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La mia idea di sinistra @corrierebologna
Sinistra è costruire una società giusta. Sinistra è fare funzionare una società giusta. Sinistra è migliorare una società giusta. Giusta è quella società che sa e riesce a garantire eguaglianze (al plurale) di opportunità a donne e uomini, giovani e anziani, nel corso del loro tempo di vita. Una società giusta richiede l’intervento della politica non soltanto all’inizio della vita delle persone, ma ad ogni momento del loro percorso, a fronte di qualsiasi inconveniente e difficoltà. Le scelte della società giusta sono il prodotto di un confronto sempre aperto fra tutti i partecipanti, interessati e informati. La scena politica, aperta, trasparente e inclusiva, è il luogo del confronto. La società è giusta quando cittadini sono in grado di manifestare soddisfazione o contrarietà rispetto alle scelte fatte, non fatte, fatte male e sanno organizzarsi per cambiarle. La società della sinistra è giusta non perché persegue l’eguaglianza di tutti/e su tutto, ma perché consente e acconsente alle diversità che derivano e rispettano le preferenze di tutti/e e di ciascuno/a. Tutte le diseguaglianze fra le persone sono accettabili nella misura in cui sono diseguaglianze buone che conducono ad esiti nei quali nessuno perde e chi avanza fa crescere con il suo successo le opportunità per tutti. La società giusta non è mai immobile. Attraversata da tensioni e conflitti, da ambizioni e da sfide, la società giusta si ricompone grazie alla politica, competitiva e democratica, ai livelli definiti e preferiti dai cittadini/ e.
Gianfranco Pasquino, Professore Emerito di Scienza politica, Università di Bologna
24 maggio 2021
La cultura politica oltre l’ostacolo PD
Se fossi solo interessato alle sorti del Partito Democratico, questo post non dovrebbe essere pubblicato, L’ho scritto perché vorrei una società davvero civile che esprima una politica decente entrambe conseguibili soltanto se si trasforma sostanzialmente quella che è rimasta, seppure con problemi gravissimi, l’unica organizzazione simile ad un partito. Ma, in quanto tale, è fallita. Ne propongo un superamento totale
Già, caro Gianni Cuperlo, come si costruisce “un’alternativa alla destra di oggi” (e di domani e dopodomani)? Alla destra italiana, quella famosa che sta dentro di noi e che non debelliamo mai perché, da un lato, preferiamo non parlarne oppure minimizzarne le implicazioni e conseguenze, dall’altro, perché fino ad oggi non è stata costruita una cultura politica liberale e democratica. Certo, nel secondo dopoguerra non c’è mai stato tempo peggiore di adesso per tentare di dare vita e linfa a una cultura politica che in Italia è sempre stata fortemente minoritaria. Tuttavia, nel male contemporaneo, è proprio spiegando perché i populisti e i sovranisti non sono mai parte della soluzione, ma gran parte del problema, che diventa possibile formulare una variante di cultura politica liberale e democratica. E, allora, sarò drastico, per una molteplicità di ragioni, il Partito Democratico, come è stato costruito, come ha funzionato, per come è diventato costituisce forse l’ostacolo più alto alla elaborazione di una cultura liberal-democratica. Non posso/possiamo aspettarci nessuna riflessione su quella cultura dalle rimanenze di Forza Italia e di tutti coloro che sono caduti nella trappola di una improponibile “rivoluzione liberale” condotta dal duopolista Berlusconi in palese irrisolvibile conflitto di interessi. Mi auguro che un giorno, qualcuno, non chi scrive, farà un dettagliato elenco dei molti opinionisti che hanno fatto credito, interessato, al liberalismo immaginario di Berlusconi. Se l’antifascismo da solo non è democrazia, l’anticomunismo da solo non è liberalismo.
A che punto siete voi Democratici con la elaborazione di una cultura politica decente? Quando è stata l’ultima volta che di questo avete discusso, dei principi culturali a fondamento del PD: in una Direzione e in un’Assemblea del partito, nel corso dell’approvazione delle riforme costituzionali, che, ma proprio non dovrei dirvelo, non possono non avere una superiore cultura politica di riferimento (soprattutto, per chi crede, sbagliando, che la Costituzione italiana sia un documento “catto-comunista”), durante la maldestra difesa di quelle riforme condotta all’insegna di mediocri varianti di motivazioni neo-liberali e decisioniste, di una bruciante sconfitta elettorale? Non ho sentito nessuna parola in proposito nell’ultima campagna per l’elezione del segretario del partito. Già, Zingaretti non è un intellettuale, ma un minimo di consulto con professoroni e professorini potrebbe servirgli oppure gli ideologi del Partito Democratico sono diventati il neo europarlamentare Carlo Calenda e il senatore di Bologna Pierferdinando Casini? Non dovrebbe qualcun preoccuparsi anche del silenzio degli Ulivisti, da Romano Prodi a Arturo Parisi, i quali, peraltro, hanno avallato tutte, ma proprio tutte le decisioni di Renzi le cui personali vette culturali sono state attinte da due parole chiarissime: rottamazione e disintermediazione.
Ho esplorato la letteratura disponibile riguardo le culture politiche democratiche e riformiste finendo per constatare che quei due termini proprio non hanno fatto la loro comparsa, mai, neppure nei più aspri, e sono stati tanti, momenti di confronto e scontro all’interno dei partiti di sinistra. Senza nessuna sorpresa ho anche notato –non scoperto poiché già da sempre sta nel mio bagaglio di professore di scienza politica– che, da Tocqueville e John Stuart Mill, ma si potrebbe tornare anche a Locke (chi erano costoro?), democrazia è mediazione, lasciando la disintermediazione alle pratiche autoritarie e totalitarie (ne ho ricevuto immediata conferma da George Orwell).
Allora, caro Gianni Cuperlo, dobbiamo davvero aspettare che il bambino di Andersen si metta a gridare che il re (il Partito Democratico) è nudo (privo di qualsiasi rifermento culturale) e, aggiungo subito, anche bruttino assai. Acquisita questa consapevolezza, peraltro, già molto diffusa, lasciamo che il PD imploda oppure che si disperda sul territorio confrontandosi senza rete e senza arroganza (per molti piddini questa richiesta non sarà facile da soddisfare) con tutte quelle organizzazioni sociali, professionali, culturali e persino politiche che ritengono che alla egemonia della destra è possibile contrapporre una cultura politica democratica (Bobbio avrebbe aggiunto “mite”) che rimette insieme le sparse membra del liberalismo dei diritti e delle istituzioni con il riconoscimento del potere del popolo, meglio, dei cittadini e dei loro doveri. Caro Cuperlo, sarò molto interessato ad una tua iniziativa in materia. Non posso neppure escludere a priori di parteciparvi.
Pubblicato il 1 luglio 2019 su PARADOXAforum
Sinistre erranti
Dal fascicolo n. 146 di Formiche, aprile 2019, pp. 62-63
Le sinistre in Europa godono di ottima salute. Sono numerose, anche all’interno di ciascun paese. Sono, come vuole una distorta concezione del mercato politico-elettorale, sempre in competizione fra loro. Offrono un ampio ventaglio di alternative ai loro elettori immusoniti e intristiti i quali di tanto in tanto scendono in piazza al fatidico grido di “unità unità”. Non per acquisita saggezza, ma per mancanza di materia prima (idee e cultura politica) hanno smesso di combattere esiziali battaglie ideologiche. Sono una debolezza tranquilla. Preferiscono il terreno del posizionamento, della personalizzazione, delle narrazioni contrastanti. Purtroppo, non ci sono più i bambini di Andersen capaci di esclamare ad alta voce: “la regina (sinistra) è nuda” -e, come aggiungo abitualmente, “pure brutta e miope”).
Ci sono soltanto due partiti di sinistra in tutta l’Europa (se i Brexiters si risentono peggio per loro) che superano la soglia del 30 per cento di voti, il Partito Laburista di Jeremy Corbyn (40%) e il Partito Socialista Portoghese (32 per cento). Persino i leggendari socialdemocratici scandinavi si sono oramai stabilizzati da qualche tempo intorno al 25 per cento che, talvolta, consente loro di andare al governo. Per tutti coloro che hanno, giustamente, guardato alla socialdemocrazia tedesca, grande è la tristezza. Anche se è in un governo che è difficile definire “Grande” Coalizione, la SPD al livello più basso di sempre del suo consenso elettorale è davvero il partner minore, junior. Tutto questo dopo che, come scrisse memorabilmente Ralf Dahrendorf, se non tutto il XX secolo è stato “socialdemocratico”, quantomeno per più di cinquant’anni i socialdemocratici furono influentissimi. Non solo hanno guidato molti governi anche per lunghi periodi, ma le loro idee e le loro pratiche riformiste incisero profondamente nel tessuto sociale, economico e persino culturale di tutta l’Europa occidentale –tranne l’Italia poiché il PCI mai ebbe “cedimenti” socialdemocratici e il PSI mai ebbe abbastanza consenso elettorale, ma idee sì, con la CGIL che nulla cercò di apprendere dai potenti sindacati socialdemocratici.
La politica continua ad avere bisogno di organizzazione, di presenza sul territorio, di attività costanti e insistenti, ma gli attivisti delle e nelle sinistre sembrano scomparsi quasi dappertutto, dirò “persino in Andalusia”, la culla del socialismo spagnolo. Sono, poi, effettivamente svaniti anche i dirigenti delle sinistre –sono costretto a usare il plurale, ma, attenzione, non è vero che le sinistre europee siano plurali/stiche. Sono semplicemente disaggregate, particolaristiche, conflittuali. Nessuna narrazione, neanche le più retoriche, come quella di Walter Veltroni, può sostituire una organizzazione –nel caso del neonato Partito Democratico di organizzazione ne era rimasta poca tranne quella di alcune fazioni. Però, se narrazione ha da essere, allora sono indispensabili due elementi: narratori credibili che conoscano la storia e rivitalizzino la memoria del loro partito, riuscendo a proiettarlo in un futuro difficile da immaginare, e un iniziale tessuto connettivo fatto di principi e convinzioni, di priorità e programmazioni, di analisi e proposte non occasionali, ma collegate a un passato di realizzazioni concrete.
Per una molteplicità di buone ragioni la sinistra europea dovrebbe ricordarsi che si era proposta di perseguire non solo interessi di parte, ma di tutta la nazione, e che, senza contraddizioni, si era regolarmente definita internazionalista, oggi europeista. Parlare di diseguaglianze in modo credibile e denunciarle è essenziale purché se ne spieghino le origini e se indichino i rimedi. Pensare di potere ricostruire una sinistra plurale/ista e accogliente per gli elettori come sommatoria dei diseguali non sembra la strada migliore. Poiché all’orizzonte non si vede una cultura politica che metta al centro di una società giusta la dignità e il riconoscimento del valore delle persone, è ora di elaborarla.
Un partito, per favore, se avete l’idea di come rifarlo
Sperare di fare crescere l’oggetto Partito Democratico a partire dalla sua attuale collocazione elettorale (e molto probabilmente abitativa dei suoi dirigenti e dei suoi parlamentari) ovvero le Zone a Traffico Limitato delle città italiane, oppure andare in mare aperto alla conquista di quella terra incognita che si chiama periferia (non solo geografica)?
Non dovrebbe essere questo il dilemma di fronte al quale i candidati alla segreteria del PD avrebbero l’onere e l’onore di dare una risposta iniziale? Finora non sono neppure riuscito a sentire il famigerato “silenzio assordante” di (in rigoroso ordine alfabetico che, casualmente è anche di vicinanza al Renzi/smo): Giachetti, Martina, Zingaretti.
Leggo, invece, che il PD, non di un segretario a capo di un’organizzazione sul territorio, avrebbe bisogno, ma borbotta Romano Prodi, di un padre (Scalfari scrive di un presidente certificando l’irrilevanza di Orfini, il presidente in carica).
Rigettando, in ossequio, come si conviene a una delle più viete e logore tradizioni della sinistra, il problema della leadership, Michele Salvati (e dire che l’aveva finalmente trovato il leader dei suoi sogni: Matteo Renzi. Gli aveva anche consigliato di continuer le combat, nelle sue parole: “Renzi, stick to your guns“) di recente ha argomentato, all’incirca per la trentesima volta in questi anni, la necessità di costruire un partito di sinistra liberale oppure liberale di sinistra. Quali ne siano i connotati di cultura politica (la presa in giro dei professoroni e dei gufi?) e quali le coordinate organizzative (oltre il giglio magico?) è, evidentemente, non soltanto per l’editorialista del Corriere, un problema irrilevante.
Per fortuna non così irrilevante da impedire ad Antonio Floridia di andare a vedere e valutare la democraticità del partito, le modalità previste dallo Statuto per garantire partecipazione e influenza, per coinvolgere simpatizzanti e potenziali elettori.
Poiché non è una detective story, la sua conclusione Floridia la mette nel titolo: Un partito sbagliato (Castelvecchi 2019). Alzata di scudi di Anzaldi, Ascani, Boschi, Romano, Serracchiani e del meritatamente ex-senatore Esposito, ripulsa sdegnata dei gruppuscoli dirigenti?
No, nessuno ha letto il libro né, in tutt’altri affari impegnati, troverà il tempo per leggerlo anche perché da leggere c’è già il Manifesto di Calenda, notissimo esperto di partiti e di rassemblements (a condizione che tengano fuori LeU), non di sistemi elettorali poiché il ruolo è occupato e presidiato da Ettore Rosato, quello della legge vigente.
Cartello europeista ‘ha da esse’ anche se, regole ciniche e bare, per il Parlamento europeo si vota con una legge proporzionale che suggerisce di trovare, costruire, appoggiare una pluralità di soggetti intorno a poche parole d’ordine con una pluralità di candidature di diverse estrazioni e con qualche curriculum europeo/europeista.
Il dilemma torna ineludibile: in quelle periferie si arriverà (non oso scrivere si “penetrerà”) ancora con nome e logo del Partito Democratico oppure è preferibile cercare il nuovo, magari dopo un’ampia discussione fra persone che, da un lato, se ne intendono, dall’altro, garantiscono di impegnarsi per un progetto ideale di lungo periodo, non per ricompense immediate e tangibili?
La rottamazione fu soltanto il tentativo, fallito, di fare piazza pulita. Oggi e domani, trascorso il lungo inverno leghista-stellato, il compito è non trovare casualmente un contenitore, ma formare un’organizzazione di uomini e donne, che non è una ditta (oggi piccola bottega artigiana che rischia lo sfratto), ma neppure un veicolo personalizzato. Che non può più in nessun modo essere il Partito Democratico che vediamo. Che è uno strumento per fare politica intesa sì come ottenere voti e conquistare cariche, ma anche come dare rappresentanza (ai cittadini, non all’indistinto popolo) e offrire capacità di governo.
“Sentinella sentinella quando finirà l’inverno?” “Quando avrete preparato la primavera”.
Pubblicato il 20 febbraio 2019 sul blog di Pasquino Huffingtonpost.it
Sì a una vera Sinistra per una società più giusta e non sovranista #Europa
Internazionalista, attenta al lavoro e all’istruzione, abbattere le diseguaglianze: un articolo del politologo Gianfranco Pasquino per Globalist su come vorrebbe le sinistre d’Europa
“La sinistra non può essere sovranista, non può che essere internazionalista”. E deve ” concentrare sforzi e investimenti nel settore del lavoro collegandolo strettamente all’istruzione “. Lo scrive in questo articolo per globalist.it Gianfranco Pasquino: politologo, docente alla sede bolognese della Johns Hopkins University, professore emerito di Scienza politica all’Università di Bologna, accademico dei Lincei, è una delle voci critiche più sensibili e attente della scena politica italiana.
La sinistra e la società giusta in Europa
Le sinistre hanno un rapporto tormentato con l’Unione Europea. Come spesso nella loro politica nazionale, le sinistre variamente configurate cercano di combinare posizioni internazionalistiche con posizioni nazionaliste, difensive, se non addirittura, non scriverò affatto “loro malgrado”, sovraniste. La sinistra, però, non può che essere internazionalista. Ha l’obbligo politico ed etico di operare per il superamento dello Stato nazionale, causa prima delle due guerre civili europee e tuttora ostacolo principale ad una convergenza politica sovranazionale. Eppure, la convergenza, questo è già un tema da enfatizzare nella campagna elettorale, si trova fin dall’inizio dell’unificazione europea, quando alcuni grandi statisti, Schuman, De Gasperi, Adenauer, Spaak, pungolati da Jean Monnet e Altiero Spinelli, seppero guardare molto avanti, ed è posta a fondamento di tutte le istituzioni europee.
Sottolineare l’importanza della libera circolazione di persone, capitale, merci e servizi è giusto. Tuttavia, molto di più l’accento va messo sul fatto inconfutabile che l’Unione Europea è il più ampio ed esteso spazio di libertà e di diritti mai esistito al mondo, ancora in espansione (poiché molte sono le domande di adesione). È anche il luogo nel quale uomini e donne godono delle maggiori opportunità di partecipazione politica incisiva– e coloro che non sfruttano quelle opportunità sono essi stessi parte del problema e non della soluzione. La sinistra dovrebbe, dunque, rivendicare con convinzione tutto quello che è già stato ottenuto, il cosiddetto acquis communautaire, prima di criticare l’esistente e di proporne, non il superamento, ma il perfezionamento.
Concentrarsi sul lavoro e l’istruzione
Due sono gli ambiti nei quali le politiche di sinistra sono argomentabili e fattibili. Sono ambiti nei quali in molte esperienze nazionali, la sinistra ha conseguito grandi successi e meriti. La rimodulazione del welfare state, per giovani e anziani, per disoccupati e sottooccupati, per donne e bambini, può essere proposta e ottenuta soltanto in una prospettiva europea che impedisca le rendite di posizioni e i vantaggi derivanti dagli squilibri fra gli stati che proteggendo meglio i loro cittadini sono esposti alle sfide di chi li protegge poco. Più specificamente è indispensabile concentrare sforzi e investimenti nel settore del lavoro collegandolo strettamente all’istruzione. Il secondo ambito è parte della sua storia, ma riguarda il futuro che la sinistra deve volere costruire, non tanto per la sua sopravvivenza, quanto per la sua visione: contenere e ridurre le enormi e crescenti diseguaglianze.
Le diseguaglianze incrinano la democrazia
Non è vero che la democrazia nasce promettendo l’eguaglianza, tranne l’eguaglianza di fronte alla legge. Piuttosto, è assolutamente certo che le diseguaglianze di ogni tipo incidono negativamente sulla democraticità di un sistema politico e sulla qualità della sua democrazia. La sinistra deve affrontare il compito di costruire eguaglianze di opportunità (al plurale), di intervenire non una sola volta, all’inizio, ma ripetutamente, per ricreare ad ogni stadio le opportunità necessarie. Qualsiasi operazione di questo genere richiede, non soltanto la volontà politica, che discende dalla capacità di “predicare” il valore delle eguaglianze di opportunità, ma soprattutto la consapevolezza che la sinistra deve mirare a dare vita e mantenere una società giusta, compito da svolgere e obiettivo conseguibile esclusivamente ad un livello più elevato, quello europeo.
La sinistra dei nostri desideri
In questa concezione, la sinistra non si arrovella sulle tematiche economiche salvo su quelle relative alla tassazione e alla redistribuzione, sottolineandone non la, talvolta troppo vantata, razionalità delle cifre, quanto, piuttosto, la loro utilizzazione al perseguimento di valori condivisi. Certo, le “parole d’ordine” efficaci, che dovranno essere accuratamente definite, riguarderanno la chiarezza degli obiettivi e il coinvolgimento incisivo dei cittadini europei che consentiranno di fare grandi passi avanti. La sinistra che sta nei miei desideri, sicuramente diffusi e condivisi in larga parte d’Europa, ha la possibilità di elaborare coerentemente il messaggio della società giusta.
Pubblicato il 17 febbraio 2019 su globalist.it
I partiti: la democrazia che si organizza(va). I rimedi, peggiori del male? #IlRaccontodellaPolitica
IL RACCONTO DELLA POLITICA
Lezione 4I partiti: la democrazia che si organizza(va)
I rimedi, peggiori del male?“Senza partiti la democrazia è assolutamente improbabile. Con cattivi partiti la democrazia è di bassa qualità. Buttando a mare i partiti faremo annegare anche la democrazia. Trasformiamoli.”
Buona politica: ecco che serve per l’identità
Da qualche anno vado dicendo in giro che “sono un europeo nato a Torino”. È un’affermazione solo parzialmente corretta che mira a comunicare quali sono le mie preferenze: l’accentuazione della mia torinesità, che, probabilmente, è l’elemento centrale, portante della mia identità, e il proposito di costruire un’Europa politica con il consenso dei cittadini di una pluralità di Stati-membri. Certamente, l’identità è fenomeno troppo complesso per essere definito interamente e, meno che mai apprezzato esclusivamente, nella sua componente, che esiste, nazionale. Questa è la componente sottolineata in maniera estrema, fra letteratura e cibo, non solo nei suoi articoli sul “Corriere della Sera”, da Galli della Loggia che la usa, non per la prima volta, contro una antica visione della sinistra “internazionalista”. Quell’internazionalismo d’antan, certamente criticabile, fu, però, dei comunisti, non dei socialisti e neppure, ovviamente, degli azionisti. La maggior parte degli studiosi contemporanei metterebbero in grande evidenza che l’identità è molto più che “suolo e sangue”: è una costruzione sociale, politica, culturale (non saprei dire in quale ordine che, pure, fa molta differenza) che cambia, anche in maniera significativa, nel corso del tempo e che si compone di una pluralità di elementi. Sappiamo da molte ricerche che l’elemento politico, sia esso lo Stato oppure la Costituzione, non è affatto centrale nell’auto-definizione della loro identità da parte degli italiani. Incidentalmente, laddove non è forte l’identità politica che si esprime anche nell’orgoglio delle regole e delle leggi e del loro rispetto, è tanto improbabile quanto difficile che gli immigrati sentano a loro volta l’obbligo politico e morale di rispettare regole che vedono quotidianamente evase e violate dai cittadini. Altrove, come in USA, è proprio il riferimento anche emotivo alla Costituzione a costituire l’elemento fondante dell’identità, della cittadinanza. Più in generale, si potrebbe aggiungere che la buona politica e i suoi simboli, ad esempio, la monarchia e Westminster per gli inglesi, stanno alla base dell’identità, della britishness e la rafforzano. Nel caso italiano, già alquanto deboli in partenza, gli elementi più specificamente politici dell’identità dei cittadini devono fare i conti con aspetti culturali e sociali. I due sfidanti più agguerriti sono: l’orgoglio per la grande cultura del passato, in particolare, da Dante in poi, Rinascimento soprattutto (quando l’Italia politica era ancora molto di là da venire), e il Bel Paese, il territorio, le sue bellezze artistiche, i suoi monumenti. Stando così le cose, ci sono due conseguenze importanti. La prima è che non è affatto facile produrre una transizione di successo da un’identità basata su elementi culturali, per di più con lontane radici nel passato, a un’identità politica, per di più in un paese nel quale il vento dell’antipolitica, periodicamente risollevato e aiutato da molti commentatori, soffia impetuoso. La seconda conseguenza è che qualsiasi “patriottismo costituzionale” orientato al cosmopolitismo deve essere costruito partendo da poco più di zero. Non basta suggerirlo ed esortarlo, come ha fatto Tomaso Montanari nella sua replica pubblicata nel ”Fatto Quitidiano”, a una sinistra confusamente poco europeista e che pratica il cosmopolitismo con pregiudizi e in maniera alquanto approssimativa. Soprattutto, però, la costruzione dell’identità non può mai essere “di parte”, vale a dire che a nessuna parte politica può essere concesso di appropriarsene e meno che mai di brandirla contro altre parti politiche. L’identità deve essere inclusiva. Allora sì, diventa anche possibile spingere una raggiunta identità nazionale verso un’identità europea, aggiuntiva e non sostitutiva dell’identità italiana. Anzi, un’identità solida e condivisa consente di svolgere senza riserve e senza remore un ruolo attivo e incisivo sulla scena europea: non “prima gli italiani”, ma “europei perché italiani”.
Pubblicato il 20 settembre 2018
PD dove vai se una cultura politica non ce l’hai? #HuffPost
Blog by Gianfranco Pasquino
Rifondare il Partito Democratico che c’è, con le stesse, o quasi, persone e senza nessuna nuova strategia oppure fuoruscire da questo PD e costruire un partito diverso con altre persone e con una nuova cultura politica? Se questo è il dilemma, va subito rilevato che, mentre è in corso una non troppo sotterranea campagna per l’elezione del prossimo segretario, nessuno dei due corni del dilemma è stato fatto oggetto di una qualsivoglia elaborazione.
Per la rifondazione, oltre ad una strategia che dica soprattutto quale partito, organizzato come, presente sul territorio, per raggiungere che tipo di elettori, sembrano mancare le persone, sia vecchie che nuove (non sollecitate a qualsivoglia partecipazione), che abbiano espresso interesse e manifestato le loro qualità. Il due volte ex-segretario, mai interessato al partito, sembra volere più di qualsiasi altra cosa, trovare una candidatura in grado di impedire quella che sembra la probabile vittoria di Nicola Zingaretti e impiombarne fin dall’inizio la segreteria. La seconda strategia, certamente più ambiziosa, trova addirittura meno fondamenta nel partito che c’è, nei circoli sul territorio, nelle dichiarazioni dei dirigenti. Orfini ha buttato un sassolino a favore di un altro partito, di un partito altro, ma senza sapere quale sassolino e dove lo buttava.
Di tanto in tanto qualcuno richiama l’Ulivo senza ricordarsi che l’Ulivo fu un’aggregazione elettorale con il grande merito di avere suscitato le energie di una molteplicità di associazioni, dei loro dirigenti e iscritti, ma di cui poi non fu, per responsabilità di molti, a cominciare dai vertici, mai tentata la trasformazione in qualcosa di simile a un partito grande. Adesso, ancora per poco, il punto di riferimento è rappresentato da Emmanuel Macron. Il paese incuriosito si chiede chi sarà il Macron italiano? Chi costruirà un rassemblement simile a “En marche”? Purtroppo, pochi sembrano sapere che le condizioni istituzionali francesi, a cominciare dall’elezione popolare diretta del Presidente della (Quinta) Repubblica, sono state di grande aiuto alla sfida, comunque coraggiosa, di Macron. Qualcuno dovrebbe anche ricordare che, sì, il Parti Socialiste si era sfaldato, ma che l’apporto decisivo al successo di Macron venne dalla debolezza e dallo slittamento degli elettori già gollisti a favore del candidato Presidente.
Nulla di tutto questo esiste in Italia né può essere creato in tempi brevi. Non lo sarà in nessuna cena, a prescindere dai commensali, meglio se non sono i responsabili del declino. Infine, non basterà neanche parlare di un qualche Fronte repubblicano da costruire in vista delle elezioni europee del maggio 2019 se non si inizia una campagna “educativa” sull’Europa che c’è e l’Europa che vorremmo. Forse, non è mai troppo tardi, ma qualsiasi opzione si vorrà seguire, sarebbe opportuno partire da quella che, nonostante la fanfara “democratica” della contaminazione delle “migliori culture progressiste del paese”, è stata la reale drammatica carenza del PD: l’inesistenza di una cultura politica. Questo “esercizio” è assolutamente propedeutico a qualsiasi tentativo di ricostruzione di quello che esiste o di creazione di qualcosa di nuovo. Per andare da qualsiasi parte, una cultura politica è la bussola irrinunciabile.
Pubblicato il 18 settembre 2018 su huffingtonpost.it
“Lega e M5s? Non chiamateli populisti” #Intervista @Lettera43
Il Carroccio è “sovranista”, il Movimento “democraticista”. Salvini e Di Maio? “Hanno paura di scottarsi”. Dal “declino di Berlusconi” alla “incompetenza dei renziani”: il politologo a ruota libera.
Intervista raccolta da Attilio De Alberi
Dopo quasi due mesi e mezzo di stallo, l’Italia vede all’orizzonte un possibile governo grazie alla convergenza tra la Lega e il Movimento 5 stelle (M5s). A sentire le ultime dichiarazioni di Matteo Salvini, bisognerà aspettare ancora qualche giorno per sapere come andrà a finire e l’ipotesi di uno strappo non è da escludere, anche se Luigi Di Maio parla di un governo di legislatura in un’ipotetica Terza Repubblica. Diversi osservatori, tra cui il sociologo Domenico De Masi, che definisce questo potenziale governo come quello più a destra nella storia italiana dal 1946, prevedono che il M5s uscirebbe fagocitato dalla Lega di Salvini.
RISCHIO DISAFFEZIONE Secondo uno studio dell’istituto Cattaneo, il 45% tra i supporter del M5s – anche se questo insiste nel definirsi post-ideologico – è di sinistra; potrebbe dunque verificarsi un fenomeno di disaffezione di fronte all’alleanza con un partito dichiaratamente di destra come la Lega. Secondo Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza Politica presso l’Università di Bologna, siamo arrivati allo stato attuale delle cose “perché è crollato il sistema dei partiti, che ha avuto una botta fortissima da Berlusconi, e non si è mai più ricostituito”. Questo, dice a L43, “ci rende ‘eccentrici’ rispetto al resto dell’Europa, ed è difficile cambiare la politica di un Paese se non ci sono delle strutture che abbiano una ragionevole aspettativa di durare almeno 5-10 anni: senza di queste l’elettorato sarà sempre mobile, mutevole”.
A cosa è dovuto l’ennesimo ritardo nella formazione di un governo Lega-M5S, oltre al continuo mistero sul nome del candidato premier?
Le distanze programmatiche sono notevoli, i temi controversi molti, il nome del presidente del Consiglio non sanno neanche da parte cercarlo, i due capi politici hanno un’enorme paura di scottarsi. Il pentastellato Di Maio è capitato in una situazione molto più grande di lui e vorrebbe fondare una nuova Repubblica, quasi fosse un De Gaulle. Accà nisciuno è fesso.
È d’accordo con De Masi, che ha definito questo eventuale governo come quello più a destra in Italia dal 1946?
No. Questo è un governo nato dalla spinta al cambiamento espressa sia dalla Lega che dal M5s. Mi pare più una battuta propagandistica e sbagliata.
Però, anche se il M5s rifiuta tout court le categorie di destra e sinistra, la Lega rimane sempre, a modo suo, un partito di destra.
Sì, ma intanto la destra rappresentata da Berlusconi al governo non ci sarà.
Esiste comunque la possibilità che gli elettori del M5s che si definiscono di sinistra possano avere dei mal di pancia di fronte a questa alleanza?
Sì, ma si terranno comunque il loro mal di pancia, visto che lo scopo era quello di mandare al governo il Movimento. E prima di farsi venire il mal di pancia sarebbe meglio che vadano a leggersi i contenuti del programma concordato, per vedere se si avvicinano alle loro preferenze oppure no. Per valutare il sapore di un budino bisogna prima mangiarlo.
Sta dicendo che se si arriva ad un programma concordato sarà innovativo?
Sarà senz’altro innovativo, anche se non vuol dire necessariamente il migliore in assoluto: sarà comunque un compromesso e non è detto che sia meglio di quello dei governi precedenti.
Dal punto di vista socio-economico ci sono tre questioni sulle quali trovare una quadra: la legge Fornero, la proposta leghista della Flat tax e quella pentastellata del reddito di cittadinanza.
La legge Fornero non sarà abolita, ma al massimo ridimensionata, e quindi è da escludere un cambiamento drammatico. La Flat tax è un disastro epocale che però il M5s dovrebbe riuscire a contrattare, anche a livello di fondi. Se il M5s vuole portare avanti una qualche forma di reddito di cittadinanza dovrà trovare i fondi che, appunto, la Flat tax detrarrebbe dal bilancio dello Stato.
E rispetto al tema immigrazione?
Salvini è a favore di una posizione, il respingimento, non applicabile dal punto di vista tecnico. Quello che bisognerà fare è rivedere il Trattato di Dublino, in particolare la clausola secondo il quale il Paese di arrivo dei migranti è responsabile di tutto. Questa è la posizione del M5s e quindi bisognerà vedere dove si assesteranno dal punto di vista programmatico. La posizione sovranista di Salvini è quasi la peggiore in assoluto, però il problema immigrazione non può essere risolto com’è stato fatto finora. Ci vuole un cambio della politica europea: l’Italia da sola non ce la può fare.
A proposito di Europa, mentre la posizione del M5s è diventata ultimamente più malleabile, quella di Salvini rimane più anti-Bruxelles.
Salvini non è “più anti-Buxelles”: è un sovranista e, se potesse, farebbe uscire l’Italia dalla Ue. Se solo vedesse le difficoltà che ha comportato la Brexit, si renderebbe conto che la sua è una posizione velleitaria. Poi anche nel M5s ci sono degli elementi sovranisti. Sarà importante vedere chi viene messo come ministro degli Esteri. Se invece di Di Maio viene messo qualcuno con una visione più anti-europeista potrebbero esserci delle difficoltà. Non dimentichiamo però il warning lanciato da Sergio Mattarella in questo contesto: il nuovo governo non potrà assumere posizioni anti-Ue. Questa sua prerogativa sulla scelta dei ministri sarà chiave.
In generale, lei accetta la definizione del M5s e della Lega come movimenti populisti?
Io la respingo sia per il M5s che per la Lega. Salvini è un sovranista, ma non ha mai rifiutato la funzione delle istituzioni intermedie e non ha mai detto che il leader è il popolo, e riconosce un sistema giudiziario. Il vero populista era semmai Berlusconi che diceva: “Sono stato eletto dal popolo e quindi non possono giudicarmi”.
E il M5s?
Neanche il Movimento è populista. Certamente Beppe Grillo ha degli accenni populisti, ma Di Maio non può esser definito tale. Il M5s si è piuttosto incanalato in una deriva “democraticista”, ossia l’idea che tutti possano decidere su tutte le tematiche.
Rientra in quest’attitudine democraticista la proposta di far votare online sulla piattaforma Rousseau l’accordo con la Lega?
Si tratta di una mossa drammaticamente democraticista che merita tutte le nostre critiche.
Perché?
Non sappiamo esattamente come funziona questa piattaforma, chi la controlla e chi la manipola. Non è cattiva l’idea di far votare gli iscritti sul programma di governo. Anche l’Spd in Germania ha fatto delle votazioni online, ma quello è un partito vero, cosa che il M5s rifiuta di essere. Non sapremo da chi e da quanti verrà valutato il programma giallo-verde. Si tratta di un pasticcio di democrazia diretta.
Si dice che le percentuali di quelli che andranno in realtà a votare saranno minime.
Ma lo sono già state: 80 mila persone rispetto al numero di persone che vanno a votare è una percentuale infima. E rimane da vedere chi ha veramente accesso alla piattaforma Rousseau.
La cosiddetta “benevola astensione” di Berlusconi potrebbe implicare una sua influenza da dietro le quinte sul governo?
L’opposizione potrebbe farla dura, ma in ogni caso non ha i numeri. Se la Lega e il M5s riescono a rimanere compatti, qualsiasi opposizione si scontrerebbe contro la loro compattezza. E in ogni caso, seppur riabilitato, Berlusconi è in declino. Questo rimarrà comunque il migliore dei governi possibili per lui, perché non credo passerà una legge sul conflitto d’interesse, cosa assai più probabile nel caso di un governo M5s-Pd.
Veniamo alla sinistra. Si può dire che sia allo sbaraglio?
È più corretto dire che è allo sbando. Se poi per sinistra intendiamo LeU e Potere al Popolo possiamo dire che essa è quasi inesistente. Il Partito democratico è un esperimento praticamente fallito. E finché non si riprenderà da questo esperimento, rimarrà quello che è.
Cioè?
Un insieme sparso di persone, alcune delle quali ancora legate al passato, e nessuna in realtà capace di ricostruire quello che è necessario, ossia una presenza sul territorio. Il gruppo dirigente intorno a Matteo Renzi è fatto da persone incompetenti, ignoranti, con nessuna tradizione di sinistra, e che quindi non possono costruire una cultura politica di sinistra. Questo problema era già presente alla nascita del partito nel 2007, laddove mancò una seria discussione culturale. Al di là di qualche riscontro a livello elettorale, Renzi ha poi dato il colpo decisivo.
Pubblicato il 15 maggio 2018 su Lettera43
Sostiene Veltroni…
Sostiene Veltroni che il PD è quello che è e non si cambia. Però, il PD non è quello che doveva essere e, in sostanza, non è mai stato: il luogo dove si incontravano e si “contaminavano” le migliori culture riformiste dell’Italia (forse sarebbe stato meglio guardare anche fuori dai sacri confini, all’Europa). No, se il PD non cambia, profondamente, non diventerà mai il Partito Democratico che molti dei fondatori volevano, ma che non sono riusciti a costruire.