulle candidature a livello locale.
La Toscana, invece, vede insieme Pd e Italia viva. Una vittoria del centrosinistra potrebbe ringalluzzire Renzi e spingerlo ad alzare la posta di richieste sul governo?
Bisognerà innanzitutto contare i voti di Italia viva e vedere intanto se risulteranno decisivi per la vittoria del candidato di centrosinistra. La Toscana, poi, è la Regione di Renzi, ma anche di Maria Elena Boschi. Dunque, lì devono dimostrare di essere forti. Casomai una lezione arriverebbe se risultassero deboli e si attestassero su percentuali tristi, ad esempio al di sotto del 5 per cento.
Nella prima ipotesi cosa accadrebbe?
Non credo che ci sia da ringalluzzirsi. Magari ci sarà da deprimersi, dipenderà dal risultato. Dopodiché Iv è imprevedibile, come il suo leader. Credo che ci sarà una continuazione della guerriglia. Renzi è in questo momento un guerrigliero che cerca di operare all’interno delle linee amiche, ma non può portare la guerra fino alla sconfitta perché la sconfitta sarebbe anche la sua.
Ma l’esito del voto può minare la stabilità del governo?
Le ripercussioni sul governo si potrebbero avere, ovviamente, se il centrodestra vincesse nelle sette Regioni. Significherebbe che l’esecutivo non è più in sintonia con il Paese. Il governo, allora, dovrebbe elaborare il risultato, ammettere che un problema esiste, ma sottolineare anche che si tratta di elezioni comunque regionali e che in Parlamento ci sono numeri per andare avanti.
Si affaccerebbe con maggiore forza l’ipotesi di un rimpasto?
Forse il governo potrebbe prendere in considerazione l’ipotesi. Ma attenzione, rimpastare Azzolina mi pare una lezione che il ministro non merita. Rimpastare dovrebbe significare scegliere persone più brave di quelle che già ci sono. Una cosa è sicura.
Quale?
Discuterei di tutto meno che di Mario Draghi che mi pare una specie di briscola chiamata in causa probabilmente anche contro il suo volere e le sue aspettative.
Non sarà che il governo rischia di più proprio con la prova scuola?
La gestione della scuola è una cosa complicatissima. Parliamo di 8 milione di studenti, quasi 2 milioni tra personale scolastico e professori, più i genitori, insomma un esercito di oltre 10 milioni di persone che si muovono. Si tratta di una mobilitazione di massa per cui gli inconvenienti possono sempre presentarsi.
Apriamo il capitolo referendum. Lei si è schierato per il no al taglio dei parlamentari, è così?
Ritengo che il meno non sia sinonimo di meglio. Penso inoltre che non basti tagliare. Bisogna sapere dove poter cucire. Il problema nel nostro Paese risiede nel rapporto tra governo e Parlamento, ma ridurre il numero di parlamentari non lo migliora affatto. Anzi, rischia di rafforzare indebitamente il governo: meno parlamentari significa meno persone in grado di controllare quello che il governo fa, non fa o fa male.
Il 21 settembre si scopriranno le carte. Sapremo se avrà vinto il sì o il no al referendum. Che accadrà l’indomani?
Se vince sì i Cinque stelle esulteranno, mi auguro che eviteranno di ballare sui balconi. Avranno ragione di esultare. Non so, invece, se il Pd potrà permetterselo.
Per quale ragione visto che Zingaretti ha portato il partito sulla linea del sì al taglio?
Perché il sì del Pd si mi pare abbastanza sofferto e opportunistico.
Cosa intende per opportunistico?
Che alcuni nel Partito democratico si comportano in maniera opportunistica. Un opportunismo e un’opportunità che comprendo perché i democratici devono tenere in piedi questo governo, anche alla luce delle sfide che attendono il Paese, con i 209 miliardi da investire. Concordo che non sarebbe il momento più opportuno per una campagna elettorale.
E se vincesse il no?
Sarebbe la sconfitta di una deriva populista del M5s. I Cinque stelle dovranno interrogarsi su questo. Allo stesso modo il Pd dovrà chiedersi cosa non ha funzionato e quanta attenzione ha prestato ai suoi elettori e al dibattito pubblico in generale.
Al di là delle ripercussioni in casa Pd e in casa M5s, il governo Conte potrebbe subirne i contraccolpi?
Non ritengo una eventuale vittoria del no al referendum una delegittimazione del governo. Sarebbe una sconfitta dei parlamentari che hanno votato questa riforma costituzionale. Terrei molto distinto il destino dell’esecutivo dal no e dal sì al taglio del numero dei parlamentari.
Forse l’esecutivo no, ma Zingaretti rischierebbe di salire sul banco degli imputati.
Zingaretti dovrebbe certamente interrogarsi sulla sua capacità di convincere non solo i suoi iscritti, ma anche i suoi elettori, chiedersi se davvero il Pd ha fatto una campagna elettorale seria – non vedo i manifesti del partito per il sì – e con quanto impegno ha sostenuto davvero questa riforma.
E’ probabile un assalto alla sua segreteria?
Aprire questa partita sarebbe fuori luogo. Zingaretti è stato scelto con primarie e deve andare avanti fino alla fine del mandato. E, poi, gli sfidanti sarebbero esponenti come Bonaccini perché ha vinto le elezioni in Emilia Romagna? Ricordiamo che era presidente uscente e poi anche che l’Emilia Romagna è la Regione rossa per eccellenza. Insomma, non mi sembra un titolo sufficiente per aspirare alla segreteria. Quanto agli altri eventuali aspiranti, aspettino il loro turno e chiedano le primarie.
Da Roberto Saviano sono arrivate parole pesanti contro il Pd. Secondo lo scrittore è privo di identità politica, è “vapore acqueo”. Lei cosa ne pensa?
Su alcune tematiche il Pd sembra una banderuola. Detto questo, un po’ Saviano esagera sempre, ma io lo capisco. La sua è una questione di stile e forse anche una scelta e cioè quella di voler acutizzare le situazioni. Una cosa però va detta.
Quale?
Il Pd, dal 2007 a oggi, non ha elaborato una cultura politica di riferimento degna di questo nome. E quindi è vagamente democratico, vagamente progressista e vagamente riformista. Un male generale nel contesto italiano. L’unica che può dire di avere una cultura politica, infatti, è Giorgia Meloni. Persino i leghisti hanno attenuato la loro visione della Padania. Trenta anni fa c’era Gianfranco Miglio che aveva idee forti, oggi chi sono gli intellettuali di riferimento? Borghi e Bagnai?
Pubblicato 11 settembre su affaritaliani.it