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Una monarchia di cerimonia e di sostanza

Non c’è solo folclore, spesso elegante e bello, nella cerimonia di incoronazione. C’è sana tradizione, storia ben vissuta, legittimazione anche politica della rappresentanza e dell’equilibrio che la monarchia britannica offre e garantisce da almeno più di due secoli. Quella monarchia non soltanto sopravvive, ma dimostra di essere vitale e capace di rinnovarsi. Nel Regno Unito molto più che nelle altre otto monarchie tuttora esistenti in Europa occidentale, la monarchia incarna e esprime una visione fatta di emozioni, sentimenti, obiettivi di un popolo che mantiene la sua grandezza. Sottolineare che è un’istituzione datata che non ha più senso nel mondo del XXI secolo significa avere capito poco di quella istituzione e addirittura meno di cos’è la politica. Rilevare compiaciuti che il 38 per cento dei giovani pensano che il tempo della monarchia sia finito implica sottovalutare malamente che il 62 per cento dei britannici hanno un’opinione favorevole della monarchia e che i giovani cambieranno idea, come hanno già fatto i loro padri, con il passare del tempo. D’altronde, già adesso, il 70 percento degli intervistati ritiene che Re Carlo III farà un buon lavoro.

   Il Regno Unito ha da tempo perso l’Impero, ma i discendenti di moltissimi di quelle donne e quegli uomini “colonizzati” dagli inglesi si sentono tuttora attratti da quello stile di vita, da quella cultura, dalle opportunità offerte, dai diritti di cui possono godere. Crescono i rimpianti degli inglesi per la Brexit così come, sul continente, è diffusa la consapevolezza che l’Unione Europea ha perso un protagonista significativo per la sua economia e per la sua democrazia. Rimane la speranza di un non troppo lontano ripensamento inglese e di un ritorno.

Sbagliato limitarsi a sostenere in maniera saputella che la monarchia inglese regna, ma non governa e che, dunque, nella politica è sostanzialmente irrilevante. La politica è fatta anche di simboli e di sentimenti. La monarchia è il simbolo più alto del Regno Unito, ne rappresenta appunto l’unità e, in non piccola misura, la coesione al disopra dei conflitti fra i partiti. Salvo frange eccentriche e marginali, nessuno dei tre grandi partiti inglesi pone come obiettivo l’abolizione della monarchia. Nessuno ha dimenticato il contributo importantissimo in termini di ideali e di attaccamento alla patria dato da Re Giorgio VI, il nonno di Carlo, alla guerra contro il nazismo. Infine, l’ereditarietà del monarca-capo dello stato significa anche che il sistema politico non deve affrontare gli inevitabili conflitti che si produrrebbero nell’eventualità dell’elezione di un Presidente. Di più, nessuno dubita dell’imparzialità del monarca e della sua volontà di garantire gli equilibri politici rispettando la volontà del Parlamento nell’interesse del popolo. L’ombra di preoccupazione visibile sul volto di Re Carlo indica che è consapevole dell’importanza del ruolo che dovrà svolgere. God save the king.

Pubblicato GEDI il 7 maggio 2023

La governabilità fra 10, Downing Street e Westminster #recensione Storia costituzionale del Regno Unito attraverso i Primi ministri

Alessandro Torre, Storia costituzionale del Regno Unito attraverso i Primi ministri, (Milano, Wolters Kluwer, 2020)

Ho sempre pensato e regolarmente insegnato che il Primo ministro inglese è il capo di governo più “forte” di tutti regimi democratici, comprese le repubbliche presidenziali. Più forte perché è in grado di tradurre le promesse elettorali sue e del suo partito con la massima fedeltà in politiche pubbliche, poiché è effettivamente, come ha scritto Max Weber, il “dittatore del campo di battaglia parlamentare” e dal Parlamento e con il Parlamento guida il suo paese. Almeno a partire dall’inizio del secolo scorso, è davvero forte perché diventa Primo ministro chi è capo del partito che ha (conquistato) la maggioranza assoluta dei seggi alla Camera dei Comuni. Ciascuno dei parlamentari di maggioranza è ampiamente consapevole che se il “suo” governo funziona in maniera apprezzabile, le sue chances di essere rieletto rimarranno (molto) buone. Quindi, quel parlamentare sosterrà il governo e il Primo ministro nell’attuazione del programma, della party platform, che il suo partito ha presentato agli elettori ritenendo, per lo più correttamente, che gli elettori abbiano dato loro il mandato di attuarlo. Pertanto, il Primo ministro, il suo Cabinet composto dai senior Ministers, la sua compagine di governo, i parlamentari del partito di maggioranza hanno non soltanto il diritto istituzionale di tradurre le promesse elettorali in politiche pubbliche. Hanno anche il dovere politico di farlo. Dal canto loro, i parlamentari di maggioranza hanno la facoltà di dissentire esclusivamente su materie che attengono a loro profondi convincimenti (ma anche alle preferenze, almeno come le conoscono, proprio del loro collegio) che debbono, ogniqualvolta appaia necessario, giustificare e spiegare ai colleghi parlamentari, al Primo ministro e, naturalmente, agli elettori, in particolare, ma non soltanto, a quelli del loro collegio. I parlamentari di maggioranza sono tenuti ad accettare, con più o meno preoccupazione, lo scioglimento della Camera quando lo deciderà il Primo ministro poiché ritengono e sperano che il Primo ministro abbia fatto bene i suoi conti, con riferimento all’attuazione/esaurimento del programma, alla popolarità del governo, ai sondaggi. Tutto questo nella sua talvolta ingannevole linearità e nei molteplici elementi di discrezionalità, mi è sempre apparso affascinante. Coerentemente, ho pensato che imporre per legge che la legislatura durasse cinque anni, come fece la coalizione Conservatori-LiberalDemocratici all’inizio della loro fase di governo nel 2010, significasse un irrigidimento dannoso contro una prassi che garantiva invece positiva flessibilità (alla quale, in parte, sono già tornati).

Questo modello costituzionale inglese che ho descritto a grandi linee è in larga misura non imitabile. Tuttavia, è stato esportato e ha finora funzionato più che soddisfacentemente laddove esiste una cultura politica “anglosassone”: Australia, Canada, Nuova Zelanda e in alcuni paesi dei Caraibi. Si è sviluppato nel tempo anche, forse, soprattutto, accompagnando l’evoluzione della figura del Primo ministro che è, da qualsiasi prospettiva lo si guardi, centrale e cruciale. Pertanto, apprezzo molto l’idea portante di quanto ha organizzato e inteso fare Alessandro Torre in un densissimo importante volume: ripercorrere la Storia costituzionale del Regno Unito attraverso i Primi ministri (Milano, Wolters Kluwer, 2020). Ne è risultata un’opera straordinaria che consta di 1210 pagine di cui non esiste l’eguale nella letteratura in materia. È una storia lunga che Torre fa cominciare con Robert Walpole, intitolando il capitolo da lui stesso scritto “Nascita e formazione di un Primo ministro”. Walpole è stato colui che plasmò la carica da lui ottenuta anche grazie al fatto che la occupò per ben ventuno anni, dal 1721 al 1742, più di qualunque altro Primo ministro dopo di lui. Finora di Primi ministri ce ne sono stati, in tutto, cinquantacinque. I lettori e gli autori mi scuseranno, dunque, se non recensirò/discuterò approfonditamente nessuno dei capitoli, cercando, invece, di mettere in rilievo i punti nodali e le trasformazioni intervenute nel tempo, mirando a dare un senso alla storia complessiva.

In parte, l’operazione cui mi accingo è svolta efficacemente da Angus Hawkins nella sua introduzione intitolata The Office of Prime Minister. È una storia che si dipana nell’ambito di una Costituzione che è “scritta”, sostiene Hawkins, ma “non codificata”. La si trova in qualche modo scritta nelle tradizioni, nei precedenti, nelle sentenze della magistratura, negli Atti del Parlamento, nonché, naturalmente, nei comportamenti dei Primi ministri. Esiste un consenso abbastanza ampio fra gli studiosi del Primo ministro che, in effetti, la carica è, nelle parole di Herbert Henry Asquith, Primo ministro liberale dal 1908 al 1916 (l’apposito capitolo è opera di Paola Piciacchia), “quello che il suo detentore sceglie ed è capace di farne”. Questa affermazione, da un lato, suggerisce che il Primo ministro ha una grande discrezionalità nella sua interpretazione del ruolo; dall’altro, scoraggia dal tentare una comparazione fra i 55 Primi ministri presentati nel libro. Personalmente, sono, in larga misura, d’accordo con l’esistenza di notevoli opportunità per il Primo ministro di esercitare il suo ruolo, ma è innegabile che esistano dei limiti, delle costrizioni, delle restrizioni e che, nel corso del tempo, vi siano stati cambiamenti significativi a cominciare dal contesto. Il declino del potere della monarchia è uno di questi cambiamenti “epocali”. La comparsa di partiti organizzati è il secondo cambiamento, mentre il terzo discende dall’aumento dell’importanza dei mass media, della comunicazione politica. Le difficoltà della comparazione non mi scoraggiano, ma certo costituiscono una sfida che accetto sapendo, però, che è possibile fare molto di più.

Noterò criticamente che il curatore avrebbe dovuto chiedere agli autori di offrire in maniera sistematica alcuni dati aderendo ad un template. Mi limito ad alcuni esempi: età di elezione alla camera dei Comuni; età di ascesa alla carica di Primo ministro; durata in carica. Tutti i primi ministri sono stati parlamentari, per lo più alla Camera dei Comuni. Nel caso di Douglas Home, 1963-1964 (capitolo di Giulia Aravantinou Leonidi) dovette rinunciare al titolo di Lord. Tutti i Primi ministri hanno ricoperto la carica di Ministro prima di diventare l’inquilino di 10 Downing Street, ad eccezione di Tony Blair (1997-2007, dal 1983, anno della sua prima elezione, il Labour Party fu confinato all’opposizione fino alla sua vittoria nel 1997), quindi, giungevano a guidare il governo almeno relativamente preparati. Tutti o quasi, ma qui azzardo, erano i capi dei rispettivi partiti. Non più di un quarto di loro ha guidato più governi. Credo sia giusto menzionare i più famosi Pitt il Giovane, 1783-1801, 1804-1806 (capitolo di Marina Calamo Specchia); Henry John Temple, più noto come Lord Palmerston, 1855-1858, 1859-1865; Benjamin Disraeli, 1868, 1874-1880 (capitolo di Miryam Jacometti); William Gladstone 1868-1874, 1880-1885, 1886, 1892-1894 (capitolo di Claudio Martinelli); Stanley Baldwin, 1923-1924, 1924-1929, 1935-1937 (capitolo di Davide Rossi); Winston Churchill, 1940-1945, 1951-1955 (capitolo di Carlo Fusaro); Harold Wilson, 1964-1970, 1974-1976 (capitolo di Francesca Rosa), fino ai casi molto noti di Margaret Thatcher, 1979.1983, 1983-1987, 1987-1990 (capitolo di Ginevra Cerrina Feroni) e Tony Blair, 1997-2001, 2001-2005, 2005-2007 ( capitolo di Francesco Clementi). Da questo elenco trarrei una sola conclusione che mi sembra abbastanza fondata e plausibile. A periodi di continuità nella carica fanno seguito periodi nei quali i Primi ministri cambiano spesso. Questi cambiamenti sono, ovviamente, dovuti ai risultati elettorali, ma spesso il cattivo esito delle elezioni è anche il prodotto delle divisioni/lacerazioni all’interno dei singoli partiti.

Leggendo i vari profili mi sono spesso chiesto se non fosse utile cercare di giungere ad una valutazione complessiva dei Primi ministri. Wikipedia mi ha offerto una pluralità di fonti e di tabelle. Ne esiste anche una contenente la valutazione di tutti i Primi ministri a partire da Walpole. Ho preferito guardare ai Primi ministri del dopoguerra e alla Tabella costruita nel 2016 da un gruppo di ricercatori dell’Università di Leeds sulla base delle risposte di 82 docenti britannici specialisti di storia e politica inglese nel secondo dopoguerra. La Tabella non richiede una interpretazione raffinata, ma è importante segnalare come il primo posto sia occupato dal laburista Clement Attlee che guidò un solo governo, avendo sconfitto Winston Churchill, pure l’artefice della vittoriosa resistenza contro Hitler. Nel sottotitolo del suo capitolo dedicato a Attlee, Salvatore Bonfiglio lo definisce The “Unorthodox”. Mi pare ci sia molto di più: una carriera politica, doti di negoziatore e persuasore, capacità di fare funzionare il Gabinetto, l’attuazione di un programma di respiro, ricostruzione e trasformazione. La classifica degli studiosi riconosce in Attlee non solo il miglior Primo ministro del dopoguerra, ma un grande uomo politico.

Concludo facendo riferimento alle riflessioni di George W. Jones contenute in una conferenza del 2014 e pubblicate come conclusione del volume. Sono riflessioni dedicate in senso lato al problema della crescita dei poteri del Primo ministro, della cosiddetta più o meno intenzionale “presidenzializzazione” della sua carica, del suo ruolo. Sono riflessioni sagge e ricche di sfumature che sottolineano come il ruolo e il potere del Primo ministro inglese siano fluttuanti, dipendano dal contesto, dagli eventi, dalla popolarità e dalla composizione del governo, dal grado di successo o no delle politiche, dall’atteggiamento dei suoi ministri. Mettono in fortissimo dubbio che altrove, per esempio, in Italia dove se ne è dissennatamente e forsennatamente discusso, sia possibile costruire con qualche riformetta elettorale e qualche aggiuntina di poteri un Premierato “forte”. Implicitamente respingendo la tesi della presidenzializzazione, Jones conclude che “al di sopra di tutto il Primo ministro risulta potente tanto quanto lo lasciano essere i colleghi di governo”. È la lezione da apprendere dai duecentocinquanta anni di questa utile e efficace storia costituzionale del Regno Unito attraverso i suoi protagonisti: i Primi ministri.

Pubblicato il 9 maggio 2020 su casadellacultura.it

Il Premier non può essere a tempo

Il fatto

All’insegna della più profonda ignoranza costituzionale e di un’irresistibile tendenza al populismo (che si esprime, anche con le Cinque Stelle, nel porre limite alle cariche elettive), Matteo Renzi ha prodotto una inequivocabile esternazione: limite di due mandati al capo del governo, come in USA. Forse, giunto al termine di una faticosa e confusa riforma costituzionale, Renzi si è dimenticato che l’Italia ha una forma di governo parlamentare e che quella degli USA è presidenziale. Non gli debbono mai avere detto, anche perché nel suo entourage è improbabile che lo sappiano, che nessuna delle forme parlamentari di governo, a cominciare dalla prima e più importante, quella del Regno Unito, prevede e fissa un limite alla durata in carica del capo del governo. Che nelle forme parlamentari di governo non è mai esistito e tuttora non esiste un mandato al capo del governo anche perché, tranne nei casi anglosassoni, i governi sono coalizioni che debbono raggiungere accordi programmatici. Che ciascun capo del governo entra in carica grazie ad un rapporto di fiducia, che non sempre consiste in un voto esplicito, con il Parlamento ovvero la maggioranza parlamentare, e ne esce quando la maggioranza parlamentare, quella o un’altra, lo sconfigge e lo costringe a lasciare la carica, magari sostituendolo hic et nunc. Che uno degli elementi, probabilmente, il più importante, che differenzia i parlamentarismi dai presidenzialismi è la loro flessibilità proprio nella formazione e nella sostituzione dei governi e dei loro capi che, nei presidenzialismi è praticamente impossibile se non con l’impeachment, quando ha successo, e che trasforma crisi politiche (incapacità, malattia, corruzione del Presidente, sue violazioni della Costituzione) in crisi costituzionali.

Immagino che, nell’ordine, Konrad Adenauer (quattro vittorie elettorali, in carica dal 1949 al 1963), Margaret Thatcher (tre vittorie elettorali in carica dal 1979 al 1990), Felipe Gonzales (tre vittorie elettorali, in carica dal 1982 al 1996), Helmut Kohl (quattro vittorie elettorali, in carica dal 1982 al 1998, record assoluto), Tony Blair (tre vittorie elettorali, in carica dal 1997 al 2007), Angela Merkel (finora tre vittorie elettorali, in carica dal 2005) si stiano chiedendo “che diavolo dice il Presidente del Consiglio italiano; che cosa ha in mente, a che cosa mira?” Potrebbero chiederselo anche, farò pochi esempi selezionati, De Gasperi che guidò sette governi, Fanfani e Moro che, rispettivamente ne guidarono sei e cinque. Magari avrebbero potuto chiederlo a Renzi anche il fondatore di “Repubblica”, Eugenio Scalfari, e l’intervistatore Claudio Tito. Le interviste sono belle e utili quando sfidano l’intervistato, non quando stendono tappeti. Invece, no, e la notizia del limite ai mandati è subito rimbalzata senza correzione alcuna (forse arriveranno, presto, le rettifiche di Napolitano).

Azzardo la mia interpretazione, che va oltre l’ignoranza di Matteo Renzi, ma non la giustifica e non la sottovaluta. Renzi cerca di prendere due piccioni con una fava. Vuole fare sapere agli italiani che non starà in carica oltre, se ci arriva, il 2023. Offre questa sua graziosa disponibilità a non restare di più (quindi a non entrare in competizione con i capi di governo, alquanto prestigiosi, che ho menzionato sopra) in cambio di un “sì” al plebiscito di ottobre sul quale sta investendo tutte le sue energie. Se, proprio, voleva sia l’elezione popolare diretta del capo del governo parlamentare, che non esiste da nessuna parte al mondo, sia la non rieleggibilità dopo due mandati poteva cercare di riformare la Costituzione in questo senso. Dimenticavo, sostiene che non glielo avrebbero lasciato fare. Peccato gli abbiano lasciato fare soltanto brutte e confuse riforme. Poteva rifiutarle. Meglio niente.

Pubblicato il 14 giugno 2016

Qual è il Parlamento più produttivo? I numeri della produzione legislativa dei Parlamenti democratici

viaBorgogna3

È ora di uscire da un confuso e manipolato dibattito sull’improduttivo bicameralismo paritario italiano e di dare i numeri sulla produttività di alcuni Parlamenti democratici. Naturalmente, sappiamo da tempo che i Parlamenti, oltre ad approvare le leggi, svolgono anche diversi molto importanti compiti: rappresentano le preferenze degli elettori, controllano l’operato del governo, consentono all’opposizione di fare sentire la sua voce e le sue proposte, riconciliano una varietà di interessi. Sono tutti compiti difficili da tradurre in cifre, ma assolutamente da non sottovalutare per una migliore comprensione del ruolo dei Parlamenti nelle democrazie parlamentari, nelle Repubbliche presidenziali e in quelle semipresidenziali. Qui ci limitiamo alle cifre sulla produzione legislativa poiché una delle motivazioni della riforma del Senato italiano, in aggiunta alla riduzione del numero dei parlamentari e al conseguente, seppur limitatissimo, contenimento dei costi della politica, consiste nel consentire al governo di legiferare in maniera più disinvolta, di fare più leggi più in fretta. È un obiettivo non considerato particolarmente importante dalla maggioranza degli studiosi.

La produzione di leggi ad opera di un Parlamento dipende da una pluralità di fattori, fra i quali tanto la forma di governo quanto l’obbligo di ricorrere alle leggi per dare regolamentazione ad un insieme di fenomeni, attività, comportamenti. Pertanto, i dati concernenti forme di governo molto diverse fra loro sono inevitabilmente non perfettamente comparabili, ma sono sicuramente molto suggestivi. I dati sulla Germania riguardano la legislatura 2005-2009 che ebbe un governo di Grande Coalizione CDU/SPD e quella successiva nella quale ci fu una “normale” coalizione CDU/FDP. Dal 2007 al 2012 la Francia semipresidenziale ebbe un governo gollista con la Presidenza della Repubblica nelle mani di Nicholas Sarkozy. Dal 2010 al 2015 la Gran Bretagna fu governata da una inusitata coalizione fra Conservatori e Liberaldemocratici. La prima presidenza Obama (2008-2012) fu per metà del periodo segnata dal governo diviso ovvero con i Repubblicani in controllo del Congresso. Ricordiamo che negli USA l’iniziativa legislativa appartiene al Congresso, ma il Presidente può porre il veto, raramente superabile, su tutti i bills approvati dal Congresso. Per l’Italia abbiamo scelto tre periodi: 1996-2001, con diversi governi di centro/sinistra; 2001-2006, governi di centro-destra con cospicua maggioranza parlamentare; 2008-2013, prima un lungo governo di centro-destra che si sgretolò gradualmente, poi dal 2011 un governo non partitico guidato da Mario Monti. Questi due elementi spiegano perché la legislatura 2008-2013 abbia prodotto meno leggi delle due che l’hanno preceduta.

Complessivamente, però, i dati indicano chiaramente che il bicameralismo italiano paritario non ha nulla da invidiare ai bicameralismi differenziati sia per quello che riguarda la produzione legislativa sia per quello che riguarda la durata dell’iter legislativo. I dati presentati nella tabella mostrano come la quantità di produzione legislativa del Parlamento Italiano sia in linea con la produzione legislativa della maggiori democrazie occidentali, se non, in qualche caso, addirittura superiore. Una considerazione analoga può essere fatta per i tempi di approvazione. Nei Parlamenti e nelle legislature esaminate, l’approvazione di una legge richiede in media circa dodici mesi, nove negli Stati Uniti, e otto mesi o poco più nel caso italiano. Il Parlamento italiano quindi fa molte leggi e le fa in tempi piuttosto celeri.

tabella

Gianfranco Pasquino e Riccardo Pelizzo

Pubblicato i 3 giugno 2016

Liste bloccate? ma mi faccia il piacere!

Il voto di preferenza è, come sostengono alcuni professoroni non soltanto costituzionalisti, “un’anomalia tutta italiana”?

Sbagliato!

Come dimostra chiaramente la tabella preparata dal mio allievo Marco Valbruzzi, soltanto quattro paesi su ventuno condividono quella che non è “un’anomalia”, ma una scelta politicamente e elettoralmente rilevante.

Per non consegnare i prossimi parlamentari nelle mani di Renzi e di Berlusconi, la battaglia per almeno una preferenza è cosa buona e giusta.

clicca sulla tabella per espanderla

tabella Valbruzzi

Se escludiamo i casi in cui la “rappresentanza personale” deriva dal collegio uninominale (Francia, Regno Unito, in parte Germania e Ungheria) o dal ricorso al Voto Singolo Trasferibile (Irlanda e Malta), i paesi che restano fuori, a far compagnia all’Italia, sono: Spagna, Portogallo, Romania, Bulgaria e Croazia.

La luna in cielo e la coscienza in Senato

Gazebos
Me li ricordo bene quei cento parlamentari laburisti che una decina di anni fa scattarono in piedi uno ad uno a Westminster per negare il voto al loro popolarissimo giovane e veloce Mr Prime Minister che imponeva al Regno Unito di andare in guerra contro l’Iraq di Saddam Hussein. No, quella guerra non era stata decisa in nessun Congresso di partito. Non era stata preannunciata in nessuna campagna elettorale. Non era neppure (sic) soltanto un problema di coscienza, che, secondo la vice-segretaria del PD non si può chiamare in causa quando si riforma quel piccolo particolare che si chiama Costituzione. I parlamentari laburisti che, senza ombra di dubbio, ne sanno più di Serracchiani, Guerini e Moretti, sostenevano la loro coscienza con la scienza: non c’erano prove convincenti dell’esistenza di armi di distruzione di massa in Iraq. Sarebbero arrivate con gli americani di quel genio di Bush.
Non siamo inglesi. Qualcuno, però, potrebbe, studiando, cercare di diventarlo. Allora, impareremmo che la disciplina di partito può essere invocata su tutte le materie contenute nel programma elettorale con il quale quel partito (che, incidentalmente, non era ancora il “partito di Renzi”) ha chiesto e ottenuto voti, ha eletto parlamentari e ha avuto un mandato. Sì, il partito, e quindi il suo leader, ha avuto un mandato a tradurre quel programma, non le cose che si sono inventate i renziani e i loro costituzionalisti fiancheggiatori, in politiche pubbliche. Sì, chi dissente dalle politiche pubbliche che discendono dal programma del partito deve essere richiamato alla disciplina di partito, cum grano salis (espressione che non si ritrova né negli episodi di Peppa Pig, ma me ne faccio subito una ragione, né nella narrazione di Telemaco). No, la disciplina di partito non può esistere né quando si votano le persone, a maggior ragione se si tratta del Presidente della Repubblica, il quale non rappresenta un partito, nessun partito, ma l’unità nazionale (lo dice la Costituzione), o si tratta dei giudici costituzionali, nè quando si cambia la Costituzione.

Già, è durissima pensare che i parlamentari dissenzienti, tutti, come i loro colleghi sdraiatamente acconsenzienti, nominati da tre o quattro dirigenti di partito e da loro, in percentuali sicuramente diverse, rinominabili, siano in grado di farsi forti di una loro personale rappresentanza politica di elettori che condividano posizioni e preferenze che non hanno potuto esprimere nella campagna elettorale e che neppure possono andare a spiegare (e non soltanto perché sono francamente inspiegabili!) con la legge elettorale vigente e con quella prossima (s)ventura. Però, se la loro “scienza”, ovvero la conoscenza della Costituzione, è superiore a quella dei ministri di Renzi e dei suoi vice-segretari (in verità, non sembra volerci molto), allora bisognerà/ebbe tenerne conto. La scienza si accompagna, Serracchiani #stiaserena, alla coscienza poiché cambiare le regole del gioco costituzionale imponendo ai cittadini una chiara, netta e brutale riduzione di rappresentanza è effettivamente un problema, una scelta che riguarda proprio la coscienza. Soltanto parlamentari incoscienti e senza scienza, quindi preda dei costituzionalisti di Boschi e Renzi, e, loro sì, inclini a pensare in termini di indennità che solo il voto richiesto continuerà a garantire, possono votare un pasticcio che squilibrerà insieme all’Italicum (mai preso in considerazione il Tedescum? e l’ottimo Gallum di Astérix?)* tutta l’architettura costituzionale. Verranno ricompensati. Forse dovrei dire meglio: “indennizzati”, proprio perché non avranno dato buona prova di sé. No, davvero, non sono inglesi. Non corrono il rischio di diventarlo. Sono renziani.
*Peccato che quei “simulatori” del “Corriere della Sera”, 14 luglio, p. 8, non facciano riferimento a nessuno dei due sistemi elettorali che funzionano meglio in Europa.

Gianfranco Pasquino, probabilmente non è Professorone, sicuramente è Emerito di Scienza Politica, Università di Bologna. Per fortuna sua e di altri, non è mai stato preso in considerazione né per i Saggi né per i consessi dei costituzionalisti di riferimento.

Pubblicato il 16 luglio 2014 su Gazebos.it