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Il fascismo ieri e oggi: un romanzo italiano. Da Un anno di storie 2023 @Treccani

Il fascismo ieri e oggi: un romanzo italiano
in Un anno di storie 2023. Un paese è le storie che racconta, Roma, Treccani, 2023pp. 119-122. 

I regimi autoritari che abbiamo conosciuto nell’Europa, in particolare mediterranea, della prima metà del XX secolo hanno ruotato intorno alla personalità e alle capacità del loro leader. Sono nati con quel leader e grazie a lui. La morte del leader ha travolto il regime senza scampo. Pertanto, è inevitabile che quella figura dominante abbia attratto grande attenzione. Non stupisce, ma ci interroga, il fatto che, forse perché ne è stato il capostipite, è fuor di dubbio che Benito Mussolini abbia costituito l’oggetto di una quantità di studi largamente superiore a quelli dedicati, nell’ordine, al Generalissimo spagnolo Francisco Franco Bahamonde (1892-1975) e al professore portoghese Antonio de Oliveira Salazar (1889-1970). Anche la strategia politica li ha in parte differenziati. Inizialmente, Mussolini perseguì una strategia di movimento e se ne fece forte mirando alla distruzione della sinistra, dovendo fare poi buon viso a cattivo gioco di fronte alla irriducibilità delle Forze Armate, della Chiesa Cattolica, della burocrazia, persino degli imprenditori. Salazar emerse come punto di equilibrio di una coalizione ultra conservatrice di interessi economici, sociali, culturali e religiosi che aveva avuto la meglio su gruppi di sinistra contadina, proletaria, lavoratori subalterni, frammentata, scarsamente organizzata che, una volta sconfitta, non riuscì a dare vita ad un’opposizione di cui tenere conto. Franco conquistò il potere dopo una sanguinosa guerra civile nel corso della quale iniziò la brutale distruzione dei partiti e dei sindacati di sinistra. Il doloroso ordine politico da lui imposto trovò immediatamente il sostegno e l’approvazione, più o meno passivi, di tutti quegli spagnoli che non volevano la ricomparsa e la prosecuzione di conflitti sanguinosi e esiziali.

Per temperamento, per spirito esibizionista, per l’essere stato catapultato sulle prime pagine dei giornali di un po’ tutto il mondo e nelle corrispondenze dei maggiori organi di stampa, Mussolini si acconciò e si beò della sua popolarità internazionale anche a fini di legittimazione. Lui era la novità politica, il fenomeno nascente di nuove modalità di governo, da osservare e studiare con tutte le sue ambiguità prima della stigmatizzazione e dell’eventuale ripudio. Tardivamente arrivarono entrambe. Meno importanti e rilevanti sulla scena internazionale, Franco e, soprattutto, Salazar, ricordiamolo un generale e un professore universitario, evitarono le luci della ribalta. Giornalista e politico dall’ego strabordante, Mussolini le cercò, le trovò, se ne giovò. Quelle luci non si sono mai spente del tutto sulla sua figura e sui suoi misfatti, ma anche sulle sue molto discutibili attività e realizzazioni: “Mussolini ha anche fatto cose buone”. Questa frase apre una discussione finora svolta in maniera tutt’altro che soddisfacente e richiede una valutazione basata su criteri generali, condivisi, comparabili.

Talvolta, gli squarci di luce più vivida gettati sugli autoritarismi e sui loro leader provengono dagli artisti. Monumento all’ironia, ma anche al senso della libertà, è il film di Charlie Chaplin Il grande dittatore (1940) che contrasta frontalmente con quelle produzioni cinematografiche che sottilmente, persino inconsapevolmente, creano curiosità che si traducono in simpatie postume. La cinematografia italiana, a cominciare da La marcia su Roma (1962) di Dino Risi, a continuare senza nessuna pretesa di completezza con Amarcord (1973) di Federico Fellini per approdare a Una giornata particolare (1977) di Ettore Scola, ha saputo sbeffeggiare il fascismo, non rendendolo certamente oggetto plausibile di affetto postumo e di mal posta nostalgia. A rendere la profondità della tragedia della guerra civile spagnola offre un contributo notevole Mourir à Madrid (1963) del francese Frédéric Rossif. Per entrare nell’atmosfera grigia e cupa del Portogallo sotto Salazar, opprimente come può essere la vita sotto un regime autoritario, non c’è niente di meglio del piccolo libro di Antonio Tabucchi Sostiene Pereira (1994), poi trasposto nel film omonimo. Nessuna fascinazione dell’autore con il regime, nessun eccesso nella implicita condanna.

Per quali motivi a cent’anni dalla sua ascesa al potere il fascismo continui ad esercitare interesse e attrazione fra gli italiani, a produrre conflitti fra le famigerate memorie non condivise e a essere oggetto di esecrazioni, per quanto meritate, talvolta pesantemente retoriche, è un quesito che non ha ancora ricevuto risposte soddisfacenti. Tuttavia, alcuni editori e alcuni editori si sono orientati a offrire ai lettori qualcosa di diverso, non necessariamente migliore, di quanto, che è molto, è stato scritto dagli storici, italiani e stranieri. Il passare del tempo ha persino fatto crescere l’interesse nei confronti della figura, non soltanto politica, di Mussolini. L’enorme successo di vendite della trilogia di Antonio Scurati: M. Il figlio del secolo (2019); M. L’uomo della Provvidenza (2020); e M. Gli ultimi giorni dell’Europa (2022) costituisce la prova provata della curiosità, forse, anche morbosa, degli italiani per la vita del “loro” famoso dittatore. In una (in)certa misura, il successo di vendite dei libri di Scurati segnala anche che l’insegnamento della storia nelle scuole e nelle Università non ha colmato il desiderio di conoscere, oppure, interpretazione più favorevole, ha acuito l’interesse. Biografie romanzate di simile genere sulla vita dei grandi o dei molti, piccoli dittatori non esistono per Hitler, Franco, Salazar e neppure per i numerosi dittatori latino-americani.

Il fascismo fu tragedia e farsa, allo stesso tempo, mentre le democrazie sono spesso accusate di essere noiose. Il fascismo non può e non deve essere ridotto, come in larga misura fa, quand’anche a fini polemici e forse catartici, Aldo Cazzullo, Mussolini. Il capobanda. Perché dovremmo vergognarci del fascismo, (Milano, Mondadori 2022), alle azioni sanguinarie di una banda di delinquenti che non rappresentavano esigenze, timori, ambizioni, rivalse, opportunismi diffusi nella società italiana. Molto meglio, allora, tornare a riflettere sulla penetrante e lungimirante definizione del nascente fascismo data da Piero Gobetti: “autobiografia della nazione”, ovvero fenomeno, peraltro non inevitabile, ma, a determinate condizioni probabile, derivante dai mali e dai vizi sia degli italiani nella loro generalità sia delle classi dirigenti stesse. Quell’autobiografia non è stata completamente riscritta dalla Resistenza e dai partigiani, ma tutte le premesse e tutte le indicazioni per andare oltre, superare, eliminare gli aspetti più negativi della nazione e della sua incultura politica e sociale, si trovano negli articoli della Costituzione italiana.

L’ottimo titolo Il fascismo pop (sottotitolo “Da tragedia a commedia: il segreto che lo tiene in vita”) del cap. 16 del libro di Sergio Rizzo e Alessandro Campi, L’ombra lunga del fascismo. Perché l’Italia è ancora ferma a Mussolini (Milano, Solferino, 2022) coglie un elemento cruciale, di cui è praticamente impossibile liberarsi, concernente la persistenza del fascismo nell’immaginario collettivo italiano. Non solo nell’immaginario, ma nella vita vissuta e nella coesistenza degli italiani si collocano le conseguenze della limitatissima e sostanzialmente, poche eccezioni a parte, mancata epurazione. Da un lato, le Forze Armate, la Chiesa cattolica, la burocrazia, le Associazioni imprenditoriali, l’Università non procedettero all’esclusione di quasi nessuno dei loro componenti che erano stati fascisti. Nel nuovo contesto di competizione e incertezza tutti gli apporti erano necessari e potevano servire per proteggere e promuovere interessi, preferenze, attività particolaristiche e il numero giustificava le richieste di accesso alla sfera politica. Dall’altro, un po’ dappertutto nel paese ciascuno aveva incontrato, conosceva, intratteneva relazioni con chi era stato fascista. Erano pochissime le famiglie nelle quali non c‘era il classico zio fascista, un nonno, un fratello. Nei comuni, in particolare quelli medi e piccoli, tutti sapevano che il medico condotto, peraltro bravo nella sua attività, il farmacista, l’avvocato erano stati fascisti, un po’ sopraffattori un po’ prevaricatori, complici ma abbastanza raramente responsabili di violenze. Nella burocrazia, il compagno di stanza, servizievole nel suo lavoro, e il capufficio, pomposo, ma poco oppressivo, erano stati iscritti al Partito Nazionale Fascista, per convinzione e/o per convenienza. Qualche prete e qualche parroco avevano espresso sentimenti di vicinanza e persino gratitudine al Fascismo per avere sconfitto quei comunisti nemici della religione. Nelle Forze armate gli ufficiali già fascisti furono, se prominenti, epurati e/o mandati in pensione, altrimenti rallentati nella carriera. Pur fascista, quell’imprenditore sapeva fare il suo lavoro, creava valore aggiunto, assumeva operai. Privarlo della sua azienda sarebbe stato una grave perdita per la comunità e per un sistema economico che cercava di riprendersi. Per i docenti bastò che si riciclassero cambiando il nome del loro insegnamento, i testi adottati e, quando non troppo complicato e esigente, i contenuti. Il resto lo fecero il pericolo comunista e l’ombra lunga di Stalin. Quel passato, come, in verità, quasi tutti i passati in vario modo importanti, non passa. Continua a insegnare molto.

Le ragioni del No. Intervista a Gianfranco Pasquino

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Raccolta da Iacopo Gardelli per Ravennanotizie.it

Una chiacchierata con Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienze Politiche dell’Università di Bologna, per sapere meglio che cosa c’è in ballo col referendum costituzionale di ottobre e per capire le ragioni del “no”

Il Parco John Lennon di Mezzano è frequentato più da bugs che da beatles. Libellule, zanzare e altri esseri con le antenne per cui mi mancano le parole ci svolazzano intorno, ma a lui non sembrano affatto dare fastidio, anzi. Il professor Gianfranco Pasquino siede serafico sotto il chiosco, le lenti fotocromatiche dei suoi occhiali celano il suo sguardo. Risponde alle domande con un aplomb e una pacatezza che potrebbero essere orientali, se non fosse per il signorile accento piemontese.

In attesa della sua moderatissima piadina con “cotto e una foglia d’insalata”, ci prepariamo all’incontro pubblico che si terrà a pochi metri da qui. Con noi ci sono gli amici del Gruppo dello Zuccherificio, Massimo Manzoli e Andrea Mignozzi che, assieme al Comitato per il No alle Riforme Costituzionali e all’Italicum e all’ANPI di Mezzano, hanno organizzato questa serata per approfondire le ragioni di chi sostiene il no alla riforma costituzionale; la stessa riforma per cui Renzi si sta giocando, almeno a parole, la scadenza naturale di questa legislatura.

Partiamo da qui. Pochi giorni fa ho sentito a Otto e mezzo il professor Massimo Cacciari sostenere il sì con questa argomentazione, a detta sua repubblicana: nel caso vincesse il no alla riforma costituzionale, proprio per questa scelta renziana di legare gli esiti della votazione al mandato governativo, si aprirebbe un periodo di crisi politica difficilmente gestibile dal Parlamento italiano e dal Presidente della Repubblica. Una scelta fatta a malincuore, ma una scelta di responsabilità: repubblicana, appunto. Lei, che è un convinto sostenitore del no, che cosa risponderebbe a Cacciari?

(Pasquino scuote sconsolato la testa) “Rispondo che sta inanellando una serie di stupidaggini. Per vari motivi. Primo, perché il referendum è in merito a una riforma costituzionale fatta dal Parlamento e non dal Governo; secondo, perché se il Presidente del Consiglio personalizza la campagna referendaria non si sta semplicemente esprimendo sul referendum, ma sta chiedendo un plebiscito sulla sua persona. Questa cosa gli è già stata troppo blandamente rimproverata dal presidente Napolitano, che dovrebbe saperne di più, e che si è limitato a dire che ‘il Presidente del Consiglio non deve personalizzare’; anche se l’espressione giusta sarebbe stata: ‘non deve chiedere un plebiscito’. E non deve neanche minacciare o ricattare gli elettori, dicendo ‘se non votate le mie riforme, vi lascio in una situazione molto complicata’, ricatto nel quale il professor Cacciari, evidentemente, cade. Terzo, perché non tocca al Presidente del Consiglio dire che cosa succede dopo la consultazione: nel caso venisse sconfitto nel referendum, la parola passerebbe al Presidente della Repubblica, che deve esplorare la possibilità di un’altra maggioranza in Parlamento: ed è possibile che ci sia. E infine, si è visto mai che in questo paese possa esistere un’unica persona in grado di fare il Presidente del Consiglio? Io credo che ce ne siano almeno altre quattro o cinque che potrebbero avere la maggioranza e la fiducia al Parlamento, nonché la capacità di fare riforme migliori e meno divisive.”

Non voglio fare l’ermeneutica di Cacciari, ma glielo chiedo lo stesso: secondo lei il filosofo è in cattiva fede quando sostiene che la crisi non sarà gestibile?

“Cacciari non è in cattiva fede. Cacciari è diventato incredibilmente renziano, perché è contro la vecchia guardia del Partito Comunista – della quale peraltro lui ha fatto parte. E soprattutto non ne sa abbastanza. Sta parlando di argomenti che non conosce. L’ho già rimproverato duramente sul Fatto Quotidiano, evidentemente nessuno ha portato alla sua attenzione la mia critica, però persiste nell’errore. Non è un compagno che sbaglia, ma un compagno che persevera nell’errore.”

Diabolico. Ma entriamo nel merito: se dovesse convincere un elettore indeciso con due argomenti per il no, quali sceglierebbe?

“Il primo: questa riforma costituzionale è disorganica e sbagliata. L’unica cosa che tocca veramente è il Senato, ma il Senato non è il problema che rende difficile il governo in Italia. Erano altre le cose si potevano fare, ma Renzi ha candidamente dichiarato che ‘non gliele avrebbero lasciate fare’. Eppure mi pare che avesse una maggioranza e una grinta che avrebbe potuto usare meglio per imporre un’altra e migliore riforma. Insomma, la riforma del Senato è da un lato pasticciata e dall’altro confusa. Pasticciata nella composizione del Senato: 74 rappresentanti non si sa bene scelti come, perché non è stato deciso il verbo: “nominati” o “designati” dai Consigli Regionali. Ma non sappiamo se devono essere già dentro i Consigli Regionali o se devono essere eletti prima, dagli elettori quando eleggono il Consiglio Regionale. Poi 21 rappresentanti dei Comuni: ma non sappiamo se devono essere i Comuni capoluogo di Regione, o se verranno scelti dai Comuni stessi o dai consiglieri comunali; e infine 5 senatori nominati dal Presidente della Repubblica. Incredibile! In una Camera delle Regioni uno si chiede per quale ragione il Presidente della Repubblica debba nominare 5 senatori. Fra l’altro, l’articolo costituzionale sui senatori a vita recita ‘per meriti artistici, sociali, letterari o scientifici’. Qui bisognerebbe aggiungere ‘per meriti federalisti’: ma sfido chiunque a trovare 5 grandi federalisti in questo paese, finiti con la morte di Gianfranco Miglio, fondamentalmente.”

Capito il pasticcio. Ma per quanto riguarda la confusione?

“Dal punto di vista delle competenze questa riforma è sostanzialmente confusa: non è chiaro quali leggi saranno soltanto di competenza della Camera; non è chiaro quanto il Senato potrà richiamare alcune leggi; e non è chiaro quali saranno i conflitti dal momento in cui qualcuno solleverà dubbi sulla legittimità di questi confini; la Corte Costituzionale, infatti, è già in allarme, perché teme una serie di ricorsi inaudita, come peraltro è già successo in questo periodo. Siamo di fronte ad una situazione che non risolve praticamente nulla. Ma perché? Perché tutto questo è basato su una premessa che è sbagliata, ovvero che il bicameralismo italiano, che è paritario (se mi dice perfetto, l’intervista finisce qui), non è mai stato di ostacolo ai governi. Il bicameralismo italiano fa mediamente più leggi degli altri bicameralismi importanti: quello tedesco, quello francese, quello inglese e quello americano.”

Quindi l’argomento della lentezza pachidermica del Senato è pura retorica?

“Non è retorico: è una manipolazione, oppure è il prodotto di ignoranza. Nessuno di loro ha letto i documenti che potrebbero avere dai funzionari del Senato, persone di eccellente qualità. Ma passiamo al secondo motivo che mi ha chiesto. Con questa riforma, a un Senato di 95 persone, elette indirettamente, si affida non solo la riforma della Costituzione, ma anche l’elezione di ben due giudici costituzionali. 630 deputati, invece, ne eleggeranno solo 3. Questo è uno squilibrio che grida vendetta al cospetto di non so che cosa… al cielo? Tutto questo non prefigura un bel niente: non c’è una visione sistemica, organica. Dove andiamo dopo questa riforma? Si risolve davvero i problemi istituzionali italiani? No. Non sappiamo dove andiamo. Stiamo toccando il Governo con questa riforma? No, non così, ma con una legge elettorale, l’Italicum. Loro continuano a sostenere che non fa parte di questo pacchetto, e invece ne fa parte eccome. Perché questa legge elettorale avrebbe potuto risolvere immediatamente il problema del Senato uniformando le due leggi elettorali, per avere la stessa maggioranza, se questo era il problema. Ma in realtà l’Italicum squilibra il potere a favore della Camera e, aggiungo, a favore del Presidente del Consiglio. Però, tutto questo, lo fa in maniera assolutamente poco sistemica, con tutto quello che ne consegue. Qua non si tratta di dare tanto potere all’unico uomo in grado di fare il Presidente del Consiglio (francamente ridicolo), ma si tratta di creare una legge elettorale che sia competitiva e che dia potere agli elettori. Questa legge elettorale non gliene dà abbastanza: io direi che gliene dà poco. Ecco, due buone ragioni per votare no. Un no convinto, pacato, sereno…” (sorride)

Quando Renzi batte sul tasto del fantomatico taglio del costo della politica, si tratta di un argomento convincente, o no?

“Renzi dice che con questa legge elettorale i senatori non saranno più pagati perché sono già consiglieri regionali. Ma naturalmente bisogna tenere conto dei soldi delle trasferte. Un conto è abitare a Roma, e lì ci sono da contare, eventualmente, solo i soldi del tassì. Ma se uno abita a Palermo o in Sardegna, l’aereo lo deve pur prendere. Quindi, sì, forse ci potrebbe anche essere una riduzione dei costi della politica; ma le pare un discorso politicamente efficace questo? O, piuttosto, è un discorso populisticamente efficace? Blandisce chi pensa che la politica debba essere a costo zero; e invece la democrazia bisogna pagarla, con i soldi, prima, e poi naturalmente con l’impegno, le energie, con la volontà di informarsi, e così via. Si tratta semplicemente della ricezione passiva di un discorso che viene da alcuni settori della classe politica (in particolare dal Movimento 5 Stelle), e da alcuni settori della stampa, in particolare dal Corriere della Sera (in questo caso La casta, di Giannantonio Stella e Sergio Rizzo, ha avuto un impatto tremendo, nonostante tutti gli inconvenienti di quel libro, trasparenti a chi lo avesse non solo comprato per regalarlo, ma magari anche letto). E poi, i costi potevano essere ridotti anche semplicemente riducendo il numero dei parlamentari alla Camera, perché no? 630 a me paiono tanti, e a lei?”

Nel panorama politico italiano c’è qualcosa da salvare?

“Nel panorama politico italiano ci sono diverse cose da salvare. Ci sono fior fiore di parlamentari che conoscono il loro mestiere. Nonostante la narrazione renzian-boschiana, abbiamo fatto, nel 1993, un’ottima legge elettorale per i sindaci, che sta dando ripetutamente buoni frutti. Stiamo cercando governi stabili e operativi? I sindaci sono a capo di governi stabili, operativi quanto loro li sanno rendere tali. È da salvare il ruolo del presidente della Repubblica, perché è stato un’equilibratore, e qualche volta anche un’attore significativo, nel nostro sistema. È da salvare la competizione multi-partitica: questa idea che bisogna ridurre tutto a due soli partiti, è semplicemente sbagliata. I partiti saranno tanti quanti gli italiani vogliono che siano. Con la clausola, che io penso debba esserci, di sbarramento, in modo da impedire la frammentazione. E infine, credo che sia da salvare anche, diciamo così, un sano sentimento di protesta, che si manifesta in molti di noi, e che per molti si incanala nel Movimento 5 Stelle.”

Pubblicata il 26 Giugno 2016

A Manciano (GR) domenica 15 giugno

Manciano

Dalle elezioni europee alle amministrative, dal semestre italiano alle riforme nazionali.

Domenica 15 giugno 2014 ore 18

Piazza della Rampa – Manciano (GR)

Incontro promosso dall’unione comunale del Partito Democratico di Manciano

 

Manciano: “Un paese che esce dalle ultime elezioni con un’indicazione omogenea su tutto il territorio, un partito che con il 40,8 per cento dei voti riceve il mandato per una vocazione nazionale. Come cambierà il paese, e come cambierà il Pd? E come riusciranno, insieme, a cambiare l’Europa”?

L’unione comunale del Pd di Manciano invita tutti i cittadini a discuterne insieme a tre osservatori eccellenti:

– Sergio Rizzo, giornalista del “Corriere della Sera”

– Gianfranco Pasquino, professore di Scienza politica

– Paolo Freguglia, docente al Disim, Università dell’Aquila