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Temo la rielezione anche quando (com) porta un buon Presidente @formichenews

Il professore emerito di Scienza Politica scrive al neo eletto Capo dello Stato: nella rielezione c’è una torsione non tanto personalistica, ma di deresponsabilizzazione dei dirigenti dei partiti e dei parlamentari, e la convinzione da parte dei cittadini che in effetti ci può essere, c’è, ci sarà un uomo solo (al massimo due) al comando

Caro Presidente Mattarella,

congratulazioni. La ri-elezione è un meritato premio al tuo settennato che, però, sarà opportuno rivisitarlo anche per imparare non tanto dagli errori, ma dalle soluzioni date, non solo da te, ai problemi. Il problema, non esclusivamente personale, che mi sono subito posto è: ti ho frainteso quando, sembra quattordici volte, hai dichiarato la tua indisponibilità ad accettare la rielezione per ragioni personali, ma anche per, forse più importanti, valutazioni istituzionali? Sette anni, e quali anni!, sono lunghi, faticosi, anche dolorosi, estenuanti. Quattordici anni non violano la lettera della Costituzione, ma lo spirito con tutta probabilità sì. Quindi, apprezzo la tua assunzione di responsabilità/doveri in quella che i partiti in Parlamento hanno finalmente dimostrato essere in maniera lampante una crisi di sistema, ma una domanda mi preoccupa fortemente. La tua rielezione è una soluzione, o almeno un inizio, alla crisi di sistema oppure rischia di approfondirla, di farla esplodere con esiti imprevedibili e incontrollabili? Davvero il sistema politico italiano non ha alternative alla Presidenza Mattarella (e al capo del governo Draghi)? Siamo appesi a due sole personalità sia pure di grande prestigio di enorme autorevolezza, stimabilissimi e stimatissimi? In Italia non esistono altre personalità in grado di svolgere quei compiti istituzionali a cominciare dalla presidenza della Repubblica? Fra i nomi che sono circolati almeno cinque, a mio parere, hanno diversamente qualità che li rendono presidenziabili.

   Il futuro mi preoccupa, e sapendone molto meno di te, addirittura penso che tu sia ancora più preoccupato di me. La mal posta euforia dei dirigenti dei partiti, ad eccezione di Giorgia Meloni, giustamente critica, nasconde la loro provata e flagrante inadeguatezza. Hai risolto per loro un problema sistemico o la tua rielezione è soltanto un modo di posticipare, rimandare, prorogare? Quel problema, forse aggravato, non si ripresenterà fra sette anni –se non anche prima, ma tutto ti suggerirei meno considerare il tuo mandato rinnovato soltanto per il tempo che vorrai tu.

   Per usare il politichese, non mi appassiono al semipresidenzialismo, meno che mai a quello de facto, né al presidenzialismo, meno che mai quando viene tirato fuori dal cappello da chi ha avuto la grande occasione delle riforme costituzionali e l’ha clamorosamente sprecata. Però, mi chiedo nelle ore convulse che hanno preceduto la tua rielezione hai potuto riflettere quale torsione personalistica ne derivi? Non tanto, ma anche in termini di aspettative, “tocca al Presidente affrontare le sfide”, ma in termini di deresponsabilizzazione dei dirigenti dei partiti e dei parlamentari, nonché soprattutto di crescita fra gli elettori dell’opinione, sbagliata e densa di pericolose implicazioni, che in effetti ci può essere, c’è, ci sarà un uomo solo (al massimo due) al comando. So che dovrei concludere non soltanto formulando i migliori auguri per il settennato 2022-2029, che non sia seguito da un’altra rielezione …, ma dicendo più o meno ipocritamente, “spero di sbagliarmi”. Tuttavia, la mia speranza è poca cosa, molto piccolina rispetto ai miei timori.  

Pubblicato il 30 gennaio 2022 su formiche.net

Referendum del 2 giugno truccato? Una bufala #intervista @LaStampa

Intervista raccolta da Fabrizio Accatino

L’aspetto straordinario della Costituzione della Repubblica Italiana è che dopo 73 anni continua ad animare confronti e dibattiti, spesso aspri. Lungi dall’essere considerata (come dovrebbe) un testo consolidato e al di sopra delle parti, la troviamo spesso relativizzata, banalizzata, persino strattonata dai partiti nelle loro discussioni politiche. E dunque un’operazione meritevole che Utet abbia dato alle stampe una nuovaedizione del testo costituzionale, completa di una cronologia delle modifiche, curata da Gianfranco Pasquino.

Politologo torinese («e torinista, la prego lo scriva, è una discriminante etica»), professore emerito di scienza politica all’Università di Bologna, senatore dall’83 al’96 con Sinistra Indipendente e Progressisti, Pasquino ha anche redatto un’introduzione, in cui riassume logiche politiche e vicende storiche che hanno portato al testo attuale. «Sento dire spesso che la nostra Costituzione è la più bella del mondo ma non esiste alcun concorso di bellezza tra costituzioni. Il criterio con cui la si deve valutare è la facilità di comprensione, la capacità di disegnare i diritti e doveri dei cittadini e i compiti delle istituzioni. Da questo punto di vista la nostra è ottima, tra le migliori d’Europa».

Oggi i padri costituenti che l’hanno scritta sono considerati figure mitiche. Chi erano in realtà? «Rappresentanti di partito e professori di diritto, eletti dal popolo. Molti di loro avevano fatto la Resistenza. Erano il meglio di quello che la società italiana poteva esprimere».

In quelle assemblee si litigava?
«Dirado, ma è capitato. Accadde per l’art. 7, che inseriva i Patti Lateranensi tra Stato e Chiesa all’interno della Costituzione. Molti non volevano, ma furono paradossalmente i comunisti a dare il via libera e questo venne vissuto come un tradimento dei valori. Ci furono scontri anche sull’art. 1. La Democrazia Cristiana voleva che la Repubblica fosse fondata sul lavoro, il PCI sui lavoratori. La spuntarono i primi».

Art. 3: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli che limitano la libertà e l’uguaglianza dei cittadini». Chi è la Repubblica?
«Tutti noi. La Repubblica è quell’insieme che racchiude i cittadini e chi detiene il potere istituzionale».

Che ne pensa dei due recenti disegni di riforme costituzionali, quella di Renzi del 2016 (bocciata) e quella dei 5 Stelle del 2020 (approvata)?
«Quella di Renzi era brutta e confusa. Non aveva nemmeno colto qual era il problema, cioè la stabilità dei governi, che lui si preoccupava di garantire con una legge elettorale pasticciata, di cui alcune parti vennero persino bocciate dalla Corte Costituzionale. Quella dei 5 Stelle era molto più semplice, consisteva in un taglio lineare del numero dei parlamentari. La domanda però è: 600 parlamentari riusciranno a svolgere in maniera efficace quello che prima erano in 945 a fare? La vedo difficile».

Negli ultimi 73 anni in Italia si sono succeduti 67 governi. Che cosa non ha funzionato?
«Non funzionano i partiti, purtroppo. La prima fase della Repubblica italiana è stata segnata da alleanze al cui interno c’era sempre la Democrazia Cristiana, e lì erano le correnti interne alla DC a far cadere i governi. Oggi i grandi partiti sono scomparsi e quei pochi che ci sono stati si sono solo preoccupati di ottenere il consenso, non di come mantenerlo. E l’hanno perso».

 I decreti di Conte che limitavano la libertà di spostamento a causa del Covid erano anti-costituzionali, come alcuni lamentano?
«Certo che no. Al massimo extra-costituzionali, nel senso che non erano disciplinati dalla Costituzione, ma questo non significa in alcun modo che le andassero contro. Tra l’altro se le camere non li gradivano avrebbero avuto il potere di riunirsi e di modificarli, ma non mi pare sia mai successo».

Lei pensa che ci siano stati brogli nel referendum monarchia/repubblica del giugno del 1946?
 «E una favola, una fake news in anticipo sui tempi. La repubblica ha vinto, risicatamente ma ha vinto. Tutti gli storici che se ne sono occupati da vicino non hanno mai avuto dubbi al riguardo».

Indro Montanelli diceva che il bello dei politologi è che, quando rispondono, uno non capisce più cosa gli aveva domandato. Come ribatte?
«Che Montanelli era in grado di capire benissimo le risposte, anche quelle complicate. E che se davvero non le capiva, peggio per lui».

Pubblicato il 2 giugno 2021 su La Stampa

(ndr Gianfranco Pasquino e una sua collega dell’Università di Bologna furono i soli a votare contro l’assegnazione della laurea ad honorem che la Facoltà di Scienze Politiche volle conferire a Montanelli)

Dopo il referendum: legge elettorale e riforme costituzionali #live #29settembre ore 18

I Colloqui de “Il pensiero mazziniano”

Introduce Pietro Caruso

intervengono
Gianfranco Pasquino
Mario Di Napoli

Conclude Michele Finelli

 

martedì 29 settembre 2020 ore 18
L'evento sarà trasmesso in diretta facebook su

https://www.facebook.com/associazionemazziniana/

https://www.facebook.com/domusmazziniana/

 

 

 

La cultura politica oltre l’ostacolo PD

Se fossi solo interessato alle sorti del Partito Democratico, questo post non dovrebbe essere pubblicato, L’ho scritto perché vorrei una società davvero civile che esprima una politica decente entrambe conseguibili soltanto se si trasforma sostanzialmente quella che è rimasta, seppure con problemi gravissimi, l’unica organizzazione simile ad un partito. Ma, in quanto tale, è fallita. Ne propongo un superamento totale

Già, caro Gianni Cuperlo, come si costruisce “un’alternativa alla destra di oggi” (e di domani e dopodomani)? Alla destra italiana, quella famosa che sta dentro di noi e che non debelliamo mai perché, da un lato, preferiamo non parlarne oppure minimizzarne le implicazioni e conseguenze, dall’altro, perché fino ad oggi non è stata costruita una cultura politica liberale e democratica. Certo, nel secondo dopoguerra non c’è mai stato tempo peggiore di adesso per tentare di dare vita e linfa a una cultura politica che in Italia è sempre stata fortemente minoritaria. Tuttavia, nel male contemporaneo, è proprio spiegando perché i populisti e i sovranisti non sono mai parte della soluzione, ma gran parte del problema, che diventa possibile formulare una variante di cultura politica liberale e democratica. E, allora, sarò drastico, per una molteplicità di ragioni, il Partito Democratico, come è stato costruito, come ha funzionato, per come è diventato costituisce forse l’ostacolo più alto alla elaborazione di una cultura liberal-democratica. Non posso/possiamo aspettarci nessuna riflessione su quella cultura dalle rimanenze di Forza Italia e di tutti coloro che sono caduti nella trappola di una improponibile “rivoluzione liberale” condotta dal duopolista Berlusconi in palese irrisolvibile conflitto di interessi. Mi auguro che un giorno, qualcuno, non chi scrive, farà un dettagliato elenco dei molti opinionisti che hanno fatto credito, interessato, al liberalismo immaginario di Berlusconi. Se l’antifascismo da solo non è democrazia, l’anticomunismo da solo non è liberalismo.

A che punto siete voi Democratici con la elaborazione di una cultura politica decente? Quando è stata l’ultima volta che di questo avete discusso, dei principi culturali a fondamento del PD: in una Direzione e in un’Assemblea del partito, nel corso dell’approvazione delle riforme costituzionali, che, ma proprio non dovrei dirvelo, non possono non avere una superiore cultura politica di riferimento (soprattutto, per chi crede, sbagliando, che la Costituzione italiana sia un documento “catto-comunista”), durante la maldestra difesa di quelle riforme condotta all’insegna di mediocri varianti di motivazioni neo-liberali e decisioniste, di una bruciante sconfitta elettorale? Non ho sentito nessuna parola in proposito nell’ultima campagna per l’elezione del segretario del partito. Già, Zingaretti non è un intellettuale, ma un minimo di consulto con professoroni e professorini potrebbe servirgli oppure gli ideologi del Partito Democratico sono diventati il neo europarlamentare Carlo Calenda e il senatore di Bologna Pierferdinando Casini? Non dovrebbe qualcun preoccuparsi anche del silenzio degli Ulivisti, da Romano Prodi a Arturo Parisi, i quali, peraltro, hanno avallato tutte, ma proprio tutte le decisioni di Renzi le cui personali vette culturali sono state attinte da due parole chiarissime: rottamazione e disintermediazione.

Ho esplorato la letteratura disponibile riguardo le culture politiche democratiche e riformiste finendo per constatare che quei due termini proprio non hanno fatto la loro comparsa, mai, neppure nei più aspri, e sono stati tanti, momenti di confronto e scontro all’interno dei partiti di sinistra. Senza nessuna sorpresa ho anche notato –non scoperto poiché già da sempre sta nel mio bagaglio di professore di scienza politica– che, da Tocqueville e John Stuart Mill, ma si potrebbe tornare anche a Locke (chi erano costoro?), democrazia è mediazione, lasciando la disintermediazione alle pratiche autoritarie e totalitarie (ne ho ricevuto immediata conferma da George Orwell).

Allora, caro Gianni Cuperlo, dobbiamo davvero aspettare che il bambino di Andersen si metta a gridare che il re (il Partito Democratico) è nudo (privo di qualsiasi rifermento culturale) e, aggiungo subito, anche bruttino assai. Acquisita questa consapevolezza, peraltro, già molto diffusa, lasciamo che il PD imploda oppure che si disperda sul territorio confrontandosi senza rete e senza arroganza (per molti piddini questa richiesta non sarà facile da soddisfare) con tutte quelle organizzazioni sociali, professionali, culturali e persino politiche che ritengono che alla egemonia della destra è possibile contrapporre una cultura politica democratica (Bobbio avrebbe aggiunto “mite”) che rimette insieme le sparse membra del liberalismo dei diritti e delle istituzioni con il riconoscimento del potere del popolo, meglio, dei cittadini e dei loro doveri. Caro Cuperlo, sarò molto interessato ad una tua iniziativa in materia. Non posso neppure escludere a priori di parteciparvi.

Pubblicato il 1 luglio 2019 su PARADOXAforum

Oltre l’illusoria democrazia diretta. La via deliberativa aiuta a scegliere

Troppi degli aggettivi che accompagnano la democrazia sono fuori luogo, spesso la contraddicono, talvolta ne manipolano, più o meno consapevolmente, i suoi caratteri costitutivi. Più di sessant’anni fa, in un libro ancora oggi essenziale (Democrazia e definizioni, il Mulino 1957), Giovanni Sartori criticò aspramente le aggettivazioni improprie e fuorvianti delle quali, allora, la peggiore era “popolare”. Le democrazie popolari non erano né democrazie né popolari. Allo stesso modo, non è possibile sostenere né oggi né ieri che le democrazie illiberali sono democrazie. Laddove i diritti civili e politici dei cittadini non sono rispettati, dove la stampa non è libera, dove l’opposizione ha limitati spazi di azione, dove il sistema giudiziario viene controllato dall’esecutivo, mancano le condizioni minime della democrazia, quelle condizioni che il liberalismo ha messo a fondamento delle nascenti democrazie, della loro natura, del loro funzionamento e persistenza.

La contrapposizione classica contemporanea è fra democrazia rappresentativa e democrazia diretta poiché molti ritengono che le nuove tecnologie, i nuovi strumenti di comunicazione hanno finalmente reso possibile ai cittadini di esercitare direttamente il loro potere senza bisogno di rappresentanti, rendendoli non soltanto obsoleti e inutili, ma addirittura controproducenti, un ostacolo alla traduzione delle loro preferenze, all’espressione dei loro interessi. I “direttisti” (terminologia di Sartori) identificano e confondono la democrazia esclusivamente con i procedimenti decisionali. Per loro, la democrazia diretta è quella nella quale tutte le decisioni vengono prese dai cittadini.

Naturalmente, democrazia è molto altro. È soprattutto una “conversazione”, frequente e costante, nella quale i cittadini sono coinvolti cercando di persuadersi vicendevolmente per giungere ad un accordo poi seguito da decisioni che sono sempre rivedibili alla luce dei loro effetti, più o meno positivi, e di altre informazioni sulla tematica decisa. Peraltro, tutte le democrazie rappresentative attualmente esistenti contemplano la presenza e l’uso di strumenti di democrazia diretta: l’iniziativa legislativa popolare, varie forme di referendum, persino la revoca, a determinate condizioni, degli eletti. Dal referendum (strumento di rarissimo uso in Gran Bretagna) “Remain” o “Leave” dovremmo avere tutti (britannici compresi) imparato che la democrazia diretta necessita di fondarsi su una effettiva e ampia base di informazioni disponibili a tutti gli elettori. Non è mai una semplice crocetta né un rapido click, ma è l’esito di un procedimento nel quale le posizioni sono state argomentate in pubblico e l’opinione, per l’appunto, pubblica si è (in)formata a favore o contro una specifica scelta.

Grandi scelte possono essere sottoposte all’elettorato, con le cautele del caso, ma la maggior parte dei processi decisionali richiedono ancora che siano i rappresentanti a dare il loro apporto alla definizione dell’esito. Se la democrazia diretta non è tuttora in grado di sostituire la democrazia rappresentativa, tranne che nelle esternazioni di alcuni irriducibili semplificatori, è tuttavia possibile arricchire la democrazia rappresentativa migliorando la rappresentanza e integrandola con alcune modalità specifiche. Qualche volta i “direttisti” lamentano l’alto tasso di astensionismo in alcuni contesti e in alcune elezioni. Si trovano in compagnia con i “partecipazionisti” coloro che affermano che “democrazia” è partecipazione, non esclusivamente elettorale. Peraltro, esistono già e sono utilizzate modalità che rendono più semplice l’esercizio del diritto di voto: per esempio, il voto per posta, la possibilità di votare in anticipo rispetto al giorno ufficiale delle elezioni, la delega. Vi si potrebbe aggiungere il consentire a chiunque di votare dove lui/lei si trovano (gli strumenti telematici consentono di riconoscere la qualifica di elettore e di evitare brogli). Chi ritiene che quanto più elevata è la partecipazione elettorale tanto migliore sarebbe la democrazia può proporre non pochi perfezionamenti all’esercizio del diritto di voto per quel che attiene la scelta dei rappresentanti e, in qualche caso, dei governanti nelle cariche monocratiche: presidenti nelle repubbliche semi e presidenziali, governatori di Stati, sindaci, e così via.

Chi, invece, pensa che il vero problema delle democrazie contemporanee è il mancato coinvolgimento dei cittadini in una pluralità di decisioni che, spesso, se importanti, hanno un alto tasso di “tecnicità”, può rifarsi alla oramai abbondante letteratura e a molte pratiche di “democrazia deliberativa” (in italiano il testo più rilevante lo ha scritto Antonio Floridia, La democrazia deliberativa: teorie, processi e sistemi, il Mulino, 2012. L’antesignano di questo filone di studi, James S. Fishkin, ha sintetizzato lo stato attuale delle ricerche e riferito su diversi esiti concreti in Democracy: When the People Are Thinking. Revitalizing Our Politics Through Public Deliberation, Oxford University Press 2018).
La democrazia deliberativa non è affatto la stessa cosa di democrazia decidente, inventata da qualcuno durante il referendum del 2016 sulle riforme costituzionali.

Deliberare non significa decidere, ma preparare il processo decisionale attraverso il ricorso ad assemblee di cittadini ai quali sono fornite tutte le informazioni necessarie ad una migliore comprensione del problema, delle modalità con le quali può essere compreso e affrontato, dei costi e dei benefici, delle conseguenze. Ad esempio, il “se” e il “come” costruire la TAV avrebbero potuto fare oggetto di modalità di discussione, di valutazione e di eventuale approvazione seguendo lo schema della democrazia deliberativa. La democrazia, scrisse Bobbio (Il futuro della democrazia. Una difesa delle regole del gioco, Einaudi 1984), ha promesso di “educare la cittadinanza”. È utile e doveroso partecipare anche per imparare. A loro volta, i partecipanti più e meglio informati contribuiscono all’affermazione e al perfezionamento della democrazia, del potere del popolo. A determinate condizioni, soprattutto l’accuratezza nella costruzione dell’esperimento, la democrazia deliberativa indica che, sì, i cittadini diventeranno meglio informati e il conseguente processo decisionale sarà più “rappresentativo” delle loro opinioni, più condiviso, più efficace. Al momento, questa è la strada per migliorare la democrazia rappresentativa.

Pubblicato il 14 aprile 2019

Gli irriducibili del referendum perduto

A quasi due anni dal referendum costituzionale, gli sconfitti non riescono a farsene una ragione. Anzi, con un implausibile ricorso al post hoc ergo propter hoc attribuiscono la responsabilità di tutti gli esiti negativi, compresa la formazione del governo Cinque Stelle-Lega, a chi ha votato “no”. Non sembrano neppure sfiorati dal dubbio che quelle riforme fossero malfatte e controproducenti, che la campagna plebiscitaria dell’autore di riforme male fatte, tecnicamente, quindi, “malfattore”, abbia provocato reazioni di rigetto, che le argomentazioni a sostegno siano state mediocri e faziose.

Ho ascoltato più volte qualche professore per il “sì” affermare senza nessun ripensamento che la riforma del Senato avrebbe posto fine al bicameralismo “perfetto” (che, se fosse tale, sarebbe davvero da preservare). Il governo giallo-verde deriverebbe dall’esito referendario, anche se non facilmente spiegabile è come mai le Cinque Stelle abbiano accresciuto i loro voti fra il 2013 e il 2018 e la Lega li abbia addirittura quadruplicati. La loro campagna elettorale si è svolta principalmente su temi costituzionali, su quella vittoria, oppure, rispettivamente, su reddito di cittadinanza e blocco dell’immigrazione? Nessuno fra gli sconfitti che si chieda dove sono finiti quel 40 per cento di elettori del PD nelle europee del maggio 2014 e poi del “sì” che il segretario Renzi, mai smentito dai suoi collaboratori, al contrario, applaudito e osannato, rivendicava come suoi facendo un paragone azzardato con lo scarno 26 per cento per Macron nel primo turno delle elezioni presidenziali francesi? Comunque, dimenticando le sconfitte nelle elezioni amministrative del 2015, dove sono finiti e a chi quei voti fuggiti che hanno lasciato il PD al 18 per cento circa? Non sono certamente stati conquistati da Liberi e Uguali, il cui esito percentuale (e politico) è stato assolutamente deludente. La campagna elettorale del PD nel 2018 è stata impostata e condotta in maniera brillante? L’attacco a due punte, Renzi e Gentiloni, ha valorizzato le riforme e la figura del Presidente del Consiglio, già allora più popolare del due volte segretario del partito? È mai passata (se esisteva) l’idea che il PD s preoccupasse delle diseguaglianze, fosse il partito che avrebbe operato per ridurre quelle esistenti e per creare eguaglianze di opportunità? E tutto questo c’entrava qualcosa con la sconfitta referendaria, era impedito da quella sconfitta oppure reso più impellente? Quelle cattive riforme avrebbero cambiato in meglio la Costituzione italiana, che non è necessario considerare la più bella del mondo (non esiste concorso di bellezza per le Costituzioni altrimenti assisteremmo alla paradossale vittoria della Costituzione che non c’è: quella inglese) per valutarne positivamente le qualità? Mancano al loro dovere di difesa della Costituzione gli esponenti del no che non scendono in piazza contro le elucubrazioni di Davide Casaleggio sulla futura probabile inutilità del Parlamento? Oppure il confronto fra riforme fatte e proposte futuribili è improponibile, oltre che un processo alle (non) intenzioni?

Potrei concluderne che la pochezza argomentativa degli irriducibili giapponesi del sì è rattristante. Potrei anche aggiungere che sono fatti loro, parte della spiegazione di una sconfitta sonora che non hanno mai saputo spiegarsi e che continuano a non capire. Dirò, invece, che gli sconfitti del sì, chiusi nella loro torre dalla quale vedono solo le responsabilità altrui, privano il paese e i loro elettori di un’opposizione sulle cose, in grado di contrastare un governo al quale diedero prematuramente via libera, e di controproporre. Chi non impara dalla storia è condannato a riviverla (ma alcuni fra noi non si meritano questa punizione).

Pubblicato il 18 agosto 2018

Renzi non è Macron. Ecco perché

Il leader del Pd non guarda oltre il suo ombelico e la sua miopia non fa bene al Paese. Lo scrive il politologo Pasquino per Formiche.net

Non mi pare davvero una grande pensata quella di Renzi che lancia un governo costituente come alternativa a un governo che, anche a causa della sua ostinazione, non riesce a nascere. Ha dimostrato di non avere ancora capito che le sue riforme costituzionali bocciate dal referendum erano pasticciate e pessime. Non avrebbero migliorato il funzionamento del sistema politico. Non contenevano nulla che potenziasse davvero il governo. Continua a confondere il ballottaggio del suo Italicum, fra due partiti o, con estensione indebita, fra due coalizioni, per eleggere il parlamento, con il ballottaggio francese, fra due candidati, per eleggere il Presidente della Repubblica. No, Renzi non è affatto Macron né per competenza né per esperienza né per coraggio.

La proposta di governo costituente, dal quale, però, almeno Boschi e Rosato nonché Renzi stesso dovranno stare molto lontani, è soltanto un modo, da un lato, di tornare in pista venendo fuori dall’angolo nel quale, spinto dagli elettori, si è rintanato; dall’altro, è un escamotage per guadagnare tempo per sfiancare Di Maio e per andare verso un Nazareno-bis, certamente non, dal momento che né lui né i suoi parlamentari nominati (ai senatori ha ricordato che li controlla) hanno un’idea, per ricostruire il Partito Democratico dall’opposizione, un partito che non è neppure più l'”amalgama mal riuscito” di cui disse, sprezzante, D’Alema. Semplicemente, non è un amalgama.

Come, poi, si possa passare un paio d’anni a disegnare riforme costituzionali con un governo apposito senza affrontare quantomeno i tre/quattro problemi più importanti e urgenti dell’Italia: avere un ruolo in Europa, rilanciare crescita e occupazione, affrontare l’immigrazione, riformare le riforme mal fatte (mercato del lavoro, scuola, amministrazione pubblica) è un mistero inglorioso. Che Renzi voglia bloccare il PD prima di farlo scivolare verso il PdR? Lo sappiamo tutti: non ci sono più i partiti di una volta e, neppure, naturalmente, i leader di una volta. Quei partiti e quei leader sapevano ragionare, progettare, agire con responsabilità nazionale, verso il paese. I contemporanei, soprattutto Renzi, guardano con occhi miopi il loro ombelico, che è bruttino assai.

Pubblicato il 30 aprile 2018

Saltare giù dal carro dell’opposizione

Il procedimento, già sperimentato in altre, non altrettanto eclatanti, situazioni, è relativamente semplice. Prima si costruisce l’avversario, anzi, in, più o meno consapevole, omaggio al detto “molti nemici molto onore”, se ne mettono tanti, senza nessuna distinzione, di avversari in una grande sacca. Non ci si deve curare in nessun modo della loro provenienza, di quello che hanno effettivamente detto ed eventualmente scritto, delle loro differenze passate, della loro cultura, dei loro obiettivi. Trovato (o, meglio, costruito) un minimo comun denominatore, ecco che si può stilare, come ha fatto Paolo Mieli una decina di giorni fa sul “Corriere della Sera”[14 marzo 2018 ndr], ma come hanno prontamente “copiato” altri giornalisti, una lista di intellettuali che agilissimamente sarebbero/sono pronti a saltare sul carro del vincitore, tale essendo reputato il Movimento Cinque Stelle. Se poi, c’è anche un caso esemplare, voilà, gli si dedica un profilo in prima pagina: Aldo Grasso, Stare all’opposizione? Per il Prof è eversivo, “Corriere della Sera”, 11 marzo 2018, con tanto di foto mia e di titoli accademici. Il messaggio non proprio subliminale è: “Vedete dove si può finire oppure, peggio, come ha fatto mai questo tale a ottenere tutti questi ‘onori’ e poi scrivere che in una democrazia parlamentare chi (il due volte ex-segretario del Partito Democratico) si chiama fuori dal sistema compie un atto eversivo?” Naturalmente, “eversione” non è stare all’opposizione, ma stravolgere le regole della democrazia parlamentare negandosi a qualsiasi confronto. Eversione è anche imporre ai propri parlamentari nominati un comportamento oppositivo in spregio al dettato costituzionale dell’art. 67: rappresentare la nazione “senza vincolo di mandato”.

A seguire, su quel carro mi ci mise prontamente, senza nessun controllo del fatto, anche Mieli. Naturalmente, né le motivazioni né le argomentazioni vengono minimamente esplorate e offerte ai lettori. Che poi, da un lato, il Movimento Cinque Stelle abbia avuto i voti di un terzo degli elettori italiani è un elemento raramente menzionato. Che, dall’altro, la linea di un partito non possa e non debba essere dettata da un segretario che ha pesantemente perso le elezioni è un elemento considerato irrilevante. Che, inoltre, esista, seppure sotterraneo, un dissenso su quella linea protervamente oppositiva dentro il PD, lo si può ignorare esclusivamente a scapito di una corretta informazione. Che, infine, nessuno si preoccupi di delineare le alternative per quel partito, ma, in special modo, per dare un governo al paese, è davvero preoccupante.

La mattina in cui i dirigenti del PD salgono al Colle per le consultazioni con il Presidente Mattarella, Mieli giunge a occuparsi de “Le baruffe senza fine in casa PD” [Corriere della Sera 4 aprile 2018 ndr]. Troppo poco, forse troppo tardi. Forse è il caso di interrogarsi se il problema sono le baruffe oppure è l’oggetto (forse anche al plurale) delle baruffe? Ovvero che si tratti proprio di quello che alcuni dei presunti saltatori avevano concretamente posto, vale a dire quale politica deve fare un partito che, pur avendo chiaramente e nettamente perso le elezioni, dispone di circa il 20 per cento dei seggi in entrambe le camere? Di un partito che non può dire “fate voi che avete vinto. Noi andiamo all’opposizione (di quale governo non si sa, quindi, “a prescindere” avrebbe detto il principe de Curtis); sulla base di quale analisi del voto, delle preferenze degli elettori che lo hanno ostinatamente votato, delle motivazioni con le quali due milioni e mezzo di elettori sono andati verso altre scelte, in quantità maggioritaria verso le Cinque Stelle; con quali potenziali proposte, ovviamente bisognerebbe anche conoscere le attualmente inesistenti proposte del governo che non c’è; e ci andiamo soprattutto per rinnovare il partito. Poi magari rifletteremo se stare all’opposizione preconcetta sia (stata) la premessa del rinnovamento di qualsiasi partito.

Comunque, quello che Mieli non ci dice è proprio quello che alcuni degli intellettuali più o meno elastici saltatori hanno cercato di discutere, meglio di imporre alla discussione di quel partito, non solo dei suoi dirigenti, tutti saldamente tornati su comode poltrone grazie ad una legge elettorale che il relatore Rosato (inopinatamente già promosso a vice-presidente della Camera) continua a difendere e per cambiare la quale alcuni addirittura vorrebbero un governo di (mono)scopo. Ci sono baruffe e baruffe, ma se, ipotesi del terzo tipo, la baruffa riguardasse la formazione del prossimo governo che, sicuramente, a Paolo Mieli fautore della governabilità (non, come scrive maliziosamente, del coinvolgimento “in qualche combinazione governativa” che, incidentalmente, è proprio quello che succede nelle democrazie parlamentari) che, secondo lui e molti altri collaboratori del “Corriere”, sarebbe miracolosamente derivata dalle riforme costituzionali renziane, non sarebbe adesso giusto riconoscere che almeno alcuni degli intellettuali hanno posto il problema per tempo e non sarebbe opportuno chiedere al PD che il dibattito interno, i cui effetti riguardano molti milioni di elettori, affronti in maniera democratica senza indugi e senza sotterfugi l’argomento?

Pubblicato il 5 aprile 2018 su PARADOXAforum

Politologia e politica del renzismo

Sostiene il noto politologo Lorenzo Guerini, membro della segreteria del Partito Democratico: “il ruolo che ci hanno assegnato gli elettori è quello dell’opposizione”. Attendiamo un rapido endorsement di Romano Prodi. Con qualche sorpresa, rileviamo che, a sua insaputa, l’on. Guerini, debitamente rieletto grazie alla generosa legge Rosato, resuscita il vincolo di mandato, quello, curiosamente, che vorrebbero i pentastellati. Ovvero, addirittura sa, dopo un’intensa campagna elettorale di ascolto sul territorio, che gli elettori lo votavano poiché volevano mandarlo all’opposizione. Sì, visti gli esiti elettorali, è probabilissimo che l’ottanta per cento degli elettori italiani abbia voluto proprio questo, ma anche gli elettori del Partito Democratico lo hanno votato per mandarlo (e tenerlo) all’opposizione? Non ci posso credere, però, capisco che con queste rudimentali conoscenze il Guerini fosse entusiasta delle riforme costituzionali bocciate solo dal 60 per cento degli elettori. E se quegli elettori che, certo tormentatamente, hanno alla fine deciso di votare PD volessero, invece, cercare di mantenerlo in una coalizione di governo, persino farne il partito che desse le carte del prossimo governo? No, il Guerini ne sa di più ed esclude che questo fosse l’obiettivo degli elettori del PD. Tuttavia, un problema lui e il suo segretario dimissionario autosospeso potenziale sciatore dovrebbero porselo: e se quegli elettori del PD volessero, comunque, essere rappresentati?

Andarsene sull’Aventino, ahi, errore: sto sondando le conoscenze storiche di Guerini, Renzi e chi sa quant’altri, sarebbe una buona accettabile modalità di rappresentanza politica da offrire, mantenere, garantire per quei 6 milioni e 135 mila elettori ed elettrici che, nonostante tutto, hanno tentato disperatamente di salvare il PD? Eh, no, afferma il Guerini, noi quella rappresentanza gliela daremo stando all’opposizione. Starete all’opposizione anche, si chiedono gli elettori, se si verificasse una situazione nella quale i vostri voti risultassero non solo necessari, ma decisivi per dare vita a un governo, per renderlo operativo e credibile sulla scena e nelle istituzioni europee (quei voti che, fra l’altro, lo scrivo per il Guerini, non per il Renzi che toglieva la bandiera dell’Unione prima di una sua conferenza stampa, sono l’ultimo nucleo forte di europeisti)? Lascerete così campo libero agli euroscettici, se non, addirittura, ai sovranisti Meloni-Salvini? Qui, con grande perplessità del Guerini (e di Renzi, Lotti, Boschi, Richetti e compagnia forse non più tanto danzante), fa la sua ricomparsa il dettato costituzionale relativo alla rappresentanza della Nazione “senza vincolo di mandato”.

Esiste, sicuramente, un vincolo di lealtà e persino di disciplina nei confronti del partito che candida e fa eleggere per il quale, in primo luogo, hanno votato gli elettori che, ancora più sicuramente, non gradiscono i trasformisti, e hanno ragione. Però, esistono anche una teoria e una best practice della rappresentanza che si traduce nella acuta consapevolezza che bisogna mettersi a disposizione per servire i superiori interessi della nazione. Hai visto mai che fra questi interessi ci sia un governo capace di durare e di agire, operativo (che è il termine che ho già variamente usato), che tale non potrebbe né esistere né produrre effetti senza una convinta partecipazione dei parlamentari del PD? Questa si chiama rappresentanza politica più responsabilità. No, la sinistra, che non è affatto la stessa cosa del PD, non si ricostruisce andando a collocarsi sterilmente all’opposizione e “gufando” (ho già sentito questo verbo, ma non ricordo più chi lo ha utilizzato spesso, senza successo). Si ricostruisce sui punti programmatici che saprà imporre a una coalizione di governo nata con il suo appoggio, efficace grazie al suo sostegno, riformista grazie alle sue proposte.

I dirigenti di un Partito Democratico (vorrei che la “p” e la “d” potessero essere al tempo stesso maiuscole e minuscole) consentirebbero ai loro iscritti di scegliere democraticamente la strada che desiderano che i loro parlamentari imbocchino e percorrano, magari facendo loro (agli iscritti) ascoltare qualche voce diversa dai renziani che sono tutti parte del problema e che non hanno finora saputo elaborare neanche un brandello di soluzione. Anche per questo hanno perso più di quattro milioni di voti.

Pubblicato 8 marzo 2018 su PARDOXAforum

“Avanti”, ma anche Vade retro sinistra

Di tanto in tanto, gli estimatori di Matteo Renzi discettano sul modello di partito che l’ex-segretario ritornato segretario sull’ondina di un consenso più ristretto starebbe costruendo. Per un po’ di tempo, questi estimatori, quando i numeri sembravano promettenti, si erano appassionati all’idea del Partito della Nazione. Suonava, il termine, molto potente. Era quasi un programma, non è mai stato chiarito di cosa, forse di un’ipertrofica aggregazione al centro, con tutti gli altri contro “la nazione”. Poi, di tanto in tanto, ma senza troppa convinzione, il Partito di Renzi avrebbe rappresentato il nuovo Ulivo, ma, in tutta sincerità né le premesse né le azioni di Renzi giustificavano una qualsiasi costruzione di un qualsiasi Ulivo che avesse qualche riferimento al vecchio. L’assenza più evidente nella discussione, peraltro mai centrale, del nuovo partito (sì, dell’ultimo partito ancora esistente in Italia), era relativa proprio alla motivazione con la quale i DS e i Popolari della Margherita avevano troppo rapidamente proceduto a quella che fu criticata come “fusione fredda” e che ebbe come esito il Partito Democratico. Che dovesse contenere il meglio delle culture riformiste del paese fu detto troppe volte, ma, al di là del non coinvolgimento dei socialisti che, in fondo, non poca cultura riformista avevano formulato, avuto e espresso, le altre culture politiche erano già declinate, se non esauste al momento della fusione. Per questa assenza di fondo di qualsiasi cultura politica divenne fin troppo facile flirtare con definizioni di partiti immaginari, mai sostenuti da idee, quindi sempre mobili quanto serviva, per esempio, ad attrarre il riformista Verdini, sul continuum destra/sinistra.

La prima segreteria di Renzi non diede alcuno spazio a riflessioni di cultura politica. La grande occasione delle riforme costituzionali non fu neppure presa in considerazione per andare ad una esplicitazione della cultura, non solo costituzionale, che le sottintendeva, ma per aggiungervi anche quei principi e quei valori che esprimono e danno corpo ad una cultura più specificamente politica. Respinta la richiesta delle minoranze per una conferenza programmatica che precedesse le votazioni per il segretario tenutesi alla fine d’aprile 2017, il discorso sembra definitivamente chiuso. Il Partito Democratico è un partito vote and office-seeking, che cerca voti e cariche. Punto e basta. Qualche volta, però, un libro potrebbe essere il luogo dove riflettere sulla cultura di un partito, quello che si guida e quello che si vorrebbe. Invece, no. Non lo fece Veltroni nella sua cavalcata del 2007 (La nuova stagione. Contro tutti i conservatorismi, Rizzoli 2007) che delineò non un partito nuovo, ma un programma di governo, se non del tutto alternativo a quello del già traballante Prodi, sicuramente competitivo. Non lo fa affatto il libro di Renzi che il suo autore presenta come segue: “Questo libro non è solo un diario personale, una riflessione sulla sinistra o il programma del governo che verrà. Più di tutto, è la condivisione di idee, emozioni e speranze che spesso si sono perse nel racconto della comunicazione quotidiana. I risultati ottenuti e gli errori commessi. Il viaggio tra passato e futuro di un’Italia che non si ferma. Che vuole andare avanti.” Niente, dunque, che possa riguardare la cultura politica del PD di Renzi il quale si esprime semmai soltanto in critiche, talvolta offensive, a tutti coloro che si muovono nella sinistra e dintorni.

Per fortuna, ma certo non per virtù, i commentatori politici renziani, politologi (che sarebbe un’aggravante), e no (che è molto più di un’aggravante!), dalle Alpi alla Sicilia, l’hanno trovata loro la cultura politica del partito renziano. Certo, bisogna aguzzare la vista, cogliere anche gli indizi più labili, tuffarsi in un linguaggio che proprio non facilita la scoperta di elementi culturali appena malamente abbozzati. Soltanto ai, “diciamo”, meglio attrezzati apparirà allora che Renzi sta costruendo un partito di “sinistra liberale”. Gli opposti essendo sicuramente due: un partito di destra liberale (che non può certamente essere quello di Berlusconi in conflitto d’interessi permanente) e un partito di sinistra illiberale (quello del passato, di D’Alema e Bersani?, quello del futuro, nel campo di Pisapia?) Naturalmente, il paese attende di essere istruito sia sul sostantivo “sinistra”, secondo Renzi e non solo secondo Michele Salvati, che è il non-politologo che auspica instancabilmente la vittoria definitiva di Renzi, sia sull’aggettivo liberale per il quale, però, non ritengo che sia Salvati lo studioso meglio in grado di illuminarci. Peccato che nel libro di Renzi e nelle quarantasette anticipazioni non si trovi nulla né relativo alla sinistra né relativo al liberalismo.

Pubblicato il 15 luglio 2017