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Unità nazionale? Impossibile con questi politici senza storia #Intervista @ildubbionews
Una volta c’era Pertini. Oggi gli italiani non considerano migliori di loro le persone che li governano
Intervista raccolta da Giulia Merlo
“Gli italiani non sono popolo da sentimento d’unità nazionale”, taglia corto il politologo Gianfranco Pasquino. Professore ed editorialista, ha appena pubblicato per Utet “Minima politica. Sei lezioni di democrazia” in cui ripercorre la storia politica italiana e analizza il ruolo delle istituzioni.
Siamo uniti solo durante le partite della nazionale di calcio, quindi?
E quando vinceva la Ferrari, ma ormai è passato qualche anno. Battute a parte, gli italiani hanno sempre avuto scarsa percezione dell’unità nazionale, se questa viene intesa come uno stare tutti sulla stessa barca remando insieme con qualcuno che tiene il timone. Tra i politici, in particolare, vedo la tendenza a non volersi assumere tutti le stesse responsabilità. E allora il messaggio ai cittadini è quello di un “vorrei ma non posso” perché c’è sempre qualche buona ragione per dissentire.
Sarebbe auspicabile, invece, una sorta di governo di unità nazionale per far fronte all’emergenza di questi giorni?
Forse la sorprendo, ma le rispondo di no. Io credo che nel Paese debba esserci una condivisione nelle scelte, ma esiste un governo e anche una maggioranza. A partire dal premier Conte, è l’esecutivo che deve assumersi la responsabilità delle decisioni. Con l’opposizione si può discutere, ma bisogna che sia chiaro che, alla fine, deve essere il governo a decidere. E’ importante che si mantenga sempre la chiarezza dei ruoli.
Nella storia politica italiana, ci sono però stati politici capaci di instillare questo senso di unità. Prenda il presidente della Repubblica, Sandro Pertini…
Le caratteristiche di un leader emergono dalla sua storia, professionale ma soprattutto politica. Pertini è stato un grande politico, con una storia personale che è stata fondamentale per cementare il suo rapporto di fiducia con gli italiani. In questo senso parlo di superiorità della classe politica italiana della prima repubblica: quegli uomini e quelle donne avevano alle spalle una storia di resistenza e antifascismo, alcuni di loro erano stati eletti alla Costituente. I politici di oggi, invece, non hanno alcuna storia professionale o politica di rilevo, per questo gli italiani non li percepiscono come migliori di loro. Alcuni, c’è da dirlo, si mettono volontariamente sullo stesso piano della parte peggiore del Paese.
In questi giorni di emergenza, le voci più ascoltate sul fronte politico sembrano essere quelle dei sindaci. Perché?
Perché il politico più noto ai cittadini è regolarmente il loro sindaco, che conoscono di persona e hanno eletto con un sistema elettorale che personalizza la competizione. Inoltre, in Italia ci sono moltissimi sindaci capaci, che tengono un rapporto molto stretto coi loro cittadini, con le parti sociali ed economiche. Non mi stupisce che in questa fase di crisi emergano come punto di riferimento, anzi sono lieto per loro. Lo stesso fenomeno mi sembra emerga anche per il presidente dell’Emilia Romagna, Stefano Bonaccini, che viene da una vittoria epocale ed è percepito come riferimento della maggioranza emiliana.
Il Parlamento e i suoi componenti, invece, sembrano non fare lo stesso…
I rappresentanti parlamentari sono completamente scomparsi e questo è deprecabile. Ma la ragione è semplice: molti di loro sono stati paracadutati nei territori di candidatura, quindi non sono un punto di riferimento e non hanno alcun rapporto con chi li ha eletti.
Il governo, invece, riesce a essere più efficace?
Mi sembra che il premier Conte abbia capito di doversi assumere maggiori responsabilità. Del resto, è evidente che a lui piaccia moltissimo farsi ascoltare, argomentare le sue scelte e adora ripetere che è lui a possedere tutte le riflessioni adeguate per gestire la crisi.
Questa crisi insegnerà qualcosa agli italiani, dal punto di vista politico?
L’impressione è che i cittadini ora ascoltino con enorme attenzione i tecnici: il direttore della protezione civile, i medici dell’ospedale Sacco o dello Spallanzani per esempio. Mi sembra che si stia rafforzando l’idea che esistano tematiche importanti per la vita delle persone e che a gestirle debbano essere persone con competenze specifiche. Finita questa emergenza, il Paese si orienterà su donne e uomini che governino sulla base delle loro convinzioni ma soprattutto delle loro competenze. E questo è un dato positivo.
Nessuna tendenza verso il cosiddetto “uomo forte”?
Direi di no. Anzi, credo che dopo questa crisi passerà del tempo prima che la politica riacquisisca un ruolo rilevante. Se si potrà trarre una lezione da questa emergenza sanitaria, sarà che nessuno risolve i problemi da solo ma servono la responsabilità dei politici e la competenza dei tecnici.
Se l’unità nazionale esiste poco, anche quella europea sembra inesistente. E’ anche questa una lezione da imparare?
L’idea che l’Unione Europea sia responsabile di tutto ciò che va male è assurda. L’Ue siamo noi e i nostri governi e l’istituzione fa quello che può, ma sono i singoli stati ad essere riluttanti all’idea di condividere le decisioni. La presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen ha il difficile compito di fare sintesi tra esecutivi con posizioni estremamente diverse, molti dei quali sono europeisti a Bruxelles ma nel loro paese scaricano le colpe sull’Unione.
Insomma, l’Ue non poteva comportarsi in modo diverso, in questa crisi?
L’Ue ha reagito con una certa circospezione. Poteva essere più incisiva ma le serviva che gli Stati condividessero la responsabilità, invece tutti sono rimasti alla finestra in attesa. Anche l’Italia si è comportata in modo attendista, sperando che l’emergenza coronavirus non fosse così grave. Ora l’Ue sta facendo il possibile, ma sono i capi dei governi a doversi mettere a disposizione in modo totale.
Pubblicato il 12 marzo 2020 su Il Dubbio
Le promesse e le scommesse @Mondoperaio #Craxi
Per Bettino Craxi
Giunto improvvisamente a guidare un partito chiaramente sconfitto nelle elezioni del 1976 (precipitato al punto più basso del suo consenso elettorale nel dopoguerra e diviso in correnti “ideologiche” che si spartivano malamente le poche risorse disponibili), Bettino Craxi si trovò ad affrontare la sfida delle sfide: sopravvivere e crescere in un contesto bipolarizzato dominato da due rivali agguerriti e che sembravano in ottima salute politica. Le due “chiese” – come il sociologo Francesco Alberoni, allora socialista, bollò la Democrazia cristiana e il Partito comunista), erano in condizione di schiacciare un partito i cui dirigenti e militanti avevano forse perso la fede: vale a dire che non riuscivano ad attrarre iscritti, simpatizzanti e elettori in chiave fideistica, ovvero sulla fiducia in un domani migliore. Soprattutto, non erano riusciti a formulare una posizione e un’offerta politica nettamente distinta da quella comunista e non subalterna a quella democristiana (e viceversa). Dove portassero e dove potessero effettivamente arrivare gli “equilibri più avanzati” indicati dal segretario sconfitto Francesco De Martino non era possibile dire: ma certamente quegli equilibri non erano risultati una prospettiva stimolante e realistica agli elettori.
Mondoperaio s’interrogava con una molteplicità di articoli anche pregevoli su come riuscire a capire e a imitare l’esperienza di Mitterrand, il cui Parti socialiste mieteva successi elettorali ed era addirittura sulla strada che lo avrebbe condotto all’Eliseo nel 1981. In verità molto di quello che scrivemmo allora è rimasto lì a testimoniare del pensare di ciascuno dei collaboratori, non della loro/nostra capacità complessiva di influenzare la politica della leadership del Psi. In maniera certamente non sistematica, nello spazio di un paio d’anni il segretario Craxi sembrò promettere tre importanti cambiamenti: nel partito, un nuovo Psi; nella strategia politica, l’alternativa socialista; nel sistema istituzionale, la “Grande Riforma”. Queste tre promesse potevano e dovevano essere perseguite congiuntamente. Stavano insieme: il conseguimento di una promessa avrebbe avuto effetti positivi sulla possibilità di conseguire anche le altre; e di converso, nella sequenza, un Psi debole non sarebbe arrivato da nessuna parte.
Per quanto riguarda il partito, in pochi anni, Craxi sgominò tutte le opposizioni interne, emarginò i concorrenti, conquistò una posizione dominante. Il Partito socialista divenne il partito di Craxi, e in quanto tale fu apprezzato e attaccato (tema che merita approfondimenti qui impossibili). Credo di potere legittimamente sostenere che la sua rielezione per acclamazione (voluta o no, ma non ricusata) alla segreteria del Psi nel Congresso di Verona (maggio 1984) costituisca il punto di non ritorno. Naturalmente, non mancarono le critiche sia alla procedura sia ad alcune conseguenze. In un durissimo commento sulla Stampa Norberto Bobbio stigmatizzò l’acclamazione come un esempio criticabilissimo di “democrazia dell’applauso”. Craxi replicò evocando “filosofi che hanno perso il senno”, ma repliche altrettanto sferzanti furono da lui indirizzate a critiche simili formulate dal sociologo Francesco Alberoni e dallo storico del pensiero politico Luigi Firpo.
Per acquisire ancora maggiore controllo sul partito, Craxi aprì le porte dell’Assemblea nazionale ad una pluralità di figure di varia provenienza, praticamente nessuna con precedenti esperienze di impegno politico-partitico o dotate di conoscenze politiche. Memorabilmente, Rino Formica parlò di “nani e ballerine”, espressione che è rimasta nel linguaggio politico. Senza entrare nei particolari, è facile constatare che la promessa di Craxi di costruire un partito socialista effettivamente nuovo non fu da lui mantenuta. Sicuramente una novità rilevantissima fu data dalla sua leadership e dalle sue modalità “decisioniste” di esercizio del potere politico e di governo. In quanto a distribuzione del potere nel partito, Craxi si accontentò del sostegno che gli portavano coloro che controllavano il potere nelle loro rispettive aree di influenza: La Ganga in Piemonte; De Michelis in Veneto; Lagorio in Toscana; Di Donato in Campania; Marzo (e per qualche tempo Signorile) in Puglia; Andò in Sicilia.
Negli anni ottanta il Psi di Craxi fu una struttura che, al vertice e nella politica nazionale, dipendeva dalla personalità del suo leader
Il Psi divenne un partito dalla doppia immagine: quella nazionale espressa da Craxi e quelle locali dei rispettivi baroni regionali. Chi aveva suggerito di seguire, almeno in parte, il percorso che aveva portato al Parti socialiste di Mitterrand, stabilendo rapporti flessibili ma costanti con una varietà di gruppi e associazioni di tipo riformista attive nella società italiana, fu inevitabilmente deluso. Quello che poteva essere un modo di drenare sostegno ed energie dalle associazioni vicine al Pci, e quindi di riequilibrare i rapporti di forza, non fu mai tentato con convinzione. Né Craxi né gli altri dirigenti socialisti vollero (o seppero) apprendere un’altra grande lezione che aveva portato all’esito felice del Parti socialiste: suscitare luoghi di aggregazione e di confronti sotto forma di club, di circoli, di sedi. Il punto più alto di elaborazione culturale (non seguito dalla declinazione di politiche sociali adeguate e coerenti) fu opera, non di una sintesi di quanto fosse stato pensato e prodotto in una molteplicità di luoghi, ma della riflessione che Claudio Martelli affidò al suo intervento sui meriti e sui bisogni alla conferenza programmatica di Rimini del 1982.
In sostanza e nella pratica, negli anni ottanta il Psi di Craxi fu una struttura che, al vertice e nella politica nazionale, dipendeva dalla personalità del suo leader: e che nelle aree locali di una qualche importanza, ad eccezione della Lombardia, era nelle mani di uno specifico dirigente, con suo personale radicamento, il quale, fatto salvo il “dovuto” omaggio al leader, perseguiva anche sue politiche personali. Noterò en passant che il Psi di Craxi non fu comunque mai un partito personalista del tipo di quelli che abbiamo visto in Italia nell’ultimo decennio: ma non riuscì neppure a diventare un partito effettivamente rinnovato, coeso e effervescente.
Soltanto un partito profondamente rinnovato avrebbe potuto perseguire con qualche ragionevole aspettativa di successo quella che allora su Mondoperaio molti, compreso chi scrive, definivano “alternativa”. L’uso di questo termine offrì a molti raffinati interpreti il destro per esibirsi in sottili, ma inadeguate, distinzioni fra alternativa e alternanza, non tenendo conto delle premesse, dei processi e delle implicazioni dell’espressione “alternativa”[1]. Mi pare opportuno sottolineare che si trattava proprio di costruire una alternativa alle coalizioni imperniate sulla Democrazia cristiana: in assenza di quella possibile alternativa in nessun modo si sarebbe giunti all’alternanza. Non so se “dalla forza delle cose” sarebbe scaturita “l’alternativa socialista”, tema del Congresso Psi di Torino (fine marzo-aprile 1978). Sono tuttora convinto che quell’alternativa andava costruita, ed era possibile farlo, a sinistra, con il Pci. Naturalmente, quel Pci che perseguiva la politica del compromesso storico al tempo stesso negava la possibilità di un’alternativa di sinistra, e contraddiceva uno dei cardini della politica democratica: vale a dire che la alternanza al governo di un paese deve essere sempre considerata un esito incombente e praticabile della competizione politico-elettorale.
Senza tentennamenti criticai per tempo tanto il compromesso storico, che poco aveva a che vedere con un accordo effettivamente consociativo che avrebbe dovuto di necessità includere anche il Psi, quanto la prospettiva che un eventuale governo di compromesso storico avrebbe dovuto durare per un periodo di tempo indefinito. Sarebbe inevitabilmente diventato una cappa di piombo su una società che doveva cambiare liberando energie e non comprimendole. Non fui affatto il solo a avanzare forti riserve e formulare serie critiche. Rispetto alla maggioranza dei critici, la mia posizione si caratterizzava per porre avanti a tutto una certa idea di sistema politico nel quale nessuna maggioranza potesse mai considerarsi sicura e insostituibile, e tutte le maggioranze fossero costrette a comportarsi come se la possibilità di una loro sconfitta stesse costantemente dietro l’angolo.
Sarebbe di grande utilità un approfondimento sulle modalità con le quali operavano i socialisti nelle varie organizzazioni economiche, sociali e culturali condivise con i comunisti
Nel corso degli anni Ottanta dello scorso secolo Craxi semplicemente abbandonò qualsiasi prospettiva di alternativa socialista. I fischi del Congresso di Verona a Berlinguer, almeno in parte giustificabili come disapprovazione della incerta e malferma politica del Pci, furono la premessa di un altro percorso che all’alternativa non avrebbe potuto mai portare e approdare. Il solco nella sinistra si approfondì non soltanto con la decisione di “tagliare” la scala mobile, ma soprattutto di accettare di andare al voto sul referendum chiesto dal Pci. Lascio da parte qualsiasi discorso sulla necessità – per la costruzione di un’alternativa alla Dc – di avere il pieno, esplicito, convinto sostegno dei sindacati (anche e soprattutto, della Cgil), perché mi pare da sottolineare con apprezzamento la dichiarazione di sfida di Craxi. “Un minuto dopo la vittoria degli abrogazionisti il capo del governo si dimetterà”. Dopo avere esitato fino ad intrattenere l’idea – di provenienza radicale – di invitare all’astensione, Craxi rivendicò la sua responsabilità e ottenne una significativa vittoria.
Purtroppo non ne seguì una indispensabile politica di concertazione con i sindacati, dimenticando anche in questo caso l’esperienza del Parti socialiste di Mitterrand e il rapporto strettissimo intessuto con la CFDT di Jacques Delors. Qui sarebbe di grande utilità un approfondimento, del quale non sono capace, sulle modalità con le quali operavano i socialisti nelle varie organizzazioni economiche, sociali e culturali condivise con i comunisti. Certamente, ancora oggi capire dove e come situarsi fra la deleteria disintermediazione e la deplorevole “cinghia di trasmissione” che, lo sottolineo, va avanti e indietro fra sindacati e partiti, appare problematico. Tuttavia nessuna alternativa politica può essere costruita con successo e tradotta efficacemente in pratica senza porsi il compito di offrire rappresentanza, confronto e interlocuzione alle associazioni.
Il successo quarantennale della Democrazia cristiana è spiegabile quasi esclusivamente con riferimento alla capacità delle sue correnti di stabilire, mantenere, fare funzionare le relazioni stabilite con numerosi interlocutori sociali dei più vari tipi. Non vorrei ridurre tutto questo a qualche slogan, ma la politique d’abord fa poca strada senza il sostegno sociale: anche se mi affretto ad aggiungere che nessun sistema politico è o sarebbe in grado di funzionare all’insegna della société d’abord. Oggi, a trent’anni dalla caduta del Muro di Berlino, m’interrogherei piuttosto sulla culture d’abord: vale a dire quali principi e quali valori, sentendomi di sottolineare la quasi assoluta inadeguatezza della cultura politica con la quale i comunisti giunsero a quell’imprevisto appuntamento, ma anche l’incapacità di Craxi e dei socialisti di trarne insegnamenti per i rapporti da intrattenere con i comunisti italiani e per formulare a loro volta una cultura politica che tenesse conto della nuova situazione. Quali bisogni, quali meriti? Quale riflessione sul richiamo di Bobbio, immediatamente criticato da molti e dai socialisti certamente non difeso, per il quale “caduto il comunismo rimangono i problemi che ne hanno costituito il fondamento, la motivazione”? Invece mi parve che Craxi pensasse che il Psi sarebbe quasi automaticamente riuscito ad attrarre/ereditare i voti, molti, in uscita dal Pci, entrato nel tunnel della sua forzata trasformazione: fino a svuotarlo e assorbirlo quasi completamente anche senza procedere a nessun cambiamento nella cultura politica socialista.
Rimanendo nella linea interpretativa che mi sono dato con riferimento alla notevole esperienza del Parti Socialiste di Mitterrand, concludo la mia analisi e valutazione dell’opera di Craxi con la sua proposta di Grande Riforma sorprendentemente annunciata nell’autunno 1979[2]. Chiunque dimentichi che Mitterrand si trovò ad operare in un sistema istituzionale drasticamente diverso da quello italiano – vale a dire in una Repubblica semipresidenziale con sistema elettorale maggioritario a doppio turno in collegi uninominali per l’elezione del Parlamento – non può capire quanto le regole istituzionali e elettorali abbiano influenzato la strategia del Parti socialiste, che seppe sfruttarne tutte le opportunità. Anche se quelle istituzioni “non erano state fatte per lui”, avrebbe dichiarato il neo-eletto Presidente, “se ne sarebbe servito”: in maniera, mi permetto di aggiungere, che fu eccellente. In una pluralità di articoli pubblicati da Mondoperaio non mancarono i riferimenti positivi alla struttura istituzionale della Quinta Repubblica francese (ma vi furono anche non poche riserve e critiche). La tematizzazione più completa e più brillante della necessità di una riforma costituzionale arrivò con il volume di Giuliano Amato, Una Repubblica da riformare (Bologna, Il Mulino, 1980).
Se la legge elettorale proporzionale era da ritenersi responsabile del mantenimento del bipolarismo Dc-Pci e della limitata e lenta crescita del Psi, allora la sua riforma e il suo superamento avrebbero di conseguenza dovuto costituire una priorità dei socialisti
Senza nessuna concessione a coloro che pensano che la Costituzione italiana fosse già allora datata e persino di ostacolo a cambiamenti politici significativi (non lo era e non lo è tuttora), certamente le democrazie parlamentari con leggi elettorali proporzionali e quindi con sistemi multipartitici sono più flessibili e maggiormente in grado di accogliere e smussare le preferenze degli elettori: mentre i semipresidenzialismi di tipo francese sono più sensibili ai mutamenti di quelle preferenze e le leggi elettorali maggioritarie, oltre a spingere verso un’effettiva competizione bipolare (già facilitata dall’elezione popolare diretta del Presidente della Repubblica) ne potenziano l’impatto. In estrema sintesi, il “bipolarismo” Dc/Pci era favorito dagli assetti istituzionali e elettorali italiani. Spaccarlo richiedeva un intervento mirato e di grande respiro. Peraltro, quasi inesorabilmente, una legge elettorale a doppio turno come quella francese (l’ho ripetutamente argomentato) da un lato svantaggia i partiti, dall’altro favorisce la formazione di coalizioni che gli elettori scelgono di votare nella prospettiva di conferire un mandato di governo.
Né l’impianto complessivo della Grande Riforma né i suoi cruciali dettagli furono mai elaborati soddisfacentemente da Craxi. Neppure ad opera dei parlamentari socialisti fecero seguito proposte precise e significative. Al contrario, nelle sedi ufficiali – a partire dalla Commissione Bozzi, istituita nel novembre 1983 e giunta al termine dei suoi lavori il 1 febbraio 1985 – i socialisti operarono sostanzialmente per impedire il conseguimento di qualsiasi accordo. Per tutto quel periodo Craxi fu Presidente del Consiglio. La sua comprensibile priorità era la permanenza in carica. Il suo “interesse” istituzionale consisteva nel rafforzamento dei poteri del capo del governo, ma le modalità con le quali pervenire a questo esito non furono mai delineate. Non è questo il luogo dove procedere a puntigliose esplicazioni: ma, ad esempio, il voto di sfiducia costruttivo alla tedesca è una di quelle modalità fra le più apprezzabili e in pratica fra le più efficaci per chi desideri la stabilità di governo. Germania docet. La battaglia istituzionale più incisiva Craxi la condusse contro il ricorso al voto segreto in Parlamento, strumento sul quale i parlamentari, ma soprattutto le correnti democristiane, facevano frequente affidamento. Fu una battaglia sostanzialmente vittoriosa, ma che rimase confinata in quell’ambito: mentre avrebbe potuto estendersi alle modalità di funzionamento interno dei partiti e di elezione dei candidati. Proprio a questo proposito la parabola non riformatrice di Craxi si concluse con un errore strategico e con una grande decisiva sconfitta.
Se la legge elettorale proporzionale era da ritenersi responsabile del mantenimento del bipolarismo Dc-Pci e della limitata e lenta crescita del Psi, allora la sua riforma e il suo superamento avrebbero di conseguenza dovuto costituire una priorità dei socialisti, poiché andava anche nel senso di rispondere ad un’opinione pubblica inquieta e irritata dai comportamenti parlamentari dei franchi tiratori. Invece Craxi schierò il Psi contro qualsiasi riforma elettorale (tralascio la sua idea di soglia di sbarramento in tutte le circoscrizioni per la Camera, pensata palesemente contro l’avanzata della Lega). Fatidico fu l’invito ai cittadini elettori ad “andare al mare” per fare fallire per mancanza di quorum il primo referendum elettorale, quello sulla preferenza unica. Il 9 giugno 1991 fu certo in una qualche misura, se non una vera e propria sconfitta della partitocrazia italiana, quantomeno il segnale forte della crescente insofferenza nei suoi confronti della maggioranza degli italiani.
Date le condizioni di partenza, Craxi fu obbligato a comportarsi come un giocatore d’azzardo
Fu anche il segnale che il Psi di Craxi non aveva capito quei sentimenti e non riusciva a rappresentarli modernamente. Qualsiasi Grande Riforma avrebbe potuto giovarsi di una iniziale “riformetta” che toccava in radice il rapporto dei parlamentari con l’elettorato. Quel giorno del giugno 1991 nel quale Craxi privilegiò quello che considerava l’interesse (di cortissimo respiro) del suo partito alla sfida di un mutamento positivo per il sistema politico italiano segna una svolta negativa alla quale nessuno nel Psi si oppose e seppe, in seguito, porre rimedio.
È tempo di concludere. Lo farò ricorrendo all’analisi effettuata da Bobbio sulle “promesse non mantenute della democrazia” (Il futuro della democrazia, Torino, Einaudi) pubblicata proprio nell’anno, 1984, in cui il presidente Pertini lo nominò senatore a vita e aderì come indipendente al gruppo dei senatori socialisti. A proposito della traiettoria politica di Craxi sono giunto alla convinzione che si possa e si debba parlare di “scommesse perdute”. Date le condizioni di partenza, Craxi fu obbligato a comportarsi come un giocatore d’azzardo. Dovette tenere alta la posta del rinnovamento del Psi: ma anche se ebbe qualche buona carta da giocare non riuscì davvero a dare al suo partito una strutturazione solida a sostegno del suo leader e di una politica limpidamente definita. Sconfitte le correnti interne, parte non piccola del potere politico confluì nelle mani di baroni locali la cui politica e la cui immagine non furono di giovamento al partito nazionale. Craxi scommise sulla sua capacità di obbligare i comunisti a incamminarsi sulla strada dell’alternativa alla Democrazia cristiana, ma lui stesso, preferì “giocare” con la Dc piuttosto di andare a vedere la carte del Pci e dei suoi dirigenti. Quelle carte non volle vederle neppure quando, trattandosi della possibilità di una Grande Riforma che avrebbe rimescolato tutto, a veri e convinti riformatori istituzionali si sarebbero aperte notevoli opportunità. Contrariamente alle promesse non mantenute della democrazia (che secondo Bobbio non si potevano mantenere), le scommesse di Craxi, se avesse voluto rischiare fino in fondo, avrebbero potuto risultare vincenti. Invece, a triste conclusione della sua parabola durata più di quindici anni, il segretario del Partito socialista lasciò il suo partito in condizioni di grande debolezza e il sistema politico scalfito, irriformato ed esposto agli avventurieri istituzionali che non tardarono ad arrivare e stanno tuttora qui fra e con gli italiani.
note
[1] Per ampi chiarimenti e opportuni esempi mi fa piacere rimandare alle analisi contenute nel volume da me curato insieme a Marco Valbruzzi, Il potere dell’alternanza. Teorie e ricerche sui cambi di governo, Bologna, Bononia University Press, 2011).
[2] Il testo intitolato La grande riforma si trova nell’utilissimo volume curato da G. Acquaviva e L. Covatta, La “grande riforma” di Craxi, Venezia, Marsilio, 2010, pp. 185-189. Per ragioni di spazio, ma soprattutto di contenuti, ciascuno dei quali richiederebbe riflessioni puntuali e estese, non posso confrontarmi, e me ne dispiaccio, con quanto scritto dagli autori dei singoli capitoli. Mi limito a sottolineare che le due opzioni di riforma del modello italiano di governo, vale a dire, il neo-parlamentarismo e il presidenzialismo, alle quali dedica la sua attenzione Giuliano Amato, non possono essere messe sullo stesso piano. La prima approderebbe nel migliore dei casi (cioè se accuratamente elaborata nei dettagli), ad una razionalizzazione del parlamentarismo: ma è solo la seconda (nelle sue varianti: Repubblica presidenziale/Repubblica semi-presidenziale, tutt’altro che assimilabili) che meriterebbe la qualifica di Grande Riforma. Aggiungo che, preso atto delle difficoltà in cui versano i partiti politici italiani, a chiunque intenda prospettare riforme istituzionali più o meno “grandi” è oggi indispensabile chiedere anche su quali strutture politiche si reggerebbero quelle riforme.
Pubblicato su Mondoperaio gennaio 1/2020
Gianfranco Pasquino ricorda Norberto Bobbio
In occasione dell’anniversario della nascita di Norberto Bobbio, Torino 18 ottobre 1909, mentre gran parte di un paese senza memoria e senza cultura lo ha dimenticato, spesso senza averlo mai “conosciuto” e apprezzato, forse è utile rileggere quanto diceva, con affetto, con “scienza” e con riconoscenza, un suo allievo. (ndr)
Intervista raccolta da Annamaria Abbate e pubblicata su La Cronaca 6 ottobre 2009 .
Gianfranco Pasquino ricorda Norberto Bobbio
Allievo del filosofo, ne ricostruisce la figura in occasione del centenario della nascita
Il 18 ottobre 2009 sarà il centesimo anniversario della nascita di Norberto Bobbio scomparso nel gennaio del 2004 alla fine di una vita lunga, operosa e influente. Nel 1984, quando fu nominato senatore a vita dal presidente della Repubblica Sandro Pertini, a un giornalista che gli chiedeva: “Ora come vuol essere chiamato, senatore o professore?”, Bobbio rispose semplicemente: “Io sono un professore”. L´insegnamento universitario, esercitato per mezzo secolo passando dalla filosofia del diritto alla scienza politica e alla filosofia politica, è stato il luogo privilegiato della sua straordinaria produzione scientifica. Per valutarne la personalità e i contributi abbiamo intervistato Gianfranco Pasquino, professore di Scienza politica nell’Università di Bologna.
Professor Pasquino possiamo definirla un allievo di Norberto Bobbio?
Certamente, sì, per due ragioni. Mi sono laureato con una tesi di Scienza politica con lui relatore. Un giorno, espressamente, seduti entrambi sui banchi del Senato, gli chiesi se avevo i titoli giusti per mettere nel mio curriculum “allievo di Bobbio”. Mi rispose, sorridendo, di sì, che ne sarebbe stato lieto. A me fa molto piacere aggiungere che con Bobbio e con Nicola Matteucci, abbiamo curato il Dizionario di Politica (UTET, 2004) la cui terza edizione, purtroppo, non riuscì a vedere.
Quali sono a suo giudizio i volumi più importanti della sua enorme produzione accademica?
Bobbio divenne molto noto grazie al suo dialogo (senza concessioni) e al confronto anche aspro con le idee e le posizioni di Togliatti relativamente al ruolo degli intellettuali e delle idee. Politica e cultura, pubblicato la prima volta nel 1955, raccoglie e sistema una tematica di immutato interesse e valore. In seguito, due altri volumi: Il futuro della democrazia (1984), pubblicato casualmente (sic) in epoca craxiana, e Destra e sinistra (1994) pubblicato e ripubblicato nient’affatto casualmente (sic) in epoca berlusconiana (con un successo di vendite che lo sorprese moltissimo), segnarono la riflessione politica e culturale. Però, Bobbio era particolarmente contento del suo eccellente excursus sulla cultura e sugli intellettuali tratteggiato nel Profilo ideologico del novecento italiano (1968, 1986) e della sua raccolta di saggi su Carlo Cattaneo: Una filosofia militante (1971). Ma credo che il suo libro preferito (ne posseggo una copia con dedica) sia Thomas Hobbes (1989), lo studioso che apprezzava in massimo grado per il rigore, l’acume, il duro realismo e la brillantezza della scrittura.
Come si spiegano il successo e la fama di un professore di Filosofia politica che non andava mai, per sua libera scelta, in televisione?
Anzitutto, Bobbio è stato un grande professore per più di quarant’anni. Ha insegnato a generazioni di studenti sia le materie dei suoi corsi, mai ripetitivi, sia un metodo di riflessione sia uno stile di vita, austero, ma impegnato, e ha fatto conferenze in tutto il mondo. In secondo luogo, Bobbio ha affrontato sempre tematiche analiticamente e politicamente significative senza mai essere settario o fazioso, sforzandosi di capire e di porre gli interrogativi più stimolanti. Non era, però, come alcuni hanno scritto, il “filosofo del dubbio”. Aveva convinzioni solide, ma era aperto alla ricerca. In terzo luogo, la sua fama si è estesa quando cominciò nel 1976 a collaborare a “La Stampa”, con editoriali e interventi lucidissimi e rigorosi. Fu da allora che, anche a causa della turbolenta storia italiana, ottenne e esercitò, senza volerlo, il ruolo di coscienza critica. Quel ruolo, naturalmente, gli costò anche molte critiche, spesso stupide e becere, dalla destra, ma non solo. Mi limito a ricordare che, alla pubblicazione di un articolo su “La Stampa” con il titolo La democrazia dell’applauso che criticava l’acclamazione con la quale il Congresso socialista aveva “rieletto” Craxi segretario, Craxi replicò stizzito stigmatizzando “i filosofi che hanno perso il senno”.
Che cosa rimane di Bobbio e del suo pensiero, oggi?
Bobbio non ha successori, anche se c’è una affollata corsa a dichiararsi tali. È una corsa, cominciata già negli ultimi anni della vita di Bobbio, che ho criticato in un articolo intitolato “Il culto di Bobbio” (commento di Bobbio: “temo che tu abbia ragione”). Nessuno, oggi, ha la sua stessa autorevolezza, il suo rigore, torinese (Bobbio ha scritto un ottimo saggio sulla cultura a Torino), il suo senso dell’impegno di stampo azionista, ma anche la sua limpida cognizione del limite. Bobbio vorrebbe essere ricordato, come mi sembra abbia scritto, probabilmente nella sua Autobiografia (1997), altro libro che posseggo con dedica,” nelle opere e negli affetti”. In quest’Italia che non gli sarebbe piaciuta e la cui evoluzione lo aveva tanto amareggiato, sono, per fortuna, molti che lo ricordano con affetto anche per le sue opere.
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Norberto Bobbio, grande filosofo assurto a coscienza critica dell’Italia civile
Norberto Bobbio fu testimone e protagonista tra i più eminenti del Novecento avendolo attraversato quasi per intero e oltrepassato di alcuni anni (1909 – 2004). Aveva da pochi giorni compiuto tredici anni quando il fascismo conquistò il potere. Non aveva ancora trent´anni quando scoppiò la seconda guerra mondiale e già da tempo era entrato a far parte attiva della resistenza. Dopo la liberazione, diede impulso al rinnovamento culturale e politico della nuova Italia repubblicana contribuendo alla formazione del movimento liberalsocialista poi confluito nel Partito d´Azione. Alle soglie dei sessant´anni, attraversò il ´68, e poi la stagione del terrorismo interno, gli anni di piombo e della strategia della tensione. Divenuto editorialista del quotidiano “La Stampa” di Torino dal 1976, il suo pensiero raggiunse più vaste cerchie di cittadinanza e divenne perciò popolare anche al di fuori degli ambiti strettamente accademici, come coscienza critica dell´Italia civile. Giunto agli ottant´anni, assistette al fallimento dell´universo del socialismo reale, che interpretò come l’inevitabile destino di una “utopia capovolta”. Poco dopo, la corruzione della vita pubblica in Italia che lui aveva apertamente denunciato e combattuto, portò al crollo della prima Repubblica . Nell´ultimo decennio della sua vita, si oppose all´avvento di nuove e vecchie destre in cui vedeva un chiaro pericolo per la democrazia. Il magistero intellettuale e morale di Norberto Bobbio non è meno vasto della sua opera scientifica e si potrebbe ricostruire la storia politico-culturale italiana del secondo Novecento attraverso i dibattiti che egli ha animato e suscitato. Per celebrare il centenario della nascita di Norberto Bobbio il Ministro per i Beni e le Attività culturali ha istituito un Comitato Nazionale, composto da oltre cento istituzioni e personalità intellettuali italiane e straniere. Il Comitato Nazionale ha elaborato un ampio programma di attività per promuovere il dialogo e la riflessione sul pensiero e sulla figura di Norberto Bobbio e sul futuro della nostra democrazia, della nostra cultura e della nostra civiltà. Il primo evento in programma è un convegno internazionale “Dal Novecento al Duemila. Il futuro di Norberto Bobbio”Torino, 15 – 17 ottobre 2009. I lavori saranno aperti da un discorso inaugurale del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. (aa)