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Gli equivoci su Marco Biagi a vent’anni dalla sua morte @DomaniGiornale

Nel corso dei venti anni passati dall’omicidio di Marco Biagi ad opera delle Brigate Rosse, ho partecipato personalmente a molte delle cerimonie in suo ricordo. Il contenuto propriamente di celebrazione e di affetto si è spesso combinato efficacemente con la riflessione sulle idee e sulle proposte del giuslavorista. Di recente, però, e in particolare nell’ultima occasione, ho avuto la sgradevole impressione che sia molto cresciuto il peso della retorica e piuttosto diminuita l’attenzione alle sue idee. Anzi, troppi commentatori hanno sottolineato l’importanza del suo Libro bianco dedicato alle riforme del mercato del lavoro senza indicarne l’originalità, mentre altri le sostengono come furono scritte dimostrando in questo modo di non avere capito il senso del riformismo di Biagi. Poiché conoscevo Marco da almeno vent’anni posso affermare con certezza che ne sarebbe alquanto infastidito. Entrambi insegnavamo sia al Bologna Center della Johns Hopkins University sia al Dickinson College. Condividevamo idee di sinistra anche se, proprio nell’ultimo periodo, Marco, sicuramente socialista, aveva accettato di collaborare con il socialista Maurizio Sacconi, sottosegretario al Lavoro (Ministro Roberto Maroni) nel secondo governo Berlusconi (2001-2005), governo che personalmente ritenevo un disastro e criticavo pubblicamente. Una migliore regolamentazione del mercato del lavoro, sosteneva Marco, poteva ottenersi soltanto introducendovi maggiore flessibilità, dunque, ritoccando il famoso art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, garantendo protezione, offrendo riqualificazione e producendo reinserimento effettivo ai lavoratori che perdessero il posto di lavoro.

   Le sue considerazioni erano saldamente collocate nella conoscenza comparata dei mercati del lavoro in Europa e in Giappone e le sue proposte si basavano sulle migliori di quelle esperienze. Quando seppe che l’allora Segretario generale della CGIL Sergio Cofferati (due anni dopo inopinatamente scelto dagli ex-comunisti per diventare sindaco di Bologna) aveva definito “limaccioso” il suo Libro bianco (ha fatto bene l’ex sindacalista socialista Giuliano Cazzola a ricordare l’episodio), Marco ne fu molto amareggiato. Pensava di meritare critiche più puntuali e meno livorose alle quali replicare con ragionamenti e dati. Non credette mai, come molti di coloro che oggi lo lodano eccessivamente, che le sue proposte fossero impeccabili e intangibili. Da buon riformista sapeva che le situazioni sono destinate a cambiare e che soltanto dopo una prima fase di applicazione delle sue proposte si sarebbero ottenute le informazioni necessarie per valutarne bontà e efficacia e per procedere ad una eventuale rimodulazione. Sentirsi lodare oggi per qualcosa che avrebbe sicuramente cambiato, adattato, riformulato, e vedere che le sue proposte vengono quasi imbalsamate lo avrebbe piuttosto irritato. Tuttavia, non per questo avrebbe smesso di elaborare idee e proposte nella convinzione, questa sì assoluta, che nessun riformista può credere che i problemi siano risolvibili in un sol colpo una volta per tutte, ma che anche le migliori delle riforme, come quelle da lui prospettate, meritano di essere sempre considerate riformabili. A maggior ragione le riforme che riguardano la vita dei lavoratori. Questo è il vero lascito di Marco Biagi che merita meno retorica e più attenzione e approfondimento. La prossima volta.  

Pubblicato il 23 marzo 2022 su Domani

Che fine hanno fatto le primarie nel Pd? Domande sul caso Bologna @DomaniGiornale

Il Partito di Bologna ha una lunga, interessante, ingloriosa storia di primarie fatte (e non fatte) per la scelta della candidatura a sindaco della città. L’inizio della saga riguardò i Democratici di Sinistra che, a fronte di profonde divisioni interne con il (quasi)prescelto che rifiutò di “sottoporsi” alle “primarie”, furono costretti a farle in fretta e furia in una piovosissima giornata del marzo 1999. Poi le elezioni furono vinte da Giorgio Guazzaloca, molto più che un candidato civico, un bolognese con una apprezzabile storia personale di lavoro e di impegno. Cinque anni di (mancate) riflessioni non bastarono ai DS per trovare una candidatura indigena cosicché nel 2004 dirigenti, iscritti e i simpatizzanti della borghesia rossa furono entusiasti di accogliere il superparacadutato Sergio Cofferati reduce dalla grande manifestazione contro Berlusconi. Niente primarie per il segretario della CGIL, ma una bella processione nei quartieri di Bologna, città che non conosceva minimamente, ad accogliere suggerimenti, incoraggiamenti, applausi (molti) e critiche (quasi nessuna). Tutt’altro che favorevole, arrivai nel mio quartiere alle 21,10, presi la scheda per iscrivermi a parlare. Alle 22.45 non avendo ancora avuto la parola, mi informai. Avevano “perso” la mia scheda. “Gentilmente”, mi diedero subito la parola, la riunione chiudeva alle 23. Peccato che il tempo di accettazione delle schede con l’approvazione (o no) fosse stato fissato alle 22 e che moltissimi dei presenti avessero già votato.

Nel 2008, all’ultimo momento. Cofferati annunciò che non intendeva fare il secondo mandato. A quel punto il Partito Democratico decise che si potevano/dovevano fare le primarie. Naturalmente, il gruppo dirigente aveva il suo candidato. Provai a candidarmi, ma mi si impedì di avere accesso al registro degli iscritti un certo numero di loro firme essendo necessarie per accreditarsi come candidato. Appoggiato da Bersani e da Prodi e da gran parte del PD (in seguito anche dal cardinale di Bologna), la candidatura di Flavio Delbono non fu mai a rischio. Andò a vincere risicatamente al ballottaggio contro l’imprenditore Alfredo Cazzola. Poco più di sei mesi dopo fu costretto a dimettersi per uso troppo disinvolto, truffaldino (due patteggiamenti) del denaro pubblico (era stato Assessore al Bilancio della Regione Emilia-Romagna). Si dimise anche il segretario della Federazione, Andrea De Maria, debitamente parcheggiato a Roma.

   Per la prima volta nella sua storia, quella che era stata la vetrina del comunismo italiano fu commissariata (2010-2011). Ancora in difficoltà il PD intrattenne persino l’idea di candidare la Commissaria Annamaria Cancellieri (poi ministro degli Interni nel governo Monti e della Giustizia nel governo Letta). Messo da parte colui, Maurizio Cevenini, che era il più popolare degli esponenti del Partito, le primarie del 2011 consegnarono la vittoria a Virginio Merola che ha portato a compimento senza biasimo né gloria il suo secondo mandato. Non si è lasciato scappare l’occasione di influenzare la scelta del suo successore candidando alcuni suoi assessori, ma anche manifestando la sua preferenza per uno di loro. Dunque, logicamente: primarie fra i candidabili. Invece, per il momento, proprio no. Il segretario locale annuncia che bisogna cercare e soprattutto trovare un candidato “unitario”. Insieme agli assessori, la neo-eletta europarlamentare Gualmini si dichiara “disponibile”, deludendo, immagini, i 78 mila elettori che le diedero la preferenza. Sullo sfondo si staglia la figura del più potente parlamentare bolognese Andrea De Maria che nega asserendo, però, a ragione, che non vuole nessuna discriminazione nei suoi confronti, come quella comminatagli delle Sardine. Qualcuno ricorda che bisognerebbe allargare il “campo”, nessuno si tira indietro. Il sindaco bolla tutto questo, al quale lui ha dato il suo contributo e altri ne preannuncia, come “un dibattito inconcludente”.

   Le primarie per le cariche elettive stanno nello Statuto del PD. Se ne sono fatte in tutta Italia ben più di mille. Spesso cito Arturo Parisi, secondo i giornalisti il “teorico delle primarie”. Chi vuole candidarsi, sostenne Parisi, alzi la mano. Poi, naturalmente, raccolga un certo numero di firme a suo sostegno, quante e come sono richieste dal regolamento dei partiti locali. Naturalmente, se il PD allarga effettivamente il campo, a Bologna ci sono almeno due potenziali candidati centristi di valore. Allora, però, nelle primarie non dovrà esserci il candidato ufficiale “del partito”, ma tutti coloro che, PD o no, senza ostacoli, avranno raccolto le firme. Gli assessori disponibili a candidarsi non dovranno essere dissuasi, come il segretario locale ha già lasciato trapelare, poiché di loro si terrà conto “nella formazione della prossima giunta”. La saga non è finita. Neanche la commiserazione, qualche volta irritazione, per un partito che cerca costantemente di svicolare dalle regole che pure si è dato può cessare. Ė possibile che, alla fine, l’esito sia positivo in termini di selezione della candidatura, ma neanche in questo caso dovremmo accettare la massima che “il fine giustifica i mezzi”. Non è così che si migliora la politica né a Bologna né altrove.

Pubblicato il 20 novembre 2020 su Domani

Come non si scelgono le candidate e i candidati sindaco a Bologna?

La narrazione delle modalità di selezione delle candidature a sindaco di PDS/DS/PD è sconfortante. Non è migliorata. Da ultimo, il “medio” sindaco uscente ha designato il suo successore. Brutt’affare.

Questa è la storia di come non si scelgono le candidate e i candidati sindaco a Bologna

I poteri forti sono nel passato

Appena sceso nella stazione dell’Alta Velocità di Bologna, il viaggiatore chiede: “chi comanda?”. Perplesso, il cittadino bolognese ricorda che, qualche tempo fa, avrebbe avuto la risposta pronta e sicura: il Partito Comunista Italiano, grande, rappresentativo, popolare che controllava generosamente tutto quello che si muoveva, o no, in città. A seconda dei casi, le decisioni le prendeva il “suo” sindaco, ma, più spesso, il segretario della Federazione, e nessuno neanche si poneva il problema di quali fossero i poteri forti. Incuriosito, il viaggiatore vorrebbe saperne di più. Dunque, domanda (ha letto qualche bel libro di scienza politica): la città è oramai caratterizzata da un sano pluralismo competitivo? All’insegna dell’innovazione e del confronto c’è chi vince, mai tutto, e c’è chi perde, mai tutto, e la città cresce, si trasforma migliora? Alquanto rattristato il cittadino risponde che: no, non è proprio così.

Ciascuno dei gruppi che contano, in verità, pochi, si sono ritagliati degli spazi di discrezionalità: dalle cooperative ai sindacati, dalla Chiesa agli industriali, dalle Fondazioni bancarie all’Unipol, persino l’Università e i suoi collettivi. Di decisioni “forti”, però, la città non ne ricorda nessuna almeno da una ventina d’anni. Qualche volta sbucano mecenati senza nessun legame con la politica i quali con impegno e visione prendono iniziative importanti e le attuano. Di tanto in tanto, la città sembra appesa alle parole del vescovo e di colui che fu Presidente del Consiglio per due volte. Entrambi centellinano il limitato potere di cui dispongono e lo usano in alcune poche occasioni, sapendo che se lo facessero troppo spesso lo sciuperebbero. Quanto ai partiti non è come altrove questione di particolare discredito delle loro fatiscenti ed evanescenti strutture. Piuttosto è in dubbio, questo sì davvero forte, la loro capacità di reclutare, di selezionare, di promuovere personale politico adeguato.

Del sindaco in carica, del Commissario governativo che l’ha preceduto, del sindaco paracadutato, il cittadino un po’ si vergogna e tace. Alla fine, al viaggiatore che ancora non ha ricevuto risposta soddisfacente, fa notare, piuttosto rattristato, che in città nessuno ha nemmeno il potere di rendere agibile la piazza davanti al Teatro comunale e di tenere puliti i muri. Altro che poteri forti! Quello che tiene banco in città sono i veti reciproci, incrociati che bloccano qualsiasi decisione di rilievo. Nostalgia del passato, chiede il viaggiatore? No, preoccupazione, forte, risponde il cittadino, per un presente di immobilismo e per un futuro che nessuno sta costruendo.

Pubblicato il 18 maggio 2017

Una bella storia bolognese

Un giorno del 2008 Giorgio Guazzaloca mi telefonò chiedendomi, con leggera, inusuale esitazione, la disponibilità a scrivere la prefazione a un libro su di lui. Chiesi di vedere il libro (scritto da Alberto Mazzuca, Guazzaloca. Una vita in salita) e scrissi un testo intitolandolo “Una storia bolognese”. Il riferimento era al volumetto Una storia italiana mandato in omaggio nel lontano 1994 dal candidato Berlusconi a milioni di elettori. Nel ringraziarmi Guazzaloca mi comunicò la sua iniziale perplessità a vedersi “confinato” nel ristretto ambito bolognese, ma subito la lettura lo convinse della bontà del titolo oltre che, non lo nascondo, del contenuto. La sua conquista al ballottaggio della carica di sindaco nella città rossa per eccellenza in quel fatidico giugno 1999 fu proprio il coronamento di una storia bolognese. Il candidato “civico” Guazzaloca non sbucava dal nulla, ma da una vita di lavoro, cominciata da ragazzo come macellaio, di capacità di governo di associazioni, da quella dei macellai fino alla Presidenza per 13 anni della Confcommercio, coronata con la decisione di sfidare il Partito di Bologna, ovvero gli ex-comunisti che faticosamente e malamente (non) si adattavano alla nuova situazione politica, con molti conflitti interni, il più devastante dei quali riguardò proprio la scelta dell’antagonista di Guazzaloca. Un insieme di errori derivanti da malposte e maldestre ambizioni i cui protagonisti si trovano ancora tutti in città. Non avrebbero comunque perso se l’alternativa non fosse stato proprio Giorgio Guazzaloca, noto e diffusamente stimato, capace di rapporti personali fatti di serietà e affidabilità, con un suo profilo in nessun modo identificabile con il modesto centro-destra cittadino. Grazie all’ex-comunista Carlo Monaco, poi il suo migliore assessore, Guazzaloca condusse un’ottima campagna elettorale, sui fatti e non sui meriti di un passato che gli ex-comunisti non potevano già più rinverdire. Purtroppo, la malattia lo colse dopo neppure due anni dalla sua elezione. La seconda parte del suo mandato non fu brillante anche perché non tutti gli assessori erano all’altezza (gli feci notare che quello passava il convento del centro-destra). La conquista del secondo mandato si rivelò impossibile poiché il centro-destra non seppe/volle sostenerlo fino in fondo e gli ex-comunisti si consegnarono mani e piedi al “briscolone” venuto o mandato da fuori, la meteora Sergio Cofferati. L’evento storico, “sparato” su tutte le prime pagine dei quotidiani nazionali e stranieri, era comunque avvenuto. Con qualche amarezza per il prosieguo di quella storia, Guazzaloca ne fu sempre fiero. Giustamente.

Pubblicato il 27 aprile 2017

Mediani e processioni

Corriere di Bologna

“Sondaggio, sondaggio delle mie brame, chi deve fare il sindaco di questo reame?”  Il Partito Democratico sembrava voler cercare in un fantomatico specchio la risposta lancinante quesito. Improvvisamente e senza spiegazioni, il sondaggio è sparito. Probabilmente, i dirigenti del PD hanno temuto che avrebbe loro legato le mani e sembrano accontentarsi della processione, chiedo scusa, della consultazione fatta nei circoli. Il lapsus “processione” mi è sfuggito poiché ho seguito di persona la presentazione della paracadutata candidatura di Cofferati nel 2004 che, confessione dei militanti compresa, ha avuto molte caratteristiche parareligiose fino al silenziamento dei dissenzienti. L’abituale conformismo dei circoli è approdato senza troppo entusiasmo alla conclusione che, sì, il sindaco Merola non ha fatto così male da non meritarsi la ricandidatura. Dia attenzione alla sicurezza dei cittadini e metta un freno alle occupazioni, tanto in un partito di mediani non si troverà nessun fuoriclasse.

Ha ragione l’ex-sindaco Giorgio Guazzaloca che i tempi dei numeri uno a Bologna, lui cita il cardinale Biffi e, il Rettore e molto altro Roversi Monaco, lasciando ai lettori dell’intervista al “Corriere” il piacere di aggiungere il suo nome, sono finiti.  Dichiarandosi mediano, il sindaco Merola gli aveva dato ragione in anticipo, ma, da qualche tempo, come ha mostrato Simone Sabattini, il mediano Merola ha deciso di giocare a tutto campo svariando sulla sinistra per rintuzzare eventuali avversari. Infatti, circola sotterranea l’idea di una lista civica dove troverebbero accoglienza diversi reduci della vecchia guardia (uno dei quali avrebbe potuto, e dovuto, cercare di diventare numero uno più di quindici anni fa) e recenti orfani delle frange di sinistra che nel passato qualche strapuntino in regalo riuscivano ad averlo.

Nel limbo seguito alla consultazione, è giusto chieder e ai dirigenti quelli del Partito della Città, di: a) rispettare le regole; b) assumersi le responsabilità delle decisioni. Le regole dicono che, se c’è un candidato che raccoglie il giusto numero di firme, si va a primarie che non è detto indeboliscano il sindaco. Potrebbero esaltarne le doti di mediano-realizzatore. Se no, tocca ai dirigenti prendere in mano la situazione. Ricordano al sindaco che ha vinto la sua carica grazie al partito, non lo deve snobbare e non può fare una lista personalizzata. Lanciano la campagna elettorale rivendicando quanto di buono è stato fatto, evidenziando le innovazioni e indicando quale Bologna, città metropolitana, realizzare nei prossimi cinque anni.

Pubblicato il 14 luglio 2015

Tre o quattro cose che so sul #PD dell’Emilia-Romagna

FQ
Nel marzo 1999, le primarie per la scelta del candidato sindaco di Bologna non le voleva nessuno. Quando i veti incrociati bocciarono i primi quattro potenziali candidati e il segretario regionale Mauro Zani non accettò di “correre” senza il sostegno di tutto il partito, il Pds fu costretto ad organizzare le primarie. Con il poderoso apporto cammellato del sindacato pensionati della Cgil, ottenne la candidatura Silvia Bartolini la quale, poi, riuscì nell’impresa di consegnare la città a Giorgio Guazzaloca, da lei sempre appellato “macellaio” (ma anche Presidente della Camera di Commercio). Zani battezzò anche il nuovo segretario provinciale, tal Salvatore Caronna che, nel 2004, le primarie proprio non seppe e non volle organizzarle cosicché il partito si vide calato dall’alto Sergio Cofferati (“candidatura degna, anzi”, lunga p a u s a, “degnissima” secondo Romano Prodi), quasi sicuramente il peggior sindaco della città. Nel 2008, andatosene all’ultimo minuto verso buste paga più consistenti (europarlamentare) il Cofferati, fu giocoforza organizzare le primarie.

Però, prima ancora che ci fossero candidature ufficiali, fioccarono gli endorsement (dichiarazioni solenni di sostegno) a favore di Flavio Delbono da parte del Segretario del Pd Pierluigi Bersani e del padre nobile (sic) Romano Prodi il quale avrebbe poi portato in processione e a chiesa il candidato. Vice-Presidente della Regione Emilia-Romagna, consigliere regionale e, soprattutto Assessore al Bilancio (che non controllava né le sue allegre spese né quelle, appena meno allegre, dei consiglieri), Delbono era una manna: liberava tre caselle di pregio. Eletto dopo una mediocrissima campagna elettorale, il Delbono fu indagato e costretto a dimettersi (atto che, secondo Prodi, gli restituiva onorabilità) proprio per i suoi viaggi con amanti a spese della Regione. [Personalmente candidato in quelle elezioni, ne ho scritto in Quasi sindaco. Politica e società a Bologna, 2008-2010, Diabasis Edizioni 2010].

In seguito, il sindaco breve, poco più di otto mesi, patteggiò due volte, riconoscendo quindi la sua colpevolezza, ed è in attesa del terzo processo. Con lui caddero il capo della sua campagna elettorale buttato fuori dalla politica e il segretario provinciale, De Maria che dovette dimettersi. Relativamente giovane ma già sicuro esponente della vecchia guardia, il De Maria venne mandato a Roma dalla ditta, poi ricollocato in Parlamento. Adesso ha già espresso, insieme a tutti i lavoratori in carriera nella vecchia ditta, il suo sostegno per il segretario regionale Stefano Bonaccini, diventato renziano nella seconda ora e qualche minuto, ma subito ricompensato con un incarico, quello di responsabile degli Enti locali. Non sono i rimborsi per spese fraudolenti ad avere causato la rinuncia di un renziano della primissima ora, il deputato Matteo Richetti, fino al 2012 Presidente del Consiglio Regionale.

Infatti, sostenuto dalla vecchia guardia che ha assoluto bisogno di un candidato, Bonaccini, consigliere regionale egualmente inquisito, non seguirà le orme di Richetti. Sono gli “inviti” che vengono dal centro, pardon, dal Largo (del Nazareno) che contano e che hanno spinto fuori dalle primarie il Richetti. Il conformismo dei dirigenti locali, pronti ad ogni acrobazia e a qualsiasi ingoio, farà il resto. Però, non sarà facile convincere il candidato Roberto Balzani, che le primarie contro l’apparato le ha già vinte una volta, per diventare sindaco di Forlì, a lasciare il campo. Vecchia politica? Oh, yes. Bruttissima politica? Ancor più certamente yes. È questo il Partito Democratico di Renzi? La risposta la attendiamo, non proprio spasmodicamente, da un suo tweet: il punto più elevato della sua nuova politica.

Pubblicato 11 settembre 2014