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Critica delle riforme impure #DemocraziaFutura @Key4biz

Perché raddrizzare una discussione appena incominciata, abbastanza male indirizzata. Il punto di Gianfranco Pasquino, Professore Emerito di Scienza politica e Socio dell’Accademia dei Lincei.

A meno di una settimana dall’avvio delle consultazioni del governo con i rappresentanti delle opposizioni, Gianfranco Pasquino, in un articolo per Democrazia futura ” Critica delle riforme impure”, spiega – come recita l’occhiello – “Perché [occorra raddrizzare una discussione appena incominciata, abbastanza male indirizzata”. Il noto scienziato politico, dopo aver denunciato “la confusione fra premierato e sindaco d’Italia”, descrivendo i principali casi di premierato ovvero “Il modello Westminster di cabinet government del Regno Unito”, nonché “Il caso del Cancellierato tedesco e della Presidenza del governo spagnola”, chiarisce “Perché va[da] respinta drasticamente la proposta del Sindaco d’Italia, di un (quasi) presidenzialismo”, prima di soffermarsi su “Le differenze importanti fra presidenzialismo USA e semi presidenzialismo alla francese” e di motivare la  sua predilezione verso “l semipresidenzialismo alla francese dotato – a suo parere – di elasticità istituzionale e politica”, sottolineando in conclusione la necessità, qualunque sia il modello prescelto, di “Associare al modello costituzionale una legge elettorale decente”.

L’obiettivo dichiarato delle riforme costituzionali di Giorgia Meloni è garantire la stabilità del capo del governo per tutta la durata del mandato. Strumento, ma al tempo stesso anche obiettivo di rivendicazione radicata nella storia della destra italiana, è il presidenzialismo (questo sta scritto nel programma elettorale di Fratelli d’Italia), oggi variamente definito come elezione popolare diretta della più alta carica dello Stato e di governo.

Una immediata nota di cautela, quasi un impossibile veto, è stata introdotta, in special modo, ma non solo, da Giuseppe Conte, dalla sinistra, dal PD: la Presidenza italiana dovrebbe comunque mantenere il suo ruolo e i suoi poteri di garanzia.

Prima di qualsiasi discussione e approfondimento, due precisazioni generali (quelle particolari seguiranno) sono assolutamente necessarie.

Prima precisazione: la stabilità nella carica ha valore positivo se intesa come premessa per la produzione di decisioni, ovvero se accompagnata dall’efficienza e efficacia decisionale.

Seconda precisazione: è imperativo chiarire quale modello di elezione popolare diretta viene prescelto per essere in grado di valutare quanta stabilità offra, a quale prezzo e con quali conseguenze.

Aggiungo subito che una valutazione più convincente discenderebbe dalla comparazione fra una pluralità di modelli, includendovi anche alcuni modelli parlamentari nei quali non è contemplata nessuna elezione popolare diretta del capo del governo

La confusione fra premierato e “sindaco d’Italia”

Nella ridda di dichiarazioni, molti esponenti della maggioranza governativa hanno variamente – giulivamente affermato che è possibile eleggere direttamente il capo dell’esecutivo mettendo sullo stesso piano presidenzialismo, semipresidenzialismo e premierato. Il modello del premierato non è mai stato specificato: dove, quando, come, e la situazione si è ulteriormente complicata quando alcuni esponenti di governo hanno dichiarato che anche il modello del Sindaco d’Italia, proposto da Matteo Renzi di Italia Viva, può essere preso in considerazione.

Tecnicamente, premierato dovrebbe significare governo del Premier, del capo di governo in una democrazia parlamentare. Però, in nessuna democrazia parlamentare il capo del governo viene eletto dai cittadini. Dappertutto, il capo del governo viene scelto dal partito di maggioranza o dai partiti che danno vita ad una coalizione in grado di governare. Ha fatto eccezione a questa regola, quasi, come vuole il proverbio, a sua conferma, Israele eleggendo per tre volte, 1996, 1999, 2001, il Primo ministro, poi non avendone tratto benefici né politici né istituzionali, tornando alle negoziazioni parlamentari.

Il modello Westminster di cabinet government del Regno Unito

L’espressione premierato è ovviamente di origine inglese anche se il cosiddetto “modello Westminster” è meglio definito cabinet government dove il/la Primo Ministro è un primus talvolta primissimus fra i ministri più autorevoli che compongono il governo. Nessuno di loro, né nel Regno Unito né in Australia, Canada, Nuova Zelanda, è mai stato eletto direttamente. Risibile e deplorevole è sostenere, come hanno fatto alcuni cattivi maestri del Diritto Costituzionale, che nel Regno Unito esiste l’elezione “quasi” diretta del Primo ministro.

Non solo la condizione essenziale per diventare Primo ministro è quella di essere il capo della maggioranza parlamentare, ma sono ormai molto numerosi (troppi per citarli) i casi di Primi ministri subentrati a legislatura in corso senza nessun passaggio elettorale.

Potremmo dedurne che alla stabilità nella carica viene preferita l’elasticità che consenta il rilancio dell’azione di governo senza “logorare” l’elettorato con frequenti ritorni alle urne e, ovviamente, senza rischiare la sconfitta elettorale.

Il caso del Cancellierato tedesco e della Presidenza del governo spagnola

Le due democrazie parlamentari europee i cui capi di governo sono rimasti solidamente in carica e per lungo tempo sono Germania e Spagna. In nessuna delle due il Cancelliere e il Presidente del governo, come sono rispettivamente chiamati, sono eletti direttamente dal “popolo”.

Il meccanismo nient’affatto segreto che li stabilizza e consente loro di essere, se ne hanno la capacità personale e politica, efficaci, si chiama rispettivamente voto di sfiducia costruttivo e mozione di sfiducia costruttiva.

Sono le rispettive camere basse a votare in carica il capo del governo e, se lo sfiduciano, ad avere la possibilità di cambiarlo eleggendone un altro, il tutto a maggioranza assoluta.

Darei credito al Costituente repubblicano Tommaso Perassi di avere immaginato con il suo giustamente famoso ordine del giorno la formulazione di un meccanismo dello stesso tipo per stabilizzare il governo italiano. Se Elly Schlein propone qualcosa di simile ha scelto la strada giusta, nettamente alternativa ai presidenzialismi finora neppure abbozzati dal destra-centro.

Perché va respinta drasticamente la proposta del Sindaco d’Italia, di un (quasi) presidenzialismo

Dalla spazzatura della cavalcata costituzionale di Renzi sconfitto nel referendum 2016 è riemerso il fantomatico Sindaco d’Italia, il (quasi)presidenzialismo de noantri. Tralascio qualsiasi considerazione sulla necessità di tenere conto che quello che ha funzionato (fui tra gli sponsor di quel tipo di legge) per i comuni non è affatto detto che riesca a funzionare a livello nazionale. Anzi, probabilmente, no. Basterebbero alcune obiezioni per neanche soffermarsi su una proposta che è sbagliata e strumentale, ma anche strumentalmente intrattenuta da alcuni malintenzionati del destra-centro. Il Sindaco d’Italia farebbe strame del ruolo di salvaguardia/garanzia del Presidente della Repubblica.

Un sindaco eletto dai cittadini toglie al Presidente qualsiasi potere di nomina né, ovviamente, del candidato risultato vittorioso alle urne né degli assessori(/ministri) che il Sindaco avrà negoziato con gli alleati che lo hanno fatto vincere i quali, pertanto, hanno diritto a ricompense adeguate.

Il Presidente non potrà sciogliere il Consiglio/Parlamento (ovviamente monocamerale) neppure se paralizzato da veti incrociati e incapace di governare

Quel Consiglio con il suo sindaco potrà durare anche per tutto il mandato al fine di evitare di confessare le proprie inadeguatezze e di essere costretto dal fallimento a un salto nel vuoto elettorale.

Oppure sarà automaticamente sciolto, e Il Presidente non potrebbe opporvisi, se il sindaco preferirà andarsene per più elevate cariche oppure sarà costretto a dimettersi per malefatte. Alla faccia della stabilità.

Le differenze importanti fra presidenzialismo USA e semi presidenzialismo alla francese

Tornando a presidenzialismo e semipresidenzialismo, le loro logiche di funzionamento e i loro problemi istituzionali presentano differenze tanto chiare quanto importanti.

Per il presidenzialismo negli Stati Uniti d’America (immagino che Giorgia Meloni non abbia come riferimento i presidenzialismi latino-americani, peraltro, non tutti da mettere nello stesso sacco), comincerò con il notare che si accompagna ad un federalismo radicato e vigoroso che, fra l’altro, si esprime nell’elezione popolare diretta di due Senatori per ciascuno Stato dando vita a quella che è unanimemente considerata l’assemblea elettiva più forte al mondo.

Sottolineo che il Presidente non ha il potere di iniziativa legislativa (supplendovi in una varietà, non sempre apprezzabile e commendevole, di modi), che appartiene al Congresso.

Chiudo per ragioni di tempo e di spazio soffermandomi sull’inconveniente più grave, a partire dagli anni Ottanta del XX secolo diventato molto frequente: il governo diviso.

La formula del presidenzialismo USA fu definita nel 1960 da Richard Neustadt: separate institutions sharing powersVent’anni dopo la formula fu precisata: separate institutions competing for power, vale a dire che, comunque, il Presidente non è mai dominante. Deve sempre fare i conti con la Corte Suprema e con il Congresso.

Quando, per 34 anni sui recenti 48 (12 presidenze, ovvero 7 Presidenti), in uno o in entrambi i rami del Congresso, il partito del Presidente non ha la maggioranza, ne consegue la situazione di governo diviso (apparentemente non noto oppure gravemente sottovalutato dai presidenzialisti italiani). Il Presidente vedrà non gradite, non accettate, non votate le proposte di legge introdotte dai suoi parlamentari e il Congresso vedrà il Presidente porre il veto sui suoi disegni di legge.

In un Congresso polarizzato la maggioranza dei due terzi indispensabile a superare il veto presidenziale si manifesterà rarissimamente. Il Congresso accuserà il Presidente di bloccare le riforme, accusa che il Presidente con la potenza di fuoco della Casa Bianca ritorcerà contro i suoi avversari nel Congresso a tutto scapito della possibilità per gli elettori di attribuire limpide responsabilità politiche. L’uomo al comando non tradurrà il suo mandato in politiche promesse e coerenti e si troverà triste, solitario y final (la sua rielezione inevitabilmente in dubbio).

Perché prediligo il semipresidenzialismo alla francese dotato di elasticità istituzionale e politica

Tutt’altra è la storia del semipresidenzialismo alla francese il cui finale non è mai scritto in anticipo poiché è un modello dotato di elasticità istituzionale e politica.

Anzitutto, il Presidente è eletto direttamente dal popolo con un sistema che, se al primo turno nessun candidato ha ottenuto la maggioranza assoluta, obbliga al ballottaggio. Dunque, agli elettori si offre l’opportunità di valutare con cura le alternative in campo e le loro conseguenze. Dopo la riforma costituzionale del 2002, l’elezione dell’Assemblea Nazionale segue quelle presidenziali che vi esercitano un effetto di trascinamento, cioè, gli elettori sono inclini a consegnare al Presidente appena eletto una maggioranza parlamentare operativa.

Qualora non avvenisse così, la coabitazione fra Presidente, capo di una maggioranza, e maggioranza opposta, che esprime il Primo ministro, da un lato, non porrebbe in stallo il sistema poiché il Primo ministro avrebbe i numeri per governare, dall’altro, passato un anno, il Presidente ha il potere di scioglimento dell’Assemblea nel tentativo di ottenere dall’elettorato, che ha seguito gli avvenimenti, una maggioranza a lui favorevole.

Infatti, sarà sufficientemente chiaro chi, Presidente o Primo ministro, è responsabile del fatto, non fatto, fatto male.

Come abbiamo visto di recente, grazie all’articolo 49 comma tre, in casi eccezionali il Presidente può anche imporre l’attuazione di una legge se la sua maggioranza è restia, fermo restando che su richiesta di un decimo dei parlamentari viene attivato il voto di sfiducia nei confronti del/la Primo ministro. Inoltre, sessanta parlamentari hanno la possibilità di fare direttamente ricorso al Conseil Constitutionnel per bloccare leggi ritenute incostituzionali.

Conclusioni. Una discussione male indirizzata assolutamente da raddrizzare

Per rientrare nelle preoccupazioni italiane, è inevitabile che i due Presidenti, espressione delle preferenze politiche dei loro cittadini, a quelle preferenze cerchino di rispondere e non siano classificabili come organismi di garanzia. Entrambi, però, sicuramente intendono e, per lo più, lo dicono alto e forte, rappresentare la loro nazione, il popolo. Che vi riescano o no, lo diranno i risultati elettorali e lo scriveranno gli studiosi.

D’altronde, quando mai i partiti italiani del centro-destra hanno riconosciuto imparzialità, terzietà, equilibrio, garanzia ai Presidenti Oscar Luigi Scalfaro (1992-1999), Carlo Azeglio Ciampi (1999-2006), Giorgio Napolitano (2006-2013; 2013-2015)? Solo di recente hanno scoperto queste doti in Sergio Mattarella, non certo nei primi anni del suo primo mandato (2015-2022).

Nella democrazia parlamentare spagnola, la garanzia sta, come per tutti i sistemi politici dell’Europa occidentale che sono monarchie, nelle mani del Re.

In Germania, il Presidente della Repubblica è il garante anche grazie al fatto che la sua elezione è stata sostanzialmente sempre concordata fra i partiti.

Associare al modello costituzionale una legge elettorale decente

Nessuna discussione dei modelli di governo può dirsi esaurita e meno che mai esauriente se non è accompagnata da una descrizione e valutazione delle leggi elettorali con le quali vengono formati i rispettivi parlamenti.

Questo non è un altro discorso, poiché le relazioni Presidente/Parlamento sono di cruciale importanza per il funzionamento di qualsiasi (semi)presidenzialismo.

Lampante che la legge Rosato, già pessima per qualsiasi democrazia parlamentare, non potrà essere preservata nel suo impianto neppure ritoccandola con l’eliminazione delle scandalose pluricandidature e con l’inserimento del voto di preferenza.

Al momento, il silenzio sulla legge elettorale non consente di procedere a riflessioni più approfondite, ma fin d’ora va affermato che qualsiasi modello sarà prescelto, dovranno essere formulate leggi elettorali apposite e che nei presidenzialismi non esistono leggi elettorali con premi di maggioranza.

Complessivamente, la discussione appena cominciata appare già abbastanza male indirizzata, chi la raddrizzerà?

Riferimenti bibliografici essenziali

Gianfranco Pasquino, Sistemi politici comparatiFrancia, Germania, Gran Bretagna, Italia, Stati Uniti, Bologna, Bononia University Press, 2007, 173 p.

Gianfranco Pasquino (a cura di), Capi di governo, Bologna, il Mulino, 2005, 373 p.

Pubblicato il 15 maggio 2023 su Key4biz

La confusione proporzionale e il falso mito dell’alternanza @DomaniGiornale

Quanto il male informato, manipolato, complessivamente pessimo dibattito sulle regole delle democrazie parlamentari influisce sulla opinione pubblica, ma anche sulle posizioni che prendono gli uomini e le donne in cariche politiche?

Un’ondata di terrore sta colpendo i popoli (sic) scandinavi e la penisola iberica. I primi Hanno votato per più di cent’anni e i secondi per quasi cinquant’anni con leggi elettorali proporzionali ovvero con quello che nel titolo di un editoriale in prima pagina il “Corriere della Sera” (23 gennaio) definisce “Il sistema sbagliato”. Grande preoccupazione e vera e propria ansia attanagliano i capi di quei governi e, più in generale, di tutti i governi delle democrazie parlamentari. Nessuno di quei governi è “uscito dalle urne”, è stato incoronato direttamente dal voto popolare. Senza esclusione alcuna, sempre, tutti i governi delle democrazie parlamentari si formano nei rispettivi parlamenti che, quindi, potranno, all’occorrenza, cambiarne la composizione. Nessuno dei capi di governi è stato votato direttamente dagli elettori, nessuno di loro gode di una specifica personale legittimazione elettorale tranne che, non sempre, è un parlamentare. Tutti sono sostituibili in corso d’opera senza il famoso “passaggio elettorale”, persino in Gran Bretagna, dove il sistema elettorale è maggioritario in collegi uninominali. Incidentalmente, non basta un premio di maggioranza a rendere una legge elettorale maggioritaria. Anzi, definire sistema maggioritario una legge elettorale proporzionale che si accompagna con un premio in seggi è una manipolazione da denunciare tutte le volte. Sostenere che nei comuni e nelle regioni il sistema elettorale è maggioritario è tanto sbagliato quanto fuorviante. L’elezione del sindaco, che si accompagna con una legge proporzionale per l’elezione del consiglio comunale, configura un modello di governo di tipo presidenziale. Chi, a prescindere da qualsiasi considerazione di scala, sostiene la Grande Riforma per eleggere il Sindaco d’Italia vuole, più o meno consapevolmente, una forma di governo presidenziale.

Grande è la varietà delle coalizioni di governo esistite e esistenti nelle democrazie parlamentari. In estrema sintesi: coalizioni minimo vincenti (appena al disopra della maggioranza assoluta), coalizioni sovradimensionate (comprendenti più partiti del necessario ad avere la maggioranza assoluta), coalizioni di minoranza (meno voti della maggioranza assoluta). La condizione del governo Conte 2 era di una coalizione di minoranza soltanto in Senato, non alla Camera. Bollarlo come “governo di minoranza” era un modo di negarne la legittimità (anche perché né il governo né il suo capo sono stati eletti dal popolo!). L’art. 94 della Costituzione stabilisce laconicamente che “Il Governo deve avere la fiducia delle due Camere”.  

In buona misura, i governi di minoranza, attualmente, ce n’è uno in Svezia guidato dai socialdemocratici, vivono grazie alla non convergenza delle opposizioni in un voto di sfiducia. Operano attuando parti del loro programma e negoziandone altri con i partiti disposti a sostenerle. Cambiare governi non alla loro scadenza naturale implica sempre costi economici e sociali. In questo parlamento non esiste nessuna possibilità di alternanza, ovvero di sostituzione dell’intero governo ad opera di un’altra coalizione nessuna delle cui componenti abbia fatto parte di quel governo. L’alternanza completa è fenomeno raro nelle democrazie parlamentari. In Germania, ad esempio, vi è stato un solo caso limpido di alternanza quando nel 1998 la coalizione socialdemocratici-verdi sconfisse il governo democristiani-liberali. In Italia, di tanto in tanto, i sedicenti maggioritari s’interrogano sulla necessità di un centro per fare l’alternanza. Grande è il mix di ignoranza istituzionale e incoerenza personale e politica. Preso atto dei suoi limiti operativi e dell’indisponibilità ad un allargamento della sua maggioranza, Conte si è dimesso. Ripartano i meccanismi delle democrazie parlamentari.

Pubblicato il 26 gennaio 2021 su Domani

Ma quale rimpasto, è ora di studiare. La versione di Pasquino @formichenews

Non è il momento di pensare a un rimpasto di governo che, peraltro, potrebbe non piacere troppo all’Europa. È l’ora di studiare, scrive Gianfranco Pasquino, e stilare con immaginazione i progetti, tempi e costi, per ottenere i fondi europei. Il commento del professore emerito di Scienza Politica

Il gioco italiano del rimpasto mi ha sempre affascinato. Circolano nomi, anche fantasiosi. Si evocano spettri, anche maligni. Si saltano a pié pari, ma anche dispari, i problemi e le motivazioni. Si fa credere ai retroscenisti che il rimpasto/quel rimpasto è un’operazione di enorme rilevanza. Risolutiva. Infine, si intervista anche qualche stratega peso massimo per ottenere conferme che puntuali arrivano, ma anche no, tanto ci siamo già scordati dei punti di partenza. Sono due, in contemporanea: le elezioni regionali e il referendum sul taglio (riduzione del numero) dei parlamentari.

Mi sforzo, ma non riesco a individuare quali sarebbero i ministri da rimpastare se, per fare un esempio, i giallo-rossi perdessero qualche regione di troppo. Chi dovrebbe andarsene se saggiamente gli elettori dicessero no al taglio della loro già incerta e claudicante rappresentanza? Qualcuno ha per caso stilato un elenco delle cose fatte e delle malefatte dei ministri di Conte? Certo, il rimpasto non può toccare il Presidente del Consiglio popolarissimo e stimato punto di equilibrio della coalizione. Dopo il Conte Due si trova soltanto un eventuale Conte Tre per andare a elezioni, quindi, dopo il gennaio-febbraio 2022, avvenuta l’elezione del Presidente della Repubblica in un trilottaggio scintillante e appassionante “Casellati/Casini/Draghi” (a domanda di Formiche, spiegherò, un’altra volta).

Nel frattempo, le ambizioni dei ministrables vanno tenute sotto controllo. Si dedichino a risolvere i rimanenti problemi con le autostrade. A stilare con immaginazione i progetti, tempi e costi, per ottenere i fondi europei. A leggere, non dico un libro (vaste programme per i politici italiani sosterrebbe de Gaulle), ma un articolo scientifico sulle leggi elettorali e le loro conseguenze. Potrebbe servire e poiché non è affatto urgente hanno tutto il tempo per dedicarvisi, ma assumano l’impegno magari per farsi spiegare da Delrio come la legge Rosato sia nel frattempo diventata da 2/3 Pr e 1/3 maggioritaria addirittura “ipermaggioritaria”. Naturalmente, alcuni di noi, viziosi e viziati studiosi, apprezzerebbero essere informati su qualche altro esempio esemplare di legge elettorale maggioritaria, non “il sindaco d’Italia” che è una forma di governo similpresidenziale, non una legge elettorale.

Mentre i Cinque Stelle si arrovellano su Crimi e su Di Battista e i Dem si interrogano su come ricostruire una cultura politica, scriverò, azzardatamente, un aggettivo da prendere con le molle, esplosivo: “riformista” (no? allora progressista), non è credibile che abbiano tempo e capacità di fare due cose insieme, aggiungendovi il rimpasto anche perchè all’orizzonte non si affacciano personalità straordinarie alle quali affidare i ministeri decisivi. Riesco, però, ad immaginare le facce sgradevolmente sorprese e inquiete delle autorità europee se dovessero essere obbligati a trattare con qualche faccia italiana nuova, non sperimentata, meno affidabile del (non già brillante) solito. Buone vacanze.

Pubblicato il 6 agosto 2020 su formiche.net

Polveroni proporzional-maggioritari #LeggeElettorale

Scrivere una legge elettorale in attesa di un referendum quindi senza sapere quanti saranno i parlamentari da eleggere non è un’operazione saggia. Che la saggezza sia assente dal dibattito politico sul tipo di legge da scrivere è provato dalle affermazioni dei protagonisti politici. C’è chi vuole il “ritorno” alla proporzionale e chi lo ritiene un errore gravissimo. Però, la legge vigente, di cui fu relatore l’on. Rosato, oggi in Italia Viva, è già oggi due terzi proporzionale e un terzo maggioritaria. Quanto al testo in discussione non è, comunque, “la” temutissima “proporzionale pura” poiché prevede una soglia del 5 per cento di voti per avere accesso al Parlamento. Comprensibilmente, tanto Italia Viva quanto Leu (liberi e Uguali), ai quali i sondaggi impietosi attribuiscono rispettivamente all’incirca tre e meno di due per cento delle intenzioni di voto vorrebbero una soglia più bassa. Dal canto suo, Salvini si dichiara sbrigativamente a favore del maggioritario (sul quale Meloni non si esprime), ma non chiarisce quale. Non sarebbe un chiarimento da poco poiché il maggioritario inglese e quello francese, entrambi applicati in collegi uninominali, dove i candidati vincono o perdono, funzionano in maniera molto diversa. Infatti, il doppio turno francese offre agli elettori la grande opportunità di usare due voti: al primo turno per la candidatura preferita, al secondo per la candidatura da fare vincere, la meno sgradita.

Dopo avere detto che per gli italiani la legge elettorale è l’ultima delle preoccupazioni, affermazione alquanto discutibile, Salvini annuncia che è favorevole a due riforme: presidenzialismo e federalismo, cioè, concretamente, che vorrebbe abbandonare la democrazia parlamentare. Il capo di Italia Viva, Matteo Renzi, che non può permettersi di apparire un conservatore istituzionale, si dichiara “maggioritario” e propone la formula nota come “sindaco d’Italia”. Ma il sindaco d’Italia non è una legge elettorale. È una forma di governo di stampo sostanzialmente presidenziale poiché contiene l’elezione popolare diretta del capo dell’esecutivo, vale a dire il sindaco e il Primo Ministro. Non solo questo presidenzialismo mascherato richiederebbe la riscrittura di una manciata di articoli della costituzione italiana, ma, se disegnato seguendo il modello comunale, si basa su una legge proporzionale per l’elezione dei parlamentari, con un premio di maggioranza attribuito al capo, il sindaco o il Primo ministro, della coalizione vittoriosa. Curiosamente, nessuno si esprime in maniera limpida su due aspetti scandalosi della legge elettorale vigente: le candidature plurime e paracadutate, ovvero svincolate dalla residenza dei candidati. Sono gli strumenti con i quali i dirigenti dei partiti garantiscono l’elezione propria e dei loro più fedeli collaboratori/trici a scapito della rappresentanza politica che con il numero dei parlamentari ridotto di un terzo diventerà, a prescindere dalla formula elettorale, ancora meno soddisfacente.

Pubblicato AGL il 6 luglio 2020

Coazione a sbagliare l’avventurismo istituzionale di Matteo Renzi

Ricomincia l’avventura costituzionale? Vent’anni fa Mario Segni lanciava l’idea del sindaco d’Italia, ovvero l’elezione popolare del Presidente del Consiglio ricorrendo al modello, più elettorale che istituzionale, dei sindaci. Oggi la riprende Renzi con la stessa superficialità e mancanza di precisione. Tre lustri fa per controbattere chi voleva introdurre in Italia l’elezione diretta del Primo ministro, ho curato un “bel” (sic) libro Capi di governo (Il Mulino, 2005): Austria e Germania, Gran Bretagna e Irlanda, Spagna e Svezia. Per tre volte utilizzata in Israele, l’elezione popolare diretta del Primo Ministro, fu abbandonata perché non funzionava. Non esiste nessun buon motivo per riesumarla in Italia. Nelle democrazie parlamentari, il Primo Ministro nasce e muore in Parlamento. Punto.

 

Due e forse più cose che so sulle leggi elettorali @formichenews

Il vero test della validità di una legge elettorale è basato su due criteri: il potere degli elettori e la qualità della rappresentanza politica. Quando gli elettori possono esclusivamente tracciare una crocetta sul simbolo di un partito hanno poco potere. Il commento di Gianfranco Pasquino, professore di Scienza politica e autore, tra gli altri testi, di “I sistemi elettorali”, (Il Mulino, 2006)

No, non chiedete di sapere tutto sui sistemi elettorali. Soprattutto non chiedetelo né ai sedicenti riformatori elettorali né ai loro consulenti. Limitatevi ad alcuni pochi punti. Primo, a chi vi dice che non esiste legge elettorale perfetta rispondete subito che quell’affermazione è banale e persino un po’ manipolatoria. Per di più, cela il fatto che esistono alcuni sistemi elettorali che funzionano meglio, molto meglio di altri. Guardatevi intorno. Leggete qualche libro, almeno qualche articolo. Secondo, ricordate che nelle democrazie parlamentari, in TUTTE le democrazie parlamentari, le leggi elettorali servono a eleggere un Parlamento, mai un governo. Il pregio delle democrazie parlamentari è la loro flessibilità proprio per quanto riguarda il governo. Nasce in Parlamento, si trasforma, cade, può essere ricostituito. Terzo, eleggere un parlamento è operazione diversa dall’eleggere un sindaco o un presidente di regione. Dimenticate lo slogan “sindaco d’Italia”. Chi vuole il presidenzialismo oppure il semipresidenzialismo lo argomenti e lo proponga. Poi, comunque, dovrà anche suggerire una legge elettorale decente.

Leggi decenti e talvolta, anche buone possono essere sia maggioritarie sia proporzionali. Qui: Tradurre voti in seggi in maniera informata, efficace e incisiva. Si può, si deve, Lezione n 1 del Video Corso Il racconto della politica, Casa della Cultura di Milano agosto 2018, segnalo gli elementi essenziali da conoscere. Il plurale è d’obbligo poiché esistono interessanti varianti sia delle leggi maggioritarie sia, ancor più, delle leggi proporzionali. Un punto, però, deve essere chiarito subito –mi piacerebbe scrivere per sempre, ma con i riformatori/manipolatori italiani nulla può mai darsi assodato e accertato per sempre: i premi di maggioranza di qualsiasi entità e comunque congegnati non consentono di definire maggioritaria quella legge elettorale. Semmai, bisognerebbe parlare di sistema misto a prevalenza proporzionale o maggioritaria.

Mi affretto ad aggiungere che il doppio turno di coalizione non soltanto è una proposta pasticciata e pasticciante, ma non ha praticamente nulla in comune con il maggioritario a doppio turno in collegi uninominali di tipo francese. Il doppio turno chiuso ovvero riservato a due soli candidati si chiama ballottaggio. Il doppio turno “aperto” ha clausole che lo disciplinano e che consentono operazioni politiche brillanti fra le quali desistenze, che servono ad accordi di governo, e “insistenze” che misurano la forza di candidati e di partiti e che testimoniano qualcosa (non posso essere più preciso).

Last but not least, il vero test della validità di una legge elettorale è basato su due criteri: il potere degli elettori e la qualità della rappresentanza politica. Quando gli elettori possono esclusivamente tracciare una crocetta sul simbolo di un partito hanno poco potere. Quando, per di più, i candidati/le candidate sono paracadutati in liste bloccate e con la possibilità di essere presentati in più collegi, la rappresentanza politica (che, comunque, richiede un discorso più ampio che ricomprenderebbe il non-vincolo di mandato e il non-limite ai mandati) non sarà sicuramente buona. La coda è tutta italiana.

Come si fa a scrivere una legge elettorale senza sapere quanti rappresentanti dovranno essere eletti: 200 o 315 senatori; 400 o 630 deputati. Se il referendum chiesto dalla Lega portasse a un ripristino del numero attuale dei parlamentari, qualsiasi legge elettorale nel frattempo elaborata dovrebbe essere riscritta e non sarebbe un’operazione semplice. Fin qui le mie proteste. La proposta è che si scelga fra il maggioritario francese con pochissimi adattamenti e senza nessun “diritto” (?) di tribuna e la proporzionale personalizzata (si chiama così) tedesca senza nessun ritocco, meno che mai la riduzione della clausola nazionale del 5 per cento per accedere al Parlamento. Dunque, non finisce qui.

Pubblicato il 18 dicembre 2019 si formiche.net

Riforma Boschi e Italicum, non si rassegnano

Gli sconfitti del referendum costituzionale del 4 dicembre 2016 non si sono ancora rassegnati. Non riescono ancora a farsene una ragione poiché continuano a ripetere argomentazioni infondate e sbagliate. Grave per i politici, la ripetitività di errori è gravissima per i professori, giuristi o politologi che siano. Sul “Corriere della Sera” Sabino Cassese esprime il suo rimpianto per il non-superamento del bicameralismo (che, comunque, nella riforma Renzi-Boschi era soltanto parziale) poiché obbliga ad una “defatigante navetta”. Non cita nessun dato su quante leggi siano effettivamente sottoposte alla navetta, sembra non più del 10 per cento, e non si chiede se la fatica sia davvero un prodotto istituzionale del bicameralismo paritario italiano oppure dell’incapacità dei parlamentari e dei governi di fare leggi tecnicamente impeccabili, quindi meno faticose da approvare, oppure, ancora, se governi e parlamentari abbiano legittime differenze di opinioni su materie complicate, ma qualche volta non intendano altresì perseguire obiettivi politici contrastanti. Comunque, i dati comparati continuano a dare conforto a chi dice che, nonostante tutto, la produttività del Parlamento italiano non sfigura affatto a confronto con quella dei parlamenti dei maggiori Stati europei: Francia, Germania, Gran Bretagna, Spagna. Nessuno, poi, credo neanche Cassese, sarebbe in grado di sostenere con certezza che le procedure previste nella riforma avrebbero accorciato i tempi di approvazione, ridotti i conflitti fra le due Camere e, meno che mai, prodotto leggi tecnicamente migliori.

Più volte, non da solo, Mauro Calise ha sostenuto che soltanto un governo forte, identificato con quello guidato da Matteo Renzi, risolverebbe tutti questi problemi, e altri ancora. Non ci ha mai detto con quali meccanismi istituzionali creare un governo forte, ma ha sempre affidato questo compito erculeo alla legge elettorale. Lunedì ne “Il Mattino” di Napoli ha ribadito la sua fiducia nelle virtù taumaturgiche del mai “provato” Italicum. Lo cito:”avevamo miracolosamente partorito una legge maggioritaria” …. “senza la quale in Europa nessuno è in grado di formare un governo”. Come ho avuto più volte modo di segnalare, l’Italicum come il Porcellum non era una legge maggioritaria, ma una legge proporzionale con premio di maggioranza. Con il Porcellum nel 2008 più dell’80 per cento dei seggi furono attribuiti con metodo proporzionale; nel 2013 si scese a poco più di 70 per cento. L’Italicum, non “miracolosamente partorito”, ma imposto con voto di fiducia, non avrebbe cambiato queste percentuali. Quanto alla formazione dei governi, tutti i capi dei partiti europei hanno saputo formare governi nei e con i loro Parlamenti eletti con leggi proporzionali. Tutte le democrazie parlamentari europee hanno sistemi elettorali proporzionali in vigore da un centinaio d’anni (la Germania dal 1949). Nessuno di quei sistemi ha premi di maggioranza. Tutte le democrazie parlamentari hanno governi di coalizione. Elementari esercizi di fact-checking che anche un politologo alle prime armi dovrebbe sapere fare, anzi, avrebbe il dovere di fare, smentiscono le due affermazioni portanti dell’articolo di Calise. C’è di peggio, perché Calise chiama in ballo Macron sostenendo che la sua ampia maggioranza parlamentare discende dal sistema elettorale maggioritario. Però, il doppio turno francese in collegi uninominali non ha nulla in comune né con il Porcellum né con l’Italicum le cui liste bloccate portano a parlamentari nominati. Inoltre, il modello istituzionale francese da vita a una democrazia semipresidenziale che non ha nulla a che vedere con i premierati forti vagheggiati, ma non messi su carta, dai renziani né, tantomeno, con il cosiddetto “sindaco d’Italia”. Il paragone fatto da Calise è tanto sbagliato quanto manipolatorio. Non serve né a riabilitare riforme malfatte né a delineare nessuna accettabile riforma futura.

Pubblicato il 12 settembre 2017

 

Rebus elettorali (Dove eravamo, come siamo finiti)

Un articolo pubblicato il 21 gennaio 2014, dedicato a tutti coloro che dicono che l’Italicum non può/non deve essere modificato
Confronti costituzionali

REBUS ELETTORALI

In maniera spiazzante, il segretario del Partito Democratico ha presentato addirittura tre proposte elettorali. Hanno due elementi unificanti: primo, non si applicano al Senato; secondo, prevedono tutte un consistente premio di maggioranza alla lista o coalizione che risulterà vittoriosa. Evidentemente, Renzi dà per scontato che il Senato non sarà più elettivo, dopo una riforma costituzionale che richiederà parecchio tempo. Anche l’entità del premio in seggi si presenta come piuttosto problematica. Infatti, le motivazioni della sentenza con la quale la Corte Costituzionale ha bocciato il premio contenuto nella legge vigente (il Porcellum) potrebbero anche rendere impossibile la sua riproposizione. La proposta che Renzi fa derivare dal sistema spagnolo che, è opportuno ricordarlo, colà serve ad eleggere 350 deputati, contraddice la sua critica di qualche tempo a coloro che manifestavano “voglia di proporzionale”. Anche se le molte circoscrizioni previste (118 che, dunque, richiederanno tempo per essere disegnate) eleggerebbero ciascuna quattro-cinque deputati, la ripartizione fra le liste sarà proporzionale. Non è poi detto che il premio in seggi garantirà la maggioranza assoluta in parlamento al partito o alla coalizione premiata.

La seconda proposta implica il ritorno al Mattarellum con una variazione importante. Il recupero proporzionale sarebbe utilizzato in parte per dare un premio al partito o alla coalizione vincente in parte (“diritto di tribuna”) per consentire l’ingresso in Parlamento ai partiti piccoli che non avessero superato la soglia di sbarramento. All’incirca una novantina di seggi a chi ha vinto e una sessantina da distribuire proporzionalmente ai piccoli. Rimane curioso che a un sistema maggioritario, come è il Mattarellum, si sovrapponga anche un premio di maggioranza.

La terza proposta è ancora più problematica e, in un certo senso, dirompente. E’ stata definita “sindaco d’Italia” poiché deriva dalla legge utilizzata per l’elezione dei sindaci nei comuni al di sopra dei quindicimila abitanti. Non riguarda soltanto l’elezione del Parlamento. Prevede che, il candidato alla carica di Sindaco d’Italia ottenga, al primo turno, nel caso davvero improbabile che la coalizione a suo sostegno abbia conquistato il 50 per cento dei voti, il 60 per cento dei seggi. Altrimenti, il candidato vittorioso al ballottaggio otterrà il 60 per cento dei seggi e gli altri partiti si divideranno il rimanente 40 per cento proporzionalmente ai voti ottenuti. Il Sindaco d’Italia implica non soltanto una riforma elettorale, ma una vera e propria riforma costituzionale. Ne risulta cambiata la forma di governo nel senso di un presidenzialismo non dichiarato. I cittadini eleggono il “sindaco”-capo del governo cosicché il Presidente della Repubblica perderà il potere di nominare il Presidente del Consiglio dei Ministri (art. 92). Poiché le dimissioni del sindaco, per qualsiasi ragione, comportano lo scioglimento automatico del consiglio comunale, il Presidente della Repubblica perderà anche il potere di scioglimento del Parlamento (art. 88).

Insomma, a prescindere da qualsiasi altra considerazione. tranne che, effettuata tre volte in Israele, l’elezione popolare diretta del Primo ministro non ha funzionato ed è stata abbandonata, il Sindaco d’Italia cambia la forma di governo e, poiché è una riforma costituzionale, abbisognerà di tempi lunghi. Esistono due alternative praticabili per uscire dalla problematicità e per entrare in un rapido percorso riformatore che non potrà comunque accontentare chi sogna elezioni a maggio. Primo, fare rivivere con pochissimi ritocchi il Mattarellum che, utilizzato nel 1994, 1996 e 2001, diede esiti soddisfacenti e i cui collegi uninominali sono praticamente già disegnati. Secondo, scegliere fra il sistema tedesco di proporzionale personalizzata che elegge circa 600 deputati e il sistema francese maggioritario a doppio turno in collegi uninominali che elegge 577 deputati e che dal 1958 a oggi in Francia ha regolarmente garantito la formazione di maggioranze parlamentari stabili. Tertium non datur. Dopo il Mattarellum e soprattutto il Porcellum, nessuno può illudersi che i riformatori italiani siano capaci di fare meglio dei tedeschi e dei francesi.

Pubblicato 21 gennaio 2014 sul blog dell’Associazione “Confronti costituzionali

Doppio turno, non doppio gioco.

Al di là di qualsiasi disputa tecnica, purché condotta con chi si intende di sistemi elettorali e di modelli di governo, il grido di battaglia “Sindaco d’Italia” contiene elementi problematici e prospettive inquietanti. Anzitutto, dovrebbe essere a tutti noto che la legge per l’elezione dei consigli delle città al disopra dei 15 mila abitanti è proporzionale con voto di preferenza ed eventuale premio di maggioranza per il sindaco vittorioso al ballottaggio. E’ opportuno effettuare la trasposizione di questi meccanismi dalle città al governo dell’Italia facendo eleggere il Primo ministro dagli elettori? Se la risposta è affermativa, il quesito successivo è: questo sistema esiste da qualche altra parte al mondo in regimi democratici? Qui la risposta è facilissima: no, non esiste. E’ stato utilizzato qualcosa di simile in Israele in tre elezioni consecutive. Poi è stato abbandonato poiché non aveva garantito né stabilità politica né efficacia decisionale. Naturalmente, qualche frequentatore di stazioni può pensare che gli italiani saranno più bravi degli israeliani, ma, alla luce del dibattito elettorale e istituzionale in corso da trentacinque anni, è lecito dubitarne fortemente. Comunque, il sistema congegnato per l’elezione diretta del Primo ministro configurerebbe il doppio turno di coalizione formula che non è affatto la stessa di quella vigente per l’elezione dei sindaci. Infatti, il doppio turno di coalizione richiede la formazione, quasi coatta per chi voglia conquistare il premio (che, non lo si dimentichi, sta per diventare oggetto di sentenza da parte della Corte Costituzionale), di coalizioni eterogenee che abbiamo già conosciuto e che sappiamo essere dolorosamente instabili. Se, poi, il doppio turno di coalizione, che, come ci è stato raccontato, ad esempio dall’ instancabile Violante, si fonda sulla ripartizione proporzionale di almeno l’80 per cento dei seggi, implica anche l’elezione popolare del Primo Ministro, direttamente o indirettamente (il capo della coalizione vittoriosa), allora viene totalmente modificata la forma di governo parlamentare. Ne consegue un balordo presidenzialismo di fatto senza freni e senza contrappesi. Nelle democrazie parlamentari il governo si forma in Parlamento, anche a prescindere da quanto incautamente promesso agli elettori. In Parlamento, eventualmente, quel governo si disfa. In parlamento, eventualmente, viene sostituito da un altro governo senza nessuna necessità/obbligo costituzionale di ritorno alle urne. Elezioni frequenti non risolvono il problema della formazione del governo. Logorano i cittadini e le istituzioni. Producono ferite nel tessuto democratico. Imprecisati “sindaci d’Italia” e confusi “doppi turni di coalizione” soddisfano alla grande le voglie di proporzionale. Per nulla soddisfatti debbono essere coloro che pensano che le bandiere di un partito sono i suoi programmi e le sue priorità. Nel programma del Partito Democratico sta il doppio turno di collegio, aggiungo subito e preciso “uninominale”, nel quale i candidati e gli elettori ci mettono la faccia e chi vince tornerà a farsi vedere perché è nel suo interesse se vuole essere rieletto. Se, infine, vogliamo personalizzare la politica, allora la soluzione è l’elezione popolare, separata da quella del Parlamento, del Presidente della Repubblica nella versione migliore che è quella della Quinta Repubblica francese. Efficace, sperimentata e duratura. Tutto il resto non è, come ha scritto Shakespeare, “silenzio”. Purtroppo, è chiacchiericcio stupido, disinformato, inconcludente che serve a fare il doppio gioco: un po’ maggioritario, un po’ vagamente proporzionalista.

pubblicato su www.gazebos.it